GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La responsabilita’ civile del magistrato: tra inescusabilita’ della grave violazione di legge ed insindacabilita’ dell’attivita’ interpretativa.

    SOMMARIO: 1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso. 2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare. 3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa. 4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale. 5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale. 6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste. 7. Giustizia e società. 8. Conclusioni.  

     

        1. Clausola di salvaguardia interpretativa: un problema complesso.

        Parafrasando George Bernard Shaw è difficile offrire ad un problema complesso una soluzione semplice che non sia sbagliata.

        Però, per ridurre i margini di errore nella risposta ad un problema complesso, si potrebbe cominciare a ridurre la complessità del problema.

    Ora, io credo che l’ordinanza interlocutoria 12215 del 2018 abbia reso più complesso il problema al quale le Sezioni unite sono chiamate a rispondere.

        Lo ha reso più complesso perché, in una fattispecie alla quale ratione temporis deve applicarsi il vecchio testo della legge 117, nell’ottica di una generale sistemazione della materia, ha auspicato l’intervento delle Sezioni unite coinvolgendo, oltre che la nuova disciplina della legge 18/2015 ed i principi dell’ordinamento eurounitario, anche la disciplina degli illeciti disciplinari.

        Il tutto, quasi a voler parificare il senso e la portata della clausola di salvaguardia interpretativa prevista nel codice disciplinare e della clausola interpretativa prevista in materia di responsabilità civile.

        Vero è che la clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 va calata in un sistema, quello disciplinare, diverso e non sovrapponibile con il sistema della responsabilità civile.

     

        2. I rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare.

        Proprio alcune settimane fa, l’Ufficio della Procura generale ha trasmesso al Ministro della giustizia un importante decreto di archiviazione che - come noto - non è ostensibile, tanto meno in un pubblico dibattito.

        Mi preme però sottolineare che con questo decreto di archiviazione la Procura generale ha recepito quanto da me sostenuto in un contributo fornito al Commentario alla legge 117 recentemente pubblicato, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, a proposito della interpretazione dell’art. 9, così come modificato dalla legge 18 del 2015.

        Sono considerazioni molto tecniche e articolate, non compatibili con la sintesi che mi impone l’intervento.

        Quel che può rilevare in questo dibattito è che sono state evidenziate molteplici ragioni per le quali non è più sostenibile - nel sistema post riforma del 2006 - l’interpretazione letterale dell’art. 9 laddove prevede che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione debba (sottolineo, debba) esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento.

        Non è sostenibile, anzitutto, perché non coincidono le fattispecie tipizzate previste dai rispettivi sistemi di responsabilità e perché non è detto che una ipotesi di responsabilità civile implichi sempre la corrispondente responsabilità disciplinare, e viceversa.

        Per non parlare della mancanza di interferenze di possibili giudicati tra procedimento civile e procedimento disciplinare, come evidenzia l’art. 20 del codice disciplinare.

        Una interpretazione logico-sistematico-evolutiva porta dunque a ritenere che la permanenza del dettato letterale dell’art. 9 della legge 117 sia dovuta al mancato coordinamento di una norma nata nel vigore del sistema disciplinare atipico abrogato, con il sistema disciplinare tipizzato vigente dal 2006.

        Ampia autonomia, quindi, dei due diversi sistemi di responsabilità magistratuale. 

        La responsabilità civile del magistrato di cui all’art. 2 della legge 117, si sa, è fondata esclusivamente sull’errore provvedimentale, sulla errata scelta giurisdizionale che, per forza di cose, deve essere sindacata in sede di giudizio risarcitorio, sia pure nei limiti della clausola di salvaguardia interpretativa.

     

        3. Le deroghe alla clausola di salvaguardia interpretativa.

        Nel codice disciplinare, invece, accanto ad una fattispecie più propriamente riconducibile alla categoria dell’atto processualmente abnorme (prima parte della lett. ff), vi sono altre fattispecie attinenti più genericamente agli errori di diritto (o nella ricostruzione del fatto e nella valutazione delle prove), caratterizzate dal comune denominatore della grave violazione di legge determinata (quanto meno) da errore inescusabile.

        La responsabilità disciplinare dunque tende a sanzionare, non necessariamente, il c.d. atto abnorme processuale, quanto piuttosto il comportamento del magistrato sottostante alla scelta giurisprudenziale, tanto che in dottrina si è parlato di c.d. abnormità deontologica, che è termine evidentemente atecnico giacché il codice disciplinare nulla ha a che fare con il codice deontologico.

        Questa fattispecie ricorre, peraltro, nella stragrande maggioranza delle condotte sanzionate ai sensi della lett. g) dell’art. 2 del codice disciplinare, che è l’illecito senz’altro più ricorrente nel panorama delle variegate condotte di possibile rilievo disciplinare che derogano al dettato della clausola di salvaguardia interpretativa di cui al successivo secondo comma.

     

        4. Il concetto di abnormità deontologica e l’evoluzione giurisprudenziale.

         Il concetto di abnormità deontologica è stato mirabilmente espresso dalla sentenza delle Sezioni unite 20159 del 2010, resa a chiusura di quella delicatissima vicenda di storia giudiziaria nota con il termine giornalistico della guerra tra procure (di Salerno e Catanzaro).

        Con quella sentenza è stato affermato il principio, che si è ormai consolidato in sede disciplinare, secondo cui l'insindacabilità del provvedimento giurisdizionale viene meno non solo nei casi in cui il provvedimento sia abnorme, ma anche nei casi di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l'intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell'attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell'esercizio della sua funzione.

        Mi pare appena il caso di sottolineare che, in quel caso, l’intervento disciplinare aveva ad oggetto la condotta di alcuni pubblici ministeri che avevano disposto un atto di perquisizione e sequestro che era stato convalidato dal GIP ed aveva poi trovato definitiva conferma giurisdizionale.

        E ciononostante i magistrati furono sanzionati in maniera molto grave.

        Nella vicenda definita dalle Sezioni unite, infatti, si ritenne integrata la grave violazione di legge rilevante sul piano deontologico nella ipotesi di un provvedimento con motivazione che, ancorché sovrabbondante - in quanto costituita dalla integrale riproduzione di relazioni, verbali di interrogatorio, articoli di stampa ed altro - si era rivelata apparente ed incomprensibile per la totale assenza di vaglio critico delle fonti di prova riprodotte con la nota tecnica del copia-incolla; inoltre, il provvedimento si era rivelato “eccedente i limiti della proporzionalità rispetto al fine” in quanto produttivo di effetti giuridici lesivi dei diritti altrui o vietati o contenenti riferimenti inutili a soggetti estranei al procedimento e perciò lesivi del loro diritto alla privacy e della loro reputazione.

        La citata sentenza delle Sezioni unite rappresenta una tappa importante di una evoluzione giurisprudenziale, in sede disciplinare, che ha progressivamente eroso i limiti della clausola di salvaguardia interpretativa - nel solco di un indirizzo ormai più che consolidato - sino a giungere ad una serie di recenti pronunce di legittimità riferibili a casi di pubblici ministeri resisi responsabili della omessa o ritardata iscrizione di soggetti nel registro degli indagati.

        Mi riferisco alle sentenze delle Sezioni unite 134 del 2017, nella vicenda della farmacista bolognese poi morta suicida dopo essere stata sentita a s.i.t., 13700 del 2018, nel caso dell’agente assicuratore del magistrato, rimasto non perseguibile per prescrizione del reato, e 22408 del 2018, nel caso delle ritardate indagini relative alla morte di Giuseppe Uva.  

        Ma andiamo con ordine.

        Già con la sentenza 3759 del 2009, le Sezioni unite avevano posto fine ad un’altra vicenda oggetto di discussione e dibattiti. Il caso Izzo, o meglio il caso dei magistrati di sorveglianza che avevano posto il noto criminale del Circeo in regime di semilibertà, con la conseguenza che il detenuto aveva compiuto alcuni omicidi.

        I magistrati di sorveglianza furono sanzionati perché non avevano considerato, in motivazione, elementi di fatto che avrebbero potuto in ipotesi condurre ad una diversa decisione e che avevano l’obbligo di considerare.

        Di qui, l’esercizio di una interpretazione non conforme ai protocolli della professione magistratuale e la violazione del dovere di diligenza.  

        Dunque, la Cassazione ritenne sindacabile l’esercizio di un potere discrezionale, quello di porre in semilibertà un detenuto, perché tale potere non si era estrinsecato attraverso una adeguata motivazione che desse conto di tutti gli elementi acquisiti nel fascicolo processuale, quelli favorevoli, ma anche quelli sfavorevoli al detenuto.

        Ricordo le polemiche che accompagnarono quella decisione.

        E ricordo che, se all’interno della magistratura quelle polemiche erano mirate a contestare la responsabilità di quei giudici, a Strasburgo l’intervento disciplinare fu ritenuto troppo blando in relazione alla lesione dei diritti fondamentali che ne era derivata dalla loro condotta (CEDU, 15 dicembre 2009, Maiorano e altri c. Italia).

        Questo orientamento di legittimità non è più cambiato e le Sezioni unite hanno confermato numerose volte questo principio, come ad esempio con la sentenza 11069 del 2012, all’esito di una vicenda che aveva riguardato un giudice delle esecuzioni civili, sanzionato non tanto o non solo per le singole violazioni di legge corrispondenti a specifici momenti procedimentali, quanto per il comportamento complessivo riguardante l’intera procedura esecutiva.

        In quel caso, aveva affermato il giudice disciplinare che ciò che caratterizza l'illecito deontologico, accompagnato o meno dalla irregolarità processuale, è la circostanza che esso è frutto di un atteggiamento del magistrato di ribellione alla legge, ovvero di una caduta di professionalità sotto un livello che deve essere considerato irrinunciabile.

     

        5. La non plausibilità della scelta interpretativa e l’obbligo di esternazione della scelta giurisprudenziale

        Successivamente, si è andata facendo strada, al fine di meglio specificare i confini dell’illecito disciplinare, la non plausibilità della scelta interpretativa, concetto utilizzato dalle Sezioni unite nella sentenza 7379 del 2013, in una fattispecie in cui era stato sanzionato un pubblico ministero per ritardata scarcerazione conseguente non ad una mera dimenticanza, ma ad una implausibile attività interpretativa di una norma ai fini del calcolo dei termini di custodia cautelare.

        L’arresto giurisprudenziale di legittimità è sintomatico del fatto che, in sede disciplinare, in tema di salvaguardia interpretativa, non si nega certo al giudice il potere di discostarsi dal costante orientamento, anche di legittimità, ma si pone un obbligo di esternare, in motivazione, le ragioni della diversa scelta giurisprudenziale.

        La diversa ed originale opzione interpretativa deve essere sorretta quindi da una motivazione non soltanto plausibile, ma anche consapevole dei diversi orientamenti. Il magistrato che dissente ha l’obbligo deontologico di esprimere la consapevolezza dell’opinione che non condivide e delle ragioni per le quali ritiene di andare di avviso contrario.

        Deve trattarsi di una scelta interpretativa autentica e non apparente che dia conto di una effettiva riflessione del magistrato sulla decisione adottata.

     

        6. Alla ricerca di un equo contemperamento tra istanze corporative ed istanze giustizialiste.

        Si tratta di un principio di diritto del tutto condivisibile, che tra l’altro rappresenta un equo contemperamento tra le istanze garantiste provenienti all’interno della magistratura e le istanze giustizialiste provenienti dall’esterno e, in genere, dalla società.

        Perché, vedete, estendere la responsabilità magistratuale al di là di questo principio, rappresenterebbe non una garanzia, ma un pericolo per la stessa società.

        Vi sono state negli ultimi anni decisioni giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che hanno spostato verso orizzonti più lontani le frontiere dei diritti fondamentali dell’uomo.

        Si è trattato, a volte, di decisioni che hanno suscitato il dibattito dell’opinione pubblica, anche perché hanno disatteso precedenti giudiziari di segno contrario, anche consolidati e di legittimità.

        A volte, si è trattato di decisioni coraggiose, anche delle Sezioni unite, in mancanza di specifiche leggi che regolamentino specifiche materie. Perché, purtroppo, a noi magistrati non è consentito il non liquet.  

        E perché l’interpretazione logico-sistematica-evolutiva è il cuore del nostro lavoro ed è la garanzia più autentica dei diritti umani, in continua evoluzione.

        E’ un dato di fatto che il diritto a volte precede le riforme legislative per il semplice motivo che i casi concreti e la evoluzione della società viaggiano a velocità più elevata rispetto alle leggi generali e astratte.

        E una giustizia troppo conformista, forse, non rende un buon servizio ai cittadini.

        Così come non rende un buon servizio ai cittadini, ad esempio, la medicina difensiva.

        Per altro verso, però, dire che tutto è interpretazione, anche ciò che non è plausibile, anche ciò che non è esternato in una motivazione che dia conto di tutti gli elementi acquisiti, pro e contro la decisione assunta e che dia conto altresì dell’eventuale dissenso dal c.d. diritto vivente, significherebbe di fatto rendere i magistrati legibus soluti. Il ché francamente mi sembra una strada non percorribile.

     

        7. Giustizia e società.

        La Giustizia, oggi, è molto distante dalla società. Certo, la Costituzione assicura importanti guarentigie alla magistratura. In primo luogo, assicura autonomia e indipendenza all’ordine giudiziario ed ai singoli magistrati.

        Ma queste guarentigie, per non apparire come incomprensibili privilegi, devono essere correlate ad un sistema di responsabilità che, in ogni settore e, particolarmente, nel settore civile e disciplinare, sia in grado di assicurare i necessari controlli sul corretto esercizio delle funzioni e, in generale, su ogni comportamento del magistrato di ogni grado e funzione.

        Altrimenti, si determinano incomprensione, insofferenza, diffidenza, sfiducia, che vanno di pari passo con la delegittimazione crescente non solo o non tanto dei singoli magistrati, quanto dell’Ordine giudiziario nel suo complesso o, peggio ancora, proprio verso la funzione giurisdizionale che dovrebbe invece rappresentare una garanzia per i cittadini e le Istituzioni democratiche.

     

        8. Conclusioni.

        L’auspicio è, dunque, nel senso che, tanto il sistema disciplinare, quanto il sistema della responsabilità civile, siano in grado di assicurare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare l’indipendenza dei magistrati e l’esigenza di renderli responsabili in conseguenza delle loro condotte.   

        Molto dipenderà da come verranno interpretate le prospettate interpretazioni. 

        Con il ché spero di non aver fornito al problema complesso che mi è stato sottoposto una soluzione semplice e, per giunta, sbagliata.

                                                                                                                                    

    Mario Fresa

    sostituto Procuratore generale

    della Corte di cassazione

     

     

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