GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La stizza della Corte dinanzi al giudice irrispettoso (nota a Corte cost. n. 127/2021) di Francesco Dal Canto

    La stizza della Corte dinanzi al giudice irrispettoso

    (nota a Corte cost. n. 127/2021)[1]

    di Francesco Dal Canto    

    1. C’è un passaggio nella sentenza in commento che lascia stupiti.

    Si tratta del punto 2 del dispositivo, ove può leggersi, testualmente, che la Corte “ordina la trasmissione degli atti del presente giudizio al Procuratore generale presso la Corte di cassazione per gli eventuali provvedimenti di competenza”.

    La misura è più unica che rara. Prospettando l’avvio di un possibile procedimento disciplinare, essa è chiaramente volta a stigmatizzare la singolare condotta del giudice rimettente che, dapprima, promuove la questione di costituzionalità di alcune disposizioni contenute nel codice di procedura penale e, successivamente, riassume e decide il giudizio a quo senza attendere la conclusione del processo costituzionale. Si noti che il giudice rimettente non si pone il problema di revocare l’ordinanza di rimessione, come pure eccezionalmente e altrettanto problematicamente era accaduto in passato, bensì, più semplicemente, riavvia il giudizio sospeso, sganciando il suo esito da quello del processo celebrato dinanzi alla Corte costituzionale.

    Esclusivamente a tale profilo è dedicata questa breve nota.  

    2. È utile ripercorrere sinteticamente i fatti. Con ordinanza del 9 settembre 2020 il Tribunale di Lecce promuove le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 6, e 458, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui essi non consentivano all’imputato, in caso di rigetto da parte del g.i.p. della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, di riproporre la richiesta di rito alternativo al giudice del dibattimento.

    Nella specie, il giudice rimettente stava procedendo nei confronti di un imputato il quale, dopo essere stato rinviato a giudizio, aveva tempestivamente proposto al g.i.p. richiesta di giudizio abbreviato condizionata all’acquisizione delle indagini difensive e all’audizione di un testimone; tale richiesta, tuttavia, era stata respinta dal giudice, che aveva ritenuto tale integrazione probatoria incompatibile con le caratteristiche del rito.

    Il Tribunale, cui l’imputato si rivolge rinnovando la medesima istanza, ritiene che la stessa debba essere rigettata in quanto la possibilità di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato non era stata contemplata nel nuovo testo dell’art. 438, comma 6, c.p.p., recentemente modificato dalla legge n. 33/2019; e ciò a differenza di quanto era invece previsto nel regime precedente, nel quale tale la possibilità era stata introdotta proprio da una pronuncia additiva della Corte costituzionale (sent. n. 169 del 2003). Sulla base di tali argomenti il collegio ritiene alfine necessario promuovere la questione di costituzionalità, atteso che la suddetta mancata previsione aveva determinato un vulnus al diritto di difesa dell’imputato.

    Di lì a pochi mesi (15 febbraio 2021) avviene un fatto nuovo, piuttosto anomalo. Il giudice rimettente, infatti, cambia radicalmente idea e, con una nota del Presidente della sezione procedente, comunica alla Corte, affinché essa “assuma le determinazioni del caso, anche in punto di rilevanza della sollevata questione”, di avere disposto la prosecuzione della trattazione del processo, “attesa l’esigenza di anticipare la trattazione del giudizio a quo, anche in considerazione dello stato cautelare cui è attualmente sottoposto l’imputato e considerato che la sollevata questione di legittimità costituzionale può ritenersi superata dalla già intervenuta pronuncia sulla medesima questione della Corte cost., sent. n. 169/2003, sulla cui portata non ha inciso la novella relativa all’art. 438 c.p.p. recata dalla legge n. 33/2019”. E poco dopo (27 maggio 2021), in effetti, il Tribunale rimettente invia una seconda nota alla Corte, comunicando di avere pronunciato il 28 aprile 2021, in esito a giudizio abbreviato, sentenza di condanna dell’imputato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.

    Dinanzi a tale tortuoso iter, la Corte osserva, innanzi tutto, che la decisione di dare prosecuzione al giudizio a quo, nonostante la pendenza dell’incidente di costituzionalità, “non elide la perdurante rilevanza delle questioni prospettate” in forza del principio di autonomia del processo costituzionale che, come tale, non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione. Si tratta, com’è noto, di un consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale l’accertamento della rilevanza ha carattere istantaneo, ovvero esso fotografa il legame oggettivo tra i due giudizi nel momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato.

    Sulla base di tali presupposti, la Corte entra nel merito dei dubbi di costituzionalità prospettati, giungendo, peraltro, a dichiarare l’inammissibilità della questione in ragione dell’erroneità delle premesse interpretative dalle quali muoveva l’ordinanza di rimessione. In particolare, la Corte sottolinea che la questione sollevata era in realtà priva di oggetto, in quanto il giudice rimettente aveva erroneamente ipotizzato l’esistenza di una lacuna in effetti insussistente, stante la perdurante operatività dell’addizione operata dalla richiamata pronuncia n. 169 del 2003, non messa in discussione dalla novella intervenuta nel 2019, sebbene da quest’ultima non riprodotta espressamente.  

    3. Così ricostruita la vicenda, la prima osservazione che può essere svolta conduce a evidenziare il paradosso che la caratterizza.

    In buona sostanza la Corte, riconoscendo che la disciplina introdotta con la pronuncia additiva del 2003 doveva ritenersi ancora operante nell’ordinamento, sottolinea la circostanza che il giudice non avrebbe potuto promuovere la questione di costituzionalità; egli, al contrario, avrebbe dovuto far buon uso dei suoi poteri interpretativi consentendo da subito all’imputato di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato. Si tratta -appunto, paradossalmente - della stessa conclusione cui giunge, in seconda battuta, anche il giudice rimettente, quando, rendendosi conto dell’errore commesso, torna sui propri passi e dispone la prosecuzione del processo. Un ravvedimento tardivo, tuttavia, che fa compiere al giudice un’operazione non in armonia con le regole che governano il processo costituzionale incidentale.

    Una volta che quest’ultimo è stato innescato, infatti, la parola passa alla Corte e, fin quando essa non si è pronunciata, il giudizio rimane sospeso. E’ lo stesso Giudice del leggi, nella sentenza in commento, a ricordare che tale conclusione si ricava, in particolare, dall’art. 23, comma 2, della legge n. 87 del 1953: “l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso” (c.vi aggiunti).

    Ne consegue che non rientra nella discrezionalità del giudice rimettente cambiare idea sulle decisioni assunte quando ormai il percorso che ha investito il Giudice costituzionale è stato attivato. E del resto, nello stesso senso - per quanto si tratti di argomento piuttosto formalistico e probabilmente non del tutto aderente alla prassi - depone anche la circostanza che il giudice a quo, una volta trasmessi gli atti processuali alla Corte, non ha più la materiale disponibilità degli stessi; e dunque, anche volendo, non dovrebbe poter riassumere il giudizio se non chiedendo formalmente la restituzione del fascicolo al Giudice delle leggi.

    Si tratta di capire, peraltro, se la conclusione appena riferita vada accolta come un principio inderogabile, come sembra ritenere la Corte, o possa ammettere  eccezioni. A tale proposito può in effetti essere richiamato l’orientamento non monolitico della dottrina: se la stessa, infatti, si è mostrata generalmente contraria all’ipotesi che possa essere revocata l’ordinanza di rimessione, al fine di non compromettere l’interesse generale alla legalità costituzionale, essa ha invece mostrato delle posizioni meno perentorie con riguardo all’ipotesi di revoca della sola sospensione del giudizio a quo, evidenziandosi da parte di alcuni l’opportunità, appunto come eccezione alla regola, ovvero di fronte a taluni specifici fatti sopravvenuti, di distinguere tra situazione e situazione, al fine di contemperare interessi di volta in volta eventualmente concorrenti (cfr., tra gli altri, A. Cerri e R. Romboli).

    Ciò detto, dalla pronuncia in esame traspare chiaramente la stizza del Giudice delle leggi, che stigmatizza con inusuale durezza la decisione del giudice a quo, qualificandola espressamente come “ipotesi patologica” e, come anticipato, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura generale presso la Corte di cassazione.  

    4. La Corte costituzionale, dunque, ravvede nel comportamento del giudice rimettente gli estremi di un illecito disciplinare.

    Non mi pare vi siano precedenti in termini. Per un caso simile, quanto meno con riguardo ai rapporti tra Corte e giudici rimettenti, può richiamarsi un episodio di cui fu protagonista il Presidente della Corte costituzionale Francesco Saja alla fine degli anni Ottanta, il quale, infastidito dai gravi ritardi con cui numerosi giudici a quibus trasmettevano alla cancelleria gli atti del processo principale, effettuò una segnalazione di censura al C.S.M. Quest’ultimo, nell’emanare a stretto giro una circolare per sollecitare i giudici rimettenti a una maggiore attenzione, inoltrò a propria volta la segnalazione ai vertici della Corte di cassazione.

    Ma il caso in commento è decisamente più grave, in quanto è la stessa Corte costituzionale, con sentenza, impegnando dunque al massimo livello la sua autorevolezza, che sollecita un intervento della Procura generale.

    Tale durezza è comprensibile soprattutto come reazione a un comportamento percepito come un atto di lesa maestà dal Giudice costituzionale, prima interpellato e poi completamente ignorato, con l’abbandono della questione di costituzionalità al proprio destino. La stessa, invece, appare eccessiva se intesa quale misura volta a garantire la coerenza complessiva del carattere incidentale del processo costituzionale: da questo secondo punto di vista, infatti, come detto, la questione avrebbe probabilmente meritato una risposta più articolata; e ciò anche tenendo conto della forza di precedente che, a prescindere dal caso specifico, essa rivestirà in futuro.

    Ciò segnalato, ci possiamo da ultimo domandare, a fronte della tipizzazione degli illeciti disciplinari intervenuta all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, a quale fattispecie disciplinare possa essere ricondotto il comportamento del giudice a quo, tra quelle elencate dal legislatore.

    La risposta sembra obbligata, stante la rigidità dell’attuale sistema sanzionatorio. Può venire in gioco, tra gli illeciti disciplinari “nell’esercizio delle funzioni”, esclusivamente la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” (cfr. art. 2, lett. g), d.lgs. n. 109 del 2006).

    Ma non è scontato che il singolare comportamento del giudice rimettente, certamente poco rispettoso nei confronti della Corte costituzionale, possa integrare il presupposto della gravità. E ciò, anche a prescindere dalle osservazioni più generali poc’anzi svolte, a fronte soprattutto della circostanza che il dovere di non proseguire il processo prima della pronuncia della Corte, pur rintracciabile nella natura del giudizio incidentale, non è espressamente sancito in alcuna disposizione di legge. Lo stesso art. 23 della legge n. 87/1953, opportunamente richiamato nella pronuncia in commento, se impone certamente la sospensione del processo principale, non stabilisce in senso stretto un divieto, formale e assoluto, di revocare la stessa in un secondo momento.

    Si tratta, dunque, di attendere come si muoverà la Procura generale della Cassazione, investita di una responsabilità inconsueta e particolarmente pesante.

    [1] La presente nota, comprensiva di note a piè di pagina, è in corso di pubblicazione anche sulla rivista Giurisprudenza costituzionale.

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