GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Ricordo di Cesare Massimo Bianca

    Ricordo di Cesare Massimo Bianca

    di Paolo Spaziani 

    È morto Cesare Massimo Bianca, Giurista illuminato, Maestro preclaro.

    Apparteneva alla generazione dei civilisti italiani successiva a quella che aveva guidato la nuova codificazione: la generazione che aveva avuto il compito di far uscire il diritto privato dall’angusta concezione tradizionale paneconomica e di rivisitarne le categorie dogmatiche alla luce dei principi costituzionali, in funzione della preminenza dei valori della persona umana.

    Nel nome di questi valori aveva ricostruito, nel suo sontuoso Trattato su cui si sono formate generazioni di giuristi, l’intero sistema dell’ordinamento civile.

    La profonda capacità di elaborazione sistematica, la grandezza del genio, lo spessore della dottrina lo avevano portato ad anticipare, sin dagli scritti giovanili, soluzioni alle quali la giurisprudenza sarebbe approdata solo molti decenni più tardi, spesso all’esito di travagliati dibattiti e di annosi contrasti.

    Sin dagli anni 70, aveva affermato la necessità di riformare il diritto delle persone, a cominciare da quegli istituti, come l’interdizione e l’inabilitazione, che ne limitano ingiustificatamente l’autonomia, incidendo sulla libertà di autodeterminazione.

    Già prima della riforma del 1975 aveva sostenuto che la legge avrebbe dovuto eliminare le anacronistiche classificazioni dei "figli" in diverse categorie, che trovava ingiuriose rispetto alla  stessa nozione di filiazione, quale rapporto tra genitori e figli basato anzitutto sull’affetto reciproco. Questo risultato sarebbe stato raggiunto solo nel 2013, grazie ad una “nuova” riforma, che Egli avrebbe scritto di suo pugno, all’esito di profonde e sofferte meditazioni.

    Nel primo commento alla legge sull’adozione legittimante, che fondava il diritto del minore ad una famiglia sostitutiva al verificarsi della situazione di abbandono, aveva stigmatizzato che tale diritto presupponeva, peraltro, in primo luogo, quello, apparentemente contrario, a continuare a vivere nella propria famiglia, tutte le volte in cui la situazione di abbandono non fosse imputabile a colpevole incuria morale dei genitori, ma fosse dovuta alla difficoltà di assicurare al figlio, in una con l’apporto affettivo necessario alla sua piena maturazione, l’assistenza materiale di cui avrebbe avuto bisogno.

    Il primo diritto del bambino - soleva ripetere - è il diritto all’amore dei suoi genitori, ma anche i genitori hanno il diritto di amare i loro figli e devono essere messi in condizione di esercitare questo diritto. Alla facile obiezione che faceva leva sulla non configurabilità dogmatica di un simile diritto in ragione della non coercibilità del comportamento preteso dal presunto titolare e dovuto dal presunto obbligato, soleva rispondere, con altrettanto agevole capacità argomentativa, che l’essenza del diritto soggettivo non è nella coercibilità del comportamento che ne forma oggetto ma nella valutazione sociale del comportamento contrario come violazione dell’ordinamento, e dunque come fatto illecito, che espone l’autore a forme socialmente satisfattive di responsabilità.

    Un rilievo che per il Maestro era naturale; e che invece la giurisprudenza ha condiviso dopo anni di faticose e controverse decisioni: quante azioni di condanna ad un facere infungibile sono state dichiarate inammissibili perché l’eventuale pronuncia di accoglimento non sarebbe stata suscettibile di esecuzione coattiva secondo gli schemi ordinari di cui agli artt.2930 e ss. del codice civile? Quanti diritti fondamentali sono stati sacrificati sull’altare della necessaria corrispondenza tra condanna ed esecuzione forzata? Eppure oggi non vi è più dubbio che proprio la tutela dei diritti fondamentali della persona riposa su accertamenti giudiziari non eseguibili in forma specifica, l’ottemperanza ai quali è sostanzialmente rimessa, senza che ciò ne intacchi minimamente l’ammissibilità giuridica, alla spontanea esecuzione dell’obbligato, e garantita, oltre che da misure di coercizione indiretta (come quelle previste dall'art.614 bis del codice di procedura civile, introdotto soltanto nel 2009), esclusivamente dall’esposizione alla riprovazione sociale del comportamento inadempiente.

    L’acme della sua riflessione giuridica  Cesare Massimo Bianca ha tuttavia raggiunto, verosimilmente, nell’ambito di quelle materie che costituiscono le vette più alte del pensiero civilistico, su cui in molti hanno osato imprudentemente avventurarsi, ma che ben pochi Maestri hanno saputo raggiungere e sulle quali ancora di meno sono coloro che hanno lasciato i segni del loro passaggio. 

    La teorica dei contratti, delle obbligazioni, della responsabilità, è stata influenzata da Cesare Massimo Bianca come da nessun altro giurista contemporaneo e basta scorrere le massime giurisprudenziali per rendersene conto.

    Dalla codificazione del 1942 avevamo ereditato la contrapposizione tra la teoria della volontà e quella della dichiarazione, la dicotomia  tra causa e tipo negoziale, la distinzione tra causa e motivi: distinzioni, tutte, che, se non possono dirsi completamente superate, hanno peraltro assunto una rilevanza meramente descrittiva e classificatoria, alla luce dell’accoglimento, da parte della giurisprudenza, del concetto di “causa concreta”, e cioè di quella nozione della causa del contratto che, utilizzata con felice terminologia da Cesare Massimo Bianca nel terzo volume del suo Trattato, campeggia oggi rigogliosamente in 3.318 massime redatte dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.

    Il tradizionale formalismo classificatorio delle obbligazioni, che identificava i vincoli debitorii a seconda della tipologia della prestazione (dare, fare, non fare) e che qualificava l’inadempimento sulla base della esecuzione o non esecuzione di tale prestazione, si è oggi trasformato, nelle pronunce giurisprudenziali, nella sostanziale realizzazione dell’ “interesse creditorio”, che rappresenta la duplicazione del concetto di causa concreta applicato all’obbligazione, prescindendo dalla fonte da cui essa deriva.

    L’obbligazione è dunque il programma che consente di realizzare l’interesse creditorio ed è, di norma, un programma composito, in cui non è possibile distinguere il dare dal fare e dal non fare. Parimenti, l’adempimento non consiste nel dare, nel fare o nel non fare alcunché ma nell’impiego delle energie e dei mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse creditorio; e, infine, l’inadempimento (comprensivo dell’inesatto adempimento e qualificato come imputabile per distinguerlo da quello derivante dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione) non consiste nella mancata esecuzione della prestazione di dare, di fare o di non fare, ma nella condotta colpevolmente inadeguata al soddisfacimento di quell’interesse, la quale si identifica non solo con l’inesattezza esecutiva propriamente detta, ma anche con la violazione dei criteri legali di determinazione della prestazione, quali la diligenza (sotto i diversi profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità) e la buona fede in senso oggettivo, nelle due specificazioni della lealtà e della salvaguardia.

    Sono nozioni oggi acquisite dalla giurisprudenza. Ma sono acquisizioni cui non si sarebbe arrivati senza la guida del Maestro, che ebbe l’intuizione di inserire le clausole generali nella dogmatica dell’obbligazione, raggiungendo il duplice risultato della costruzione di un sistema mirabile e dell’adeguamento dell’ordinamento privatistico ai principi costituzionali.

    Il dialogo del Professore con la giurisprudenza era più che fecondo. La giurisprudenza non era, per Cesare Massimo Bianca, un insieme di pronunce rispetto alle quali assumere un atteggiamento scientifico adesivo o critico a seconda che fossero o meno condivisibili. Essa - quando si raccoglieva in orientamenti consolidati espressi dalle massime della Suprema Corte - era piuttosto la voce del diritto effettivo, perché indicava il significato, la misura e i limiti con cui la coscienza sociale accetta la norma giuridica.

    La giurisprudenza consolidata è, pertanto, l’indice del diritto socialmente accettato ed applicato.

    E il diritto socialmente accettato ed applicato è l’unico diritto possibile, in quanto dall’accettazione sociale della norma deriva lo stesso attributo della giuridicità: la norma, infatti, è giuridica se viene accettata ed applicata come tale dal corpo sociale. Esulano, dunque, dalla nozione stessa di diritto, perché prive di effettività, le norme che il corpo sociale non accetta e non applica come tali, sebbene formalmente valide.

    In quanto indice dell’accettazione sociale delle norme, le massime giurisprudenziali possono bensì essere criticate ma vanno in primo luogo recepite come un dato della società, come il diritto effettivo che in essa vive e trova concreta applicazione. 

    È il diritto effettivo, ad esempio, il fondamento della regola secondo la quale  il debitore risponde dell’inadempimento dell’obbligazione finché non si verifichi un impedimento imprevedibile e insuperabile con l’ordinaria diligenza:  la dimostrazione di un simile impedimento, precisamente, coincide con quella dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile di cui all'art.1218 del codice civile, sicché la prova liberatoria che il debitore è tenuto a fornire si identifica con la prova dell’assenza di colpa.

    La regola della responsabilità per colpa, desumibile dalle massime consolidate della giurisprudenza, concreta dunque la regola di diritto vivente con cui la coscienza sociale formula il giudizio di responsabilità contrattuale, certificando il superamento delle formulazioni tradizionali fondate sulla responsabilità oggettiva, le quali, anche quando temperate dal riferimento al tipo di obbligazione o al limite della buona fede, appaiono inconciliabili con la valutazione sociale dell’obbligazione come vincolo improntato a criteri di normalità e ragionevolezza.

    Sono chiamato ad insegnare il diritto - diceva il Professore - ma che cos’è il diritto? È quello cristallizzato nella proposizione normativa scritta oppure è quello socialmente accettato ed applicato? 

    E che cos’è la norma giuridica? È la mobile regola concreta dei rapporti sociali che si evolve continuamente nel tempo, grazie all’assidua opera dell’interprete, in una con l’evoluzione della coscienza della società? Oppure è l’immobile enunciato scritto contenuto nella fonte di produzione, il quale, secondo il rigoroso insegnamento normativistico, non ostante il processo di integrazione svolto dall’operazione interpretativa, conserva sempre la medesima identità, lo stesso significato originario, così richiamando alla mente il capretto di pirandelliana memoria che rimane il medesimo oggetto di proprietà dell’ingenua turista pur essendosi trasformato nel “mostruoso caprone” in cui la proprietaria non ravvisa più la gentile creatura a suo tempo comprata?

    Una volta – ormai molti anni fa – dopo aver superato il concorso in magistratura manifestai al Professore le perplessità che avevo nel prendere servizio. Avrei voluto fare il professore, non il magistrato. Avrei voluto insegnare il diritto anch’io.

    Paolo – mi disse – come fa ad avere queste perplessità dinanzi alla possibilità di interpretare ed applicare il diritto? Dinanzi alla prospettiva di rendere giustizia?

    Il diritto non sarà mai un mero enunciato scritto. Il diritto è la regola concreta dei rapporti sociali. È l’insieme delle regole socialmente accettate ed applicate. Le regole che il sentimento della società individua come tali e sceglie di rispettare. Questo diritto trova fondamento nel principio di effettività ma tale principio, a sua volta, non opera sulla base di un meccanismo casuale, ma in ragione di un processo collettivo in base al quale il corpo sociale riconosce i valori positivi e i valori negativi, rispettivamente da tutelare o da reprimere, attraverso il diritto.

    Nelle moderne società civili i valori positivi si identificano con la preminenza dei valori della persona, l’unica via della giustizia.

    Questo Suo insegnamento, Professore, io, ultimo tra i Suoi allievi, porterò sempre nella mente e nel cuore, unitamente al ricordo del consiglio amorevole e dell’affetto paterno, con devota gratitudine.

     

     

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