GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Coltivazione di cannabis e uso “terapeutico”  (Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021)

    Coltivazione di cannabis e uso “terapeutico”  

    (Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021)  

    di Lorenzo Miazzi    

    Sommario: 1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico - 2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico - 3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna - 4. La sentenza di assoluzione - 5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze - 6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?

    1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico

    Si è fatta una certa confusione sulla vicenda Di Benedetto – malato di artrite reumatoide che coltivava marijuana per affrontare la sua malattia – assolto dal tribunale di Arezzo con una sentenza che, secondo il messaggio mediatico, legittima l’uso terapeutico della marijuana.[1] Non è esattamente così.

    Preliminarmente va ricordata in sintesi la differenza tra l'uso definito “terapeutico” e quello definito “ricreativo” (o ludico), differenza che nell’uso concreto si riflette sia  nei dosaggi utilizzati che nei tipi di pianta[2]. Rispetto alla produzione e reperimento, la cannabis “terapeutica” è prodotta sulla base di autorizzazioni che disciplinano l'iter produttivo e l'immissione in commercio (che è di un farmaco di norma reperibile solo in farmacia) tramite canali istituzionali; quella “a uso ricreativo” invece è prodotta in modo illegale, distribuita attraverso canali non ufficiali e non controllati sul piano scientifico.

    Occorre quindi accertare quale uso è quello dichiarato da Di Benedetto: che non è un uso ricreativo, ma non è nemmeno un “uso terapeutico”.

    Innanzitutto, non vi è piena corrispondenza fra il significato di “uso terapeutico” della cannabis nella normativa, nel linguaggio giudiziario e nel dibattito politico. Quanto alla normativa sugli stupefacenti, l’art. 42 del D.P.R. n. 309/1990 prevede che: “E' consentito l'uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope ((...)), debitamente prescritti secondo  le  necessità  di  cura  in  relazione   alle   particolari condizioni patologiche del soggetto.” Dunque, l’uso terapeutico è quello non di marijuana, ma di medicinali a base di marijuana: e c’è una netta differenza. Come dimostra il successivo art. 73 che consente ai medici di prescrivere solo “i medicinali compresi nella tabella dei medicinali, sezione A, di cui all'articolo 14, su apposito ricettario” stabilendo inoltre una lunga serie di obblighi e di procedure per la prescrizione. E l’art. 83 punisce le “prescrizioni abusive” con le pene previste dall'art. 73, commi 1,   e  5, cioè come lo spaccio[3].

    Non è corretto parlare di uso terapeutico della marijuana nemmeno sotto il profilo medico, non trattandosi esattamente di una terapia. Con Decreto Ministeriale del 2013  è stata data anche nel nostro paese la possibilità ai Medici Chirurghi e Veterinari di prescrivere Cannabis Medica[4]; secondo il Ministero della Salute, “l’uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico”, adatto ad alleviare numerose patologie.

    Anche la giurisprudenza si è più volte occupata dell’uso terapeutico, prescritto dai medici, con rigoroso inquadramento della fattispecie: la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, co. 2, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento prescritto ai sensi dell'art. 43 e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti[5].

    In sintesi: la cannabis non è una terapia ma un palliativo; non cura malattie ma ne allevia il dolore[6]; il suo utilizzo viene correttamente definito “uso medico”.

    Va preso atto però che il termine “uso terapeutico” ha assunto, nel linguaggio corrente ma anche in quello giudiziario, un significato più ampio che comprende anche quello medico; perciò si adopererà il  temine in senso ampio anche in questo contributo (dato che le stesse sentenze commentate lo usano in tal modo).  

    2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico

    Dunque, in sintesi, nel caso di chi come Di Benedetto coltiva marijuana  per poi farne – secondo la dizione imprecisa ma ormai sdoganata - uso terapeutico, ci si riferisce più correttamente alla coltivazione personale con destinazione della sostanza ad uso medico. Una fattispecie che, in presenza di una presa di posizione granitica delle Sezioni Unite che ritenevano comunque vietata (a differenza della detenzione) ogni coltivazione, in passato era sempre stata sanzionata penalmente.

    Su questo orientamento, più volte ribadito e più volte criticato, è piombato nel 2019 un revirement della Suprema Corte che ha affermato, riguardo alla coltivazione di sostanze stupefacenti, che non sono riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore[7].

    La sentenza decide direttamente (è il caso di merito) la fattispecie del coltivatore che destina la cannabis prodotta al personale ed esclusivo uso ricreativo; elenca le circostanze (in sintesi: “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, (...) le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”) accertate le quali il giudice dovrà decidere se la coltivazione appaia “destinata in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

    Ma la portata innovativa della pronuncia è inevitabilmente molto più ampia, andando a interessare tutti i fenomeni di fatto collegati alla coltivazione di chi poi utilizza o consuma il prodotto, che devono essere affrontati dai giudici di merito.  

    Una prima fattispecie già esaminata riguarda la c.d. coltivazione di gruppo per uso ricreativo, rispetto alla quale una prima pronuncia, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, ritiene che anche la coltivazione effettuata da più persone possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata[8].  

    Una seconda fattispecie che viene ora all’attenzione, e con grande clamore mediatico, è quella della coltivazione di cannabis non autorizzata e destinata ad un uso non ricreativo ma asseritamente medico, attribuita all’imputato De Benedetto.

    Un inciso sul clamore mediatico: la vicenda De Benedetto è diventata la bandiera di chi ha promosso il disegno di legge sull’uso terapeutico della cannabis (stralciato nel finale della scorsa legislatura - sperando in una più facile approvazione - dalla più generale legge sulla depenalizzazione e legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis). Un disegno di legge approvato con grande maggioranza alla Camera (con 317 voti a favore e 40 contrari) ma inaspettatamente bloccato all’esame del Senato che non procedette all’approvazione definitiva entro la fine della legislatura[9]. Attualmente la legge non sembra essere nell’agenda politica.  

    3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna

    Walter Di Benedetto risulta affetto da artrite reumatoide da oltre 35 anni e curava la malattia con cannabis terapeutica regolarmente prescritta. Pur essendo da anni in possesso di una regolare prescrizione medica, si era messo a coltivare la cannabis – affermava – perché il Sistema Sanitario non riusciva ad assicurargli il quantitativo di terapia necessaria a combattere i dolori causati dalla sua patologia. Detto per inciso, si può definire “fatto notorio” che in Italia la cannabis a uso medico è legale dal 2007 ma, a causa dello scarso quantitativo prodotto dallo Stato, la distribuzione è spesso insufficiente e, banalmente, molto spesso il farmaco non si trova in farmacia. “Non ho tempo di aspettare una giustizia che ha sbagliato il suo obiettivo. Il dolore non aspetta” aveva detto Walter De Benedetto, con una frase poi divenuta lo slogan della battaglia da lui rappresentata.  

    Il fatto venne alla luce il 3 ottobre 2019 quando un amico di Walter, Marco Bracciali, venne sorpreso con l’innaffiatoio in mano mentre dava acqua alle piante di canapa nel terreno a Ripa di Olmo. Il De Benedetto affermò subito che la coltivazione era sua e la droga prodotta era per lui. Nella serra vennero rinvenute 15 piante, alcune alte due metri e mezzo, altre in vaso, del peso di 19.450 grammi per potenziali 17.148 dosi. Nell’essiccatoio di legno vennero trovate 163 infiorescenze per 800 grammi (potenziali 3.046 dosi); come dotazione un trimmer (per la lavorazione), ventilatori e altri utensili. Bracciali venne arrestato in flagranza e Di Benedetto  rinviato a giudizio.

    Il giudice della direttissima, trattata dopo la convalida dell’arresto con rito abbreviato, ha condannato il Bracciali, che è stato ritenuto colpevole del reato di “coltivazione non autorizzata di sostanza stupefacente”: un anno, due mesi e venti giorni le pena[10].

    Rilevano le osservazioni fatte dal giudice sulle condizioni in fatto della serra di Ripa di Olmo, confrontandosi con i parametri delle SS.UU: in sentenza si evidenziano le “modalità industriose” della coltivazione, “caratterizzata da laboriosità e operosità costante” con una tecnica “attenta e ingegnosa”. Quanto alla serra, viene ritenuta una struttura “artigianale” ma non “rudimentale”. In sostanza, il giudice non mette in dubbio la malattia di De Benedetto né il fatto che beneficiasse di una terapia analgesica; la condanna si basa invece sulle dimensioni della coltivazione, poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” previsto e punito dal reato di coltivazione.

    Il giudice si pone l’interrogativo se quella era una scorta “a lunga durata”, una “riserva” per “dosi massicce” da assumere nel tempo. La risposta è negativa ed esclude che le potenziali 20 mila dosi fossero per “le esigenze di un ipotetico consumatore singolo”. L’imputato va condannato perché è accertata la sua “partecipazione piena, cosciente e decisiva” alla coltivazione, che rimane reato anche se per uso medico: “Non è la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico che da sola può valere a privare il fatto di offensività in concreto”, afferma il giudice, in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”[11].  

    4. La sentenza di assoluzione

    De Benedetto come si è detto venne rinviato a giudizio, che si svolse con il rito abbreviato, all’esito del quale l’imputato è stato assolto dal GUP perché il fatto non sussiste[12].

    Nel processo, i difensori hanno prodotto documentazione con un parere di un esperto che sostiene che il quantitativo di piante e lo sviluppo di dosi, che inizialmente sembrava esagerato, fosse in realtà dimensionato all'utilizzo del solo De Benedetto.

    Il dato quantitativo è quindi importante: l’accusa era di aver coltivato piante per complessivi 5.024 grammi di marijuana, contenenti 507,82 grammi di principio attivo Thc per la capacità potenziale di 20.283 dosi (calcolo effettuato secondo il d.m. 11.4.2006 – decaduto e non riproposto – per il quale con un grammo di principio attivo Thc si possono ottenere 40 dosi singole[13]), dato quantitativo non contestato e confermato in sentenza.

    Il consulente tecnico dell’imputato ha affermato che in base ai dosaggi indicati dai medici che lo hanno seguito, la dose necessaria a De Benedetto per avere efficacia clinica è “fissata in una quantità giornaliera di almeno 2.000 mg di thc”. Conseguentemente, è il caso di osservare, se fosse accettata questa deduzione quanto sequestrato sarebbe equivalso a (507,82 gr. : 2) 253 dosi giornaliere consumate da De Benedetto.

    La sentenza esamina attentamente l’inquadramento giuridico della coltivazione per uso personale, evidenziando che “la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un reato di pericolo, idoneo ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato”; ricostruisce la vicenda della qualificazione giuridica della coltivazione nella giurisprudenza della Suprema Corte sino alla recente SS.UU. 12348/2019, ritenendo la sussistenza della offensività in astratto. Applicando questi principi alla vicenda di merito, afferma che la coltivazione non può ritenersi penalmente irrilevante in quanto la coltivazione del De Benedetto non appare di minime dimensioni per il numero di piante e il quantitativo sequestrato.

    Tuttavia giunto alla verifica della sussistenza della offensività in concreto della condotta, la sentenza si discosta nettamente dalla concezione dominante. Infatti il giudice ritiene che i principi affermati dalla corte di cassazione nelle sentenze citate non possono trovare applicazione alla vicenda concreta per le peculiarità della medesima. Quei principi presuppongono che si versi in ipotesi di coltivazione per finalità ludico-ricreative; nel caso di De Benedetto, invece, appare verosimile che egli - già autorizzato a curarsi con farmaci a base di cannabis – abbia coltivato le piante di marijuana per finalità “terapeutiche”.

    Il giudice individua il bene protetto dalla legislazione sugli stupefacenti nella salute pubblica[14]; quindi ritiene che l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 vada interpretato in combinato disposto con l’art. 32 della Costituzione, il quale “tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività…”. Conseguentemente, in assenza di una normativa primaria che escluda la punibilità della coltivazione\detenzione quando finalizzata all’uso terapeutico, l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 non può applicarsi perché in contrasto con l’art. 32 Cost. “avente carattere immediatamente precettivo”. Il fatto dunque è inoffensivo in quanto ammesso dall’ordinamento giuridico che non può sanzionare una condotta tutelata dalla Costituzione[15].

    Nel caso di De Benedetto, l’inefficacia della terapia medica convenzionale ha reso necessaria una integrazione, secondo un protocollo approvato, con la cannabis “medica”; la carenza di questa ha comportato brusche interruzioni della terapia cannabica, determinando il riacutizzarsi del dolore; in queste circostanze, è “lecito dubitare” che, pur in assenza delle previste autorizzazioni ministeriali, la condotta di coltivazione “fosse connotata dalla necessaria offensività in concreto[16].

    In conclusione, è insufficiente o contraddittoria la prova della sussistenza del fatto come incriminato.  

    5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze

    Le due sentenze, ben collegate al fatto e ben motivate, escludono entrambe – pur essendo accertato che il Bracciali aveva collaborato – la fattispecie della coltivazione di gruppo; ed escludono che si tratti di una coltivazione con dimensioni minime. Giungono però su queste basi a conclusioni opposte.

    La sentenza Bracciali, in presenza di una coltivazione di dimensioni non minime, ritiene che ciò obblighi alla condanna di chi coltiva oltre il proprio stretto uso, perché il reato è di pericolo presunto[17]. Non mettendo in dubbio che “il De Benedetto attingesse alla sostanza prodotta, al fine di lenire i propri dolori”, il giudice ritiene per la quantità di principio attivo non possa ragionevolmente parlare di costituzione di una riserva per l’uso personale, “tenuto conto che il quantitativo di principio attivo di partenza è sicuramente sproporzionato rispetto alle immediate esigenze di un ipotetico consumatore singolo, e considerato che la coltivazione era ancora in essere”.    

    La sentenza De Benedetto invece rende compatibile la condotta contestata con la normativa incriminatrice, escludendo la tipicità, con un percorso assai articolato che si basa sul contrasto con i principi costituzionali. La sentenza conferma l’offensività in astratto della condotta contestata, riconducibile all’art. 73; ma esclude radicalmente la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico in quanto tale destinazione “impone un’interpretazione totalmente diversa delle norme incriminatrici”, pena l’incostituzionalità per conflitto con l’art. 32 Cost.. Infine, mancando la prova di una destinazione diversa, conclude per la insussistenza del fatto per prova insufficiente della offensività in concreto.

    Entrambe le sentenze ritengono irrilevante che l’imputato – in quanto costretto su una sedia a rotelle – non avesse proceduto alla diretta coltivazione delle piante, atteso che Bracciali è accusato di aver agito in concorso e Di Benedetto è chiamato a rispondere di essersi fatto aiutare da terzi in tale attività, pur riconoscendo la piena e consapevole riconducibilità a sé dell’intera coltivazione.

    Questo passaggio sottolinea la questione della compatibilità delle due sentenze. Soprattutto sembra contrastare con i principi cui si appella la sentenza De Benedetto l’affermazione contenuta nella sentenza Bracciali che “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto” in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”. La condanna si basa perciò sulle dimensioni della coltivazione poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” insito nel reato di coltivazione. La sentenza De Benedetto invece esclude la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico.

    Si può pertanto dire provvisoriamente che dalle pronunce in commento si può estrarre un orientamento secondo cui “non sussiste il fatto di coltivazione di cannabis di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990  per mancanza di offensività in concreto, allorquando la coltivazione, anche non minima, appaia destinata all’uso personale terapeutico, in quanto non idonea a porre a repentaglio il bene giuridico della salute tutelato dall’art. 32 cost.”. Ma sussiste anche un diverso orientamento secondo il quale “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico di una coltivazione di non minime dimensioni da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto in quanto la coltivazione di cannabis è un reato di pericolo presunto”.  

    6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?

    Come si è detto, entrambe le sentenze escludono che si fosse di fronte ad una coltivazione di dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU. Può essere però utile, se non necessaria, un’ulteriore riflessione sulla quantificazione delle “dimensioni minime”, e cioè se la stessa si debba sempre fare in termini assoluti, come sembrano fare le sentenze commentate.

    Leggendo attentamente le SS.UU. Caruso si rileva che a escludere la coltivazione di cannabis dall’ambito di applicazione della norma penale è la destinazione all’uso personale, mentre quantità e modalità di coltivazione sono (solo) le caratteristiche necessarie. Non è il semplice dato quantitativo[18] ad escludere la rilevanza penale della fattispecie: la scriminante è la destinazione della cannabis ad uso personale, la quantità è solo un indice sintomatico della destinazione.

    In questa diversa ottica, è importante evidenziare che nella sentenza delle SS.UU. la quantificazione menzionata come minimezza della coltivazione (lo “scarso numero di piante”) si riferisce all’uso ricreativo di una sola persona; in presenza di un quantitativo non minimo la rilevanza penale può sussistere in quanto è ragionevole ritenere che almeno una parte sarebbe destinata alla “ricreazione” di terzi, attraverso la cessione onerosa o gratuita). Già nella sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020 il dato quantitativo della minimezza diventa relativo: se il coltivatore è uno, certo, il limite è di poche piante come dicono le SS.UU.; ma se sono un gruppo, si considerano le piante per ogni coltivatore, perciò la piantagione può avere dimensioni assai più ampie.

    Per una interpretazione non incongrua e coerente della sentenza Caruso[19] occorre procedere alla misurazione della minimezza non in termini assoluti, ma relativi, non solo rispetto al numero dei coltivatori ma anche al tipo di uso personale: ornamentale, o didattico , o ricreativo, o medico… Se la coltivazione è per finalità ricreative, certamente la piantagione deve avere dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU[20]. Se invece le finalità sono terapeutiche, si deve considerare “minimo” il quantitativo necessario a garantire le esigenze curative; e si tratta di una valutazione di merito, da farsi caso per caso considerando il bisogno del soggetto interessato.

    Applicando ad esempio tali criteri al caso De Benedetto, emerge che si tratta di una scorta per 250 giorni, cioè otto mesi. Spetta al giudice di merito[21] considerare non incompatibili queste dimensioni con l’uso terapeutico personale, considerando oltre al bisogno soggettivo altresì la cronica assenza di medicine autorizzate e tenendo conto che le “brusche interruzioni” della disponibilità in farmacia non possono essere previste né possono essere rimediate istantaneamente, dato che la coltivazione della cannabis per Thc o Cbd con modalità non professionali richiede molto tempo per completare lo sviluppo[22].

    In conclusione, nella scia della sentenza SS.UU. Caruso, che esclude la sussistenza del fatto nel caso di coltivazione minima destinata ad uso personale, si pone la sentenza di merito che ritiene si tratti di uso personale anche se la coltivazione è di gruppo, ampliando la quantificazione delle dimensioni minime. La sentenza De Benedetto esclude comunque la sussistenza del fatto se vi è destinazione all’uso terapeutico, a prescindere dalla minimezza. La sentenza Bracciali giunge a conclusioni opposte, pur richiamando gli stessi principi, escludendo che l’uso terapeutico giustifichi il superamento delle minime dimensioni. Altre soluzioni, come si è visto, sono possibili considerando la destinazione ad uso terapeutico (solo) come un elemento di valutazione della destinazione all’uso personale e quantificando la minimezza rispetto al bisogno del soggetto.

    Considerando la varietà della casistica possibile, sarà certamente necessario altro tempo – non solo quello della definitività delle sentenze richiamate - per sedimentare un orientamento della giurisprudenza.


    [1] Parlano di “cannabis terapeutica” il 27 aprile 2021 La Repubblica “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto. "Me lo sentivo, ero fiducioso" - Era accusato di detenzione e spaccio ma lui soffre di artrite reumatoide e ha sempre sostenuto che le piantine le coltivava per uso personale”; il Corriere di Arezzo “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto dall'accusa di coltivazione per la serra di marijuana.”; il Manifesto “Cannabis terapeutica, assolto Walter De Benedetto - La cura viene prima dei divieti. Il tribunale di Arezzo giudica non punibile l’uomo disabile”.

    [2] In questo studio si prescinde dall’uso industriale e dagli altri usi previsti dalla legge n. 242\2016.

    [3] Per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento debitamente prescritto ai sensi dell'art. 43 del testo unico e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti (Sez. 6, sentenza n. 16581 del 13/03/2013, Narracci, Rv. 256147; Sez. 6 - , Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni).

    [4] Decreto Ministeriale del 23/01/2013 (GU n. 33 del 08/02/2013).

    [5] Cass. Sez. 6, Sentenza n. 10169 del 10/02/2016;  Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni; sez. 6, Sentenza n. 16581 del 13/03/2013; Sez. 4, Sentenza n. 13778 del 16/02/2011.

    [6] “In considerazione delle evidenze scientifiche fino ad ora prodotte e aggiornabili ogni due anni, si può affermare che l'uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico di supporto a quelli standard laddove questi ultimi non abbiano prodotto gli effetti desiderati, abbiano provocato effetti secondari non tollerabili, necessitino di incrementi nel dosaggio che potrebbero determinare la comparsa di effetti indesiderati (effetti collaterali).

    Gli impieghi di Cannabis a uso medico riguardano:

    eliminazione del dolore (analgesia), in malattie che implicano spasticità associata a dolore resistente alle terapie convenzionali come la sclerosi multipla o le lesioni del midollo spinale

    analgesia nel dolore cronico, con particolare riferimento al dolore neurogeno

    effetto antinausea e antivomito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali in chemioterapia, radioterapia e terapie per HIV

    effetto stimolante dell’appetito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali, nel deperimento fisico e nella perdita dell'appetito in malati oncologici o affetti da AIDS, nell'anoressia e anoressia nervosa e nel glaucoma resistente alle terapie convenzionali

    riduzione dei movimenti involontari del corpo e del viso, che non può essere ottenuta con trattamenti tradizionali nella sindrome di Gilles de la Tourette”.

    Raccomandazioni per il medico prescrittore di sostanza vegetale cannabis fm2 infiorescenze - Documento approvato dal gruppo di lavoro previsto dall’Accordo di collaborazione del Ministero della salute e del Ministero della difesa del 18 settembre 2014, in:

    https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_4589_listaFile_itemName_2_file.pdf

    https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/c/cannabis-e-cannabinoidi#cannabis-a-uso-medico    

    [7] Sezioni Unite n. 12.348 /20, imp. Caruso (udienza del 19.12.2019, deposito il 16 aprile 2020).  Si rinvia per il commento a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)”, in questa Rivista, paragrafo 10, in www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1027-coltivazione-di-marijuana-e-uso-personale-dopo-le-sezioni-unite-di-lorenzo-miazzi-parte-seconda

    [8] Sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”. Sentenza riportata e commentata in “L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)”, di Lorenzo Miazzi, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1665-l-uso-e-personale-anche-se-la-coltivazione-e-di-gruppo-nota-a-tribunale-brescia-14-11-2020-di-lorenzo-miazzi

    [9] Il progetto di legge fissa criteri uniformi per garantire l’accesso alla Cannabis per uso terapeutico, promuove la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecniche di produzione. Questi i principali punti del progetto, per quanto rileva in questa vicenda:

    CANNABIS A USO TERAPEUTICO. Il medico potrà prescrivere medicinali di origine vegetale a base di cannabis per la terapia del dolore e altri impieghi. La ricetta (oltre a dose, posologia e modalità di assunzione) dovrà recare la durata del singolo trattamento, che non può superare i tre mesi.

    MEDICINALI A CARICO DEL SSN. I farmaci a base di cannabis prescritti dal medico per la terapia del dolore e impieghi autorizzati dal ministero della Salute saranno a carico del Servizio sanitario nazionale. Se prescritti per altri impieghi restano al di fuori del regime di rimborsabilità. Vale in ogni caso l’aliquota Iva ridotta al 5 per cento.

    PRODUZIONE DI CANNABIS. Coltivazione della cannabis, preparazione e distribuzione alle farmacie sono affidate allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Se necessario può essere autorizzata l’importazione e la coltivazione presso altri enti. Sono stanziate risorse per un milione e 700mila euro.

    [10] Sentenza Gup Tribunale di Arezzo, 11 dicembre 2020, dep. 11.3.2021. est. Filippo Ruggiero. Nella motivazione si afferma che i quantitativi di cannabis nella serra sono “sproporzionati ed esagerati rispetto all’esigenza di un consumo personale di De Benedetto”. Il giudice ha valutato come attenuante generica il fatto che Marco B., incensurato, si fosse recato come altre volte alla serra per dare una mano all’amico gravemente malato, ma ha negato l’ipotesi lieve del reato di cui al quinto comma precludendogli la sospensione del processo con la messa alla prova.

    [11] E’ il caso di ricordare anche che il giudice non ritiene sussistano i "motivi di particolare valore morale e sociale" di cui all'articolo 62 n.1 del codice penale in quanto "i motivi di tale disposizione possono essere soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, che allo stato attuale non pare molto sensibile ai temi delle cure palliative, vieppiù ove poste in essere mediante la somministrazione di stupefacenti".

    [12] Sentenza 27 aprile 2021, dep. 26.7.2021, est. Fabio Lombardo.

    [13] La quantificazione dell’uso personale è prevista dall’art. 73 comma 1 bis, lett. a), inserito dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4 bis, in sede di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272. In attuazione di tale previsione, con decreto del Ministro della salute dell'11 aprile 2006, sono stati appunto indicati i "limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale" (QMD: "quantitativi massimi detenibili"). La legge è stata poi dichiarata incostituzionale e il decreto travolto con essa; la nuova legge prevedeva un nuovo decreto, che non è stato emanato.

    [14] “Le Sezioni Unite hanno stabilito che il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è quello della salute individuale o collettiva, la quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32 della carta fondamentale” (pag. 9).

    [15] “… la coltivazione e l’uso di sostanze stupefacenti autoprodotte per finalità esclusivamente curative, in assenza di terapie altrettanto efficaci, in altri termini, rende il fatto – astrattamente conforme alla norma incriminatrice prevista dall’art. 73 tus - del tutto inoffensivo, in quanto ammesso dall’ordinamento  giuridico che, in un’ottica di solidarietà umana, non può pretendere il rispetto del precetto e sanzionare penalmente l’autore della condotta di coltivazione” (p. 11).

    [16] La sentenza prosegue: “Se, come si è visto, l’art. 73 tus è posto a tutela in primis della salute individuale o collettiva, sarebbe alquanto paradossale – oltre che contrario a ogni forma di umanità e di giustizia – che l’imputato debba essere punito per aver coltivato piante di cannabis con l’unico scopo di tutelare la propria salute e garantirsi in tal modo condizioni di vita più dignitose” (p. 12).

    [17] “Posta la natura di reato di pericolo presunto, ciò che rileva sarà quindi una valutazione in ordine all’effettiva entità e alle effettive dimensioni dell’attività di coltivazione. Ciò premesso, quello per cui si procede costituisce un fatto di coltivazione che va senz’altro ricompreso nell’area del penalmente rilevante, attesto che nella specie vengono in rilievo piante conformi al tipo botanico e dall’attitudine a produrre sostanza stupefacente già dimostrata (per avere le piante già prodotto sostanza), e atteso che non si tratta affatto di un’attività di minime dimensioni svolta in forma domestica; emerge piuttosto un’attività di coltivazione condotta secondo modalità industriose, cioè caratterizzate da laboriosità e da un’operosità costante” (p. 11).  

    [18] Come avviene nella pesca del novellame; nell’evasione fiscale… (L. 14 luglio 1965, n. 963; D.Lvo n. 274/2000).

    [19] Che, si ricorda, disapplica la norma penale per le “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

    [20] Si può ritenere che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione secondo i principi della sentenza SS.UU. Caruso: cfr. Coltivazione di marijuana e uso personale, cit., par. 15.

    [21] Nel caso di De Benedetto il giudice sembra fare implicitamente questa valutazione con esisto positivo; nel caso Bracciali esplicitamente lo si esclude.

    [22] Intorno ai due/tre mesi per le autofiorenti e cinque/sette mesi per le piante provenienti da seme normale o femminilizzato, a seconda del tipo di coltura e cura; tempo cui aggiungere un mese per l’essicazione naturale: www.cbdmania.it/blog/le-diverse-fasi-di-crescita-di-una-pianta-di-marijuana

    Vedi anche  www.zamnesia.net/it/blog-quanto-tempo-ci-vuole-per-coltivare-la-cannabis-n1191 e su questa rivista L’amministrazione della Cannabis ad uso medico di Alice Cauduro


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