GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il ritorno del diritto di classe

    Il ritorno del diritto di classe

    di Vittorio Gaeta

    L'evoluzione sociale dell'inizio di questo secolo mostra una tendenza alla legittimazione degli ostacoli di fatto all'uguaglianza, che si manifesta nei diversi settori del diritto, sia sostanziale che processuale, sia civile che penale. L'occultamento della questione sociale dietro la retorica dei “nuovi diritti” ha finora impedito un'approfondita riflessione su questa trasformazione. 

    Sommario: 1. Introduzione – 2. L'inibitoria e i poveri – 3. Le astreintes di classe – 3.1. Segue: conseguenze sui licenziamenti – 4. Intermezzo: la data della procura dei richiedenti asilo per la cassazione – 4.1. La data della procura: segue – 5. La violenza e il diritto penale: il reato di resistenza – 6. Fattispecie di blocco stradale – 7. La violenza e l'abuso delle misure di prevenzione – 8. L'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 e il dissenso politico-sindacale – 9. Le misure di prevenzione per i neofascisti e l'art. 1 lett. c) – 10. L'art. 1 lett. c) e il foglio di via per i sindacalisti – 11. L'associazione per delinquere mediante attività sindacale – 12. Le norme ad logisticam per i dipendenti dell'appaltatore - 13. Una tendenza di lungo periodo – 14. Finale: il rovesciamento delle priorità.

    1. Introduzione

    La realizzazione dell'uguaglianza tra i cittadini sancita dall'articolo 3 della Costituzione anche mediante norme di diritto disuguale, dirette a riequilibrare il potere di soggetti di diversa forza economica sociale o culturale, è sempre stata un principio fondante della nostra storia repubblicana, ben prima della nascita delle affirmative actions americane.

    Dall'inizio di questo secolo, invece, si sono diffuse norme e prassi di diritto disuguale, che non intendono rimuovere determinati ostacoli di fatto all'uguaglianza (come vorrebbe il secondo comma dell'art. 3) bensì legittimarli, trasformandoli in ostacoli di diritto.

    In questo studio si individueranno alcune manifestazioni di tale tendenza, agevolmente definibile classista, la quale appare egemone anche se non irreversibile né univoca.

    2. L'inibitoria e i poveri 

    Modificando l'articolo 283 del c.p.c. sulla sospensione in appello dell'esecutorietà della sentenza civile di primo grado – già divenuta la regola, a fronte dell'opposto principio originario del codice di rito -, il legislatore ha previsto nel 2005 la possibilità di inibitoria in presenza non più di “gravi motivi”, come nel precedente testo dell'art. 283, bensì di “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.

    In teoria, il riferimento alla possibilità di insolvenza, riguardando il pericolo nel ritardo, potrebbe rilevare solo una volta accertata la probabile fondatezza dell'appello. In pratica, invece, la riluttanza di molti giudici di appello a motivare in modo non apparente sul fumus boni iuris rende centrale la motivazione sul periculum in mora, senza che decisioni di indubbia rilevanza pratica come quelle sull'inibitoria possano mai finire all'esame della Cassazione o della stessa dottrina.

    Da ciò consegue l'effetto, segno dei tempi anche se forse non voluto dal legislatore, che oggi non di rado l'appellante economicamente forte chiede l'inibitoria allegando le modeste condizioni se non la povertà della controparte, dipinta come tendenzialmente insolvente se richiesta di restituzione in caso di accoglimento dell'appello, perché pronta a spendere al più presto per i bisogni primari il denaro da ricevere con l'esecuzione provvisoria.

    Nell'introdurre la regola dell'esecutorietà provvisoria, l'intento del legislatore degli scorsi decenni era esattamente quello opposto, di consentire l'immediata soddisfazione dei bisogni del soggetto impoverito dal mancato riconoscimento dei diritti accertati in primo grado, scoraggiando nella controparte la proposizione di impugnazioni dirette solo a procrastinare quella soddisfazione: si pensi che, nella riforma del 1973 del processo del lavoro, la sentenza di primo grado era esecutiva solo se favorevole al lavoratore. Tutto ciò sembra dimenticato con la nuova equivoca formulazione dell'art. 283 c.p.c., che pare legittimare richieste di “inibitoria dei ricchi”. Che poi molte sospensive vengano accordate su tali presupposti, è difficile dirlo; ma intanto si è consentito l'ingresso massiccio nelle Corti di prospettazioni difensive classiste, che in passato sarebbero stati sconvenienti ex art. 89 c.p.c. ma oggi non lo sono più.

    3. Le astreintes di classe 

    Nessun dubbio può sussistere sulla natura classista dell'esclusione dell'applicabilità alle controversie di lavoro subordinato o parasubordinato della coercizione indiretta per le condanne all'adempimento di obbligazioni non pecuniarie, introdotta nel 2009 dall'articolo 614-bis c.p.c., il cui precedente immediato era costituito dalle sanzioni ex art. 709-ter cpv. nr. 4 c.p.c. in caso di inadempimento di provvedimenti sulla responsabilità genitoriale.

    Tale coercizione, realizzata imponendo il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o ritardo nell'esecuzione di quelle condanne, intende favorirne l'adempimento evitando modalità dirompenti (come ad es. l'intervento dei Carabinieri per garantire il diritto di visita del genitore separato non affidatario dei figli minori).

    Ora, i tipici obblighi lavoristici tutelabili in astratto con la coercizione indiretta, ma in concreto non tutelati per l'attuale formulazione dell'articolo 614-bis c.p.c., sono quello di far svolgere le mansioni superiori in precedenza non riconosciute, e soprattutto quello di reintegrare nel posto di lavoro il dipendente ingiustamente licenziato e assistito da tutela reale.

    3.1. Segue: conseguenze sui licenziamenti

    Alla fine del secolo scorso si iniziò una lunga battaglia politico-mediatica contro l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la tutela reale del posto di lavoro, da alcuni considerata fonte di una forma di apartheid[1] di lavoratori garantiti troppo in danno di lavoratori garantiti troppo poco: si proclamava di voler equiparare le tutele, in apparenza verso una sorta di media tra le maggiori e le minori, in realtà indiscriminatamente verso il basso. I progetti di riforma dell'art. 18 dei governi di inizio secolo si arenarono però di fronte alla decisa opposizione popolare, specie dei sindacati e della base operaia della Lega Nord.

    La volontà di depotenziare la tutela trovò allora una prima concreta attuazione nel 2009 attraverso l'esclusione della coercizione indiretta nei rapporti di lavoro, senza incontrare apprezzabili resistenze. Il terreno così reso fertile produsse poi le controriforme dell'art. 18 del 2012 e nel 2015, approvate senza una significativa opposizione parlamentare o sindacale.

    I licenziamenti sono così divenuti più facili e meno onerosi per il datore di lavoro, venendo persino celebrati per alcuni anni come fonte di nuova occupazione (c.d. flessibilità in entrata), asseritamente incentivata dalle minori difficoltà della c.d. flessibilità in uscita.

    Che ciò abbia realmente favorito gli investimenti e fornito alle imprese certezza del diritto e decisioni rapide e prevedibili nei declamati tempi brevi del rito speciale c.d. Fornero, oggi ingolfato proprio dalle aumentate impugnazioni degli aumentati licenziamenti, è tutto da dimostrare, tanto più al cospetto delle ripetute pronunce di illegittimità costituzionale delle nuove norme. D'altro canto, proprio l'imprenditore preso a modello dalle riforme garantistiche del secolo scorso - quello che, avendo investito nella qualificazione dei dipendenti e nell'innovazione del lavoro e del prodotto, considera il licenziamento come l'extrema ratio - vede ora allungarsi i tempi di definizione delle rare controversie contro i suoi rari licenziamenti, con un effetto di selezione al ribasso del ceto datoriale orientata dall'ossessiva volontà di comprimere il costo del lavoro.

    4. Intermezzo: la data della procura dei richiedenti asilo per la cassazione 

    Il D.L. nr. 13/17 in materia di immigrazione (c.d. Minniti), convertito in legge 46/17, ha abolito – pur con diverse eccezioni sfuggite al legislatore - il doppio grado di merito per le cause dei richiedenti protezione internazionale. Questa modifica, intesa a scoraggiare gli appelli pretestuosi, ha inevitabilmente prodotto un enorme aumento dei ricorsi in cassazione, i quali, per una specifica norma dello stesso D.L. come interpretata dalle Sezioni Unite civili (sentenza nr. 15177/21), si considerano ritualmente proposti solo se il difensore certifichi, oltre all'autografia del ricorrente, anche la data della procura alla lite e la sua posteriorità alla comunicazione del decreto impugnato. Si tratta dell'unico caso in cui la procura per il ricorso per cassazione è sottoposta a tali requisiti.

    La norma ha resistito al vaglio di costituzionalità, avendo Corte Costituzionale nr. 13/22 ritenuto “la non manifesta irragionevolezza di tale regola differenziata” anche per la “considerazione che, soppresso il grado di appello, il numero di ricorsi per cassazione è cresciuto esponenzialmente fino a rappresentare, in percentuale, una parte molto ampia di tutti i ricorsi civili (...). Questo accesso così diffuso, al quale non è estraneo il maggiore ricorso al patrocinio a spese dello Stato rispetto ad altre tipologie di contenzioso, rende non irragionevole il rafforzamento della regola della posteriorità della procura mediante l’onere a carico del difensore della certificazione della data del suo rilascio da parte dello straniero richiedente la protezione internazionale. (…)  Il rafforzamento indiretto dell’osservanza di una regola processuale, in sé non posta in discussione (quella della necessaria posteriorità della procura speciale), non restringe gli spazi di tutela giurisdizionale, né ridonda in un adempimento solo formale che possa inficiare la garanzia del giusto processo (…) Proprio la presenza di una finalità non irragionevole, nei termini indicati, sottesa alla norma censurata (…) comporta che la prescrizione espressa dalla stessa, di natura strettamente processuale, non integra un’illegittima disparità di trattamento tra i richiedenti protezione internazionale e altri soggetti ricorrenti quanto ai requisiti della procura speciale a ricorrere per cassazione”.

    4.1. La data della procura: segue

    Di fatto, la Consulta ha così ragionato: a) il doppio grado di merito non ha copertura costituzionale; b) il legislatore può liberamente sopprimere l'appello per taluni tipi di controversie; c) avendo tale soppressione generato un imponente contenzioso di legittimità per la protezione internazionale, il legislatore può liberamente modulare in senso restrittivo i requisiti del ricorso in cassazione.

    Ora, l'assenza di copertura costituzionale del doppio grado di merito non dovrebbe implicare l'insindacabilità delle singole ipotesi di soppressione dell'appello. Un'intuitiva esigenza di bilanciamento, poi, dovrebbe indurre a compensare quella soppressione con una tutela in cassazione maggiore (ad es., mediante un più ampio sindacato della motivazione) e non minore, attraverso l'unicum della trasformazione del difensore in certificatore di date.

    Si tratta di considerazioni[2], che dovrebbero prescindere dall'eventuale favore o disfavore verso l'immigrazione, perché l'eventuale riluttanza a riconoscere ampi diritti ai migranti[3] non dovrebbe comportare il disincentivo alla tutela giurisdizionale dei diritti che la legge in concreto riconosca. Ciò che invece accade per i requisiti della procura per il ricorso in cassazione del richiedente asilo, di certo un soggetto debole sul piano economico e socio-culturale, che subisce una discriminazione processuale di natura in ultima analisi classista.

    5. La violenza e il diritto penale: il reato di resistenza 

    Si assiste nel discorso pubblico odierno a una forte sopravvalutazione della violenza dei comportamenti, considerata sempre un male: affermazione in sé ineccepibile, ma che sembra sottintendere l'auspicio irrealistico di una società in cui la violenza sia assente, anziché essere contenuta e regolata - e questo in un tempo nel quale neppure la minaccia atomica appare remota. In tal modo, però, diventa inevitabile che l'incapacità di conformarsi ai vagheggiati standard irenici sia rimproverata, anzitutto mediante il diritto penale, ai soli soggetti privi di potere, gli unici le cui propensioni violente sono sempre mal tollerate[4].

    La materia è stata oggetto della discutibile sentenza nr. 30/21 della Consulta, che ha ritenuto legittima l'esclusione dell'esimente della tenuità del fatto e della conseguente non punibilità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, perché corrispondente “alla peculiare complessità del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, peraltro rimarcata anche dalla sentenza nr. 40981/18 delle sezioni unite della Corte di cassazione, laddove hanno osservato che il normale funzionamento della pubblica amministrazione tutelato dall’art. 337 c.p. va inteso «in senso ampio», poiché include anche «la sicurezza e la libertà di determinazione» delle persone fisiche che esercitano le pubbliche funzioni (...) Già dopo la sentenza n. 341 del 1994, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 341 c.p. laddove prevedeva il minimo edittale il di sei mesi di reclusione per il reato di oltraggio in riflesso di una «concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini», questa Corte ha avuto modo di evidenziare come l’elemento costitutivo della violenza o minaccia finalizzata ad alterare il regolare funzionamento dell’attività della pubblica amministrazione impediva di estendere tale ratio decidendi sia al reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale di cui all’art. 336 c.p. (sentenza n. 314 del 1995), sia a quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. (ordinanza n. 425 del 1996)”.

    Suscita perplessità la deduzione, dalla giusta esigenza di non lasciare vuoti di tutela per episodi violenti o minacciosi idonei ad alterare il funzionamento della P.A., dell'impossibilità di ritenere particolarmente tenue l'offensività di singole concrete condotte. Per la Consulta, lo scatto d'ira di un incensurato verso un vigile urbano è imperdonabile quanto l'aggressione di tifosi ultras alle forze di polizia, anche se il primo non altera in concreto il funzionamento della pubblica amministrazione mentre la seconda crea gravi problemi di ordine pubblico.

    In tal modo, che lo si voglia o no, l'assoluta imperdonabilità della resistenza diventa il veicolo del ripristino della centralità del prestigio della pubblica amministrazione nel suo aspetto repressivo: la concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini rimane dietro l'angolo, e non è resa meno nociva dal riferimento al carattere plurioffensivo del reato.

    6. Fattispecie di blocco stradale

    Per la severità delle pene previste, i reati di blocco stradale previsti nel dopoguerra dal d.lgs. 66/48 costituivano una tipica espressione autoritaria dello Stato, ma trovavano un temperamento nei negoziati tra dimostranti e forze dell'ordine che di solito precedevano gli ordini di scioglimento degli assembramenti, nonché nell'inclusione in periodiche amnistie se commessi nell'ambito di manifestazioni sindacali o sociali – con una tipica discriminazione volta al riequilibrio dei rapporti di potere.

    Ridotta nel 1999 ai soli casi di deposito o abbandono di “congegni o altri oggetti di qualsiasi specie” in una strada ordinaria o ferrata, l'incriminazione originaria è stata sostanzialmente ripristinata dal primo dei decreti sicurezza c.d. Salvini (D.L. 113/18 convertito in legge 231/18) e affiancata dall'illecito amministrativo - che si potrebbe chiamare di blocco stradale mediante resistenza passiva - previsto dal nuovo art. 1-bis del d.lgs. 66/1948, per il quale “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, e' punito con  la  sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 4.000. La medesima sanzione si applica ai promotori ed agli organizzatori”.

    Tale stretta normativa, che ha colpito massicciamente centinaia di militanti sindacali di tutta Italia e persino i pastori sardi le cui proteste del febbraio 2019 erano state “benedette” dal ministro intestatario (e anche alcuni amministratori locali della Lega), ed è intesa a ostacolare soprattutto il diritto di manifestare nel conflitto di classe, non ha ricevuto - a conferma dell'invisibilità della questione sociale per gran parte dei commentatori - neppure una minima parte dell'attenzione riservata alle disposizioni restrittive dell'immigrazione contenute in quel decreto-legge, né è stata oggetto di alcuna proposta di abrogazione o attenuazione.

    Il suo effetto, specie nella figura dell'illecito amministrativo, è di trasformare un comportamento collettivo politicamente rilevante in un coacervo di atti di devianza, mediante i quali singoli individui (sanzionati separatamente, e non nell'ambito di un comune procedimento) usano il proprio corpo per ostruire il passaggio su strada dei flussi di merci che il sistema produttivo richiede di far circolare il più possibile indisturbati. Corpi contro flussi, la sintesi dell'attuale conflitto sociale[5].

    7. La violenza e l'abuso delle misure di prevenzione 

    Dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell'ipotesi di pericolosità prevista dall'art. 1 lett. a) d.lgs. 159/11 per i soggetti dediti a “traffici illeciti”, pronunciata da Corte Cost. nr. 24/19, si assiste a un crescente ricorso all'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, che prevede quella che in precedenza era la meno applicata delle tre figure di pericolosità generica poste a fondamento delle misure di prevenzione. Si ha la sensazione che parte delle Questure e della magistratura vogliano tenersi le mani libere per applicare restrizioni della libertà personale e di circolazione in assenza di rigorosi presupposti normativi.

    Eppure il testo dell'art. 1 lett. c), che si riferisce a “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”,  non sembrerebbe autorizzare prassi disinvolte.

    Di fatto, tuttavia, mentre non si ha notizia di applicazioni di misure di prevenzione a imprenditori o faccendieri dediti alla commissione di reati (anche contravvenzionali) contro l'ambiente, che pure offendono la sanità pubblica, è sempre più frequente la tutela di “sicurezza o tranquillità pubbliche” mediante l'applicazione di fogli di via obbligatori e sorveglianze speciali a persone denunciate o condannate (solo o anche) per violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale[6].

    Già la dottrina[7] aveva indicato come “sempre più attuale” il rischio della dilatazione della fattispecie dell'art. 1 lett. c) mediante l'applicazione “nei confronti di persone che esprimono il dissenso o il disagio sociale”, facendo l'esempio di richieste di sorveglianza speciale, giustamente rigettate, relative a c.d. disoccupati organizzati napoletani o ad anarchici bolognesi.

    8. L'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 e il dissenso politico-sindacale  

    In uno Stato democratico, il dissenso anche radicale o aggressivo verso gli orientamenti politici dominanti viene colpito con il diritto penale, se si concretizza in reati, e non con misure di prevenzione: questo principio, assioma della giurisprudenza costituzionale sin dalla seminale sentenza nr. 2/56 della Consulta (per la quale “la pericolosità in riguardo all'ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge”), rischia di essere dimenticato. Si tende oggi a credere, in modo più o meno irriflesso, che la contestazione radicale del sistema si giustifichi solo nei confronti di regimi autoritari e non in uno Stato democratico che garantisce i diritti fondamentali, nel cui ambito sarebbe intrinsecamente antigiuridica.

    Sia sul piano concettuale che su quello storico, tuttavia, il discrimine tra dittatura e democrazia non è sempre netto ed evidente, e viene ridefinito ogni giorno nella vita pubblica[8]; che lo si voglia o no, un sistema politico che espella preventivamente tutte le forme radicali di contestazione si trasforma inevitabilmente in una più o meno soave dittatura. La tesi dell'inconcepibilità in democrazia del dissenso radicale ricorda peraltro il paralogismo sul quale i Paesi del socialismo reale fondavano il divieto di sindacati autonomi: a seguito della presa del potere e del farsi Stato della classe operaia, la protesta del sindacato contro lo Stato sarebbe stata una protesta contro la classe operaia.

    Queste considerazioni, in altri tempi ovvie, trovano riscontro nell'interpretazione sistematica della normativa, alla quale fa sempre meno ricorso una dottrina-prassi tutta tesa all'inseguimento pulviscolare dei frammenti normativi.

    9. Le misure di prevenzione per i neofascisti e l'art. 1 lett. c)  

    L'art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11 ha trasfuso la norma dell'art. 18 co. 1° nr. 3 legge c.d. Reale nr. 152/75, che prevedeva misure di prevenzione per “coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista (…), in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza”, aggiungendo gli atti “esecutivi” diretti a quella ricostituzione.

    La sua esistenza è la riprova del carattere arbitrario dell'uso dell'art. 1 lett. c) per la prevenzione del dissenso politico e sindacale.

    La ricostituzione del partito fascista, infatti, è l'unica attività politica che nel nostro Paese sia vietata anche se non esercitata con metodi terroristici o apertamente eversivi. L'esaltazione e la pratica sistematica della violenza che la caratterizzano, anche se prive di carattere terroristico, consentono quindi di impedirne e/o prevenirne l'attuazione, in ossequio all'origine storica della Costituzione e nel timore di rigurgiti. Nessun'altra espressione politica in quanto tale è fatta oggetto di divieto o di prevenzione da parte di specifiche norme, fatta salva la punizione degli autori di singoli reati.

    La stessa attività preparatoria della ricostituzione del partito fascista, poi, è soggetta a misure di prevenzione solo se svolta con l'esaltazione o la pratica della violenza che risultino obiettivamente rilevanti, non bastando quindi condotte apologetiche o violente non finalistiche, né tanto meno manifestazioni nostalgiche come saluti romani e simili.

    Neppure il legislatore degli anni della guerra civile strisciante, quindi, ritenne di sottoporre i picchiatori neofascisti, da singoli o in gruppi, oltre che a processo penale per specifici reati, a misure di prevenzione in assenza di concreta idoneità a preparare la ricostituzione del partito fascista.

    La prassi applicativa di tale figura criminologica è stata poi saggiamente misurata e ha riguardato soprattutto soggetti attivi tra gli hooligan del calcio; di recente, si è parlato di sorvegliati speciali neofascisti in occasione dell'assalto squadristico romano dell'ottobre 2021 alla CGIL.

    Se quindi la denuncia/condanna per reati di violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale, ecc. (o magari, secondo la novità torinese, di invasione di edifici), non costituisce motivo per l'applicazione di misure di prevenzione a soggetti neofascisti che non intendano o non siano in grado di preparare la ricostituzione del partito fascista, non si vede come possa giustificarsi l'applicazione di misure di prevenzione a soggetti denunciati/condannati per tali reati che non perseguano una finalità politica intrinsecamente antigiuridica come quella ricostituzione.

    10. L'art. 1 lett. c) e il foglio di via per i sindacalisti 

    Negli ultimi anni si è diffusa la prassi di polizia, contraria al sistema normativo, dell'applicazione di misure di prevenzione nei conflitti di lavoro, specie nel settore della logistica dove hanno grande seguito i sindacati di base che si definiscono conflittuali (per distinguersi dai confederali e da quelli più o meno “gialli”). Si fa ricorso soprattutto al foglio di via obbligatorio, che, pur essendo impugnabile davanti al giudice amministrativo, consente l'immediato allontanamento del sindacalista dai luoghi di lotta, senza il passaggio attraverso l'autorità giudiziaria che è necessario per la sorveglianza speciale.

    La giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente censurato tale prassi, annullando i fogli di via applicati agli attivisti sindacali.

    L'orientamento, iniziato con la sentenza del CdS nr. 7579/19, ha trovato conferma nella recente sentenza nr. 3108/22, e muove dalla definizione del picchettaggio come “un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e, più specificamente,  (…) tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti a non accedere nei luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa”.

    Tale attività “tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso e viene notoriamente praticata per contrastare il fenomeno del crumiraggio e, cioè, il comportamento tenuto dai lavoratori dipendenti dall’azienda ovvero esterni, i quali ultimi concludono in occasione dello sciopero un contratto di lavoro – cosiddetti crumiri – stipulato dall’imprenditore al fine di attenuare od eliminare il pregiudizio economico derivante dallo sciopero e, quindi, vanificare gli intenti perseguiti dagli scioperanti”.

    Nel caso esaminato, il giudice amministrativo rilevava che “dalla lettura del foglio di via non si comprende se l’odierno appellante abbia usato in senso proprio violenza nei confronti delle forze dell’ordine, al di là del vago riferimento ad una “energica” contrapposizione tra manifestanti e dette forze non infrequente in questo tipo di conflitti sindacali (…) La semplice presenza in un picchetto di molte persone finalizzato ad ostacolare gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici e individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale a carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione e, in particolare, il foglio di via obbligatorio in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e, in ultima analisi, in una misura antidemocratica”.

    All'evidenza, l'auspicato rifiuto di trasformare il diritto della prevenzione e il FVO in un surrettizio  strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e in una misura antidemocratica, non ispira il perdurante attivismo antisindacale di alcune Questure.

    11. L'associazione per delinquere mediante attività sindacale

    Un'ordinanza del 12.7.2022 del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Piacenza ha portato all'arresto di sei dirigenti di sindacati di base operanti nel settore, particolarmente sviluppato tra la Lombardia meridionale e l'Emilia, della logistica.

    Oltre che di circa 140 reati-fine[9], gli arrestati sono accusati di promozione o partecipazione a due distinte associazioni per delinquere finalizzate a commettere reati di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio. La descrizione delle condotte, che consta in ciascuno di tali due capi di imputazione di ben 67 righe, assomiglia più a un'argomentata sentenza di condanna che alla contestazione di un'ipotesi di reato dalla quale difendersi.

    Non è questa la sede per un'analisi[10] del provvedimento, che quanto alle ipotesi associative ha già trovato una prima smentita da parte del Tribunale del Riesame di Bologna.

    Sconcerta tuttavia la scarsa capacità di parte della magistratura di distinguere fenomeni sociali da fatti criminali, delimitando le rispettive aree: nonostante i ripetuti distinguo tra attività sindacali lecite che non si intendono colpire (excusatio non petita?) e attività penalmente illecite, mai si riesce a comprendere quale ambito del sindacalismo conflittuale sarebbe davvero esente da repressione penale. Il che, alla lunga, non giova neppure alla “tenuta” in giudizio delle imputazioni che siano effettivamente fondate.

    Che tutto ciò dipenda da precisa volontà antisindacale, oppure da pregiudizi inconsci radicati nello spirito del tempo, oppure da deficit di riflessione[11], è evidente che simili iniziative inducono a temere che, in importanti settori della nostra vita pubblica, il sentimento della democrazia e dell'uguaglianza come conquiste da rinnovare e ridefinire ogni giorno sia esso stesso un obiettivo da raggiungere, più che un dato acquisito[12].

    Tanto più che non emerge analoga efficacia repressiva nei confronti dei metodi adoperati dai “padroncini” del logistico per rompere i cordoni. Resa ormai impervia dal dominante garantismo di classe la contestazione di omicidio volontario con dolo eventuale agli imprenditori che violino regole cautelari a costo di provocare la morte di dipendenti, dei camionisti che feriscono o uccidono gli scioperanti che picchettano è ardua ormai anche la condanna per reato colposo[13].

    12. Le norme ad logisticam per i dipendenti dell'appaltatore

    L'articolo 1676 del codice civile, intitolato ai “Diritti degli ausiliari dell'appaltatore verso il committente”, prevede che “coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

    Si tratta di una regola di consolidata tradizione, che protegge da sopraffazioni (salari non conformi all'art. 36 della Costituzione, salari indicati nei prospetti paga ma corrisposti solo in parte, mancato pagamento di contributi o TFR, ecc.) i dipendenti dell'appaltatore, consentendo loro di rivolgersi per il dovuto non pagato anche al committente, e anche i dipendenti del subappaltatore nei confronti del subcommittente. Regola che, sollecitando la responsabilità del committente nella scelta del contraente, favorisce indirettamente la buona qualità dell'opera (i cui margini di profitto non possono giovarsi oltre misura della compressione del costo del lavoro) e, naturalmente, la prevenzione delle infiltrazioni negli appalti e subappalti delle organizzazioni mafiose, capaci con la loro forza intimidatrice di imporre salari illegali ai dipendenti.

    A questa regola si è ritenuto di derogare con l'introduzione mediante l'art. 1 co. 819 della l. 234/21 (legge finanziaria, che ormai si discute solo nelle Commissioni di uno solo dei due rami del Parlamento, e mai nell'aula, e sempre viene approvata con voti di fiducia) di un articolo 1677-bis del codice civile, vigente dall'1.1.2022, che recita: “Se l'appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di più servizi relativi alle attività di ricezione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.

    Articolo poi sostituito a decorrere dal 30.6.2022 dall’art. 37-bis co. 1° D.L. nr. 36/22, convertito con modificazioni dalla l. 79/22 (con voto di fiducia), per il quale: “Se l'appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.

    A seguito di questo doppio passo del legislatore, fonte di una vera e propria deep law, in caso di trasferimento di cose (rectius, merci) da un luogo a un altro non vi è più appalto di servizi bensì contratto di trasporto con esenzione del settore della logistica, espressamente richiamato nell'ultima versione della norma, dalla garanzia fornita dall'art. 1676 c.c. ai dipendenti dell'appaltatore. Anche se le imprese addette al trasferimento di merci per il logistico, finora appaltatrici e d'ora in poi vettrici, sono spesso costituite, in forma talvolta cooperativa, da entità precarie e alquanto fantasmatiche, dalle quali risulta arduo ottenere piena soddisfazione dei diritti patrimoniali[14].

    Rivelatore risulta allora il compiacimento espresso per tale controriforma da “Assologistica”, associazione dei già committenti ed ora mittenti”[15].

    13. Una tendenza di lungo periodo  

    Alla fine di questa sintetica illustrazione delle forme del ritorno del diritto classista, diventa inevitabile la domanda sul perché tutto ciò che è accaduto ed evidentemente accade non sia mai stato oggetto di una seria riflessione scientifica.

    Anche se incompleta, una qualche risposta deve essere abbozzata in questa sede.

    All'inizio della modernità capitalistica, che ne gettava gli esponenti sul mercato delle idee sradicandoli dal mondo della tradizione, il ceto intellettuale cercò di ritrovare un fondamento alla propria attività attraverso la ricerca e l'individuazione dei nessi di causalità sottostanti all'evoluzione sociale: il tentativo più riuscito fu quello marxista, con la distinzione tra struttura economica e sovrastruttura ideologico-politica.

    Distinzione divenuta sempre meno efficace nel secolo scorso, sia per la constatata retroazione (indagata ad es. da Gramsci o da Adorno) della sovrastruttura sulla struttura, sia per il dato ovvio che proprio la pretesa di detenere e spiegare la verità sul nesso di causalità proiettava in primo piano  la sovrastruttura, di cui gli intellettuali erano espressione. Una volta raggiunto e consolidato un proprio senso di sicurezza, il ceto intellettuale (definitosi talvolta, in tempi recenti, “ceto medio riflessivo”) ha in seguito potuto fare a meno dello schema marxista e di ogni spiegazione causale alternativa e, con tipico gesto postmoderno, ha considerato mera convenzione ogni causalità, sì che ciascun fenomeno sociale avrebbe la stessa dignità e rilevanza di un altro.

    In questa prospettiva, i desideri più individualistici sono diventati per gran parte di quel ceto un oggetto di “nuovi diritti civili”, che riguardino le forme del morire, oppure la procreazione, i vincoli familiari, l'uso di droghe, ecc. Anche il tema angosciante dell'immigrazione di massa, in cui è così difficile tenere insieme il giudizio complessivamente negativo sullo sradicamento dei migranti e delle comunità di accoglienza con l'esigenza di accoglienza e di tutela delle persone che ne sono protagoniste, diventa oggetto di formulazioni estremiste sul preteso illimitato “diritto di migrare”, spesso accompagnate da inutili giaculatorie sulla presunta ristrettezza mentale di coloro che, appartenendo di solito alle classi subalterne sulle quali più impatta il fenomeno, non riescono a condividere questi discorsi.

    Ora, se i desideri del ceto medio riflessivo tendono a diventare diritti, è pressoché inevitabile che i diritti dei ceti subalterni tendano a diventare meri desideri. Questo rovesciamento dialettico, sul quale Karl Marx avrebbe avuto molto da dire, è una realtà di fatto[16].

    14. Finale: il rovesciamento delle priorità

    Può in conclusione richiamarsi quanto ha scritto in tema il politologo Alessandro Colombo[17]:

    Sia che la si interpreti come uno smantellamento dello Stato sociale o, invece, come una liberazione dell'efficienza del mercato dall'invadenza dello Stato, la trasformazione cominciata alla fine degli anni Settanta è stata resa possibile dal riflusso della lunga stagione di rivoluzioni e guerre civili (reali o potenziali) del Novecento. Sollevati dalla paura del contagio rivoluzionario, gli Stati liberali si sono affrettati a disfarsi delle protesi sociali che (anche a prezzo di un calo di efficienza economica) erano stati costretti a impiantare per prevenirlo (…) Il contesto storico nel quale si consumava questa regressione materiale è stato proprio quello nel quale si imponeva, sul piano del linguaggio, la retorica delle “pari opportunità”, tra soggetti e identità di ogni tipo (sessuali, etniche, religiose, ecc.), ma non più o sempre meno tra le classi sociali. Non che ci sia qualcosa, sia ben chiaro, che imponga di sacrificare l'eguaglianza di opportunità di queste ultime alla promozione delle altre. Ma è un fatto che proprio questo è ciò che concretamente è avvenuto nell'ultimo trentennio; tanto che ci sarebbe almeno da chiedersi se si sia trattato di una mera coincidenza o di uno spregiudicato (e ipocrita) rovesciamento delle priorità”.

    Sembra che le cose stiano proprio così.


    [1] cfr. https://www.pietroichino.it/?p=19273

    [2] In tema, cfr. Caporusso, La procura speciale in materia di protezione internazionale: alla ricerca di una legalità costituzionale perduta v, in Foro it., 2022, I, 1993 ss.

    [3] Un simile atteggiamento si rinviene ad es. in Contro la sinistra neoliberale (Fazi ed., 2022) di Sahra Wagenkchnet, importante esponente della sinistra radicale tedesca (die Linke).

    [4] Non vi è necessaria coincidenza tra soggetti privi di potere e soggetti antagonisti inclini alla protesta: è evidente, ad es., che la resistenza a pubblico ufficiale della nota militante no-border Carola Rackete ha più chance di essere scriminata (come poi avvenuto) rispetto a quella di un lavoratore della logistica che partecipi a picchettaggi.

    [5] Profeticamente, nel 1967 in La società dello spettacolo (in http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacritica/debord_spettacolo.pdf ), Guy Debord scrisse: “ Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell'ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse”.

    [6] Un unicum sembra costituito dalla recente massiccia applicazione di FVO ad attivisti ambientalisti che il 25.7.2022 hanno scalato il palazzo della Regione Piemonte per esporre uno striscione e incatenarsi, perché dediti (con unico episodio!) a reati che mettono in pericolo la sicurezza/tranquillità pubbliche. A seguire tali criteri, chissà quali misure si sarebbero prese nei confronti degli attivisti guidati dalla cantante Gianna Nannini che nel 1995 scalarono l'ambasciata di Francia (vedi https://www.youtube.com/watch?v=sOtDHE3T-bo ) per protestare contro degli esperimenti nucleari. Alcuni di quei fogli di via sono stati poi revocati dalla stessa Questura, secondo  https://www.torinoggi.it/2022/08/19/leggi-notizia/argomenti/cronaca-11/articolo/revocati-i-primi-fogli-di-via-agli-extinction-rebellion-gli-attivisti-la-decisione-era-illegittim.html

    [7] Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, volume I, pagg. 133-134, ed. Giuffré

    [8] Si pensi alla democratura turca, nella quale pesanti misure repressive della minoranza curda e di certe opposizioni politiche coesistono con l'amministrazione delle principali città da parte di sindaci avversi al presidente Erdogan.

    [9] Tra i quali violenza privata, sabotaggio, turbata libertà dell’industria o del commercio, interruzione di servizio pubblico o di pubblica necessità, resistenza a pubblico ufficiale, rifiuto di indicazioni sulla propria identità e inottemperanza all’ordine di esibire il documento di identità e il permesso di soggiorno.

    [10] Già efficacemente svolta da D'Ancona in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-piacenza-sindacati-o-associazioni-a-delinquere?idn=108&idx=29293&idlink=5 ove è anche reperibile il testo del provvedimento.

    [11] In proposito riveste un qualche interesse la particolare lettura dei dati processuali fornita tra luglio e agosto 2022 sulla pagina https://www.facebook.com/francesco.floris.7564

    [12] Un'utile sintesi delle lotte sindacali della logistica e della loro repressione è contenuta negli articoli “L'indagine che azzera picchetti e scioperi nell'inferno logistica” e “L'offensiva penale sta travolgendo i sindacati di base”, pubblicati nel Fatto (quotidiano) economico del 25.7.2022.

    [13] Cfr. https://www.capacitafinanziaria.net/blog/sentenza-incidente-mortale-alla-gls-assolto-lautista/ e https://contropiano.org/news/politica-news/2020/07/10/omicidio-abdelsalam-il-tribunale-assolve-lautista-del-tir-familiari-e-usb-annunciano-ricorso-sia-fatta-giustizia-0129888 . Un più recente episodio ha provocato il cordoglio dell'allora premier Draghi: cfr. https://www.huffingtonpost.it/entry/investe-uomo-col-camion-durante-manifestazione-sindacale-poi-fugge_it_60cc4773e4b0b50d622bdaea/ e, sullo stato dell'indagine penale, https://www.rosarossaonline.it/2022/06/18/in-ricordo-di-adil-e-di-abd-elsalam/

    [14] Comprensibilmente, quindi, si parla in http://sicobas.org/2022/07/18/contributo-con-la-scusa-del-pnrr-padroni-e-governo-draghi-allattacco-dei-lavoratori-non-solo-della-logistica/ di circa un milione di lavoratori a cui è stato detto “è legale rubarvi lo stipendio”. In tema, cfr. gli articoli https://transform-italia.it/la-manina-la-frode-e-il-dispotismo/ e https://www.editorialedomani.it/economia/con-la-scusa-del-pnrr-il-parlamento-cancella-i-diritti-dei-lavoratori-della-logistica-ye20mgvq

    [15]  https://www.assologistica.it/la-figura-della-logistica-entra-nel-codice-civile.htm con i ringraziamenti agli autori della riforma.

    [16] A tale proposito, risulta illuminante la visione del recente film E' andato tutto bene del regista francese François Ozon, il cui 85enne protagonista, in ottima salute ed illimitatamente ricco ed egoista, desidera morire, ma non già suicidandosi bensì pagando dei sicari di origine proletaria per la dolce morte in Svizzera: il suicidio di classe con autore mediato. Che con i soldi si possa pagare tutto, anche la fatica di uccidersi, è cosa che forse non interessa ai sostenitori della depenalizzazione dell'omicidio del consenziente, anche se persona in salute - purché solvibile.

    [17] In Tempi decisivi, Feltrinelli ed., 2014.

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