GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Decisione nel merito della Corte di Cassazione e risarcimento danni ex lege 117 del 1988: tempus fugit...talvolta inconsapevolmente! di Gian Andrea Chiesi

    Decisione nel merito della Corte di Cassazione e risarcimento danni ex lege 117 del 1988: tempus fugit...talvolta inconsapevolmente!

    di Gian Andrea Chiesi

    Cass., Sez. U, 24.11.2020, n. 26672, Pres. Curzio, Est. Scoditti, P.M. Sgroi (Conf.)

    In tema di responsabilità civile dei magistrati, nell'ipotesi di domanda di risarcimento per danno attribuito a provvedimento della Corte di cassazione che abbia deciso la causa nel merito, il termine di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 decorre dalla pubblicazione del provvedimento sull'istanza di revocazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., anche se dichiarata inammissibile per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto, ovvero, se il rimedio della revocazione non sia stato esperito, dal provvedimento asseritamente fonte del danno, salvo, in quest'ultimo caso, la valutazione da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile della ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione e, in caso positivo, la dichiarazione di inammissibilità della domanda per mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 391-bis c.p.c.

    Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988 - 3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito - 3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. - 4. Un revirement delle Sezioni Unite?

    1. Premessa

    Con sentenza 24.11.2020, n. 26672 le Sezioni Unite, confrontandosi con una domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento con cui la Corte di cassazione aveva deciso la causa nel merito, hanno chiarito che il termine di decadenza fissato dall’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 (nella specie, nella versione, applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. a, della l. n. 18 del 2015) per promuovere l’azione di responsabilità decorre (a) dalla pubblicazione del provvedimento reso sull'istanza di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. (anche se dichiarata inammissibile, per estraneità al parametro legale dell'errore di fatto) proposta nei confronti del provvedimento asseritamente dannoso ovvero (b) dalla data di pubblicazione  di questo, ove il rimedio della revocazione non sia stato esperito, salva, in tal caso, (b1) la valutazione, da parte del giudice dell'azione di responsabilità civile, dell’astratta ricorrenza dei presupposti per proporre la revocazione (con conseguente declaratoria di inammissibilità della domanda, in caso di positivo riscontro, per mancato esperimento del rimedio volto a conseguire “la modifica o la revoca del provvedimento” oggetto di doglianza).

    A tali conclusioni la Corte è pervenuta valorizzando, da un lato, (1) l’“elasticità” dell’art. 4 cit. (quale previsione, cioè, “aperta alla variabilità degli strumenti processuali che nel tempo il legislatore modifica o introduce ex novo”), rispetto all’individuazione del dies a quo da considerare, per ritenere “...comunque...non...più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ingenerante il lamentato danno e, dall’altro, nel peculiare contesto delle pronunzie cd. sostitutive della Corte di Cassazione, (2) la natura latamente “endoprocessuale” della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.  

    2. Sulla natura “elastica” dell’art. 4 l. n. 117 del 1988

    Procedendo per gradi e muovendo dal primo profilo, l’art. 4, comma 2, chiarisce che l'azione di risarcimento – proponibile, a pena di decadenza entro due anni (poi divenuti tre, a seguito della novella ex lege n. 18 del 2005) dal momento in cui l'azione è esperibile - può essere esercitata “soltanto quando siano stati esauriti i mezzi ordinari di impugnazione” o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e “comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento” ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.  

    Invero, nel perimetrarne l’esatto ambito applicativo, già Cass. civ., sez. I, 23.12.1997, n. 13003, evidenziò che la norma, per come è formulata, appare diretta a privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria (cfr. anche, sul punto, Boccagna, Legge 13 aprile 1988, n. 117, sub art. 4, Competenza e termini, in La responsabilità civile dei magistrati. Commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, a cura di Auletta, Boccagna e Rascio, Bologna, 2017, 212 ss.), subordinando quest'ultima alla circostanza che il danneggiato abbia attivato i meccanismi predisposti dall'ordinamento per eliminare o, almeno, ridurre il danno: in altri termini l’errore - secondo l’idea di fondo sottesa anche all’originario impianto del codice di rito (cfr. gli artt. 55 e 56) - va corretto “nel” processo (attraverso la rimozione, la più immediata possibile, del provvedimento dannoso e, con esso, in nuce della fonte del danno, mediante gli strumenti processuali che l'ordinamento appresta all’uopo. Cfr. anche Cass. civ., sez. I, 13.12.1996, n. 2186), mentre l’azione risarcitoria “esterna”, attivata con il giudizio di responsabilità rappresenta una extrema ratio.

    Ben si comprende, allora, come la Corte, in tale prospettiva “finalistica”osservi che “proprio perché retto da un principio di resilienza dell'ordinamento, che vieta di accedere al rimedio risarcitorio se prima non si è fatto il possibile per eliminare il danno che l'ordinamento stesso ha cagionato mediante il provvedimento giudiziario, l'art. 4 costituisce, alla stregua di una norma c.d. elastica, una valvola di apertura rispetto al mutamento nel corso del tempo dei rimedi esperibili nei confronti dei provvedimenti del giudice": con l’unico limite – derivante dall’interferenza con la disciplina dei termini per l’esperimento di un’azione giudiziaria - della sottoposizione di tali rimedi, inclusi quelli di “nuovo conio,” ad un termine di proponibilità ovvero, comunque, al dato certo dell'impossibilità di modifica o revoca del provvedimento.

    3. La naturale (in)stabilità della pronunzia di legittimità che decide sul merito

    Risolta tale preliminare questione, la Corte affronta, a valle, il tema del rapporto esistente tra azione risarcitoria ex lege n. 117 e danno ingiusto derivante da un provvedimento della Corte di Cassazione che, cassando la decisione impugnata, abbia poi deciso la causa nel merito, ex art. 384, comma 2, secondo inciso, c.p.c..

    Il carattere “paradossale” della vicenda riposa sul rilievo che il danno asseritamente cagionato dal provvedimento del giudice di merito, emendabile “nel” processo attraverso la (auspicata) fisiologica impugnazione (sub specie, per l’appunto, di ricorso per cassazione), è cancellato da un “altro” danno, stavolta provocato da un provvedimento (la decisione della Corte di legittimità, per l’appunto) che, decidendo la causa con effetto sostitutivo della decisione gravata è, al contrario di quello impugnato, dotato del carattere di “tendenziale” definitività e stabilità, divenendo esso stesso - eccezionalmente - regola del caso concreto (cd. cassazione sostitutiva): come a dire...due torti non fanno una ragione!

    Definitività e la stabilità, però, solo tendenziali, si diceva, giacché la decisione sul merito è idonea al giudicato ed è irretrattabile, salva (a) l’esperibilità nei confronti della stessa (contrariamente, peraltro, a quanto previsto per le altre decisioni assunte dalla Corte: cfr. Cass. civ., sez. II, 31.5.2016, n. 11236) dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., nonché (b) la sua impugnabilità per revocazione, ex artt. 391-bis e ter c.p.c. (si rinvia, per un approfondimento sul punto, a Sorrentino, La revocazione delle pronunce della Corte di cassazione, in www.cortdicassazione.it).

    Orbene, esclusa la rilevanza, ai fini che in questa sede interessano, tanto del primo rimedio suddetto (idoneo a tutelare le ragioni dei terzi e non delle parti coinvolte nel giudizio definito con la sentenza opposta. Arg. da Cass. civ., sez. II, 15.12.2010, n. 25344), quanto della revocazione ex art. 391-ter c.p.c. (siccome non vincolata ad un termine fisso di proposizione e, dunque, inidonea a soddisfare quell’esigenza di certezza richiesta dall’art. 4, comma 2 e di cui si è appena detto), le Sezioni Unite concentrano la propria attenzione sul se e come la revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c. possa interferire con la duplice prescrizione contenuta nell’art. 4, comma 2, cit. ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria e, cioè, con (a) il previo esaurimento di tutti gli strumenti per ottenere la revoca o la modifica del provvedimento “danneggiante” e (b) il rispetto del termine di decadenza biennale (ora triennale).

    3.1. (Segue) La “vera” natura della revocazione per errore di fatto ex art. 391-bis c.p.c.

    Non interessando, per quanto già detto in precedenza, che l’istituto non fosse previsto al momento in cui fu promulgata la l. n. 117, la Corte constata che l'impugnazione di un provvedimento reso da un giudice che ha lo status di Suprema Corte “non appartiene alla logica della formazione del giudicato formale, ma a quella più limitata del conseguimento della stabilità della decisione in funzione di tutela di esigenze costituzionali. La presenza del termine fisso di decorrenza per la proposizione dell'impugnazione non vale dunque a riprodurre nell'ambito dei provvedimenti della Corte di Cassazione la distinzione fra il mezzo ordinario ed il mezzo straordinario, ma serve solo a conciliare, in presenza di errore di fatto, l'esigenza di stabilità della decisione (e di rispetto del giudicato formale nel caso di ricorso per cassazione respinto) con i diritti di difesa e di eguaglianza, lasciando aperta la possibilità di denunciare i vizi occulti nei diversi limiti temporali previsti per la c.d. revocazione straordinaria nel caso della decisione della causa nel merito in quanto atto costitutivo della cosa giudicata in senso sostanziale di cui all'art. 2909 cod. civ.”.

    Con la conseguenza che ne discende per cui il rimedio in esame, a dispetto della terminologia usata dal legislatore, si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 324 c.p.c., essendo piuttosto espressione di una regola diversa e, in specie, di un’impugnazione non preclusiva del giudicato (e, in tale prospettiva, per ciò stesso “straordinaria”, come osservato anche da Cass. civ., sez. VI-5, 17.9.2015, n. 18300, la quale chiarisce ulteriormente che "la sentenza della Corte di cassazione, dunque, non "passa in giudicato" ma, per mutuare una felice formula dottrinaria, "nasce già formalmente come passata in giudicato"), ma comunque idonea ad incidere sulla stabilità del provvedimento verso cui è rivolta.

    Rispetto alle condizioni poste dall’art. 4 della l. n. 117, dunque, la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. gioca la propria parte non già sul piano del giudicato quanto, piuttosto, su quello dell’effetto che essa produce e, cioè, della possibilità di “revoca del provvedimento” nei cui confronti è proposta, di rimozione, cioè, entro un determinato termine, del provvedimento asseritamente fonte di danno:“l’'istituto della revocazione per errore di fatto dei provvedimenti della Corte di Cassazione – si legge ancora in motivazione - entra pertanto nell'art. 4 proprio dalla porta della disposizione di chiusura rappresentata dall'inciso «comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento»...Trattandosi della disciplina del termine per proporre l'azione di responsabilità, la «revoca del provvedimento» viene in rilievo, limitatamente all'ipotesi dell'art. 391-bis, come ritiro dal mondo del diritto entro un termine di decadenza...”.

    4. Un revirement delle Sezioni Unite?

    È, dunque, attraverso l’osservazione e la valorizzazione del fenomeno da un diverso angolo prospettico (cfr. anche Metafora, Responsabilità civile magistrati: ricorso per revocazione e decorrenza del termine per l'azione di responsabilità, in www.ilprocessocivile.it, 5 marzo 2021) che risulta superato l’arresto di Cass., sez. un., 3.5.2019, n. 11747 la quale, al § 6.3 della motivazione (richiamandosi a Cass., sez. VI-3, 14.5.2015, n. 9916), aveva al contrario escluso che la proposizione dell'azione di revocazione fosse idonea ad impedire la decadenza ex art. 4 cit., ritenendo, al contrario, che la proponibilità dell'azione risarcitoria decorresse dal consumarsi del pregiudizio, momento coincidente, in ogni caso, con il passaggio in giudicato della sentenza di rigetto della domanda o del ricorso avanzati dall’asserito danneggiato.

    In ipotesi di cassazione cd. sostitutiva, dunque, la domanda risarcitoria ex lege n. 117 del 1988 va proposta, a pena di decadenza, entro tre anni (due anni, secondo la norma applicabile ratione temporis) decorrenti dal momento in cui il procedimento di revocazione ex art. 391-bis c.p.c. promosso avverso il provvedimento asseritamente dannoso è esaurito: tanto, si badi, indipendentemente, precisa la Corte, dalla correttezza dell’attivazione del rimedio, giacché la decisione sull'ammissibilità dello strumento è valutazione che spetta ex post al giudice dell'impugnazione, mentre "il diritto di promuovere l'azione di responsabilità civile, da esercitare entro un termine previsto a pena di decadenza, deve restare ancorato ad un termine certo e prevedibile e non può dipendere dall'evento rappresentato dal tipo di qualificazione che, all'esito del giudizio, opererà il giudice della revocazione". Diversamente, ove la revocazione ex art. 391-bis c.p.c. non sia stata esperita, il termine per la proposizione dell'azione di responsabilità decorre dalla pubblicazione del provvedimento asseritamente fonte del danno, purché, però, in relazione all'illecito denunciato non fosse in astratto proponibile il rimedio revocatorio (e, dunque, non avendo egli da dolersi del vizio alla cui ricorrenza è condizionato quel gravame), non potendo "imputarsi" al danneggiato (nell'ottica dell'esaurimento degli strumenti endoprocessuali) il mancato esperimento dell'impugnazione "naturale" allorché, trattandosi di gravame - come nella specie - a critica vincolata, questa fosse preclusa per difetto dei presupposti e, quindi, "non prevista" o "non più possibile" secondo il disposto dell'art. 4 (arg. da Cass. civ., sez. I, 4.5.2005, n. 9288).        

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