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I giovani magistrati e la formazione

Introduzione al Seminario di AREA - Taranto, 7/8 aprile 2017


Vorrei ringraziare gli amici pugliesi per organizzazione e accoglienza, oltre che per la scelta di un tema che mi sembra particolarmente significativo e proprio ‘di Area’. Parlare di formazione significa, infatti, avviare preliminarmente una riflessione sul modello di magistrato che si va a formare.

Vorrei partire ricordando quello che ha detto solo ieri il Presidente della Corte Costituzionale Grossi, nell’inaugurare l’anno accademico della SSM: il Presidente Grossi ha evidenziato il radicale cambio di contesto nel quale la magistratura si trova ad operare in questi anni, contesto che vede il magistrato alle prese con una normazione sempre meno autosufficiente, sempre più spinto a dover trovare una soluzione ‘comunque’, pur in presenza di disposizioni che stentano a regolare la realtà fattuale e quindi sempre più orientate a dettare, come normazione primaria, principi o a rendere alluvionali discipline di dettaglio e attuative, in cui talvolta si perde il senso dello scopo perseguito. Dunque un magistrato non più ‘esegeta’ di un sistema compiuto ma necessariamente ‘inventore’, nel senso che il termine latino sottende, quello della ricerca: attore primario che sempre meno utilizza il semplice sillogismo ma che sempre di più deve sapere orientarsi tra realtà complesse, alla ricerca dei valori che possono aiutarlo – in un sistema sempre più aperto e composito - a determinare la risposta ‘giusta’, cioè appropriata al caso che gli viene proposto.

Certamente il legislatore è insofferente a questo ruolo del magistrato, ne nega la legittimazione: ma deve spesso arrendersi alla considerazione che questa pretesa supplenza è conseguenza da una parte di una domanda sociale sempre più variegata e composita, che mette al centro posizioni e diritti sempre più eterogenei; dall’altra di una grossa difficoltà dei sistemi di democrazia che conosciamo, a seguire con una normazione puntuale ed esaustiva questa realtà (Bruce Ackerman, professore di diritto all’Università di Yale, ha scritto un libro ‘Good bye Montesquieu: arrivederci, dunque, alla divisione tra i poteri dello Strato?). Del resto, come ha ribadito più volte anche la Cassazione la determinazione di uno stallo normativo non può implicare il divieto di reperimento di una risposta, che possa essere ricavata dal sistema.

E’ dunque una domanda sempre più complessa, qualitativamente; ed è una domanda in drammatica crescita anche in termini numerici. Su questo non c’è molto da argomentare a nessuno di noi.

Allora, pongo questo quesito ai successivi interventori, come si costruisce un attore di questo dramma/commedia/tragedia: che non rimanga schiacciato tra istanze sociali che rischiano di rimanere senza risposte e numeri folli? che può essere indotto a ripiegarsi, ad accontentarsi di fare il minimo indispensabile; ovvero che talvolta si affida solo a salvifiche forme di tecnologia, che è importantissima ma è un fattore servente, uno strumento non una soluzione; o in inedite e miracolistiche capacità autorganizzative.
Se non vogliamo una figura di magistrato ‘parziale e limitato’, non in grado di affrontare questa sfida, ma un soggetto che provi a dare effettività alla risposta di giustizia, partiamo dalla costruzione di tale modello: e questa sessione focalizza appunto due passaggi chiave di questa costruzione, l’accesso e formazione.



Accesso
L’accesso, adesso, è consentito solo dopo ‘avere fatto altro’, dunque una serie di precondizioni che già modificano l’essenza della magistratura. Si determina quindi, nel dovere fare altro prima, un sostanziale slittamento anagrafico; si opera anche una selezione di censo, indubbiamente, perché si richiede agli aspiranti magistrati un percorso lungo e costoso che non tutti sono in grado di reggere. Vedo alcuni rischi: per un verso una categoria di persone che si sentano ‘arrivate’, appagate da un percorso individuale, quindi meno disponibili a coglierne la funzione di servizio collettivo, bilanciandola alle proprie legittime aspettative; d’altra parte, una categoria che (con gli attuali sistemi previdenziali, difficilmente destinati a divenire più prodigali) paradossalmente non ha certezze di futuro.

Interessante vedere che la commissione Vietti ha individuato proprio quest’ultimo aspetto come uno dei punti critici del sistema attuale (insieme a quello relativo alle difficoltà incontrate per l’organizzazione delle prove d’esame e a quello legato a prove d’esame di taglio esclusivamente teorico). La Commissione, in risposta a queste criticità, ha ipotizzato di affiancare al tradizionale canale di accesso, che prevede il passaggio attraverso le scuole di specializzazione o gli “stage” formativi, un canale di accesso più veloce destinato ai laureati in giurisprudenza più brillanti; ha poi previsto meccanismi per sveltire’ i percorsi propedeutici all’accesso al concorso (creare scuole esclusivamente destinate all’accesso in magistratura, con formazione sia pratica che teorica; ridefinire i criteri per la determinazione del numero di laureati da ammettere alle scuole di specializzazione, introducendo, come parametro, il numero dei posti relativi agli ultimi concorsi di magistrato ordinario; ridurre la durata delle scuole di specializzazione; possibilità delle scuole di specializzazione di consorziarsi al fine di ridurne il numero complessivo nel territorio nazionale per garantire un’offerta formativa maggiormente omogenea e qualificata; prevedere un esame unico nazionale per il conseguimento del diploma di specializzazione e la possibilità, per i laureati in possesso dei requisiti per l’accesso diretto in magistratura, di frequentare i corsi pratici delle scuole senza obbligo di partecipare all’esame finale).

Senza dilungarmi molto, vedo però nuovi rischi in queste soluzioni, ad esempio quello del proliferare di voti elevati in Università che abbiano più a cuore il numero degli iscritti, che ne determina il budget, che non la qualità degli insegnamenti. La verità è che, in definitiva, non sembra utile spostare nella fase di legittimazione al concorso tutto questo complesso di attività, che non sembra in grado veramente di selezionare i migliori; risulterebbe molto più razionale ritornare a un concorso di primo grado - magari diversamente strutturato - e poi potenziare la formazione. L’equiparazione alle magistrature amministrative, e il riconoscimento dei benefici economici conseguenti, è infatti a mio parere argomento buono solo per ammiccamenti, più o meno ricorrenti.

La Formazione
L’altro strumento di costruzione del modello di magistrato è la Formazione: Formazione che per generazioni i magistrati hanno conosciuto solo come tirocinio negli uffici: che è la modalità più tradizionale, rassicurante e sperimentata.

Va detto però chiaramente che questo approccio, che si sostanzia nel ‘travaso’  di competenze verticale (tendenzialmente one-to-one), non basta. Questo sistema, per quel modello di magistrato complesso e ‘inventore’ che abbiamo provato a delineare, benchè ancora centrale non può considerarsi esaustivo, l’inventiva sottende la capacità di andare oltre quanto abbiamo appreso essenzialmente ‘per imitazione’ dai magistrati più anziani.
Serve altro, dunque: ma serve quello che il sistema attuale prevede? Rivolgo anche questa domanda ai successivi interventori, confidando nelle loro variegate esperienze.
Proviamo a tratteggiare brevemente questo sistema: che coinvolge in primo luogo il CSM, che – se detta ‘linee guida’ per la Formazione permanente, cioè dei magistrati già più stagionati - detta ‘direttive’ per la formazione iniziale dei Mot, e individua altresì le materie nelle quali i magistrati in tirocinio devono frequentare i corsi di approfondimento teorico-pratico organizzati dalla Scuola.
Coinvolge poi appunto la  SSM, anche attraverso la Formazione decentrata:
dunque troviamo un sistema formativo con un livello territoriale, nato per la formazione permanente, che ha però sviluppato attitudini che possono essere di utilità anche per chi inizia. I corsi cd di “emergenza”, offrono anche ai MOT l’occasione di sperimentarsi, di vedere come i colleghi più anziani reagiscono a novità legislative o giurispru­denziali: non consentono solo dunque di assorbire le specifiche soluzioni, ma il metodo per fronteggiare scenari che saranno usuali, quelli di norme improvvisamente calate in una realtà complessa, mal scritte o contradditorie; i corsi di riconversione da una funzio­ne ad una altra, che in qualche modo sono propri di un percorso di (nuovo) inizio; i corsi in materia organizzativa che siano collegati a iniziati­ve e progetti locali:
vi è poi il necessario momento di sintesi centrale, la SSM appunto, una sede nazionale che (al di là dei compiti di valutazione, pure demandati dalla legge) consente uno scambio di esperienze tra MOT che possono vivere realtà diverse e, anche, l‘indispensabile assorbimento della prospettiva sovranazionale.
 Forse non è un caso che in un impianto normativo così rigido – in teoria dettato dalla condivisibile affermazione della scissione tra formazione e valutazione; in pratica forse anche da meno nobili intenti di controllo e conformazione culturale -  si siano nella pratica (anche per attenuare il disagio degli spostamenti) destinate proporzioni quasi identiche tra i due livelli (nel primo quadriennio della scuola, undici settimane alla decentrata e tredici alla centrale, non consecutive).
Il costo principale di questo sistema è, indubbiamente, quello di una certa frammentazione: che però potrebbe risultare un costo sostenibile, se si riuscisse ad arrivare in tal modo e con un sistema così complesso ad una graduale distillazione dei valori propri del magistrato, e delle diverse prospettive che i magistrati possono trovarsi a percorrere; inclusa quella della direzione di Uffici, perché non si costruisce un buon dirigente su un cattivo magistrato.

Vorrei fare alcuni esempi di questa ‘inventiva’, che possono essere specchio cioè di questa nuova stagione.
Alcuni sono propri dei magistrati più giovani:
la ricognizione dei ruoli al momento dei trasferimenti, nata come frutto di ‘buone prassi, ora è norma, prevista nella nuova circolare sulle tabelle;  
a mezza strada è rimasto invece uno strumento che rischia di cadere nel dimenticatoio prima di essersi mai veramente affermato, quello introdotto dall’art. 14 del Regolamento per la formazione iniziale che prevede la nomina per ciascun Mot, al momento della scelta delle sedi, di un magistrato tutore, in servizio presso la sede di destinazione.
Uno è invece proprio di tutti i magistrati, ma sottende cambiamenti di atteggiamento e di impostazione radicali, tale da dovere appunto essere tenuto bene presente nel momento della costruzione del nuovo modello di magistrato. Mi riferisco al linguaggio giudiziario e alla motivazione: qui la ‘standardizzazione’ può essere una necessità, ma è anche un grande rischio, strumento da manovrare con cautela e con tutta la consapevolezza che solo una riflessione compiuta può avere, soprattutto nel porgere soluzioni ‘di comodo’ ai più giovani



Dunque non possiamo che essere, e studiare per diventare, un mix di saperi tecnici, capacità di azione, di organizzazione; di inventiva: necessariamente multiculturali per potere svolgere appieno il nostro ruolo, consapevoli che una conclamata inefficienza del sistema porterebbe a interventi devastanti sulla ‘dote’ di autonomia, indipendenza, e autogoverno che sono il predicato della  nostra funzione.

Per questo suscita meraviglia che – dopo la pro­posta avanzata nel 2014 dal Csm al Ministro della giustizia, di riportare a 18 mesi la sessione presso gli Uffici giudiziari, mantenendo a 6 mesi quella presso la Scuola (in linea con i tempi medi previsti in altri Paesi); o, in tempi più recenti e come subordinata, proposte di riduzione della formazione presso la Scuola a 4 mesi - si sia contratto l’intero periodo della formazione a un anno complessivo, lasciando due soli mesi presso la Scuola.
Si snatura il percorso logico fin qui seguito: rimane, allo stato, il lungo, defatigante e inutile percorso a ostacoli pre accesso; ma, come soluzione ai problemi innumerevoli della giustizia, non si trova meglio che contrarre la formazione. Questa misura, fortemente innovativa, assomiglia tanto ai Decreti ministeriali con cui negli anni 80 e ‘90 il Ministro accorciava il tirocinio e spediva i magistrati di prima nomina laddove serviva.

Per questo, se non si vuole un’azione giudiziaria difensiva e corporativa, o acriticamente confidente in una risolutività degli strumenti tecnologici; ovvero meramente aziendalistica (che si fermi al controllo dei co­sti, agli indicatori di rendimento, smaltimento flussi e simili); se si pensa che il ‘benessere organizzativo’ non sia un facile slogan, ma un obiettivo raggiungibile, non può non continuare a pensarsi a un percorso formativo ricco e multiforme, che sappia combinare tutti i percorsi formativi con meccanismi che attenuino gli indubbi disagi che il sistema attuale comporta, ma senza svilire l’esperienza di una Scuola. Migliorare è diverso, in questo caso opposto, dal tornare indietro.  
Voglio ribadire come questo possa essere lo specifico di Area, rendersi disponibile ai cambiamenti profondi, non avere pre-giudizi o tabù; senza mai abbandonare il modello di un magistrato che non si accontenta, ma ‘inventa’ cioè ricerca sempre; che non abdica alla tutela dei diritti in nome di nessun altro valore, che sia espressione ostinata e appassionata di quell’ “Illuminismo giudiziario” proprio dei due gruppi che Area hanno voluto e fondato.

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