GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Codice penale e riserva di codice

    Codice penale e riserva di codice*

    di Sergio Seminara

    Sommario: 1. La riserva di codice: il fondamento storico; – 1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice; – 1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema – 2. Limiti e finalità della riserva di codice – 3. Codice penale e accessibilità della legge – 4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale? – 5. Linee conclusive dell’indagine.

    1. La riserva di codice: il fondamento storico.

    Chi non ricorda l’incontro tra Renzo Tramaglino e il dottor Azzecca-garbugli nel capitolo III de I promessi sposi? Non appena il primo pose all’altro il quesito «se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale», il legale «cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. “Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza”. Ah! ecco, ecco”. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: “il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura”».

    Rispetto alla vicenda narrata da Manzoni passa quasi un secolo e mezzo ma, ancora nel 1766, Beccaria descrive una giustizia amministrata attraverso «avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, (che) formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi»[1]. Come ai tempi del dottor Azzecca-garbugli, quindi, l’accumulo nel tempo di leggi destinate a sovrapporsi in assenza di formali abrogazioni e la caotica pluralità delle fonti del diritto faceva sì che la vittoria in giudizio dipendesse soprattutto dall’abilità dell’avvocato nello scovare il testo a lui più conveniente, in totale spregio delle ragioni sostanziali e nella più assoluta indifferenza verso valori oggi indiscussi e riconducibili ai principi di legalità e di certezza del diritto. Come ultimo esempio, nella storia dell’Europa continentale, di una siffatta situazione può indicarsi il Regno di Spagna, ove – in ideale continuità con una Nueva Recopilación avviata nel 1567 da Filippo II allo scopo di fare ordine nella congerie di leggi, pragmatiche e regolamenti stratificatisi nei secoli – nel 1805 si procede a una Novissima Recopilación, fortemente criticata dai contemporanei: «in luogo di un codice uniforme, breve e semplice fin dove possibile, destinato a sostituire i precedenti testi di legge per evitare il caos in cui si trova la nostra giurisprudenza, null’altro si fece che aggiungere varie disposizioni alla sua ultima edizione (= del 1777) e, in verità, con non migliore accordo. Esaminandola con attenzione la vedremo piena di inesattezze e di anacronismi, fino a comprendere antiche leggi totalmente prive di attualità, essendo venuti meno i loro presupposti; di leggi ridondanti e superflue, mescolate tra loro le leggi deroganti e le derogate, contraddittorie in molte delle loro disposizioni; leggi non conformi ai testi originali, leggi immeritevoli di tale nome, talune essendo meri decreti e addirittura semplici previsioni di polizia urbana; mentre sono assenti altre leggi assai importanti che, sebbene si trovino nella Nueva Recopilación, si omisero nella Novissima»[2].

    Ecco dunque una tra le principali ragioni alla base del processo codificatorio che pervade l’Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: la certezza del diritto, intesa sia come accessibilità delle leggi che come garanzia della loro corretta applicazione. E in tale prospettiva si comprende il valore rivoluzionario dei codici, che d’un solo colpo privavano di ogni valore – come afferma ad esempio l’art. 5 del preambolo del Codice per lo regno delle Due Sicilie del 26 marzo 1819 – «le leggi romane, le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispacci, le lettere circolari, le consuetudini generali e locali e tutte le altre disposizioni legislative»[3]. Grazie al passaggio da un sistema connotato dalla molteplicità delle fonti di produzione del diritto a un unico testo caratterizzato da tendenziale completezza e modificabile solo con atto di legge[4], iniziava la costruzione di un nuovo rapporto tra lo Stato e il cittadino.

    Questo rapporto, nato sotto il segno della legalità, si è però andato offuscando negli ultimi decenni, caratterizzati da un’alluvionale produzione legislativa che ha reso le leggi sempre più difficilmente accessibili e ha indotto una riflessione addirittura sulla perdurante validità del modello codicistico.

    Si comprende dunque che, oggi, ogni progetto di riforma della parte speciale del codice penale suppone una preliminare riflessione sulla funzione del codice stesso. In questa prospettiva, un’importante indicazione è stata recentemente offerta dall’introduzione, nell’art. 3-bis c.p., del principio della riserva di codice.

    1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice.

    Sul tema della riserva di codice si sono in vario modo espressi tutti i progetti di riforma elaborati nell’ultimo trentennio.

    Cominciando dallo schema di legge delega redatto dalla Commissione Pagliaro, esso non prevedeva in modo espresso la riserva di codice, ma la relazione, risalente al 25 ottobre 1991, enunciava tra i c.d. principi di codificazione «l’obiettivo di fare del codice il centro del sistema penale e di ridurre correlativamente il peso della legislazione speciale, che ha ormai assunto dimensioni abnormi».

    L’opzione per una tipizzazione normativa, a livello costituzionale, trovava invece accoglimento, a distanza di pochi anni, nell’art. 129 comma 4 del Progetto di revisione della parte seconda della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale, che così disponeva: «Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono». Nella relazione si spiegava che il principio mira a «porre rimedio all’effetto perverso determinato dall’inflazione legislativa in materia penale, a causa della quale, di fatto, l’obbligo di conoscenza di tali disposizioni posto in capo a tutti i cittadini dall’articolo 5 del codice penale (…) è obbligo del quale non si può ragionevolmente pretendere l’adempimento. La razionalizzazione della tecnica legislativa, in forza dell’imposizione di un vincolo costituzionale al legislatore, facilitando la conoscibilità delle disposizioni penali, costituirà quindi una garanzia per il cittadino e, al contempo e conseguentemente, meglio assicurerà l’applicazione della stessa legge penale, senza che ne possa essere invocata in alcun caso l’ignoranza».

    Questa formulazione della riserva di codice veniva ripresa alla lettera dall’art. 3 comma 2 del progetto di codice penale approvato il 22 luglio 2000 dalla Commissione Grosso, che però assegnava al principio in esame un significato nuovo rispetto sia alla centralità del codice affermata dal progetto Pagliaro, sia al legame con la conoscibilità della legge penale operato dalla Commissione bilaterale. La relazione al progetto auspicava infatti che «il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali»; al tempo stesso veniva però definita «irrealistica l’idea di codificazione del progetto Pagliaro», affermando la convinzione «che vi siano materie che non sia opportuno, o addirittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori: la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente condiviso, la dipendenza della disciplina di riferimento, ecc.»[5].

    La relazione al progetto di codice penale licenziato nel 2004 dalla Commissione Nordio faceva invece ritorno alla visione del progetto Pagliaro: la riserva di codice era considerata come strumento di contrasto ai pericoli implicati dalla decodificazione e tuttavia si riteneva di non proporla nell’articolato, poiché «piuttosto dovrebbe trovare collocazione adeguata in una fonte sovraordinata, come quella costituzionale».

    L’ultimo atto progettuale è rappresentato dall’art. 2 della proposta di articolato consegnata al Ministro nel settembre 2007 dalla Commissione Pisapia: «Prevedere che le nuove disposizioni penali siano inserite nel Codice Penale ovvero in leggi che disciplinano organicamente l’intera materia cui si riferiscono, coordinandole con le disposizioni del codice e nel rispetto dei principi in esso contenuti». La norma perseguiva l’intento di conciliare tutte le prospettive in precedenza delineatesi, dalla centralità del codice alla conoscibilità delle leggi penali e all’esigenza che esclusivamente nel codice siano custoditi i principi e gli istituti fondamentali: solo così si giustifica l’accostamento – operato nella relazione – tra «la necessità di fare del codice il testo centrale dell’intero sistema penale, onde porre un freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che alla effettiva possibilità di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti» e il riconoscimento della legittimità delle leggi organiche[6].

    La nostra ricostruzione si conclude con l’art. 1 comma 85, lett. q), legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi recanti modifiche all’ordinamento penitenziario, nel rispetto, tra l’altro, dell’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato». Evitando di soffermarci sulla semplificazione talora eccessiva che caratterizza i collegamenti tra le varie finalità attribuite alla riserva di codice[7] e sull’ampiezza del catalogo delle fattispecie penali destinate a confluire nel codice[8], va notato come, sciogliendo ogni ambiguità, la riserva di codice sia ora proiettata esclusivamente sulle fattispecie incriminatrici. Tale restrizione aveva trovato riconoscimento, ben prima che nell’art. 3-bis c.p., in un decreto ministeriale 3 maggio 2016 istitutivo di una commissione, presieduta dal dott. Marasca, incaricata proprio del «riordino della parte speciale del codice penale», le cui indicazioni – contenute nella relazione approvata il 9 marzo 2017 – saranno in parte recepite dal d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21.

    Di ciò, tuttavia, si dirà più avanti: per il momento, limitiamoci a constatare la dissonanza tra la generale enunciazione dell’art. 3-bis c.p. e la delega governativa per l’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale», giacché nel contrasto fra un principio formulato in senso assoluto e la sua applicazione solo parziale si annida l’essenza del problema.

    1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema.

    La relazione allo Schema di decreto legislativo sull’attuazione dell’art. 1 comma 85, lett. q), per quanto rileva ai nostri fini, afferma che la delega «riserva al codice un ruolo propulsivo di un processo virtuoso che ponga freno alla proliferazione della legislazione penale, rimettendo al centro del sistema il codice penale (…)». Subito dopo, però, la stessa relazione riconosce che l’inserimento del principio «nel codice penale e non nella Costituzione costituisce un argine alquanto labile all’espansione poco meditata del diritto penale, trattandosi di norma ordinaria e non di rango costituzionale; ma è pur vero che, inserita nella parte generale del codice penale, si eleva a principio generale di cui il futuro legislatore dovrà necessariamente tenere conto, spiegando le ragioni del suo eventuale mancato rispetto. Si costruisce in tal modo una norma di indirizzo, di sicuro rilievo, in grado di incidere sulla produzione legislativa futura in materia penale».

    Rispetto a questa idea di una norma non vincolante a causa del rango e nondimeno “quasi” vincolante in virtù del contenuto, la dottrina dominante ha criticamente privilegiato il primo profilo, rilevando che, alla luce della gerarchia delle fonti di produzione del diritto, l’art. 3-bis non è in grado di determinare l’illegittimità di nuove disposizioni penali introdotte, con atto avente valore di legge, in violazione del suo contenuto. In senso contrario si è invece attribuito all’art. 3-bis il valore di «principio costituente per la materia penale, che legifica norme di rango costituzionale»; in base a questo assunto, «la violazione della riserva di codice (…) è controllabile giuridicamente ai sensi degli artt. 25 cpv. Cost. (principio giuridico-costituzionale cui è ancorata la determinatezza) e 3 Cost. (principio giuridico-costituzionale che consente alcune forma di controllo dell’ultima ratio[9].

    L’idea di un’integrazione dal basso dei precetti costituzionali ora menzionati è interessante, ma suscita perplessità. In linea generale, viene subito da dire che l’art. 3-bis si presenta certamente come una norma anomala: in confronto alle disposizioni che lo precedono o gli fanno séguito nel titolo I del libro I, esso ha come unico destinatario il futuro legislatore che introdurrà le «nuove disposizioni che prevedono reati». Ora, pur volendo a ogni costo evitare l’antica polemica se le norme penali siano rivolte al giudice chiamato ad applicarle o all’individuo obbligato a rispettarle, un precetto destinato esclusivamente al legislatore ordinario ha senso solo in quanto provenga da una fonte sovraordinata: senza necessità di affrontare qui il problema dei c.d. autovincoli legislativi, ampiamente dibattuto nella dottrina costituzionalistica[10], ammettere che il Parlamento possa autovincolare la propria futura attività significherebbe ammettere un esercizio del potere in grado di condizionare il successivo esercizio di esso, così addirittura ponendo a rischio le basi della democrazia rappresentativa.

    Si noti: qui non stiamo discutendo delle buone ragioni che stanno alla base di ogni progetto inteso ad “aggravare” la procedura di formazione delle leggi penali, così da richiedere una maggiore riflessione[11], poiché il problema verte sulla possibilità che il Parlamento introduca una norma di sistema, finalizzata ad atteggiarsi come parametro di legittimità di ogni nuova incriminazione penale, anche quando sia mutata la composizione delle Camere.

    A nostro avviso, l’ipotizzabilità di una legge ordinaria, chiamata a conferire un contenuto giuridico di tipo operativo a un principio sovraordinato, si espone a un’alternativa concernente questo principio: che, se è talmente univoco da escludere contrastanti interpretazioni, costituisce la diretta fonte del vincolo anche per il legislatore futuro; se invece il contenuto attribuitogli mediante legge ordinaria convive con altre sue possibili divergenti interpretazioni, l’atto creativo sotteso dalla sua traduzione non può imporsi neppure indirettamente sulla legge futura. Come si vede, alla base di questa soluzione si riaffaccia sempre la gerarchia delle fonti, che all’interno del nostro sistema rappresenta un valore da difendere e anche – rispetto al problema in esame – un insormontabile ostacolo, che è bene rimanga tale.

    In ogni caso, a noi sembra che l’art. 3-bis c.p. si sottragga alla qualifica di norma “di sistema” a causa di una sua congenita indeterminatezza.

    In particolare, la formula «nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia» andrebbe intesa nel senso che, se per il passato tutto può restare fermo salvo appositi interventi del legislatore, il futuro approdo delle norme penali è rigorosamente costituito dal codice o da leggi organiche. Senza soffermarci per il momento sulla previsione di questo sbocco, la cui natura paritaria è negata dalla rubrica dell’art. 3-bis, dedicata esclusivamente alla riserva di codice, la sua conseguenza parrebbe consistere nell’impossibilità di sancire una nuova incriminazione che, allo stesso tempo, abbia ad oggetto una materia estranea a quelle contenute nel codice penale e neppure possa trovare collocazione in un’inesistente legge organica di riferimento.

    Ma il vero problema non è neppure questo, bensì quello concernente il concetto di legge organica che, a differenza di altri Stati ove esso è definito a livello costituzionale nell’oggetto, nel rango e nelle modalità di formazione (come esempio possono citarsi gli artt. 46 ss. e 81, rispettivamente della Costituzione francese e spagnola), in Italia può indifferentemente riguardare il funzionamento di un organo o una disciplina tematica, in questo caso caratterizzandosi alla luce di una sfumata idea di completezza o sistematicità. In tale sua proiezione sull’oggetto, però, il termine risulta suscettibile delle più svariate declinazioni solo che lo si leghi a uno specifico argomento, a un determinato settore o a un’intera materia[12]. La conclusione finale è che una prescrizione normativa fondata su un concetto così sfuggente offre nulla più che una vaga indicazione, priva di ogni carattere vincolante.

      2. Limiti e finalità della riserva di codice.

    L’oggetto del dibattito è noto. In favore di una rivalutazione del ruolo del codice intervengono argomenti fondati, oltre che sull’esigenza di agevolare la conoscibilità dei precetti – così da rafforzarne la capacità di orientamento culturale e quindi l’efficacia generalpreventiva –, sull’opportunità di ostacolare derive ermeneutiche legate a una supposta specialità e autonomia dei reati extracodicistici[13]. In senso opposto si sottolinea invece l’elevato tecnicismo di disposizioni che non possono essere sradicate dal contesto normativo di riferimento, alla luce dei loro legami con le regole e i concetti ivi stabiliti ovvero con le altre disposizioni processuali o penitenziarie o amministrative poste a complemento e integrazione delle stesse fattispecie penali[14].

    Sul dilemma appena riferito interviene appunto l’art. 3-bis c.p. che, prevedendo l’inserimento di nuove norme solo nel codice penale salvo il limite costituito da leggi organiche di settore, esprime comunque una netta preferenza per la collocazione codicistica. Nondimeno, ai nostri fini è significativo che tale disposizione provenga da una proposta della commissione Marasca (retro, § 1.1.) condivisa solo dalla minoranza e che la relazione infine approvata dalla commissione si esprimesse nettamente in favore della coesistenza del codice penale e di testi organici.

    Non solo. Alcuni componenti della prima sottocommissione, competente per la tutela della persona, avevano espresso perplessità sulla «capacità razionalizzante della riserva di codice, strumento che reputano inadeguato ad interpretare nell’attuale momento storico le istanze di criminalizzazione, soprattutto – ma non soltanto – alla luce della forte interdipendenza tra diritto penale e normativa di contesto (è evidente che l’obiettivo della maggior conoscibilità non sempre sarà realizzabile quando le fattispecie da traslare nel codice abbiano una natura affatto o prevalentemente sanzionatoria e il corpo in cui sono attualmente collocate disciplini per il resto la materia in modo più o meno coerente)»[15]. Analogamente, la seconda sottocommissione – cui era attribuita la tutela della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio e della salute pubblica – si era espressa in favore di «corpi normativi unitari e tendenzialmente esaustivi (…), in linea con la tradizione legislativa italiana e con un modello ormai assimilato dagli operatori del diritto e dai destinatari della normativa»[16]. Così pure la terza sottocommissione, alla quale erano state attribuite la correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, aveva osservato in favore delle leggi organiche «che vi sono materie che richiedono interventi multidisciplinari, che spaziano dal livello penale a quello amministrativo e prima ancora definitorio delle categorie e dei poteri, coordinato con settori diversi etc.: sicché sarebbe un lavoro vano, nell’ottica della effettiva conoscenza di tutti i portati della legge anche solo penale, quello consistente nella estrapolazione da tali contesti dei soli precetti che applicano sanzioni penali»[17].

    Come si vede, la stessa commissione ministeriale espressamente incaricata di attuare la riserva di codice ha concluso per la pratica irrealizzabilità di tale obiettivo. Ma a tale conclusione era invero già pervenuto il legislatore, che a quella commissione aveva conferito il mandato di un’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio», così dimostrando un contraddittorio atteggiamento, oscillante tra l’affermazione della centralità del codice e l’accoglimento di un doppio binario tra codice e leggi organiche[18].

     3. Codice penale e accessibilità della legge.

    Una precisazione preliminare è opportuna: le successive considerazioni sono dedicate al problema della collocazione delle norme penali e ad esse restano estranei i rapporti tra i principi generali del diritto penale e la legislazione penale complementare. Ai due profili sono rispettivamente dedicati, in assenza di qualsiasi coordinamento, gli artt. 3-bis e 16 c.p.: l’uno situato subito dopo la norma sull’obbligatorietà della legge penale, come a introdurre una specificazione di quell’obbligo, l’altro relegato al fondo del titolo I del libro I. È evidente però la sfasatura tra le scelte legislative: lungi dal rivestire un ruolo di rincalzo, l’art. 16 enuncia la «fondamentale unità dogmatica dell’intero diritto penale», ovunque contenuto, e tale «essenziale funzione di raccordo e di unione» tra diritto penale codicistico e legislazione penale complementare[19] mira a precludere – salvo espressa deroga, da introdursi con atto avente forza di legge – la formazione di aree e settori sottratti alle garanzie faticosamente raggiunte nel corso degli ultimi due secoli; sicché la norma contribuisce ancor più dell’art. 3-bis a chiarire il senso e i limiti dell’obbligatorietà della legge penale, dettando un precetto valido sia per il legislatore che per il giudice[20].

    Così delimitato l’ambito delle riflessioni che seguono, possiamo dare per scontato che l’art. 3-bis c.p. mira a restituire attualità alle esigenze, rivendicate dai nostri antenati, di accessibilità delle norme incriminatrici sparse e disperse nell’intero ordinamento giuridico. Con la precisazione che l’idea originaria di accessibilità si legava soprattutto alla collocazione topografica delle norme all’interno del codice, anche perché – al di là dell’alternativa tra formulazioni assertive o didascaliche che caratterizzò le prime esperienze codificatorie – era evidente l’obbligo della massima chiarezza; mentre ora quell’idea si estende fino a comprendere la riconoscibilità delle norme come possibilità di una loro comprensione[21].

    Questo nuovo atteggiamento non può sorprendere. Il requisito dell’accessibilità – inteso non più solo nel suo originario fondamento garantistico, ma anche come proiezione del principio di colpevolezza – trova infatti applicazione rispetto a qualsiasi disposizione penale, ovunque collocata. Già nella fondamentale sentenza 24 marzo 1988, n. 364, la Corte costituzionale aveva legato l’operatività dell’art. 5 c.p. al principio di conoscibilità della norma penale[22]; dopo pochi anni, la stessa Corte aveva precisato che «vi sono requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità del precetto penale – che rappresentano anche, peraltro, requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa – in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate»[23]. Analogamente, la giurisprudenza consolidata della Corte EDU vincola la natura penale del fatto a parametri sostanziali tra i quali rileva la qualità della norma che stabilisce precetto e sanzione, sotto il profilo della sua accessibilità per il destinatario e della idoneità a consentirgli di prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta[24].

    Nella prospettiva delineata, le spinte verso un recupero della centralità del codice suppongono che esso sia strumento privilegiato per la realizzazione delle esigenze di accessibilità. La ricchezza semantica del concetto di accessibilità, riferibile sia alla sede topografica che al contesto normativo, quest’ultimo inteso anche come condizione della comprensibilità del precetto[25], dimostra tuttavia la vanità della supposizione: come purtroppo ha dimostrato un recente intervento della Corte costituzionale.

    Il caso davvero non potrebbe essere più emblematico, al punto da far pensare a una beffa del destino, giacché riguarda una norma introdotta nel codice penale dal d.lgs. n. 21 del 2018, che nell’art. 570-bis (Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio) ha voluto portare l’incriminazione precedentemente prevista dall’art. 12-sexies legge 1° dicembre 1970, n. 898 (in tema di scioglimento del matrimonio), esteso dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, alle ipotesi di separazione dei genitori ex art. 3 e «ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» mediante l’art. 4 comma 2. Fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018 – che ha abrogato l’art. 12-sexies delle legge n. 898 e l’art. 3 della legge n. 54 – non si dubitava dunque in giurisprudenza che l’art. 4 comma 2 legge n. 54 avesse equiparato la tutela penale dei figli di genitori coniugati ovvero nati fuori dal matrimonio.

    È possibile che il legislatore delegato abbia ritenuto allo stesso modo, argomentando dalla perdurante vigenza dell’art. 4 comma 2 legge n. 54 del 2006 e dal rinvio mobile sancito dall’art. 8 d.lgs. n. 21 del 2018. Certo è comunque che l’idea di una norma penale avente come soggetto attivo esclusivamente il coniuge, e nondimeno applicabile – fin dal momento della sua introduzione nell’ordinamento! – anche al genitore non coniugato, calpesta nel modo più evidente la comprensibilità della legge e si fa scherno della sua accessibilità.

    Il principio di legalità qui come mai esigeva il suo tributo: ma la Corte costituzionale ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da numerosi giudici di merito, alla luce del «combinato disposto di due norme (l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 e l’art. 8 del d.lgs. n. 21 del 2018) che a loro volta si integrano con la disposizione incriminatrice di cui all’art. 570-bis c.p., determinando l’estensione del relativo ambito applicativo».

    Ha senso parlare ancora di esigenze di riconoscibilità del precetto penale? La Corte costituzionale, proprio richiamando gli scopi del d.lgs. n. 21 del 2018, riconosce come la ricostruzione della norma penale attraverso due disposizioni extrapenali «risulti in definitiva distonica rispetto allo scopo, dichiarato dal legislatore delegante, di garantire ai consociati “una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni” attraverso la sia pur parziale attuazione del principio della “riserva di codice”. Tale considerazione dovrebbe auspicabilmente indurre il legislatore a intervenire direttamente sul testo dell’art. 570-bis (…) in omaggio all’obiettivo – rilevante ex art. 25, secondo comma, Cost. – di una più immediata riconoscibilità del precetto penale da parte dei suoi destinatari»[26]. Nondimeno, fino a quando l’intervento correttivo sul testo della fattispecie non sarà stato effettuato, viene da chiedersi se sarà possibile non ravvisare un errore inevitabile sul precetto da parte di colui – illetterato ovvero laureato e financo giurista non specializzato in diritto di famiglia – che avrà fatto affidamento sulla vigente formulazione dell’art. 570-bis. Prima ancora, però, ci si dovrà chiedere se davvero si possa parlare di errore rispetto a un precetto di univoca interpretazione e di recentissima introduzione all’interno del codice penale o se invece si tratti di un errore del legislatore, che in uno Stato di diritto mai può essere fonte di un errore colpevole del cittadino.

    Riepilogando la non edificante vicenda, abbiamo un reato che è stato recentemente introdotto nel codice penale per ragioni di chiarezza e riconoscibilità sancite dal principio della riserva di codice; sulla base di un’interpretazione la cui correttezza è stata avallata dalla Corte costituzionale, tale reato, pur avendo come destinatario esclusivo il coniuge, incrimina anche il genitore privo della qualità di coniuge. Lo splendore dei principi di accessibilità, riconoscibilità e comprensibilità è dunque durato lo spazio di un mattino perché, proseguirebbe il poeta, appartengono a quel mondo «où les plus belles choses ont le pire destin».

      4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale?

    La vastità dell’attuale realtà normativa e il tecnicismo di taluni settori rendono velleitario qualsiasi obiettivo di concentrazione delle norme penali all’interno del codice[27]. Ma non è solo un problema quantitativo: abbandonando ideali illuministici oggi colorati di romanticismo, occorre riconoscere che parte speciale del codice penale e leggi organiche sono governate da regole eterogenee, in quanto la prima tende ad attrarre le incriminazioni alla luce del bene tutelato, cioè del suo rango o della sua rilevanza costituzionale, mentre il contenuto delle altre è determinato dalla natura complessa o multidisciplinare della materia. Sotto questo profilo, dunque, codificazione e decodificazione non stanno su un medesimo piano come scelte contrapposte, giacché obbediscono a diverse logiche sistematiche pur potendo ispirarsi agli stessi principi.

    In particolare, assumendo che il principio del diritto penale come extrema ratio riguarda allo stesso modo il codice come pure la legislazione complementare e che parimenti vale per i valori dell’accessibilità e della comprensibilità delle norme penali, si fa strada una visione pragmatica che, pur riconoscendo la tendenziale centralità del codice come tavola dei valori fondamentali, sia in grado di cogliere e valorizzare le connessioni tra le varie incriminazioni e di esse con eventuali discipline extrapenali di riferimento. In questa prospettiva, il rango del bene costituisce solo un indizio in favore dell’allocazione della norma all’interno del codice, dovendosi stabilire se, alla luce del contesto in cui è inserita o delle tecnicalità che ne condizionano l’applicazione o della procedimentalizzazione di un bilanciamento di interessi del quale la norma penale costituisce l’esito, non appaia invece preferibile la sua collocazione in una legge organica.

     È corretto dire che la parte speciale del codice abbia cessato di costituire un valore autoreferenziale? Verosimilmente sì: se si vuole davvero riempire il contenuto della colpevolezza anche alla luce dei criteri dell’accessibilità e dell’intellegibilità delle incriminazioni, le leggi organiche – intese come microsistemi ordinari per materie e accostabili nei contenuti ai vigenti testi unici – possono costituire una valida alternativa al codice penale, purché l’insieme complessivo che ne deriva sia in grado di assicurare «un ordine, una coerenza, un raccordo assiologico, semantico e politico-criminale»[28].

      5. Linee conclusive dell’indagine.

    Riconosciuta l’irrealizzabilità di un codice penale destinato a contenere tutte le norme penali, ovunque disperse nell’ordinamento giuridico, oggi si delinea un’alternativa tra due modelli generali: il primo, desumibile dalla rubrica dell’art. 3-bis c.p., aspira a una centralità del codice in conseguenza della quale esso dovrebbe comprendere tutte le fattispecie incriminatrici più significative, anche quando presentino elementi costitutivi intimamente connessi con una normativa privatistica o amministrativistica di settore; il secondo modello auspica invece, accanto al codice penale come tavola dei principi generali e delle incriminazioni fondamentali, che per specifiche materie, di particolare complessità o di alto tecnicismo, le norme penali possano trovare posto in leggi organiche intese alla stregua di testi unici.

    Il riconoscimento della funzione culturale del codice, ma anche delle esigenze di accessibilità e comprensibilità delle norme penali, induce a evitare opzioni rigide e a preferire soluzioni da ricercarsi sulla base di criteri di ragionevolezza[29]. Così, in aggiunta a quanto osservato in precedenza, ulteriori esempi di una corretta collocazione di norme penali fuori dal codice penale possono ravvisarsi in ambito economico: i reati societari è bene che rimangano nel codice civile, i reati fallimentari nella c.d. legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), i reati finanziari nel c.d. testo unico finanziario (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), i reati tributari nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e così via[30]. Allo stesso tempo, tuttavia, per motivi di orientamento culturale può esprimersi un giudizio positivo sulla scelta di portare all’interno del codice penale i reati più rappresentativi della tutela dell’ambiente, così da rimarcare l’importanza di un bene per troppo tempo rimasto ai margini dell’elaborazione penalistica[31].

    Tutto sta dunque a intendersi nell’individuazione delle materie che, per il loro tecnicismo o per l’esistenza di una più ampia disciplina civilistica o amministrativa, richiedono di essere elevate a sistema autonomo e di quelle che invece tollerano una collocazione delle relative incriminazioni all’interno del codice penale.

    Fermo restando che qualsiasi scelta in proposito risulta indipendente dal piano assiologico nel quale si muovono le valutazioni in tema di disvalore etico o giuridico, il dibattito è aperto e ciascuna soluzione può risultare dotata di valide giustificazioni. Per tale ragione, piuttosto che di riserva di codice appare preferibile pensare a una paritaria alternativa tra codice e leggi organiche.

     

     

    * Il testo fa parte di un più ampio studio destinato alla pubblicazione sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale, con il titolo “Codice penale, riserva di codice e riforma dei delitti contro la persona”.

    [1] La citazione è tratta del notissimo esordio («A chi legge») che, a partire dalla “quinta” edizione, del 1766, compare nel Dei delitti e delle pene. Beccaria a più riprese si scaglia contro i «criminalisti» e i frutti della loro «più crudele imbecillità», resi da «giureconsulti autorizzati dalla sorte a decidere di tutto e a divenire, di scrittori interessati e venali, arbitri e legislatori delle fortune degli uomini» (così nella nota del § XIII).

    [2] Gomez de la Serna-Montalban, Elementos del derecho civil y penal de España, Madrid, 18453, I, p. 117 s.

    [3] Sul valore e sul ruolo delle opinioni nella giustizia del XVIII secolo è d’obbligo la citazione di Muratori, Dei difetti della giurisprudenza (1742), in particolare il cap. VI. Sugli ideali, tipicamente illuministici, della chiarezza, semplicità e coerenza delle leggi penali e del loro numero limitato è sufficiente il rinvio a Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 201110, p. 99; sulla moderna codificazione come processo culturale e storico, per tutti si rinvia alle differenti ricostruzioni di Cavanna, La storia del diritto moderno (secoli XVI-XVIII), Milano, 1983, p. 115 ss.; Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, p. 18 ss.

    [4] Valga per tutte la citazione dell’art. 5 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789): «La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».

    [5] Sulle soluzioni accolte nei progetti della commissione Pagliaro, della Bicamerale e della commissione Grosso, per tutti, Maiello, ‘Riserva di codice’ e decreto-legge in materia penale: un (apparente) passo avanti ed uno indietro sulla via del recupero della centralità del codice, in La riforma della parte generale del codice penale, a cura di Stile, Napoli, 2003, p. 159 ss.

    [6] Da notare però come un forte sbilanciamento in favore della soluzione accolta nel progetto Pagliaro fosse rinvenibile nel successivo passo in cui si afferma: «Il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo e, per quanto possibile, esclusivo dell’intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di diritti e beni fondamentali».

    [7] Per una critica al collegamento tra riserva di codice e rieducazione del reo Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alla playlist. Considerazioni inattuali sul principio della riserva di codice, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 5, p. 136 ss.; conf. Riccardi, Riserva di codice, in Dir. pen. cont., 20-12-2018, p. 3. Diff. Donini, La riserva di codice (art. 3-bis c.p.) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, in Leg. pen., 20-11-2018, p. 8 s.; Rotolo, Riserva di codice e legislazione complementare, in Jus Online, 2019, n. 3, p. 166 s.

    [8] Per tutti, Pelissero, La politica penale delle interpolazioni, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 71. D’altra parte, come dimostra la ricerca della quale riferisce Donini, Oltre il tecnicismo e l’ideologia: verso una costruzione più scientifica delle leggi penali, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. VII ss., la maggior parte degli illeciti che costituiscono la legislazione penale complementare è posta a tutela di beni giuridici fondamentali riconducibili all’incolumità e alla salute pubblica (da ult. Ambrosetti, Codice e leggi speciali. Progettare una riforma dopo la riserva di codice, in disCrimen, 5-11-2018, p. 2 s.).

    [9] Donini, L’art. 3 bis c.p. in cerca del disegno che la riforma Orlando ha forse immaginato, in Dir. pen. proc., 2018, p. 438; Id., La riserva di codice, cit., p. 8. Nel senso di negare alla norma in esame il valore di un vincolo per il futuro legislatore, tra gli altri, Gallo, La cosiddetta riserva di codice nell’art. 3-bis: buona l’idea, non così l’attuazione, in Dir. pen. cont., 20-11-2018, p. 2; Leopizzi, La grande migrazione, in Giust. pen., 2018, I, c. 84; Palazzo, La Riforma penale alza il tiro?, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 60; Riccardi, Riserva di codice, cit., p. 4 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 161 s.; vd. pure Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 143 s.; nonché Maiello, ‘Riserva di codice’, cit., p. 164.

    [10] Un approfondimento è in Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica: significato, questioni di legittimità costituzionale e impatto sul sistema penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2019, n. 1, p. 215 ss.

    [11] Ampiamente, da ult., Fornasari, Argomenti per una riserva di legge rafforzata in ambito penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 2, p. 162 ss.

    [12] Conf. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210, che a p. 214 afferma l’illegittimità dell’art. 3-bis per difetto della legge delega.

    [13] Per tali argomentazioni, tra gli altri, Fornasari, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano, 1994, p. 217; Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992, p. 266 ss.; Romano, Razionalità, codice e sanzioni penali, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, Milano, 2003, III, p. 1895; Id., Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1977, p. 190 ss.; in riferimento ai reati contro la persona conf. De Francesco, Una sfida da raccogliere: la codificazione delle fattispecie a tutela della persona, in Tutela penale della persona e nuove tecnologie, a cura di Picotti, Padova, 2013, p. 25 ss.; vd. anche Ferrajoli, Il paradigma garantista, Napoli, 20162, p. 215 ss.; Id., Crisi della legalità penale e giurisdizione. Una proposta: la riserva di codice, in Legalità e giurisdizione. Le garanzie penali tra incertezze del presente ed ipotesi del futuro, Padova, 2001, p. 27 ss. Un quadro equilibrato delle ragioni in favore della decodificazione e della ricodificazione è in Palazzo-Papa, Lezioni di diritto penale comparato, Torino, 20133, p. 41 ss.

    [14] Con varietà di accenti, ma nel senso di considerare le proposte pancodicistiche come un’anacronistica riproposizione di pensieri risalenti all’illuminismo settecentesco Fiandaca, In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in Dir. pen. proc., 2001, p. 137 ss.; Id., Relazione introduttiva, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. 2: Id., La riforma codicistica tra mito accademico e realtà politico-culturale, in Gli ottant’anni del codice Rocco, a cura di Stortoni-Insolera, Bologna, 2012, p. 209 s.; Palazzo, Requiem per il codice penale? (Scienza penale e politica dinanzi alla ricodificazione), ivi, p. 39 ss.; Paliero, Riforma penale in Italia e dinamica delle fonti: una paradigmatica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1014 ss. In favore della elaborazione, accanto al codice penale, di leggi organiche di settore, da intendersi come «microsistemi integrati», Donini, Alla ricerca di un disegno, Padova, 2003, pp. 106 ss., 166 ss., 219 ss.; Id., L’art. 3 bis c.p., cit., p. 434 s.; vd. anche Losappio, Il sottosistema nel diritto penale. Definizione e ridefinizione, in Ind. pen., 2005, p. 7 ss.; Padovani-Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 2006, p. 31 ss.; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., pp. 141 ss. e 151 ss. Sul piano comparato, utili indicazioni sono offerte dalle relazioni di Quintero Olivares e Pradel, in La riforma della parte speciale del diritto penale, a cura di Papa, Torino, 2005, pp. 49 e 55 s.; vd. pure Cadoppi, Il crepuscolo del codice. Gli ottant’anni del codice Rocco alla luce dell’esperienza comparatistica, in Gli ottant’anni del codice Rocco, cit., p. 83 ss.

    [15] Commissione di studio per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo per un riordino della parte speciale del codice penale, parte II, § 0, p. 16 s. Vd. anche ivi, p. 19: «l’accorpamento in testi organici di specifiche per quanto ampie materie – soprattutto se ad alto contenuto tecnico – consentirebbe ai destinatari del precetto (primario e secondario) un più agevole reperimento della disciplina di base anche extra penale e al legislatore un meno problematico aggiornamento dei presupposti tecnici del divieto penale».

    [16] Commissione di studio, cit., parte III, § 1, p. 63, che allega così «esigenze di razionalità e migliore “leggibilità” dei reati».

    [17] Commissione di studio, cit., parte IV, § 0, p. 107 s., che così prosegue: «Ma la ragione più importante sta nel fatto che il codice dovrebbe essere portato verso la direzione della “essenzialità” del diritto penale. Con la conseguenza che il problema maggiore o comunque contestuale a quello sottopostoci non è tanto quello del trasformare precetti extra-codice in altrettanti precetti di parte speciale, e quindi infarcire ulteriormente il codice, quanto quello di fare contemporaneamente uscire un certo numero di precetti (…) di importanza diminuita o addirittura non più percepita se non addirittura venuta meno».

    [18] Cfr., tra gli altri, Donini, La riserva di codice, cit., p. 4 ss.; Pelissero, La politica penale, cit., p. 71 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 168; Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210 ss.

    [19] Le citazioni sono tratte da Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 20053, p. 190; vd. pure Fiorella, Le strutture del diritto penale, Torino, 2018, p. 58 s.

    [20] Cfr. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 208 e nota 6, secondo cui l’art. 3-bis avrebbe potuto essere meglio allocato subito dopo l’art. 5 ovvero nel titolo IV del libro I.

    [21] Per tutti e da ult. Rotolo, ‘Riconoscibilità’ del precetto penale e modelli innovativi di tutela, Torino, 2018, p. 55: «Il ‘principio di riconoscibilità’ concerne le relazioni che legano lo Stato e il cittadino: esso impone l’equilibrio tra la garanzia offerta al destinatario del precetto di poterne comprendere il significato e l’esigenza di pretenderne l’obbedienza».

    [22] «Il principio di “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, comma 3 e 25, comma 2, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da esser percepite anche in funzione di norme “extrapenali”, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare”» (punto 17 in diritto). In argomento De Francesco, Diritto penale, Torino, 2018, p. 507 ss.; Fiorella, Le strutture, cit., p. 88 s.; Manna, Corso di diritto penale, pt. gen., Milanofiori Assago, 20153, p. 427 ss.; Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 20198, p. 429 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 20187, pp. 92 s., 441 s.; de Vero, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 2020, p. 759 ss.; Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19-12-2016, p. 2 ss.; da ult. Lanzi, Error iuris e sistema penale, Torino, 2018, pp. 70 ss., 139 ss.; Papa, Fantastic voyage, Torino, 20192, p. 75 ss.

    [23] Corte cost., 13 aprile 1992, n. 185.

    [24] Nella sterminata bibliografia, utili spunti sono offerti da Bernardi, La sovranità penale tra Stato e Consiglio d’Europa, Napoli, 2019, p. 49 ss.; Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, p. 82 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 20187, p. 62 ss.; Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, p. 140 ss.; Sotis, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012, p. 21 ss.; Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità ‘costituzionale’ vs. legalità ‘convenzionale’?, in Dir. pen. cont., 5-4-2017, p. 2.

    [25] Nel senso di differenziare conoscibilità e comprensibilità de Flammineis, L’età della (apparente) codificazione: brevi riflessioni sul d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 6, p. 30.

    [26] Corte cost., 5 giugno 2019, n. 189.

    [27] Sul punto non sussistono dubbi: Donini, La riserva di codice, cit., p. 7, paventa la trasformazione del codice in un «libro-ripostiglio»; Palazzo, La Riforma penale, cit., p. 60, prospetta il pericolo di un codice destinato ad assumere «proporzioni mostruose»; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 142, parla di un codice inteso come «“centro di accoglienza” (…). Un insieme di norme informe ed eterogeneo: privo di struttura, disarmonico nello stile, architettonicamente inguardabile».

    [28] Donini, La riserva di codice, cit., p. 9.

    [29] In questo senso non sembra condivisibile la scelta del progetto Pagliaro, fondata solo sulla mutevolezza della normativa, così escludendo dal codice penale le incriminazioni in tema di mafia, armi e stupefacenti «perché le tecniche della lotta contro gli illeciti in questione (e, talvolta, i fenomeni stessi) sono troppo legate alla contingenza dei tempi, per potere essere stabilmente formalizzate in un codice».

    [30] Il Progetto Pagliaro optava decisamente per la soluzione codicistica nel titolo VII, dedicato ai reati contro l’economia, mentre la relazione della Commissione di studio, cit., parte IV, § 3.1 s., p. 137 s., si esprime in favore dell’attuale collocazione dei reati societari, bancari, finanziari e fallimentari.

    [31] Per tutti D’Alessandro, Nota introduttiva agli artt. 452 bis-452 terdecies, in Commentario breve al codice penale, a cura di Forti-Seminara-Zuccalà, Milanofiori Assago, 20176, p. 1525 ss.

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