GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    ​Dialogo fra arte e giustizia. Cosa nostra e l’arte. L’arte e cosa nostra

    Dialogo fra arte e giustizia. Cosa nostra e l’arte. L’arte e cosa nostra*

    di Lia Sava

    Sommario: 1. Premessa - 2. Cosa nostra e l’arte - 3. La zona di confine - 4. Il rapporto fra arte e cosa nostra.

    1. Premessa

    Fare dialogare arte e giustizia è impresa complessa. Il rischio di svilire concetti sacri, secondo i canoni filosofici ed estetici della tradizione classica della cultura occidentale, è elevatissimo. Il mio approccio, dunque, nell’affrontare, in chiave minimale, questa possibile interazione, sarà svolto con atteggiamento assolutamente deferente, perché di fronte ad arte e diritto occorre inchinarsi. Nessuna pretesa di completezza, dunque, ma una prospettiva conseguente al lavoro che svolgo. Il mestiere del pubblico ministero, invero, in terra di Sicilia, mi ha regalato, nel momento in cui ho cercato di rendere il servizio giustizia, differenti prospettive esistenziali. Una delle peculiari “modulazioni” del mio modo di guardare alle cose, conseguente al lavoro di magistrato che si occupa di processi di mafia, ha riguardato la mia visione dell’arte, intesa in chiave estetica. Vi chiederete ( e mi sono chiesta anche io, molte volte) cosa c’entra l’arte con i fatti di sangue, con le gravi condotte di reato che schiaffeggiano la Trinacria, con terribili proiezioni nel continente, da oltre un secolo? Non ho la pretesa di affermare con certezza che saprò darvi una puntuale risposta utile a saziare  una qualche  vostra curiosità ma, se avrete la pazienza di seguirmi in questo percorso semplice, che non ha nulla di colto, che non cerca la protezione di sovrastrutture concettuali complesse (ma è solo frutto dell’esperienza professionale), la mia visuale, spero, vi sarà chiara.

    Se prendiamo fra le mani, con la cura che richiede, un dizionario della lingua italiana e cerchiamo il significato della parola arte troviamo differenti significati e ci rendiamo conto che la stessa etimologia del termine tende a sfuggire e, quindi, occorre scegliere. Mi piace individuare, per proseguire il mio discorso, l’espressione che meglio ne descrive l’essenza, che traggo da Treccani: “Con arte si intende l’esperienza estetica che si realizza allorché  qualcosa cattura la nostra attenzione producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici”. Ne consegue che una poesia, un romanzo, un quadro, una scultura, un brano musicale costituiscono “espressioni artistiche” allorché ci trasmettono bellezza, emozioni in un istante che è fuori dal tempo o, forse, è possibile definire come “presente dilatato”, perché ci accompagnerà, da quel momento, come sottofondo esistenziale. Ebbene, intendo provare a ricostruire, attraverso l’esperienza tratta da alcuni  processi di criminalità organizzata, come si atteggia, a mio parere, il rapporto fra cosa nostra, intesa come organizzazione a struttura verticistica, basata su precise regole  e l’arte, secondo la descrizione  di cui sopra.

    Ma l’omogenizzato di una tematica che meriterebbe ben altri e più colti contributi rispetto a quello che vi proporrò, proverà ad esplorare, nella seconda parte, un percorso differente e cioè il rapporto fra arte e cosa nostra ed è proprio attraverso questo percorso inverso, frutto della posposizione dei due termini,  che è possibile, secondo me,  trarre qualcosa di utile a  contrastare il ricatto mafioso.

    In questi trent’anni la magistratura ha svolto processi che hanno inferto colpi micidiali a cosa nostra e continuerà a farlo, senza soluzione di continuità ma occorre qualcosa di più, cioè  uno scatto di reni poderoso che ci conduca in una sfera etica collettiva più elevata. Per compiere questo slancio l’arte può (e deve) svolgere un ruolo centrale. 

    2. Cosa nostra e l’arte

    La Strage dei Georgofili, la Strage di via Palestro, le bombe a San Giovanni in Laterano e nella Chiesa di San Giorgio in Velabro, l’ordigno nel giardino di Boboli a Firenze hanno costituito un ulteriore tremendo tassello dell’efferato attacco al cuore dello Stato realizzato da cosa nostra  trent’anni fa. Nelle requisitorie dei processi Capaci bis e Borsellino quater, abbiamo utilizzato l’espressione “tristi grani di Rosario di morte” per descrivere una sequenza tragicamente complessa. Dopo aver trucidato uomini insostituibili, si colpiva il patrimonio artistico, il cuore vivo e più autentico della nostra storia, la vera identità del nostro paese, stratificatasi attraverso l’arte ben prima del 17 marzo 1861.  Si integrò, dunque, fra le altre condotte di reato scellerate anche la  “Devastazione al Patrimonio artistico”. Cosa nostra e coloro che possono aver concorso, dall’esterno, alla realizzazione dell’attacco frontale alle Istituzioni, erano, evidentemente, ben consapevoli del “male” profondo, comunque irrimediabile, che avrebbero creato quei boati, dove persero la vita uomini e donne innocenti, allorché si tentava di “frantumare” la nostra “ricchezza culturale”, la nostra immagine anche fuori dall’Italia e, forse, il nostro stesso senso di Patria. Cosa nostra non  è riuscita a realizzare i suoi scellerati propositi perché la reazione del Paese è stata ferma e la  magistratura, sorretta da forze dell’ordine altamente professionali, ha il  merito di aver dato risposte, consacrate in sentenze passate in giudicato, a quello scempio.

    C’è un’altra data, risalente nel tempo, che è funzionale allorché si intende affrontare, nella chiave minimale che vi ho prospettato, il rapporto fra cosa nostra e arte. La notte fra il 17 ed il 18 ottobre 1969  venne rubata a Palermo la “Natività” del Caravaggio: un’opera di grande valore, realizzata nel 1609, che si dissolve nel buio di una notte piovosa (così riferiscono le cronache dell’epoca). Di quel dipinto non si è saputo più nulla se non attraverso racconti (frammentari e contraddittori, per quel che mi risulta) di collaboratori di giustizia. Un dato è, comunque, certo: un furto di quel genere non può essersi realizzato a Palermo senza il benestare di cosa nostra. L’Oratorio di San Lorenzo è nel centro storico di Palermo, un luogo che emoziona per la semplicità (e, quindi, autenticità) del contesto, ed era proprio lì il Caravaggio che è andato distrutto oppure si trova chissà dove, magari lontano dall’Italia. Un dato è incontrovertibile: “una bellezza che avvicina a Dio” non è più  fruibile  dalla collettività da oltre cinquant’anni. Il dipinto è, comunque,  “ricercato”, quasi  al pari di un latitante ed ha suscitato anche l’interesse di Leonardo Sciascia che, nel 1989, poco prima di morire, ci regalò “Una storia semplice”, che sulla Natività del Caravaggio si incentra. Già, una storia semplice che, in realtà, di semplice ha ben poco. Diversi collaboratori, fra gli altri Francesco Marino Mannoia,  Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza  hanno riferito qualche particolare sulle possibili trame criminali connesse a quel furto. Siamo, dunque, in presenza di un cold case che ancora sollecita, come è giusto che sia, l’interesse di molti operatori del diritto ed esperti di arti figurative. Invero, lo scorso anno, nel corso di una conversazione a margine di un incontro sul tema delle “tecniche di indagine in materia di contrasto al crimine organizzato”, un investigatore, da poco trasferito a Palermo, manifestò, fra i suoi auspici professionali nello svolgimento del nuovo incarico, non solo quello di fornire un contributo di spessore alla cattura di latitanti ma anche quello, magari in concomitanza, di recuperare il “Caravaggio perduto”. Ma se  fosse vero, come sostengono alcuni collaboratori di giustizia, che il dipinto è andato distrutto, “ mangiato dai porci” perché custodito in una porcilaia, la speranza di molti si frantumerebbe ed, al contrario, ci verrebbe restituita un’ennesima immagine, cruda e desolante, dell’antitesi profonda fra concetto di arte che suscita emozioni e cosa nostra che distrugge, ancora una volta miscelando, invece che colori e genio creativo,  tritolo, sangue innocente e sterco di maiali. Non trovo immagine più lontana dal concetto di arte di questo pensiero. Ma la distanza siderale fra arte, intesa come “culto del bello” e cosa nostra, si desume, in via immediata e diretta anche dalle carte di  alcuni processi dove è stato ricostruito l’interesse malsano per reperti archeologici, intesi  come oggetti da sfruttare per trarne profitto (ad esempio, attraverso vendite all’estero, a mercanti d’arte senza scrupoli, spesso legati a sofisticate strutture criminali internazionali  organizzate per la realizzazione di variegati traffici illeciti). Ancora una volta, cosa nostra appare assolutamente incapace di percepire le “vibrazioni emotive” che un vaso del 600 a.C. è in grado di trasmettere, dietro il vetro di un museo,  al visitatore in cerca di bellezza, divenendo  balsamo per la mente e per il cuore.

    3. La zona di confine

    Mi corre l’obbligo evidenziare, per cercare di rendere il senso di una esperienza professionale  piuttosto estesa nella gestione di collaboratori di giustizia da cui è conseguita una qualche “percezione”, più o meno nitida,  delle loro storie personali, che è possibile individuare  anche una sorta di zona di confine  nel rapporto fra cosa nostra ed arte. Si tratta di una piccolissima crepa, una sorta di microscopico spiraglio, che tende ad illuminare un contesto di morte e degrado. Torno,  con la memoria,  ad una mattina di diversi anni fa quando, con un collega, ci siamo recati a svolgere una ricognizione di beni  (al fine di cercare di trarre elementi utili a distinguere la provenienza  lecita da quella illecita, a riscontro di quanto era stato riferito nel verbale illustrativo della collaborazione), in una casa isolata dove aveva trascorso la latitanza un esponente di spicco di cosa nostra, divenuto collaboratore di giustizia. In quegli ambienti contraddistinti, per quello che rammento, da colori accesi alle pareti ed arredati con un gusto di fattura moderna, su un lato di un ampio salone, campeggiava un bellissimo pianoforte a coda, nero, lucidissimo, maestoso. O almeno a me parve così: un oggetto (non uno strumento) che strideva in quel contesto ma che, come fosse un sovrano, prendeva tutta la scena. Nella mia mente sorse immediato un interrogativo che condivisi con il collega: un uomo che ha commesso (e confessato) tanti omicidi, alcuni dei quali particolarmente efferati,  quale rapporto può mai  aver avuto con uno strumento (questa volta non uso il termine oggetto) che può evocare il divino attraverso le note? Tempo dopo, chiedemmo a quel collaboratore se qualcuno dei suoi familiari avesse studiato pianoforte. Nella mia memoria (che, dato il tempo trascorso, può essere fallace) la risposta fu senza incertezze: “No, ho acquistato un  pianoforte perché mi piace il suono che emette”. Questa risposta, o questa possibile risposta che mi restituiscono gli anni trascorsi da allora, consente, almeno in nuce, la possibilità di disinfettare (in modo artigianale, per carità), il putrido rapporto che  cosa nostra intesse con l’arte, per cercare, almeno in astratto, di farlo  diventare qualcosa di “più vicino” ad una interazione autentica fra sensibilità e bellezza, una bellezza non  esistente in natura ma evocata dalla forza creativa di  un artista. E, proprio in questa direzione, ho avuto una ennesima e peculiare prova tangibile della bontà di alcuni autentici percorsi collaborativi quando, nelle pause di udienza, nel corridoio laterale di un Tribunale,  adiacente una saletta attrezzata per il  video collegamento, ho intravisto un collaboratore di giustizia che aveva “saltato il fosso” già da diversi anni, che, a mio ricordo, si esprimeva unicamente in dialetto. Era seduto su una piccola sedia, leggeva. Di fronte a lui gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il mio passaggio fu rapidissimo, ma mi consentì di dare una occhiata al titolo del libro, sul quale quell’uomo era chino: “I fratelli Karamazov”. Provando una sconfinata ammirazione per Dostoevskij (la cui lettura ho sempre ritenuto operazione ermeneutica estremamente complessa, nella quale mi sono cimentata in diversi momenti della mia vita senza mai riuscire a coglierne, in maniera completa, l’essenza) sono rimasta particolarmente colpita. In una frazione di secondo, transitando casualmente  attraverso il corridoio di un Tribunale, ho afferrato un’altra prospettiva della collaborazione con la giustizia che, evidentemente, oltre ad essere essenziale per sconfiggere cosa nostra, può realizzare, in qualche modo, il recupero della sfera emotiva più profonda, quella che consente di apprezzare il bello dell’arte.                    

    4. Il rapporto fra arte e cosa nostra

    Il rapporto fra arte e cosa nostra è estremamente articolato e complesso.

    Mi preme sottolineare che, dopo la stagione stragista, vi è stata una copiosissima produzione saggistica di intellettuali di valore, spesso  giornalisti e  magistrati, che, anche  insieme,  hanno dato il loro contributo alla ricostruzione di quei tragici eventi, della loro genesi e delle possibili chiavi di lettura di numerosi eventi antecedenti e successivi. Ma, ovviamente, il resoconto giornalistico, l’analisi storica e sociologica, pur essendo di assoluto pregio e di notevole importanza, non rientra nel concetto di arte. Il cinema, invece (attraverso espressioni realizzate da mani non solo tecnicamente esperte ma contraddistinte, ad un tempo, da sensibilità profonda, tanto da riuscire a governare la tentazione della fredda cronaca per giungere alla rappresentazione di ciò che hanno significato le Stragi per il nostro Paese) ha prodotto lavori eccellenti. Impossibile (e non ne avrei la competenza) riportare, anche solo per sintesi, ciò che alcune pellicole ci hanno regalato in termini emozionali sulla stagione stragista. Mi limiterò, dunque, a pochissime pennellate. Ho trovato molto bella, nella rappresentazione straordinaria della storia italiana fra la fine degli anni 60 ed i primi del 2000 che Marco Tullio Giordana realizza con “La meglio gioventù”,  la figura della sorella maggiore di Matteo e Nicola che, da magistrato del nord di Italia, impegnato nelle prime indagini in materia di danno ambientale, dopo le Stragi, sceglie di andare a lavorare alla  Procura  della Repubblica di Palermo. Si tratta di una descrizione, scevra da ogni forma di retorica, dello stato emotivo e delle conseguenti scelte esistenziali che una generazione di magistrati ha vissuto dopo il 1993, lasciando luoghi familiari per recarsi in Sicilia, cercando di dare un contributo a quella stagione giudiziaria. Avendo fatto anche io quella scelta, non posso non emozionarmi  quando rivedo una scena del film dove  Giovanna (interpretata da una magnifica Lidia Vitale) scende le scale del Palazzo di Giustizia di Palermo, le stesse scale che segnarono fisicamente il percorso quotidiano, (percorso ineguagliabile per professionalità e coerenza) di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo. Emotivamente coinvolgente è, a mio parere, anche la rappresentazione cinematografica sull’eroismo degli uomini delle scorte e sul percorso incidentato dei collaboratori di giustizia. A tale proposito, ritengo che Marco Bellocchio, con il “Il Traditore” ci abbia regalato la più efficace ricostruzione storica di Buscetta (attraverso un Favino straordinario, anche nell’inflessione dialettale panormita, ben miscelata con lo slang americano), l’uomo che ha sferrato un colpo vincente alla lastra di marmo scuro che copriva cosa nostra, disvelandone non solo il nome  ma, soprattutto, le sue  regole, fornendoci il suo codice ermeneutico, quella cassetta degli attrezzi che, ancora oggi, ci consente un contrasto efficace ai  portatori di morte.  Merita, altresì, menzione  Pif, che, con “La mafia uccide solo d’estate”, meglio di ogni altro, secondo me,  descrive una Palermo perbene ma sonnolenta che, dopo le Stragi, reagisce con un orgoglio ed una dignità degna di elogio, fornendo un  contributo fondamentale, a titolo meramente esemplificativo, alla diffusione della cultura della legalità nelle scuole di ogni ordine e grado.

    Anche il teatro ci ha regalato palcoscenici di enorme intensità, dove le voci di Falcone e Borsellino hanno emozionato gli spettatori ed evocato il senso etico profondo  del loro sacrificio. In questa direzione ho trovato straordinariamente coinvolgente  il “Canto per Francesca”, dedicato a Francesca Morvillo, scritto da Cetta Brancato, contraddistinto da elevatissime punte liriche che commuovono  restituendoci intatta la figura di Francesca Morvillo, grande donna e immenso magistrato.

    Altro testo straordinario è stato scritto (ed è rappresentato, da anni,  in tutta Italia), dalla collega Alessandra Camassa. “Noi e loro, tributo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” è uno struggente dialogo immaginario fra i due titani, realizzato da un magistrato che li ha conosciuti e che ha saputo, secondo me, rendere in modo netto, chirurgico e senza alcuna sbavatura, il senso di un impegno totalizzante, di due uomini che  vivranno per sempre nel luogo che l’autrice definisce come “La casa degli uomini eletti” che poi è il Paradiso. Al fine di rendere una vaga idea dell’enorme impatto emotivo del testo della dott.ssa Camassa (che merita di essere  letto ed ascoltato integralmente, per non perdere neppure una sfumatura di quelle profondità strutturali e contenutistiche che raggiuge) vi propongo di seguito pochissimi  passaggi: Giovanni (a Paolo): “Stavolta è semplice: mi manchi. Ho bisogno di un amico, che sa tutto di me. Voglio parlare: troppe cose sono accadute da quando siamo andati via. Le nostre idee, quelle che camminano sulle gambe degli altri, inciampano, Paolo, quanti ostacoli”. Ed ancora, qualche rigo dopo: Paolo (a Giovanni): “A me mancano il mare, i miei nipoti e l’odore dei fascicoli”. Giovanni (a Paolo) : “L’odore delle carte, sembra assurdo, lo sento ancora ovunque, anche qui”. Paolo (a Giovanni): “Vedo crescere i miei nipoti e mi dispiace di essere per loro soltanto un mito”. Non servono parole a commento, perché il senso di una vita, di un impegno, del sacrificio estremo non potrebbe essere detto e respirato in modo artisticamente più elevato.     

    Da ultimo, la musica, il momento conclusivo di questi miei smozzicati frammenti, miscuglio imperfetto di carte processuali e sfera emozionale. E questa mia conclusione è frutto di una casualità recentissima.  

    Invero, fino al 17 giugno scorso io (e numerosi colleghi ed amici, palermitani per nascita o per adozione) non sapevamo che anche la musica, nell’immediatezza delle Stragi, ha reagito al tritolo con un tratto distintivo originale e di pregio. Premetto che non conosco il linguaggio musicale e che ho solo strimpellato (malissimo) la chitarra, in una adolescenza lontana. Credo  di possedere, però, una qualche corda (elementare, per carità) che mi consente, quando ascolto un brano, di percepire (in senso lato, ovviamente) la bellezza di ciò che danza intorno a me producendo armonia. E la sera del 17 giugno di quest’anno, al termine di un convegno dal titolo “Musica e Giustizia”, organizzato dal Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, in collaborazione con la Fondazione Vittorio Occorsio e con il Patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti di Bari, ho ascoltato il “Requiem  per le Vittime della  Mafia”, per solisti, coro ed orchestra. Testo italiano di Vincenzo Consolo. Musiche di Lorenzo Ferrero, Carlo alante, Paolo Arcà, Matteo D’Amico, Giovanni Sollima, Marco Betta, Marco Tutino. In quel contesto, apprendo che l’opera era stata composta, “a più mani”, su un’idea di un giovane compositore, Marco Tutino, che fra Capaci e via D’Amelio, avvertì la necessità di far sentire, attraverso un lavoro corale ed un testo del grandissimo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, la reazione della musica allo scempio di Capaci e via D’Amelio. Ed apprendo, sempre quel 17 giugno 2022 che quella esecuzione barese era la seconda in trent’anni. La prima ( ed unica fino ad allora), infatti, si era svolta il 27 marzo del 1993, nella Cattedrale di Palermo. Poi nulla più. La circostanza mi ha prima colpito e, poi, incuriosito e si sa che i pubblici ministeri hanno curiosità che devono, almeno tendenzialmente, soddisfare per (cercare di) far bene il loto mestiere. Una conversazione con il Maestro Marco Tutino e la lettura di alcune pagine di un suo libro “Il mestiere dell’aria che vibra” mi hanno consentito di ricostruire il tessuto connettivo di quella storia e mi permettono, oggi, di raccontare ciò che accadde, nell’immediatezza delle Stragi, nelle coscienze di chi non era né magistrato, né appartenente alle Forze dell’Ordine ma faceva parte di quella che definiamo società civile e che, inoltre, componeva musica. Riporto, perché non saprei certo dire meglio, alcuni passaggi del libro di Tutino : “Ricordo con chiarezza assoluta, dopo Capaci, il sentimento di perdita straziante, quasi fossero persone a me care, e la sensazione di pericolo, di improvvisa  minaccia per un popolo intero, che quei fatti produssero nella mia percezione civile. E decisi che era mio dovere, senza esitazioni, opporre a quella sfida barbara e devastante il suo contrario, cioè la forza affermativa ed ideativa che solo l’arte e la cultura possono rappresentare. Nasce così l’idea di coinvolgere alcuni compositori italiani nel Requiem per le vittime di mafia, una grande composizione, corale in tutti i sensi, scritta a più mani ed ispirata, seppur evitando ortodossie liturgiche e religiose,  alla struttura del  Requiem ottocentesco, impiegata da Verdi e dunque precedente alla riforma moderna. Chiedendo ad un grande scrittore di scrivere un testo che, prendendo le mosse da quello latino, avesse la capacità di restituirne intatta ed aggiornata quella drammaticità”. Anche in questo caso, non servono molte parole, che per costume cerco di utilizzare scegliendole con cura: una composizione musicale a più mani è quanto di più lontano dalla mia idea creativa  che, in questo specifico settore, mi restituisce, al contrario,  l’immagine di un uomo solo davanti al suo pianoforte con lo spartito da riempire ( o da colmare di bellezza, se vi piace di più). Ma di fronte alle Stragi occorreva sovvertire le regole, attivare, una reazione collettiva quale contraltare all’orrore.

    Il 27 marzo del 1993, lo leggo nel libro, la Cattedrale di Palermo si riempì di gente comune che ascoltò in religioso silenzio un’opera che per trent’anni è finita in una sorta di buco nero. Non comprendo le ragioni dell’oblio (le lascia intuire Marco Tutino nel suo libro, legate a dinamiche interne al settore musicale di quel peculiare, e ormai lontano, momento storico). Di una cosa sono oltremodo convinta, che non poter ascoltare per trent’anni quella musica, su quelle parole,  è stato un peccato che non riesco a definire veniale. Invero, è questa l’arte che vogliamo, un arte che indichi,  con coraggio ed originalità, una via di riscatto collettivo, perché la bellezza (e quindi l’arte) salverà il mondo. Sono altrettanto convinta che nella diuturna cosmica contesa fra Luce e buio, vincerà la Luce ed il vortice malefico di cosa nostra non ci inghiottirà mai più. Sovvengono gli ultimi tratti di verso di Vincenzo Consolo, a chiusura dell’opera: “ Vita eterna, Dio, non la morte per me, l’ora, il giorno tremendo quando cielo e terra si squarciano: Tu appari nel tribunale del mondo a leggere sentenze di fuoco. Verga a verga io tremo, io temo l’ira gelida sotto il processo, quando cielo e terra sconquassano. Ira, sciagura e rovina quel giorno, quel giorno immenso, d’immensa pena. Pace, pace, o Signore, riposo, terso cielo per loro, luminoso” .  

    Per questo, dopo trent’anni, l’Anm di Palermo, a chiusura del trentennale dalle Stragi,  farà memoria collettiva dei nostri morti con la rappresentazione del Requiem per le Vittime di mafia al Teatro Massimo di Palermo. E si farà ammenda dell’oblio perché  non si dimentichi. Non si dimentichi mai.  

    *Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.                                             

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