GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite. ​Commento a Sezioni Unite penali, 27 maggio 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36958, ric. Modaffari, rel. Pellegrino di Andrea Apollonio

    La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite

    Commento a Sezioni Unite penali, 27 maggio 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36958, ric. Modaffari, rel. Pellegrino

    di Andrea Apollonio  

    La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario, che pone in serio e costante pericolo, minandole, le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.  

    Sommario: 1. Le ragioni di una pronuncia “storica” - 2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione) - 3. L’adesione al sodalizio (il partecipe) - 4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte - 5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario.  

    1. Le ragioni di una pronuncia "storica"  

    La Cassazione torna a pronunciarsi sui profili applicativi del reato di associazione mafiosa e questa volta lo fa - per la prima volta e a distanza di quarant’anni dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 416-bis c.p. - a Sezioni Unite[1]. D’altronde la tematica mafiosa è divenuta, in specie negli ultimi anni, d’estrema complessità e di non agevole inquadramento pretorio e concettuale[2], atteso il fiorire, in specie presso la giurisprudenza di legittimità, di molteplici e del tutto inediti tipi associativo-mafiosi: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord (mafie "dislocate"), mafie politico-amministrative, mafie "silenti", mafie "inattive", e così via[3]

    L’esigenza di pervenire al vaglio dell’alto consesso nomofilattico emergeva da un contrasto giurisprudenziale ormai sistematicamente insostenibile, che andava ben oltre la specifica questione rimessa relativa all’adesione alla struttura mafiosa: su un più generale piano afferente alla natura dell’associazione, tale contrasto vedeva fronteggiarsi - più che due diversi orientamenti esegetici - due diverse concezioni del reato associativo: l’una tesi, che propugna la natura di pericolo astratto del delitto, definendo l’art. 416-bis come una species di un più ampio genus individuato nell’art. 416, in cui elemento peculiare è il metodo mafioso che non necessariamente deve estrinsecarsi (vertendo quindi, la prova, sull’esistenza stessa dell’ente collettivo)[4], con estensione applicativa della fattispecie in virtù degli interessi di rango primario protetti dalla norma (compendiabili nella tenuta dell’ordinamento democratico)[5]; l’altra, che richiede la manifesta concretezza di tale pericolo, fin quasi a definire la norma una fattispecie di danno: un danno che viene individuato proprio nell’utilizzo del metodo mafioso, che deve essere interpretato nella sua dimensione oggettiva, ossia deve essere proiettato fuori la cosca, riconoscibile all’esterno e suscettibile in quanto tale di una concreta e fattuale verifica[6]

    «Da qui - evidenzia la Corte - la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale»: e tale ricerca di soluzioni appaganti e sistematicamente sostenibili non può che riguardare, tenendosi tutto, i due inscindibili aspetti dell’esistenza, rilevabile e punibile, dell’associazione come della partecipazione ad essa (su cui specificamente si sollecitava la risoluzione dei contrasti interpretativi).   

    Con un tale sfondo, convulso e dibattuto, le Sezioni Unite venivano quindi chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: "Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cp. e della struttura del reato dalla norma previsto".  Il contesto empirico-criminologico in cui si inquadra la questio iuris è ben diverso da quello delle "nuove" mafie, trattato con specifici statuti esegetici dalla giurisprudenza più recente[7]: la questione involge infatti la partecipazione ad un’associazione mafiosa storica[8]; e per meglio comprendere, molto utile risulta il richiamo al caso concreto.

    Due soggetti venivano attinti da misura di custodia cautelare essendo ritenuti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis. Secondo la prospettazione accusatoria, costoro erano partecipi di un’articolazione di ‘ndrangheta operante a Sant’Eufemia d’Aspromonte, funzionalmente dipendente dal "locale" di ‘ndrangheta di Sinopoli capeggiato dalla cosca Alvaro: la cui presenza e mafiosità era stata accertata in plurime sentenze di condanna irrevocabili. La misura cautelare per i due ricorrenti veniva emanata a seguito dell’accertamento della loro rituale affiliazione, dei loro "battesimi" (detti anche "battezzi"), mediante conversazioni captate tra altri soggetti (sodali con posizioni apicali nel gruppo mafioso), da cui si evinceva chiaramente l’avvenuta affiliazione dei due. Il tribunale del Riesame, la cui ordinanza veniva impugnata innanzi la Suprema Corte, proprio sulla base di dette conversazioni riteneva dimostrata l’avvenuta affiliazione e quindi la partecipazione alla consorteria, atteso che - secondo il tribunale - tale delitto si perfeziona già attraverso l’inserimento formale della persona nell’organizzazione criminale (storica), senza che sia necessario il compimento di specifici atti attuativi del disegno criminoso.      

    2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione)  

    Sebbene il caso sotteso s’inquadri in una specifica cornice criminologica (quella appunto delle mafie storico-tradizionali), la Corte coglie l’occasione per intraprendere un percorso ricostruttivo che leghi assieme le "vecchie" e le "nuove" mafie[9], individuando incidenter tantum alcuni principi che vanno necessariamente connessi alla struttura della fattispecie di cui all’art. 416-bis. E’ insomma, quella a cui procede la Corte nel suo più autorevole consesso, un’operazione di complessivo riordino ermeneutico della materia, punto d’arrivo delle tante sollecitazioni giurisprudenziali accumulatesi negli ultimi anni.

    Come detto, è preliminarmente, sull’an dell’associazione che la Corte si sofferma (soffermandosi nel punto di convergenza più dibattuto in dottrina e giurisprudenza sul terreno delle mafie diverse da quelle tradizionali)[10]: sulla modalità con cui la cosca, per essere ritenuta sussistente, e sanzionarne penalmente l’esistenza, dovrebbe estrinsecare la propria forza di intimidazione, e dunque il metodo mafioso. 

    Ed infatti, dopo aver ripercorso le varie tesi[11], i giudici ritengono che, per svolgere una corretta ermeneusi della locuzione normativa "si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo" occorre«riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso», in ossequio ai principi di materialità e offensività. Nondimeno, dalla necessità che la capacità intimidatrice«sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto il profilo relativo alle modalità, del tutto libere, con cui tale capacità si esteriorizza».

    Quindi, se da un lato è inequivoco il dato letterale, che non consente di conferire rilievo alla mera intenzione di avvalersi del metodo mafioso e ne necessita, all’opposto, una concreta attivazione, dall’altro - ricorda la Corte - non possono sottacersi le differenze ontologiche, tipologiche ed operative tra i diversi tipi di mafie, ed in specie tra le mafie "vecchie" e "nuove"[12]. I giudici infatti ritengono«necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti».

    Come insegna l’esperienza giudiziaria e l’osservazione di taglio socio-criminologico del fenomeno, l’intimidazione e l’assoggettamento nei confronti della popolazione può derivare dalla sola presenza del sodalizio sul territorio e dalla fama criminale che il gruppo ha generato per mezzo di un pregresso e continuato utilizzo della violenza[13]. In un tale contesto di radicamento mafioso[14] la rappresentazione del metodo avviene in ragione di condotte molto meno significative sul piano normativo, dacché il  sodalizio mafioso, per il sol fatto di essere tale, già è pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla base del vincolo e del suo manifestarsi. Il metodo statico presuppone l’accumulo, nel tempo, di un patrimonio di intimidazione spendibile anche, e sopratutto, in assenza di condotte non esplicite: è proprio questa ipotesi ad afferire alle "modalità libere" con cui la capacità mafiosa si esteriorizza.

    Si può quindi distinguere il metodo statico dal metodo dinamico[15], a seconda che vi sia o meno il concreto esercizio della condotta intimidatrice (il requisito della violenza o della minaccia esplicita); e dire, altresì, che tra le fila della mafia tradizionale si sfrutta ordinariamente il metodo statico, sebbene non possa escludersi un utilizzo della violenza, ovverosia del metodo dinamico. Quest’ultimo pare invece essere una linea d’azione obbligata per le "nuove" mafie, quelle di nuovo conio ed anche per le mafie storiche ma "dislocate"[16], poiché il territorio di riferimento della cosca non è più quello in cui si è radicata - e su di essa può farsi leva - la "fama criminale" della famiglia mafiosa "madre"[17].

    Secondo la Corte, il metodo deve coagularsi attorno ad una comunità di riferimento e va dedotto fattualmente:«ciò che conta è che l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale»[18].

    L’associazione insomma in tanto esiste in quanto esprime il suo metodo: che esso sia statico o dinamico, va però sempre«inteso nel suo senso oggettivo: quest’ultimo infatti non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche». Il metodo, per la verifica del suo effettivo esercizio, va sempre calato«nel contesto di riferimento», derivandone che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica; non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.

    Questo ragionamento, collegato al caso sotteso e decriptato nel cifrario giurisprudenziale, ha un significato preciso: tutti i tipi mafiosi, vecchi e nuovi, proprio perché vanno fattualmente riscontrati, necessitano di essere calati nel loro contesto di riferimento, da cui deve emergere empiricamente l’esercizio ovvero la perduranza degli effetti di un già esercitato metodo mafioso; diversamente, vorrebbe dire presumere l’esistenza (e l’immanenza) di un elemento costitutivo del reato, con relativo pregiudizio dei canoni di materialità e offensività del reato[19]

    È indubbio, al tempo stesso, che tale sforzo probatorio è vieppiù semplificato nei casi ordinari di esercizio di un metodo statico: ove cioé si considerino le mafie storiche nei loro contesti territoriali di riferimento, in cui omertà e assoggettamento sono appunto storicamente - e giudiziariamente - riscontrati: ed è certamente il caso della cosca Alvaro nel reggino, che fa da sfondo alla vicenda rimessa alla Corte.        

    3. L’adesione al sodalizio (il partecipe)  

    È bene precisare che la Corte non intende riscontrare l’associazione, foss’anche una mafia storico-tradizionale, sulla base di massime di esperienza: anzi, da parte dei giudici si nota una diffidenza epistemologica di fondo nell’utilizzo delle massime di esperienza, affiancato da più d’un richiamo ai rischi di un utilizzo probatoriamente scorretto delle stesse.«Invero, solo la verifica dell’applicabilità della regola prescelta consente, in definitiva, la sostituzione dell’ id quod semper necesse all’ id quod plerumque accidit, criterio che - unico - permette di raggiungere l’alto grado di probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata permettendo il superamento del dubbio ragionevole».

    E tuttavia, in una materia come quella in trattazione, non può negarsi il patrimonio giudiziario (e d’analisi scientifica) nel frattempo acquisito, e quindi«l’utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose»; che è anzi necessario per comprendere il reale significato di fatti di nattura prettamente sociologica (quali l’affiliazione rituale) che, trattati in astratto, potrebbero non avere alcuna rilevanza giuridica: in questo senso, immancabilmente, le massime di esperienza sono utili strumenti di interpretazione, più che per l’oggetto di giudizio in sé, per il loro contesto.

    È dentro questa cornice sistematico-esegetica che la Corte afferma:«Se il presupposto che "lega" l’adepto alla consorteria è il suo stabile inserimento nella stessa, è innegabile come questo vincolo possa realizzarsi o in modo formale, attraverso i classici rituali di adesione e con la comprovata "messa a disposizione" ovvero, in concreto, con il compimento di azioni, preventivamente assegnate, teleologicamente orientate alla realizzazione degli scopi associativi».

    È bene chiarire che il modello di riferimento per una meccanica d’ingresso formale nel sodalizio è, sempre, quello delle mafie tradizionali, in cui il "battesimo" è notoriamente il presupposto per lo stabile inserimento nell’organigramma associativo da parte del sodale; ma non l’unico, potendosi dedurre la partecipazione anche in concreto, mediante il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione, che ne comprovino, indubitabilmente, la fidelizzazione dei comportamenti e il rispetto delle gerarchie: la "messa a disposizione", appunto. In quest’ultimo caso, l’esercizio in concreto di ciò che è (sul piano soggettivo) l’affectio societatis«non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza», mentre«l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la "messa a disposizione" del soggetto». L’adesione formale al sodalizio, quindi, non sarebbe di per sè sufficiente ad integrare il requisito della partecipazione; neppure nel contesto di una mafia tradizionale, in cui il "battesimo" può avere un solo ed univoco significato.

    Conseguentemente la Corte, in uno spirito di«irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria», elenca quelle circostanze - recte: indici probatori in ordine alla partecipazione - che sul punto possono venire in rilievo: la "qualità" dell’adesione e il tipo di percorso che l’ha preceduta; la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando; la "serietà" del contesto ambientale in cui la decisione è maturata; il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei "poteri" di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti; la tipologia del reciproco impegno preso; la misura della disponibilità pretesa e/o offerta[20]

    Quindi:«l’incriminazione del fatto iniziale, non accompagnato da altri indici rivelatori della stabile adesione, significa inevitabilmente punire una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione». Da qui il corposo principio di diritto[21] e l’annullamento dell’ordinanza cautelare, essendo«rimasto del tutto inesplorato il profilo relativo alle attività eventualmente svolte dai due ricorrenti in favore del sodalizio criminale di ritenuta appartenenza».    

    4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte  

    Al netto del pregevole sforzo ricostruttivo, che consente il riordino esegetico di due profili assolutamente centrali, quali l’an dell’associazione mafiosa (avendo i giudici fissato la soglia  di riscontro fattuale oltre la quale può dirsi integrato il reato associativo) e la partecipazione alla stessa (da accertarsi in concreto sulla base di precisi indici probatori[22] o comunque sulla scorta di ogni altro elemento di fatto), e pur dovendosi apprezzare l’ancoraggio saldo dei principi enucleati ai canoni di materialità e offensività, nonché la fuga da ogni forma di responsabilità da posizione o da status[23], si coglie un eccesso di astrazione argomentativa laddove non si ritenga sufficiente l’affiliazione rituale, in quanto tale accertata, a comprovare la partecipazione all’associazione (storica); questa  circostanza andrà considerata quale indizio, seppur grave, quindi non sufficiente per sé sola ad integrare il reato, essendo appunto necessario un quid pluris«capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa».

    L’astrazione del ragionamento della Corte si ravvisa, invero, nel porre un principio generale del tutto scisso dai contesti socio-criminologici di riferimento dell’associazione mafiosa: perché se lo sforzo probatorio ulteriore - ed oltre la mera affiliazione - non può omettersi nel caso delle "nuove" mafie, a struttura non tradizionale, e che in ogni caso non derivino da associazioni storiche che ritualmente utilizzano ancora il "battesimo", in cui è sempre necessaria (in assenza di dati empirici e d’esperienza storicamente consolidati) una verifica in concreto delle modalità di partecipazione, ontologicamente diversa è la valutazione da svolgere su una mafia storica[24].

    Una contraddizione, in altri termini, sembra cogliersi laddove da un lato la Corte, nello sforzo di rendere intellegibile l’esercizio del metodo e la presenza sul territorio di un gruppo rientrante nel fenotipo di cui all’art. 416-bis, correttamente distingue le "vecchie" mafie dalle "nuove", riconoscendone una strutturale diversità, non solo sul piano degli effetti criminosi e dell’infiltrazione sociale ma anche su quello organizzativo-funzionale: giacché una mafia storica (ed in particolare la ‘ndrangheta, certamente quella più tradizionale e più saldamente ancorata a meccanismi di affiliazione e funzionamento che si tramandano da generazioni), proprio per essere tale, ha regole sue proprie, che costituiscono ormai patrimonio conoscitivo della collettività e degli operatori del diritto. Eppure dall’altro lato, dentro un ragionamento che sembra più accorto nel ripercorrere le argomentazioni della sentenza "Pesce" anziché compiersi del tutto, non si esegue alcuna distinzione tipologica sotto il profilo dell’adesione punibile al sodalizio; tanto che viene omesso, nel principio di diritto enucleato, ogni riferimento alla mafia storica, riferimento invece presente - perché dirimente - nel quesito sottoposto all’organo nomofilattico[25].

    Di interesse, al riguardo, è la memoria depositata dal procuratore generale che ha chiesto di dichiararsi inammissibili i ricorsi. Secondo il pubblico ministero, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite andrebbe declinato diversamente:«Non si tratta, infatti, di attribuire di per sé un significato univoco a una frazione di condotta, ma di ricondurre quella condotta al contesto criminale oggetto di prova»: da qui, l’importanza di ricostruire«in termini probatoriamente certi, la struttura del sodalizio criminoso e di conseguenza il significato che in quel contesto alla cerimonia di rituale iniziazione viene attribuito».

    Posto che la giurisprudenza di legittimità è granitica nell’affermare che la partecipazione al sodalizio criminale mafioso è del tutto indipendente dalla commissione di specifici reati o da condotte attuative del progetto criminoso dell’associazione, la manifestazione di volontà deve inserirsi nella struttura dell’organizzazione, venendone riconosciuta e apportandovi un contributo effettivo, anche per la sola "messa a disposizione".«E questo - afferma il procuratore generale - è un tema di prova, solo di prova»[26].

    Ora, è di tutta evidenza che nel contesto ‘ndranghetista, ed in particolare nel tradizionale contesto reggino oggetto di indagine prima e di giudizi cautelari poi, l’affiliazione rituale ha una comprovata e ineludibile valenza partecipativa; che trattasi - l’affiliazione rituale - di una chiara e non fraintendibile "messa a disposizione" e che, in questo preciso contesto storico-tradizionale, richiedere la prova di dati di fatto ulteriori vorrebbe dire avventurarsi nell’esplorazione del - diverso - tema probatorio dell’attuazione del programma criminoso, ed eludere per questa via la struttura del reato come formulato dal legislatore del 1982, che richiede la mera partecipazione. 

    Se tutto in effetti ruota attorno alla prova della partecipazione, e se la prova comporta l’acquisizione di dati di fatto in uno con la loro intepretazione nel concreto contesto di riferimento, non può negarsi che quest’ultimo cambi a seconda del diverso panorama criminologico: che si tratti di una mafia tradizionale, saldamente e storicamente radicata sul territorio, dalla mappatura ben intellegibile e dai chiari meccanismi di funzionamento, perché più volte giudiziariamente accertati (è il caso, appunto e sopratutto, dei locali di ‘ndrangheta), ovvero di mafie di nuovo conio, dalle strutture più diverse e per loro stessa natura inesplorate.

    Cosicché, nel contesto esaminato, non può non considerarsi l’affiliazione rituale quale forma di partecipazione punibile, fatta salva, s’intende, l’eventuale emergenza di risultanze processuali idonee a smentire tale regola di esperienza.

       D’altro canto anche la Corte ribadisce che«la disponibilità conclamata resa con il prestato giuramento di mafia, che può rendere ipotizzabile il contributo partecipativo del soggetto, può essere probatoriamente contraddetta» da altri dati di fatto. Da tale argomentazione, però, scaturisce una diversa conclusione; essa viene valorizzata e posta a supporto dell’esigenza di riscontrare concretamente, probatoriamente - non l’associazione, bensì - la singola partecipazione; anche al cospetto di regole mafiose interne precise, inequivoche e perpetrate da generazioni[27].      

    5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario  

    La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’ an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario[28], che pone in serio e costante pericolo le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.

    Ed invero, il lignaggio di pericolo concreto di cui deve ritenersi portatrice la norma in relazione a beni giuridici di tale rilevanza, va sicuramente ricondotto, per quanto sopra detto, all’esercizio del metodo mafioso da parte dell’associazione (non potendosi punire mere entità associative prive di proiezioni delittuose all’esterno)[29], senza però utilizzare il medesimo schema inferenziale anche - come sembra suggerire la sentenza - per le forme partecipative all’ente[30], che vanno sempre coniugate alla littera legis e poi affianacate all’analisi - non dell’associazione criminale, ma - del tipo di mafia a cui si riconnettono.

    Invero, in questa pronuncia solida, che si muove nel solco della giurisprudenza più attenta ai canoni dell’offensività del reato[31] e mostra piena e dettagliata consapevolezza del lungo cammino pretorio in subiecta materia, ma forse non del tutto centrata rispetto al quesito (dal preciso riferimento socio-criminologico) posto dalla sezione remittente, non colgono nel segno i riferimenti normativi sovranazionali e sistematici[32] effettuati dalla Corte, che per assoluta diversità di obiettivi politico-criminali non si attagliano al caso vagliato dell’affiliazione rituale ad un’associazione mafiosa (tradizionale).

    Da un lato si richiama la nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta alla criminalità organizzata[33], la quale - benché priva di qualsivoglia riferimento alle oggettive peculiarità del fenomeno mafioso - finirebbe per«orientare l’interpretazione del dato normativo interno»; dall’altro si fa riferimento ad una fattispecie recentemente introdotta (quella di cui all’art. 270-quater, rubricato "Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale")  in cui il legislatore«ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento»[34], introducendo appunto una previsione incriminatrice ad hoc:«il che ulteriormente evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnate da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé ricompreso nella nozione tipica di partecipazione».

    Anche volendo valorizzare quest’ultimo dato sul piano sistematico, rimane improprio il parallelismo tra mero arruolamento per finalità terroristiche e affiliazione rituale ad una mafia[35]: che è notoriamente, ove beninteso si appuri la serietà dell’affiliazione, una scelta di vita di carattere assoluto, ove l’associato viene ad appartenere alla mafia sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole, regole che neppure consentono una facile e agevole dissociazione; nell’affiliazione rituale, nel contesto di una mafia tradizionale, è immanente l’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa. E ciò, va ribadito, è patrimonio empirico-conoscitivo pressoché granitico[36].

    Neanche l’ampio spazio riservato alle argomentazioni delle Sezioni Unite "Mannino" del 2005, che come noto riscattano il paradigma organizzatorio "puro" sviluppandolo nella sua dimensione integrata (o mista)[37] e da cui si evincerebbe un inserimento associativo combinato con un apporto individuale causalmente orientato[38], appare dirimente, atteso che«la proiezione fattuale dell’inserimento organico nella struttura del sodalizio», tale da«implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo» (questa la valutazione probatoria sollecitata dai giudici nel 2005), è adeguatamente sussunto, per le ragioni anzidette, in una condotta formalistica di assoluta rilevanza e centralità nella vita di una associazione mafiosa tradizionale. La sentenza "Mannino", che pure si occupa più in generale di distinguere concettualmente la partecipazione associativa dal concorso eventuale[39], ha come parametro di riferimento la mafia siciliana di cosa nostra; e pur astraendo il tema della partecipazione, e dell’idoneità della partecipazione alla cosca, tratteggia un quadro esattamente coincidente con ciò che in un contesto mafioso storico-tradizionale si realizza con l’affiliazione rituale.

    L’art. 416-bis, a ben vedere, non è affetto da una "tipicità incompiuta"[40], come sembrano indiziare le molteplici oscillazioni interpretative sulla norma: in ogni caso, la carenza del tipo descrittivo non può ravvisarsi nel dato partecipativo, a cui si collega solo e soltanto un problema di prova dell’inserimento della struttura: che è peraltro, per antonomasia, legato all’affiliazione rituale.

    Aggravare e appesantire questo passaggio configurativo di per sé chiaro - perlomeno ove si tratti di affiliazione rituale ad una mafia storica e tradizionale - rendendolo di fatto un (ulteriore) problema causale da risolvere per comprovare l’inserimento nella struttura, con la prova (ulteriore) della idoneità,«per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla "messa a disposizione" del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi», con tutto ciò che tale locuzione comporta sul piano dell’accertamento nel contesto anzitutto delle complesse indagini sulle associazioni mafiose, vuol dire contraddittoriamente problematizzare sul piano causale un profilo - quello appunto della partecipazione - dopo avere chiarificato, in premessa, quello logicamente precedente dell’ an dell’associazione.

    Ed una siffatta impostazione problematica, che innalza processualmente la soglia di perfezionamento del reato associativo in capo al sodale, mero partecipe, richiedendo un’articolata prova - causalmente orientata - in ordine alla partecipazione alla cosca, rischia di generare effetti pratici di notevole portata assieme ad ulteriori incertezze applicative, come nell’esperienza giurisprudenziale accade quando si comincia ad elaborare "indici probatori" volti a rafforzare la prova di un fatto[41]; e in ultima analisi, ed è ciò che più rileva, di rendere più difficoltoso il contrasto giudiziario al fenomeno mafioso che, ancora, stringe e soffoca con i più tradizionali metodi dell’assoggettamento intere aree, specialmente (ma non solo) del Meridione.

       

    [1] Fatte salve le tre note pronunce a Sezioni Unite sul concorso esterno, tutte peraltro richiamate nella sentenza in commento in quanto utili a lumeggiare, in termini generali, il tema della partecipazione: Sez. Un., 5 ottobre 1994 (dep. 1995), n. 16 - rv. 199386 (c.d. "Demitry"); Sez. Un., 30 ottobre 2002 n. 22327 - rv. 224181 (c.d. "Carnevale");  Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino"); tra i contributi sul tema si ricordano Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003, e Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.

    [2] Ne è riprova l’imprescindibile lavoro monografico di Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L’autore, nella Prefazione, così giustifica l’ulteriore edizione dell’opera:«Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l’apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). È indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio – quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza – travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa". A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016.

    [3] Si guardi il ricognitivo lavoro di Santoro (a cura di), Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Il Mulino, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.

    [4] Un orientamento ben delineabile a partire da Sez. V, 25 giugno 2003, n. 38412 - rv. 227361. Peraltro, come la pronuncia in commento correttamente ricorda, questa tesi si aggancia alla relazione della proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri), da cui scaturirà la novella di cui all’art. 416-bis:«Non [è] sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e Calabria raggiunge i suoi effetti senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale"». In dottrina, tra i primi a delineare una fattispecie di pericolo astratto è Flick, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 1988, p. 853.

    [5] In dottrina già Patalano, L’associazione per delinquere, Jovene, 1971, p. 178, rilevava come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, a fortiori dal reato di associazione mafiosa) sia l’ordine pubblico inteso quale "esclusività dell’ordinamento giuridico-penale". Nei medesimi termini, successivamente: Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 110 e Cavaliere, Delitti contro l’ordine pubblico, in Moccia (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte speciale, V, Napoli, 2007, p. 397.

    [6] Una tesi che viene propugnata già a partire da sez. VI, 3 giugno 1993, n. 1793 (1994) - rv. 198577. E’ sicuramente l’impostazione preferita dalla dottrina: cfr. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309 Da ultimo, prospettano la«necessaria idoneità offensiva» Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 56.

    [7] E che ha specularmente aperto un ampio dibattito in dottrina: Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.; Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019; Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.

    [8] Segnala come elemento di novità il fatto che il quesito sollevato dalla sezione remittente non riguardi il caso tipologico definito di "ultima generazione", ma viene al contrario in evidenza come punto controverso l’inquadramento nella partecipazione associativa della più arcaica delle manifestazioni di mafiosità Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sistema penale, 5, 2021, p. 4.

    [9] Si evoca l’imprescindibile testo di Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 2009, tra gli studiosi più attenti del fenomeno delle "nuove" mafie.

    [10] Sebbene, come rileva Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord: una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 367, la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis a realtà associative diverse dalle “mafie storiche” si era presentata già dopo pochi anni di vigenza del delitto di associazione di tipo mafioso.

    [11] La pronuncia richiama il dibattito tra chi intende la forza di intimidazione quale un insieme di singoli, determinati, ripetuti e sopratutto attuali atti di minaccia o di violenza, chiaramente riconoscibili, e coloro invece che considerano il fenomeno mafioso come l’ instaurazione di un "clima di terrore" dettato dalla "fama" del gruppo, finendo per valorizzare una componente astratta che non necessariamente deve rivelarsi all’esterno.

    [12] Lo ricorda la Corte, per esempio, laddove si sofferma sulle descrizioni delle mafie storiche, del loro funzionamento interno e della loro proiezione esterna, e di come per esse nella prassi giudiziaria siano state impiegate le massime di esperienza (p. 38 ss. della sentenza); oppure nei numerosi passaggi in cui si rammenta che la capacità mafiosa può essere patrimonio storico perpetuato nelle diverse stagioni del radicamento mafioso. Le "nuove" mafie non vengono analizzate dettagliatamente, ma è ben chiaro che si mantiene ferma una linea concettuale insuperabile, tra le une e le altre.

    [13] È fondamentale ricalcare il fatto che l’attività intimidatrice si sia effettivamente svolta in precedenza, e per un periodo di tempo sufficiente all’infondere l’omertà nella popolazione. Sottolineava questo elemento De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309, secondo cui i requisiti dell’assoggettamento e dell’omertà si«ricollegano ad un’attività precedente, perché l’associazione ha acquistato la sua forza proprio in virtù di reiterati comportamenti di violenza e di minaccia».

    [14] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno dellamafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994.

    [15] Tale distinzione concettuale, utile per chiarire la dinamica di alcuni fenomeni delittuosi quale l’estorsione c.d. "ambientale" di tipo mafioso, è stata richiamata, volendo, in Apollonio, Estorsione ambientale e metodo mafioso, in Cass. Pen, 2018, p. 3482 ss.

    [16] Sulle mafie "dislocate", con particolare riguardo alla più diffusa ipotesi delle filiali silenti formatesi nel Nord della Penisola, si veda Varese, Mafie in movimento. Percorsi e geografie del crimine organizzato, Torino, 2011, passim; Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017; Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it.

    [17] Per Rubiola, Associazione per delinquere di tipo mafioso, in Enc. giur., I, Roma, 1990, p. 213, pur essendo certamente raro che si verifichi, non si può escludere che una nuova associazione nasca già temibile, in modo da rendere convincente per i terzi la sua temibilità; potrà, ad esempio, rendere noti i nomi dei suoi componenti più potenti, la cui pericolosità individuale si trasfonde nel gruppo e contribuisce a crearne la forza; o potrà vantare le altolocate protezioni di cui gode, i notevoli mezzi finanziari a sua disposizione.

    [18] Viene qui citata la pronuncia Sez. Fer., 12 settembre 2013, n. 44315 - rv. 258637.

    [19] Una conclusione che recentemente veniva ribadita nella nota sentenza di legittimità sulla vicenda c.d. "Mafia Capitale" (Sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125), su cui, volendo, cfr. Apollonio, Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, in Giustizia Insieme (web), 20 giugno 2021.

    [20] In questo senso la pronuncia in commento è il completamento - ma anche la pedissequa riproduzione d’itinere - di un filone argomentativo che vede nella sentenza c.d. "Pesce" (sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359 - rv. 269040) la capofila, la quale richiede, oltre al dato formale dell’affiliazione rituale ad un’associazione di tipo mafioso,«ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo». Su tale spunto della sentenza "Pesce" si sofferma Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche, cit. p. 8 ss.; spunto che pertanto si proietta anche sulla sentenza delle Sezioni Unite.

    [21]«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.

       Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione».

    [22] Va soggiunto che i giudici non si limitano ad elaborare indici probatori relativi al concreto inserimento del sodale nella cosca a seguito dell’affiliazione rituale, ma ne elaborano altri in grado, ad es., di avvalorare l’informazione pervenuta da altri soggetti diversi dall’affiliato:«fuori dai casi di intraneità confessata, diversi saranno gli statuti probatori applicabili, a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure rilevi quanto accaduto in sua presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come "uomo d’onore"; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come "uomo d’onore"».

    [23] Del rischio che in questa materia possano accendersi«i bagliori di un diritto penale d’autore sotto mentite spoglie» parlano Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti-Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 42, sulla scia di una dottrina in questo senso univoca: cfr. anche Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziaria, in Ind. pen., 2015, p. 223.

    [24] La Corte richiama la "dote" di ‘ndrangheta non solo perché il caso concreto riguarda una cosca ‘ndranghetista tradizionalmente presente, da decenni, sul territorio, ma anche perché una tale affiliazione - maggiormente qualificata - è stata parametro di giudizio nella sentenza "Pesce": eppure«non è possibile ritenere che il possesso di una "dote" equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo»; occorre insomma, necessariamente, la«prova della correlazione tra affiliato ed associazione [che] si rivela con riferimento al significato da attribuire al possesso della "dote"».

    Invero, al netto della medesima struttura argomentativa e dei medesimi richiami, come della valorizzazione dei medesimi principi, l’unico profilo apprezzabile di divergenza dalla sentenza "Pesce" sta proprio nell’avere, quest’ultima, conferito un precipuo rilievo giuridico-probatorio ad un elemento marcatamente organizzativo-sociologico, quale è il conferimento di un "alto" grado di ‘ndrangheta come la "dote", affermando che, a differenza della mera affiliazione, il conferimento di questa implica per massima di esperienza l’avvenuta attivazione del soggetto nell’ambito associativo. Cosicché, le Sezioni Unite, non scendendo più a fondo nell’analisi socio-organizzativa del rituale di ‘ndrangheta ed omettendo per questa via l’implicazione di una chiara responsabilità partecipativa in ragione (perlomeno) della "dote", avrebbero ulteriormente rafforzato, rispetto alla sentenza "Pesce", lo statuto garantistico dell’accertamento della partecipazione alla cosca.

    [25] Mentre l’ordinanza di rimessione (Sez. I, 28 gennaio 2021, dep. 9 febbraio 2021, n. 5071, rel. Centonze) muove i propri dubbi esegetici nel quadro specifico del perfezionamento del reato nel contesto delle mafie storiche, financo nominalmente elencate nell’ordinanza: cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.

    [26] Nell’udienza in camera di consiglio è intervenuto il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, depositando le richiamate e citate Note per udienza in camera di consiglio davanti alle Sezioni Unite penali (proc. n. 34566/2020).

    [27] Commentando l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, Fiorucci, L’importante è partecipare?, in Arch. Pen., 1, 2021, p. 16, auspicava una soluzione "intermedia", che parallelamente adottando una prospettiva socio-organizzativa con riferimento al funzionamento interno delle mafie storiche (ampiamente accertato in sede giudiziaria), perlomeno distingua l’attribuzione formale dal conferimento di specifici ruoli (ad es. della "dote"). Come sopra detto, però, la Corte ha ritenuto di non svolgere questa distinzione, più astrattamente preferendo l’elaborazione di "indici probatori" in grado di superare l’indizio grave dell’affiliazione rituale. 

    [28] Di potere politico "totalitario" parla Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane, Roma-Bari, 1994, p. 7. Sui caratteri del predicato mafioso si veda, inter alia, Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012 (nuova edizione riveduta), p. 23 ss. V. anche Zincani, La criminalità organizzata. Strutture criminali e controllo sociale, Bologna, 1989, p. 15 ss. Sviluppa un interessante modello organizzativo di crimine organizzato Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, p. 7, sul quale si veda anche, più recentemente, Aleo, Delitti associativi e criminalità organizzata. I contributi della teoria dell’organizzazione, in Rass. pen. crim., 3, 2012, p. 55 ss.

    [29] Si condividono al riguardo le impostazioni della dottrina, ben compendiate nei recenti lavori di Amarelli, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 105 ss.; Id., Mafie autoctone: senza metodo non si applica l’art. 416 bis c.p., in Giur. it., 2020, p. 2249 ss.

    [30] Su questo punto, peraltro, converge parte della dottrina: cfr. ad es. lo spunto di Di Vetta, Tipicità e prova, Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen., 1, 2017.

    [31] Canone ermeneutico primario (in specie per i reati associativi di pericolo), rinvenendo un fondamento implicito negli artt. 13, 25 comma 2 e 27, comma 3 Cost., nonché a livello codicistico nell’art. 49, comma 2 c.p. La costituzionalizzazione implicita del principio di offensività nell’attuale assetto ordinamentale è stata evidenziata, come noto, da Bricola, Teoria generale del reato,  in Nov. Dig. It., XIX vol., Torino 1973, p. 81 ss. (e in Scritti di diritto penale, I, Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, Milano 1997, 539 ss.); Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 8 ss.; Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 463 ss; più recentemente, si rinvia a Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim.

    [32] Già effettuati nella sentenza "Pesce", cit., peraltro elogiata dalla dottrina come la«presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa» (Merenda-Visconti, Metodo mafioso, cit., p. 65, nt. 73).

    [33] Che incrimina "il comportamento di una persona che [...] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione".

    [34] Trattasi di condotta inclusiva - sotto il profilo del rilievo penale - della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato: Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. Pen. Proc., 2015, 936; Presotto, Le modifiche agli artt. 270-quater e quinquies del codice penale per il contrasto al terrorismo, in Dir. Pen. Cont., 1/2017, p. 110.

    [35] Sul punto non può condividersi il raffronto effettuato nella sentenza "Pesce" (e per converso nella pronuncia in commento): l’affiliazione rituale non è un«mero accordo di ingresso simile al semplice arruolamento descritto come condotta punibile nell’attuale articolo 270-bis c.p. in tema di finalità di terrorismo anche internazionale»: affiancare l’affiliazione rituale ad un accordo di ingresso, come accade per un qualsiasi ente collettivo, lecito e illecito, ivi comprese le organizzazioni terroristiche, vorrebbe dire negare le specificità criminologiche delle mafie nonché sminuire quei dati di conoscenza granitici travasati dall’esperienza giudiziaria all’analisi scientifica (e viceversa) che mostrano il grado assoluto di "messa a disposizione" del sodale: vds., per un esempio di trasfusione del sapere tra i vari ambiti, Ciconte, Riti criminali. I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta, Soveria-Mannelli, 2015, p. 45 ss.

    [36] Sul punto, ancora, le analisi sociologiche ci offrono un quadro tranciante: vd. Massari, Sacra corona unita. Potere e segreto, Roma-Bari, 1998, p. 23 ss.; mentre sulla ‘ndrangheta Malafarina, Il Codice della ‘Ndrangheta, Reggio Calabria, 1978, p. 50 ss.; Gratteri-Nicaso, Fratelli di sangue, Cosenza, 2006, passim.

    [37] La struttura "mista" del reato associativo è ben illustrata nel recente lavoro di Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., p. 40 ss.

    [38] Su come però la sentenza (Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino") non abbia sopito i dibattiti in ordine alla configurazione dell’istituto, cfr. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. cont., I, 2012, p. 251 ss; vd. anche, utilmente, Macchia, Concorso esterno”. Storia di una creazione giurisprudenziale, in Dir. e Giust., 2003, 22, 39.

    [39] Nel quadro di quella pronuncia i giudici non procedevano ad alcuna distinzione tra i possibili fenotipi di mafia (tra "vecchi" e "nuovi" modelli) oggetto di giudizio, anche perché la distinzione assume nelle sentenze della Cassazione un preciso rilievo probatorio, di fattuale riscontro della condotta tipizzata, solo nell’ultimo decennio: per una ricognizione, sia consentito il rinvio a Apollonio, Rilievi critici su sulle pronunce di "Mafia Capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 118 ss.

    [40] E’ noto come la dottrina abbia parlato di "tipicità inafferrabile" della fattispecie associativa: Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, II, Napoli, 2000, 65; nello stesso senso, Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, Napoli, 2003, 81; invero, potrebbe semmai parlarsi di "tipicità aperta" all’integrazione probatoria (su cui si guardi l’importante spunto di Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie. Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in De Francesco-Marzaduri (a cura di), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Torino, 2016, p. 89 ss.). Ed in questo senso non può negarsi che la materia dei reati associativi , per le stesse caratteristiche criminologiche del fenomeno da regolare, risulta particolarmente permeabile alle esigenze probatorie che emergono in sede processuale (cfr. Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 361 ss.).

    [41] Un rischio messo in evidenza, all’indomani del mero dispositivo delle Sezioni Unite, da Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, in Dir. Proc. Pen. (web), 27 luglio 2021, secondo cui«la ricerca garantista di ulteriori indici di colpevolezza verrebbe, infatti, rimessa ad un’attività di creazione pretoria, del tutto sganciata dal tenore della fattispecie, che finirebbe per preludere ad un’inevitabile discrezionalità giudiziaria, incompatibile con il principio di legalità formale».


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