GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La fragilità del “giudicato” e l’incertezza della pena

    LA FRAGILITÀ DEL “GIUDICATO” E L’INCERTEZZA DELLA PENA

    di Stefano Tocci 

    Alla luce dei percorsi interpretativi della Corte europea e della Corte costituzionale l’autore osserva come sia stato eroso il principio del cd. mito del giudicato, che resiste  per  l’accertamento del fatto ma è sgretolato in punto di pena. Se pertanto per  l’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda. 

     

    Sommario: 1. Il “mito” del giudicato. -  2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. -  2.2. Dilatazione dell’operatività dell’ art. 625 bis c.p.p.;  3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena.  4. - Casi di “illegalità della pena” 

    1.  Il “mito” del giudicato

    Il principio secondo il quale nessuno può essere giudicato più volte per uno stesso fatto che abbia già costituito oggetto di accertamento processuale soddisfa, com'è intuitivo, una esigenza fondamentale di giustizia sostanziale. Al diritto del singolo, inoltre, si affianca una primaria esigenza di salvaguardia del sistema nel suo complesso, che passa anche, ma non solo, attraverso la certezza e la vincolatività delle decisioni giudiziarie definitive. In dottrina si sottolinea che il postulato dell’intangibilità del giudicato ha un fondamento politico, non logico, rappresentato dall’esigenza di certezza giuridica nel caso concreto, e già negli anni ‘50 un’autorevole voce aveva invocato l’esigenza di “depurare” l’immutabilità della cosa giudicata “da tutti quegli elementi parossistici e irrazionali, che hanno trasformato questo che doveva essere un istituto di salvaguardia della sicurezza giuridica in una specie di castello turrito, tetragono ad ogni aspirazione di giustizia” .

    Dalla irrevocabilità della sentenza derivino due conseguenze immediate: la prima positiva, perché la decisione acquista una forza esecutiva e secondo le regole dettate dagli artt. 651-654 c.p.p. si impone nei successivi giudizi civili amministrativi e disciplinari; la seconda negativa, in quanto viene impedita la celebrazione di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è già stata condannata o prosciolta in relazione ad esso.

    Oggi si parla sempre più di erosione del principio del giudicato.

    2. Superamento del giudicato in sede processuale: revisione e ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p.

    Va in primis evidenziato che già l’ordinamento processuale conosce, per casi tassativi, la possibilità che il giudicato venga travolto. Mi riferisco all’istituto della revisione disciplinato dall’art. 630 e ss. c.p.p., che costituisce un mezzo di impugnazione straordinaria esperibile senza limiti di tempo. Senza entrare troppo approfonditamente nel tema, collaterale a quello dell’intervento, ritengo sia utile ricordare che l’art. 630 c.p.p. prevede che la revisione possa essere richiesta: 

    - se vi è la non conciliabilità dei fatti posti a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna con quelli di un’altra sentenza penale irrevocabile;

    - se interviene la revoca di una sentenza civile o amministrativa di carattere pregiudiziale che è stata posta a fondamento della sentenza di condanna o del decreto penale di condanna;

    - se sopravvengono nuove prove che da sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto;

    - se viene dimostrato che la condanna è stata pronunciata a seguito di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto che la legge prevede come reato.

    A pena di inammissibilità della domanda, l’art. 631 c.p.p. sancisce che gli elementi in base ai quali la revisione va richiesta siano tali da dimostrare, se accertati, che il condannato debba essere prosciolto con sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.), di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.) o di non doversi procedere per estinzione del reato (art. 531 c.p.p.). 

    E’ evidente che la latitudine dell’intervento rescindente è determinata, direi inevitabilmente, anche dalla forza ermeneutica della sensibilità demolitrice dell’interprete. Secondo un criterio di proporzionalità inversa, minore diventa l’esigenza di invarianza del decisum,  tanto più si allargano i margini di ammissibilità della istanza di revisione.

    Quanto alle prove nuove, ad esempio, la Suprema Corte (Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 53236 del 20/09/2018 Cc.  -dep. 27/11/2018- Rv. 274185 – 01) ha affermato che è ammissibile l'istanza di revisione conseguente ad una nuova prova che mette in discussione l'attendibilità di una chiamata di correo, quando si contesta la reale esistenza di un fatto storico che ha rappresentato il riscontro esterno alle dichiarazioni del chiamante (fattispecie in cui il chiamante aveva ammesso di aver ucciso, in concorso anche con l'istante, un minore, mediante colpi di bastone e di roncola, e successivamente di aver fatto a pezzi e bruciato il cadavere, circostanze in realtà non compatibili con il successivo ritrovamento, a distanza di anni, del corpo integro della vittima, che non presentava lesioni scheletriche tipiche di chi ha subito bastonate e fendenti). In tal caso non è quindi una prova nuova di per sé idonea a sovvertire l’esito del giudizio ad essere presa in considerazione, bensì l’emergere di un nuovo elemento di fatto ritenuto, in fase rescindente, idoneo a mettere in crisi la credibilità del chiamante in correità la cui deposizione ha costituito prova nei modi e nei termini di cui all’art. 192 c.p.p.. Ma vi è di più: la Suprema Corte (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 17170 del 31/01/2017 Ud.  -dep. 05/04/2017- Rv. 269826 – 01) ha anche affermato che in tema di revisione, rientra nella nozione di "prova nuova" la rilevazione della mancanza della condizione di procedibilità del reato per cui è stata emessa sentenza di condanna, in quanto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 630, comma primo, lett. c), cod. proc. pen, devono considerarsi tali sia le prove preesistenti, non acquisite nel precedente giudizio, sia quelle già acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice. Pertanto, il rilevamento postumo della insussistenza di una condizione di procedibilità costituisce “prova nuova”. A tal fine appare opportuno evidenziare che l’art. 187 del codice di procedura penale, stabilisce che sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza ma sono anche oggetto di prova, i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.

    Tra gli strumenti atti a sgretolare il giudicato, contemplati dal codice di rito, va menzionato il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., a mente del quale è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione. Già la lettera della norma evidenzia come non si tratta di uno strumento atto semplicemente a risolvere qualche problema di refuso di stampa, e la valutazione, quando si discetti di errore di fatto, può effettivamente comportare uno stravolgimento del decisum in realtà divenuto irrevocabile a seguito della pronuncia della Suprema Corte conclusiva del processo.

    La giurisprudenza, nell’applicazione di tale istituto, ha posto dei paletti interpretativi  ben precisi: l'errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del rimedio previsto dall'art. 625 bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6 comma 6 L.n. 128/2001,  consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 47316 del 01/06/2017 Cc.  -dep. 13/10/2017- Rv. 271145 – 01); Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di Cassazione può avere ad oggetto l'omessa considerazione di una prova esistente, ma non il travisamento della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29450 del 08/05/2018 Cc.  -dep. 27/06/2018- Rv. 273060 – 01); ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p. non possono trovare ingresso questioni di diritto nonché questioni che presuppongono un percorso valutativo (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21939 del 17/04/2018 Cc.  -dep. 17/05/2018- Rv. 273062 – 01).

    Tant’è vero, consequenzialmente, che è stato ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto al fine di ottenere la revoca della condanna inflitta per fatti di concorso esterno in associazione mafiosa commessi antecedentemente al 1994, rientranti nell'orientamento espresso dalla sentenza Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 43886 del 06/07/2016 Cc.  -dep. 17/10/2016- Rv. 268563 – 01).

    Va ricordato però che la stessa Suprema Corte, col caso “Drassich”, è incorsa nella necessità di abbattere i suddetti paletti.

     

    2.2. Dilatazione dell’operatività dell’art. 625 bis c.p.p. 

    La Corte di Strasburgo (decisione 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia) aveva ritenuto iniqua la decisione della Corte di Cassazione che aveva ex officio riqualificato il fatto contestato in termini più gravi per il ricorrente, incorrendo nell’inosservanza dell’art. 3 lett. a) CEDU che riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti, in funzione di predisporre ed esercitare le prerogative difensive di cui alla lett. b) del paragrafo 3 del medesimo articolo.

    La Suprema Corte (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 45807 del 12/11/2008 Ud.  - dep. 11/12/2008 -  Rv. 241754 – 01) in primis  ha affermato che in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio, è conforme al principio statuito dall'art. 111, secondo comma Cost., che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso. Ne consegue che si impone al giudice una interpretazione dell'art. 521 comma primo cod. proc. pen. adeguata al "decisum" del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati. Quindi può farsi ricorso alla procedura straordinaria di cui all'art. 625 bis cod. proc. pen. per dare esecuzione ad una sentenza della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che ha rilevato una violazione del diritto di difesa occorsa nel giudizio di legittimità e che abbia resa iniqua la sentenza della Corte di cassazione, indicando nella riapertura del procedimento, su richiesta dell'interessato, la misura interna per porre rimedio alla violazione contestata. Più precisamente, quanto alle modalità di intervento sul caso concreto, la Corte europea ha rilevato che, in mancanza di richiesta di equo soddisfacimento "l'avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell'interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata". La Suprema Corte spiega in sentenza perché non è la revisione ex art. 630 c.p.p. lo strumento tecnico da adoperare per rimediare, e quindi seguendo una lettura interpretativa analogica suggerita dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale è pervenuta all’affermazione che si può applicare all'ipotesi de qua uno strumento giuridico modellato sull'istituto introdotto dall'art. 625 bis c.p.p,. chiamato a rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell'ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte della Cassazione. La forzatura mi sembra evidente, apparendo tale lettura ermeneutica un po’ in collisione col principio di tassatività delle impugnazioni e credo che il senso della forzatura era ben presente alla Corte, che ha tenuto a sottolineare, in motivazione, che: << nel caso specifico, si è in presenza di violazione affermata dalla Corte europea; violazione che trova la sua immediata tutela nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e nel citato art. 111 Cost., comma 2. In conclusione, vi è una parziale "rimozione" del giudicato, nella parte in cui esso si è formato nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto di difesa, che si è tradotto in una "iniquità" della sentenza, "iniquità" che non è scaturita da preclusioni processuali addebitabili al ricorrente, bensì dal "governo" del processo da parte del giudice. Mette conto - a completamento dell'area degli argomenti giuridici - che nel bilanciamento di valori costituzionali, da un lato, quello della funzione costituzionale del giudicato e, dall'altro, quello del diritto a un processo "equo" e a una decisione resa nel rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire sull'accusa, non può che prevalere quest'ultimo; e proprio la prevalenza di quest'ultimo valore ha determinato il legislatore a introdurre il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. contro le sentenze della Corte di cassazione>>. Come dire: il principio del giudicato deve comunque cedere innanzi ai diritti fondamentali dell’imputato e lo strumento più idoneo contemplato dall’ordinamento è il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625 bis c..p.. La dilatazione esegetica del ricorso straordinario ha trovato poi applicazione anche allorquando la CEDU, con decisione 17.09.2009, caso Scoppola c. Italia, ha rilevato l’iniquità del trattamento sanzionatorio subito dall’istante che si era visto applicare la pena dell’ergastolo all’esito di giudizio con rito abbreviato sebbene nel momento in cui era stato ammesso al rito alternativo la pena massima erogabile era trent’anni di reclusione. La Suprema Corte, prendendo atto della rilevata violazione degli artt. 6 e 7 CEDU ha ritenuto nuovamente che la strada maestra per rimuovere l’iniquità fosse il meccanismo di cui all’art. 625 bis c.p.p., confermano così la duttilità dello strumento atto a rimuovere violazione accertate dalla Corte Europea, e confermando così l’impossibilità di tenere in vita il giudicato reso in violazione di diritti fondamentali dell’individuo, anche in punto di sanzione penale.

     

    3.- La “flessibilità” del giudicato in punto di pena

    La flessibilità del giudicato in riferimento della pena ha conosciuto però una evoluzione interpretativa che è andata oltre alla necessità di provvedere, caso per caso, ad eventuali iniquità rilevate dalla Corte Europea. Va premesso che anche per la pena esistono disposizioni normative espressamente dirette ad incidere sulla cosa giudicata: ad esempio la possibilità di rideterminazione della pena in fase esecutiva in caso di riconoscimento della continuazione o del concorso formale tra reati (art. 671 c.p.p.), ovvero si guardi alla sempre più ampia differenziazione tra pena irrogata nella fase di cognizione, “cristallizzata” dall’irrevocabilità della sentenza, e pena effettivamente eseguita nella fase di esecuzione, con l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (al di là del differente regime esecutivo che comporta, si pensi alla liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 OP che determina una riduzione del quantum da espiare in ragione dell’adesione del condannato all’opera di rieducazione, ossia al programma trattamentale di risocializzazione) ha condotto la dottrina a riscontrare anche in riferimento alla pena la “cedevolezza del giudicato”, per cui sembra emergere una duplice dimensione del giudicato penale: una dimensione relativa all’accertamento del fatto, realmente intangibile, non essendo consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie di cui si è detto, una rivalutazione del fatto oggetto del giudizio, e tendenzialmente posta a garanzia del reo (presunzione di innocenza e divieto di bis in idem) però cedevole solo a fronte di violazione dei diritti fondamentali e costituzionali dell’imputato, ed una differente dimensione relativa alla determinazione della pena, che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), appare maggiormente permeabile alle “sollecitazioni” provenienti ab extra rispetto alla res iudicata.

    Come detto, col caso “Scoppola” la Suprema Corte aveva rinvenuto un rimedio processuale all’iniquità della pena attraverso il ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p., ma successivamente due arresti delle Sezioni Unite hanno stabilito dei punti fermi a cui la giurisprudenza successiva porta tributo: premesso che la questione atteneva alla possibilità che violazioni identiche a quella di cui al caso “Scoppola” fossero rimediabili anche in assenza di pronunciamento specifico dei giudici di Strasburgo, con l’ordinanza “Ercolano” (SS.UU. n. 34472/2012) le Sezioni Unite hanno ribadito che “è l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche in executivis, alla << più alta valenza fondativa dello statuto della pena>>”; con la sentenza Ercolano (Cass. SS.UU. 18821/2013) si afferma che nel caso considerato non si tratta di procedere ad una riapertura del processo funzionale ad un nuovo giudizio di cognizione bensì di rideterminare il trattamento sanzionatorio rivelatosi ex post costituzionalmente illegittimo, per cui lo strumento adatto diventa la procedura ex art. 670 c.p.p. di competenza del Giudice dell’esecuzione, di cui si amplia anche in tal caso, come precedentemente per l’art. 625 bis c.p.p., l’ambito operativo, facendovi rientrare le questione relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo. Le SS.UU. sul caso “Ercolano” quindi aprono la strada allo sgretolamento del giudicato in punto di pena in caso di violazione di norma convenzionale, ormai risolvibile in sede esecutiva, e direi completano l’opera con la sentenza n. 42858/2014 sul caso “Gatto” in cui espressamente si afferma che il diritto fondamentale della libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, di cui si ripudia la concezione assolutistica come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza, demolendo così il limite di espansione della retroattività delle pronunce della Corte Costituzionale. Con la sentenza “Gatto” si ribadisce l’utilizzabilità dello strumento dell’incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., come rimedio.

     

    4- Casi di “illegalità della pena”

    Il caso più eclatante di “illegalità della pena” sopravvenuta, fronteggiato negli ultimi tempi dai Giudici dell’esecuzione, è sicuramente quello conseguente alla pronuncia della Consulta in materia di stupefacenti, ossia la sentenza n. 32 del 2014, che ha condotto le SS.UU. ad affermare che la pena applicata, anche con sentenza di patteggiamento, avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (SS.UU. Sentenza n. 37107 del 26/02/2015 Cc.  -dep. 15/09/2015- Rv. 264857 – 01).  Il giudice dell'esecuzione - richiesto di adeguare il trattamento sanzionatorio in precedenza determinato per l'illecita detenzione di "droghe leggere" sulla base dei limiti edittali di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014 - deve procedere alla rideterminazione della pena sulla base dei criteri previsti dall'art. 133 cod. pen., sia nel caso di pena illegale in quanto superiore ai limiti edittali previsti dalla normativa oggetto di reviviscenza, sia nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali appena indicati (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36357 del 19/05/2015 Cc.  -dep. 09/09/2015- Rv. 264880 – 01). La Sez. 3 infatti chiarisce che al Giudice dell’esecuzione è inibita qualsiasi operazione di riduzione meramente automatica o aritmetico proporzionale, dovendo invece fare necessariamente uso dei poteri discrezionali ed adeguare in tal modo la pena, con congrua motivazione, al disvalore penale del fatto, come accertato dal giudice della cognizione, attraverso un procedimento di determinazione del trattamento sanzionatorio autonomo che tenga conto dei limiti edittali minimi e massimi previsti dalla fattispecie ripristinata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di quella espunta ex tunc dall'ordinamento.

    Rileva, ai fini in esame, anche l’intervento della Corte costituzionale, sentenza 23 marzo 2016, n. 56 che ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»".

    A seguito dell'intervento del Giudice delle leggi, dunque, ai fini dell'integrazione dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non è più sufficiente che la condotta ricada su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori o su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142, essendo anche necessario che le opere realizzate siano di notevole impatto volumetrico e che superino, dunque, i limiti quantitativi previsti dalla lettera b) dell'art. 181, comma 1-bis. Infatti, la declaratoria di parziale incostituzionalità, per irragionevolezza sanzionatoria, del comma 1-bis dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, ha circoscritto il precetto del delitto paesaggistico ai soli interventi volumetrici di particolare consistenza, trasferendo una porzione del fatto tipico nell'ambito di operatività del precetto contravvenzionale.

    Da ciò deriva l'illegalità sopravvenuta, per sproporzione, della pena in precedenza inflitta ed anche la necessità che il tempo necessario a prescrivere venga parametrato non più sul delitto ma sulla contravvenzione. Trattandosi  quindi di pena illegale è consequenziale che, se il giudizio non è ancora definito, la sanzione finale sarà quella tipica delle contravvenzioni, mentre in sede di legittimità il trattamento sanzionatorio sarà oggetto di pronuncia di annullamento parziale e comunque si dovrà fare i conti con il minor termine prescrizionale; in caso di sentenza irrevocabile il giudicato dovrà cedere ricorrendo una ipotesi di pena illegale, ed il Giudice dell’esecuzione sarà investito dei poteri di valutazione discrezionale che competevano al Giudice della cognizione. Ed invero la Suprema Corte ha affermato che il giudice dell'esecuzione, richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta "abolitio criminis", ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, né valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, deve accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, a tal fine, può effettuare una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito ed utilizzare elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, siano divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull'imputazione contestata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5248 del 25/10/2016 Cc.  -dep. 03/02/2017- Rv. 269011 – 01). Cristallizzato quindi il fatto per come accertato, il Giudice dell’esecuzione, nella materia qui esaminata, dovrà valutare se lo stesso sia ancora sussumibile sotto la fattispecie delittuosa dichiarata incostituzionale ovvero ricada nell’ipotesi contravvenzionale: in tal caso, perseverando l’illiceità penale del fatto per cui è condanna, è la parte sanzionatoria a presentare carattere di illegalità, risultando il fatto, accertato in sentenza, ancora previsto dalla legge come reato ma sanzionato con pena di specie diversa dal modello legale.

    Alla luce dei percorsi interpretativi seguiti deve quindi ritenersi ampiamente eroso il principio del cd. mito del giudicato, apparendo ancora resistente quello in riferimento all’accertamento del fatto ma sgretolato in punto di pena.

    Se pertanto in riferimento all’accertamento del fatto il “giudicato” costituisce un mito, in relazione alla pena è ormai diventato leggenda. 


    *Relazione per l’incontro di studio “Il giudicato penale: limiti di tenuta ed ipotesi di superamento” presso la S.S.M. 30 gennaio – 1 febbraio 2019, sul tema “ Le decisioni della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo: la pena diventa illegale?”

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