GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L’autonomia del procedimento disciplinare dei magistrati ordinari ed i rapporti con il procedimento penale

    L’autonomia del procedimento disciplinare dei magistrati ordinari ed i rapporti con il procedimento penale

    di Mario Fresa

    Il tema dei rapporti tra il procedimento disciplinare e il processo penale, dei presupposti della sospensione del procedimento disciplinare e dei termini di decadenza dell’azione disciplinare è tornato prepotentemente alla ribalta nell’ultimo anno con alcune decisioni, interlocutorie e non, della Sezione disciplinare del C.S.M. e delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

    L’intervento approfondisce aspetti teorici e pratici quali il superamento, con la Riforma del sistema disciplinare del 2006 ed il rinvio alle norme del vigente c.p.p. “in quanto applicabili”, della c.d. pregiudizialità penale e della primazia del processo penale, i limiti della possibile sospensione del procedimento disciplinare ed i casi di sospensione ex lege dei termini di decadenza, i limiti del giudicato penale ed il concetto di identità del fatto, giungendo alla conclusione secondo cui, mentre il procedimento disciplinare per l’illecito conseguente a reato deve (rectius, può) rimanere sospeso sino al giudicato penale, le incolpazioni disciplinari autonome possono essere immediatamente oggetto di giudizio disciplinare, con eventuale condanna del magistrato incolpato  anche in pendenza del processo penale inerente la stessa vicenda.

     

     

     

    SOMMARIO: 1. Evoluzione storica. 2. La riforma del 2006 ed il superamento della primazia del processo penale. 3. Sospensione dei termini e sospensione del procedimento: una confusione da evitare. 4. I limiti del giudicato penale e l’identità del fatto (giuridicamente inteso). 5. Le fattispecie tipizzate disciplinari autonome e la decorrenza dei termini di decadenza. 6. La giurisprudenza disciplinare, di merito e di legittimità. 7. Conclusioni.  

     

     

     

        1. Evoluzione storica.

        Il tema dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale ha subito un profondo mutamento con l’entrata in vigore del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 nel senso della più completa autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale.

        Nel sistema disciplinare abrogato, l’art. 28, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 richiamava espressamente l’art. 3 c.p.p. abrogato (r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399) e ciò comportava conseguenze in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e penale in riferimento alle ipotesi di c.d. pregiudizialità penale.

        In effetti, il menzionato art. 3, nel nome di una allora indiscussa primazia del processo penale rispetto ad ogni altro tipo di processo, civile, amministrativo o disciplinare, prevedeva la sospensione necessaria del procedimento disciplinare (come qualsiasi altro processo), ogniqualvolta la “cognizione del reato influisce sulla decisione della controversia”.

        La giurisprudenza disciplinare aveva, correttamente, sempre interpretato il combinato disposto delle richiamate norme nel senso che l’esistenza della pregiudizialità penale potesse essere affermata non solo nel caso di identità dei fatti oggetto dei rispettivi giudizi, ma ogni qualvolta essi si inserissero nel contesto di una medesima vicenda storica.

        Tanto più che il disposto dell'ultimo comma dell'abrogato art. 59 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, secondo cui i termini previsti per il procedimento disciplinare a carico dei magistrati sono sospesi "se per il medesimo fatto viene iniziata l'azione penale", configurava un'ipotesi di sospensione necessaria del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale che non poteva essere interpretata restrittivamente, operando non solo in caso di identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti, ma anche in presenza della loro comune riferibilità ad una medesima vicenda storica (Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7310).

     

        2. La riforma del 2006 ed il superamento della primazia del processo penale.

        Nel sistema vigente dal 2006, la prospettiva è radicalmente mutata.

        Anzitutto perché, nel frattempo, era stato abrogato il codice di procedura penale del 1930 e, a differenza di quello, con il nuovo codice di procedura penale (d.P.R. 24 settembre 1988, n. 447), entrato in vigore il 24 ottobre 1989, viene superato il principio della primazia del processo penale sugli altri processi, civili, amministrativi o disciplinari.

        In effetti, non esiste più una norma analoga a quella dell’art. 3 c.p.p. abrogato e, contrariamente al passato, in cui l’ordinamento manifestava un evidente favor per il processo penale, quale sede privilegiata per l’accertamento di un fatto, anche per via della quasi totale assenza di limiti in ordine all’assunzione delle prove, l’attuale assetto di rapporti tra i diversi sistemi processuali si fonda su un principio di tendenziale autonomia e separatezza dei giudizi, scelta dettata dalla necessità di assicurare la conclusione di ogni processo in tempi contenuti e tali da preservarne, secondo previsione costituzionale, una “ragionevole durata”.

        In quest’ottica, il vigente sistema disciplinare, al quale si applicano non più le norme dell’abrogato c.p.p., ma quelle norme del vigente c.p.p. “in quanto compatibili” (artt. 16, secondo comma, e 18, quarto comma, d.lgs. n. 109/2006), si muove anch’esso nel senso della più ampia autonomia dal processo penale, giustificata, per un verso, da una sorta di incompatibilità temporale tra i due procedimenti, essendo il procedimento disciplinare, per sua natura, assai più rapido ed incisivo di quello penale, anche per effetto dei plurimi e brevi termini decadenziali che ne caratterizzano ogni sua fase e, per altro verso, dai più ampi limiti posti dal vigente c.p.p. al principio del libero convincimento del giudice, che determinano una più ampia forbice tra “verità storica” dei fatti e “verità processuale”, con conseguente minore affidabilità del sistema penale in tema di accertamento di una “verità storica” utile a risolvere, con effetti di giudicato, qualsivoglia controversia, civile, amministrativa o disciplinare, riguardante la medesima vicenda storica.

     

        3. Sospensione dei termini e sospensione del procedimento: una confusione da evitare.

        L’ampia autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, la si evince chiaramente dal combinato disposto degli artt. 15, ottavo comma, lett. a) e 20, secondo e terzo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006.

        L’art. 15 (rubricato “termini dell’azione disciplinare”) non fa riferimento ad alcuna sospensione del procedimento, tanto meno necessaria, ma solo, all’ottavo comma, ad una sospensione dei termini del procedimento stesso, e ciò a differenza di quanto si riscontrava nella normativa previgente.

        Vi è una sola, specifica previsione di sospensione del procedimento e non solo dei termini (lett. d-ter), con riferimento alla ipotesi di sospensione (facoltativa) di cui al successivo art. 16, quarto comma, legata però alla fase pre-disciplinare, che è fase antecedente all’esercizio dell’azione disciplinare e, nella pratica, a casi in cui non risulti, allo stato degli atti, alcun elemento circostanziato o comunque idoneo a suffragare una ipotesi di illecito ex art. 4, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006 (illecito disciplinare conseguente a reato). Analoga sospensione non viene invece disposta quando il Procuratore generale, pur in presenza di un procedimento penale a carico del magistrato, abbia elementi circostanziati per procedere all’azione disciplinare con riferimento alle diverse ipotesi previste negli artt. 2 (illeciti funzionali) e 3 (illeciti extrafunzionali), proprio in quanto ipotesi autonome rispetto all’accertamento di possibili reati.

        Vi è inoltre una sola, specifica ipotesi di sospensione dei termini per “pregiudizialità” civile, penale o amministrativa, ma è una ipotesi di sospensione limitata ai due illeciti disciplinari (art. 2, primo comma, lett. g) ed h) del d.lgs. n. 109/2006) riguardanti, rispettivamente, la grave violazione di legge ed il travisamento del fatto, per negligenza inescusabile del magistrato. Va da sé che, trattandosi di eccezione al principio di autonomia del procedimento disciplinare, e non più di regola, la norma va interpretata restrittivamente, con esclusivo riferimento alle ipotesi in cui l’accertamento dell’illecito disciplinare dipenda inevitabilmente dall’accertamento di un reato. In ogni caso, si tratta sempre di sospensione dei termini e non del procedimento disciplinare, sospensione quest’ultima che, pur in ipotesi possibile, sarebbe da ricondurre ad ipotesi di sospensione facoltativa e non necessaria.

        L'art 20 (“rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio civile o penale”), al primo comma, dispone che l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione penale relativa allo stesso fatto, ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 15, ottavo comma.

        Ciò significa che i titolari dell’azione disciplinare possono sempre procedere all’esercizio dell’azione disciplinare, contestando la violazione dell’art. 4, lett. d) del d.lgs. n. 109/2006 (illecito conseguente a reato), pur in presenza di un’azione penale già esercitata.

        Non per questo il procedimento disciplinare dev’essere poi necessariamente sospeso giacché, in questa ipotesi, l’art. 15, ottavo comma, lett. a) prevede soltanto la sospensione dei termini e non del procedimento.

        E’ vero che, nella maggior parte dei casi, segue all’incolpazione elevata ai sensi dell’art. 4, lett. d) la sospensione del procedimento disciplinare, o in sede istruttoria per opera del Procuratore generale, o in sede di giudizio, per opera della Sezione disciplinare, ma questa sospensione, pur opportuna, non è necessaria ed è solo facoltativa, onde evitare una duplicazione di accertamenti in sede disciplinare ed in sede penale e, soprattutto, nei casi in cui si ritenga che l’istruttoria probatoria possa svolgersi nelle forme e nei modi più efficaci in sede penale.

        Ne è riprova di queste considerazioni la circostanza che, in un caso, la Sezione disciplinare (CSM, sez. disc., 19 aprile 2012 n. 46) non ha provveduto alla sospensione del procedimento volto all’accertamento dell’illecito di cui all’art. 4 lett. d) d.lgs. n. 109 del 2006 ed ha pronunciato sentenza di condanna senza attendere la decisione del giudice penale in relazione ad un reato di stalking (612 bis c.p.p.) commesso da un magistrato nei confronti di una collega.

        Il precedente giurisprudenziale, che ha trovato conferma presso le Sezioni unite (Cass., sez. un., 21 marzo 2013, n. 7042), è espressione proprio del principio di autonomia del processo disciplinare rispetto a quello penale e, conseguentemente, del fatto che, nel vigente ordinamento, non esiste più alcuna primazia del processo penale rispetto ai processi civili, amministrativi e disciplinari.

     

        4. I limiti del giudicato penale e l’identità del fatto (giuridicamente inteso).

        Certo, non si ignora che i successivi commi dell’art. 20 prevedono che hanno autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso qualsiasi sentenza penale irrevocabile di condanna e, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione.

        Tuttavia, tali previsioni vanno interpretate, appunto, in riferimento al principio generale di autonomia del giudizio disciplinare e tenuto conto che le incolpazioni disciplinari possono essere diverse dalle imputazioni elevate in sede penale.

        Venuta meno la c.d. pregiudizialità penale, venuta meno la primazia del processo penale su ogni altro tipo di processo, resta il fatto che un processo penale, ove conclusosi prima di un processo disciplinare, avrà effetti di giudicato su quel processo, entro i limiti previsti dalle richiamate norme del codice disciplinare, limiti che presuppongono, tra l’altro, non la mera comunanza fenomenologica della vicenda in esame, ma l’identità del fatto (giuridicamente inteso) giudicato in sede penale ed in sede disciplinare.

        Ciò non toglie che un processo disciplinare, eventualmente non sospeso, possa essere definito prima del processo penale, come la richiamata vicenda di stalking insegna. In questo caso, sarà l’Autorità penale a doversi porre il problema della valenza probatoria degli accertamenti effettuati in sede disciplinare in quella sede.

     

        5. Le fattispecie tipizzate disciplinari autonome e la decorrenza dei termini di decadenza.

        Nessun condizionamento tra il procedimento disciplinare e quello penale può sussistere, nemmeno in ipotesi, quando la diversa qualificazione e valutazione di fatti e condotte sia stata fatta ab initio dai titolari dell’azione disciplinare, attraverso la contestazione di autonomi illeciti, funzionali o extrafunzionali.

        In questo caso, le diverse fattispecie tipizzate disciplinari prescindono totalmente dagli accertamenti penali, che riguarderebbero condotte solo in apparenza o solo per una parte coincidenti con quelle contestate in sede disciplinare.

        Inoltre, non essendo prevista alcuna specifica ipotesi di sospensione dei termini ex lege, una eventuale sospensione del procedimento disciplinare sino all’esito del giudicato penale, adottata dal Procuratore generale in sede di istruttoria o dalla Sezione disciplinare in giudizio, non potrebbe determinare alcuna sospensione dei brevi e rigorosi termini decadenziali previsti dall’art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006, con l’inevitabile ed ulteriore conseguenza che, proprio a causa della menzionata incompatibilità temporale dei processi disciplinari e penali, il processo disciplinare, per sua natura più breve e rapido di quello penale, sarebbe destinato all’estinzione per intervenuta decadenza di legge.

     

        6. La giurisprudenza disciplinare, di merito e di legittimità.

        Queste considerazioni, sono state condivise da un orientamento della Sezione disciplinare che si è consolidato, pur faticosamente ed a volte contraddittoriamente, nel corso degli anni e che si è in questo senso espresso, per la prima volta, nel 2009 (CSM, sez. disc., 9 febbraio 2009 n. 28, che ha trovato conferma in sede di legittimità, Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292) in una vicenda nella quale il magistrato si era reso autore di plurime interferenze giudiziarie, attenzionate anche in sede penale.

        Un tappa importante di questo percorso giurisprudenziale è da considerare, tra le più recenti, l’ordinanza interlocutoria resa dalla Sezione disciplinare all’udienza del 12 ottobre 2017 in uno dei processi a carico dei magistrati addetti alla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, alcuni dei quali tuttora attinti in sede penale da ipotesi di reati di corruzione ed abuso d’ufficio e già sanzionati in sede disciplinare, tra l’altro, per l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti (art. 3 lett. a) del d.lgs. n. 109/2006) o per la violazione del dovere di astensione (art. 2, primo comma, lett. c) del medesimo codice disciplinare).

        Il principio di diritto che si è implicitamente più volte affermato in sede di merito è che se il titolare dell’azione disciplinare non abbia inteso contestare il reato in sé, ma una condotta riconducibile alle fattispecie previste dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. 109 del 2006, non opera né la sospensione dei termini, né, tanto meno, la sospensione del procedimento.

        Questo orientamento è stato affermato recentemente, in sede di legittimità, da Cass., sez. un., 8 ottobre 2018, n. 24673 che, a conferma della sentenza della Sezione disciplinare (CSM, sez. disc., 20 febbraio 2017, n. 112), ha ribadito in sostanza il principio della più completa autonomia tra fattispecie disciplinari non collegate a reato e fattispecie penali, ritenendo anzi che il mancato esercizio dell’azione disciplinare per fattispecie diversa da quella prevista nell’art. 4 lett. d) comporta la decadenza dell’azione disciplinare, non rinvenendosi alcun fondamento di sospensione del relativo termine in attesa della definizione del processo penale.

        La vicenda è davvero paradigmatica. Il Procuratore generale aveva esercitato l’azione disciplinare contestando l’illecito di cui all’art. 4 lett. d) in quanto era stata esercitata l’azione penale per reati fallimentari collegati alla distrazione di somme ingenti dal patrimonio della società fallita, poi transitate sul conto corrente intestato al magistrato. Egli aveva quindi sospeso il procedimento in attesa della definizione del processo penale.

        Dopo circa quattro anni, passata in giudicato la sentenza di assoluzione del magistrato, il Procuratore generale revocava la sospensione del procedimento e modificava l’originaria incolpazione contestando l’uso della qualità di magistrato al fine di perseguire un vantaggio ingiusto (art. 3 lett. a).

        La Sezione disciplinare prima e le Sezioni unite poi hanno ritenuto la decadenza dell’azione disciplinare per inutile decorso dei termini, non sospesi ex lege, in relazione all’ipotesi dell’illecito extrafunzionale, malgrado la sospensione del procedimento.

        Il fulcro del ragionamento delle Sezioni unite sta nel fatto che la successiva incolpazione si riferisce a fatto diverso rispetto a quello originariamente contestato: diversa è la condotta contestata e diverso è il disvalore disciplinare come stigmatizzato nelle due ipotesi. Secondo la Suprema Corte gli addebiti in sede disciplinare sono “esterni e separati” da quelli mossi in sede penale e, quindi, andavano contestati da subito e non dopo il decorso del termine decadenziale.

     

        7. Conclusioni.

        Il ragionamento svolto dalla Corte di cassazione deve necessariamente essere applicato in ogni ipotesi di addebito disciplinare diverso dall’illecito conseguente a reato, onde evitare - pur in presenza di eventuale provvedimento di sospensione - il decorso dei termini di decadenza.

        Il fatto contestato in sede disciplinare è infatti sempre diverso dal fatto contestato in sede penale, se rettamente inteso non come mera vicenda fenomenologica, ma come fatto giuridico, comprensivo tra l’altro tanto dell’elemento materiale, quanto dell’elemento soggettivo.

        Né potrebbe mai parlarsi, in questi casi, di possibile violazione del principio del ne bis in idem.

        Quando la notizia dell’esercizio dell’azione penale pervenga ai titolari dell’azione disciplinare, questi possono contestare l’illecito conseguente a reato e, eventualmente, gli illeciti funzionali o extrafunzionali che emergano in modo circostanziato dalla lettura degli atti trasmessi.

        I fatti contestati in via autonoma sono sempre diversi, da un punto di vista giuridico e non fenomenologico, da quelli contestati in sede penale.

        Pertanto, mentre il procedimento disciplinare per l’illecito collegato al processo penale deve (rectius, può) rimanere sospeso sino al giudicato penale, le incolpazioni disciplinari autonome possono essere immediatamente oggetto di giudizio disciplinare, con eventuale condanna del magistrato incolpato (per scorrettezze, violazioni di legge, abusi di qualità, frequentazioni illecite, ecc.).

        Se l’incolpato venga assolto in sede penale con sentenza irrevocabile per il reato addebitato, il Procuratore generale potrà formulare alla Sezione disciplinare richiesta di non luogo procedere per l’illecito conseguente a reato, in relazione al procedimento che era stato sospeso.

        Se l’incolpato venga invece condannato con sentenza penale irrevocabile, l’ipotesi originaria collegata all’art. 4 lett. d) dovrà necessariamente cedere il passo alle altre tre ipotesi previste dall’art. 4 in caso di condanna penale.

        Nell’uno e nell’altro caso, dunque, nessuna sovrapponibilità di condotte e nessuna possibile violazione del principio del ne bis in idem, perché non si tratterà mai dello stesso fatto posto a fondamento di due diverse condanne in sede disciplinare.

        Del resto, solo così interpretando le norme in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale si potrà pervenire ad un sistema di giustizia disciplinare efficace e capace di porre un freno effettivo alle gravi cadute di professionalità ed ai gravi comportamenti extrafunzionali che, talvolta, caratterizzano anche le condotte magistratuali, consentendo una rinnovata fiducia dei cittadini verso la giurisdizione ed i suoi protagonisti.

        Altrimenti, la giustizia disciplinare tornerà ad essere, come un tempo, una giustizia corporativa, magari forte con i deboli e debole con i forti, incapace di perseguire efficacemente condotte tipizzate dall’elevato disvalore deontologico ed attenta soltanto al perseguimento di illeciti formali, burocratici, comunque di poco conto nell’economia di una realtà giudiziaria sempre più complessa e variegata.

     

                                                                              

                      

    La Corte Costituzionale in tema di sanzioni disciplinari

    La Corte Costituzionale in tema di sanzioni disciplinari

    di Maria Cristina Amoroso 

    Con la decisione del 197 del 4/07/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di illegittimità costituzionale, sollevate dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura con le ordinanze  del 12 luglio 2017, dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante  la “disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150”, nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lett. e).

    Per comprendere meglio la questione appare utile rammentare  che l’art. 3 comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, prevede che costituisce illecito disciplinare, al di fuori dell’esercizio delle funzioni, l’ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti.

    La sanzione disciplinare applicabile per tale ipotesi di illecito è, in via obbligatoria, quella della rimozione, a norma dell’art. 12, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

    Ad avviso dei  giudici remittenti la disposizione censurata contrasta con  l’art. 3 della Costituzione  poiché difetta di  ragionevolezza “intrinseca”, ed è foriera di una  disparità di trattamento “interna”, ed ”esterna”.

    Sotto il primo dei profili elencati,  i giudici remittenti lamentano che  l’automatismo della sanzione impedisce di procedere alla valutazione in concreto della gravità, oggettiva e soggettiva, dei fatti addebitati agli incolpati.

    Per un verso, infatti, detto automatismo  non consente mai di applicare la previsione di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, che esclude la configurabilità dell’illecito disciplinare quando il fatto è di scarsa rilevanza; per altro verso,  l’impossibilità di modulare la sanzione impedisce anche  di apprezzare se la condotta dello stesso incolpato abbia in concreto attinto la soglia massima di offensività.

    La disposizione, quindi, non consente di tradurre in fatto “il principio di necessaria gradualità sanzionatoria” affermato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite nelle pronunce n. 23778 del 24 novembre 2010 e n. 15399 del 15 ottobre 2003 e dalla stessa Corte Costituzionale nella decisione n. 170 del 2015, con la quale si censurò l’automatismo della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio del magistrato nell’ipotesi di sua condanna per l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, ritenendo che tale meccanismo privasse irragionevolmente il giudice disciplinare di ogni potere discrezionale in relazione all’adeguatezza della sanzione accessoria alla consistenza e gravità delle svariate condotte riconducibili alla previsione normativa allora all’esame.

    Con riferimento all’aspetto della disparità, per così dire “interna”, la Sezione disciplinare evidenzia che la disposizione censurata determina l’automatica applicazione della sanzione della rimozione in tutte e tre le distinte ipotesi in essa previste, nonostante la loro oggettiva diversità di disvalore; la sanzione della rimozione, infatti, si applica sia  al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall'articolo 3, comma 1, lettera e), sia a colui che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale ed a colui che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell'articolo 168 dello stesso Codice.

    In  relazione alla dedotta  disparità di trattamento “esterna”, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura  deduce l’irragionevolezza della disposizione censurata  in quanto assoggetterebbe a trattamento deteriore l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo citato rispetto ad altre ipotesi caratterizzate da maggior disvalore dal punto di vista deontologico.

    Si richiama in particolare quella prevista dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo medesimo, riguardante l’uso della qualità di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti per sé o per altri, punita con la sanzione non inferiore alla censura, o alla perdita di anzianità se abituale e grave, ove viene in risalto uno sviamento della funzione di magistrato; nonché quella di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), per la quale è comminata la sanzione minima della perdita di anzianità, e che consiste nel frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, o persona che a questi consti essere stata dichiarata delinquente abituale, professionale o per tendenza o aver subìto condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni o essere sottoposto ad una misura di prevenzione, ovvero nell’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone.

    Tali disposizioni assurgono, secondo la Sezione rimettente, ad altrettanti tertia comparationis cui sarebbe ragionevole uniformare la sanzione dell’illecito disciplinare in discussione, fornendo “il dato, rinvenibile nel sistema legislativo, al quale fare riferimento (…) per eliminare la manifesta irragionevolezza denunciata senza che il giudice delle leggi sovrapponga la propria discrezionalità a quella del legislatore”

    La Corte Costituzionale ha ritenuto infondate tutte  le questioni prospettate.

    In relazione alla dedotta  irragionevolezza “interna” tra le diverse ipotesi contemplate dalla medesima disposizione censurata, per le quali si prevede in modo indifferenziato l’obbligatoria applicazione della sanzione della rimozione, i giudici delle leggi rilevano che sarebbe irragionevole pretendere – sulla base del principio di eguaglianza – che, ogniqualvolta la legge preveda la sanzione massima applicabile in un dato settore di disciplina per una pluralità di fattispecie astratte, tutte quelle fattispecie siano connotate da un disvalore tra loro esattamente comparabile.

    Precisano che, in  tali ipotesi, affinchè vi sia il rispetto del principio di eguaglianza è essenziale e sufficiente  garantire  che anche la fattispecie di illecito meno grave, tra quelle che comportano l’applicazione della sanzione massima prevista dai diversi rami dell’ordinamento, isolatamente considerata, sia pur sempre connotata da un grado di disvalore tale da rendere (sotto il profilo “intrinseco”) non manifestamente sproporzionata la comminatoria della sanzione massima; a prescindere, dunque, dalla sua eventuale minore gravità rispetto alle altre fattispecie accomunate dalla medesima sanzione massima.

    Con riferimento al profilo di irragionevolezza esterna la Corte esclude  l’idoneità dei tertia comparationis evocati dalla Sezione rimettente a porre in dubbio la legittimità della scelta sanzionatoria compiuta dal legislatore posto che essi partecipano di una ratio differente rispetto a quella dell’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

    In relazione alla irragionevolezza “intrinseca della norma”  la Corte specifica che, in materia di sanzioni disciplinari, sebbene in numerose decisioni abbia effettivamente  dichiarato l’illegittimità costituzionale sul presupposto che il  principio di eguaglianza-ragionevolezza esige, in via generale, che sia conservata all’organo disciplinare una valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto (così, in particolare, la citata sentenza n. 268 del 2016) è pur vero che in altre decisioni si è implicitamente affermato che tale principio è passibile di eccezioni (Cfr. Corte Costituzionale  n. 112 del 2014).

    La Corte però evidenzia che le decisioni citate dalla Sezione disciplinare remittente sono riferite ad  automatismi legati al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati, e  non nella previsione di un automatismo insito nella previsione di un’unica sanzione fissa per chi sia ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare.

    Aggiunge che proprio in tali casi nelle  decisioni rese si è  precisato che  talvolta le sanzioni, pur drastiche, sono  da ritenersi necessarie per preservare l’integrità della funzione che sarebbe compromessa ove i consociati potessero anche solo dubitare dell’affidabilità di chi è preposto a certificarne gli atti con valore di pubblica fede ( il riferimento della Corte è alla sentenza n. 234 del 2015, in tema di esercizio della funzione notarile).

    In relazione, quindi al caso specifico sottoposto alla sua attenzione la Corte Costituzionale afferma che l’automatismo della sanzione risponde  all’obiettivo legittimo di restaurare la fiducia dei consociati nell’indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario, compromessa o anche solo messa in pericolo dalla condotta del magistrato.

    Ai  magistrati, infatti  è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, ed essi, per  tale ragione, sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto.

    L’ottenimento di “prestiti” o di “agevolazioni”, che per qualità e quantità non possano definirsi di scarsa rilevanza, da parte di persona che il magistrato sa essere parte, indagata, parte offesa, testimone o comunque coinvolta in un procedimento pendente presso il proprio ufficio o presso altro ufficio del distretto, è senza dubbio una condotta che crea, sul piano oggettivo, il pericolo di distorsione dell’attività giurisdizionale in favore del soggetto che tali prestiti o agevolazioni ha corrisposto; ed è condotta che determina,  ove la notizia relativa venga a conoscenza del pubblico, “un significativo e pernicioso indebolimento della fiducia dei consociati nell’indipendenza e imparzialità dello stesso ordine giudiziario”.

    Alla luce di queste osservazioni la  Corte  afferma che la scelta del legislatore di colpire indefettibilmente con la sanzione della rimozione la totalità delle condotte rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006,  non è  “ manifestamente irragionevole”.

    Tale  opzione non è censurabile né sotto il profilo della sua idoneità a conseguire un tale obiettivo, apparendo plausibile che una reazione ferma contro l’illecito disciplinare possa effettivamente contribuire all’obiettivo delineato; né sotto il profilo della sua necessità rispetto all’obiettivo medesimo, non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite, e che comunque non determini la definitiva cessazione dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali; né, sotto l’ulteriore profilo della proporzionalità in senso stretto della sanzione: posto che tale sanzione, sebbene lascia  a quest’ultimo la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale.

    Laddove quindi  nell’ambito del procedimento disciplinare si sia raggiunta la prova della condotta e della consapevolezza da parte del magistrato delle qualità soggettive dei propri “benefattori”, è legittima l’applicazione dell’automatica sanzione della rimozione, salvo che, aggiunge la Corte,  la vicenda non sia  di scarsa rilevanza, poiché in tali ipotesi “ risulta applicabile la causa esimente prevista dall’art. 3-bis del medesimo decreto legislativo”.

    La Corte chiarisce, inoltre,  che il caso di specie si differenzia fortemente da quello oggetto della decisione  n. 170 del 2015, invocato dalla Sezione remittente in cui si era censurata l’obbligatorietà della sanzione disciplinare accessoria del trasferimento presso altra sede o altro ufficio quando ricorre una delle violazioni stabilite dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, che sanziona il magistrato il quale, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona, abbia arrecato ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti.

    In quel caso, precisano i giudici delle leggi, l’illecito disciplinare abbracciava  condotte di natura eterogenea, e “connotate ictu oculi da gradi di disvalore fortemente differenziati, anche soltanto dal punto di vista dell’elemento soggettivo (risultando sanzionabili a quel titolo anche condotte caratterizzate da mera imperizia o trascuratezza, che sono invece a priori escluse dall’ambito applicativo dell’illecito disciplinare di cui in questa sede è discorso, il quale richiede invece la prova della positiva consapevolezza da parte del magistrato delle qualità soggettive della persona da cui egli riceva prestiti o agevolazioni”.

    Infine la Corte,  nel ribadire quanto affermato nelle decisioni n. 50 del 1980, n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012, ovvero che, in linea di principio, sono incompatibili con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. gli automatismi sanzionatori nell’ambito del diritto penale, traccia una netta differenza tra le sanzioni disciplinari e penali al fine di sottolineare che alcune garanzie che circondano la pena in senso stretto non si applicano alle sanzioni disciplinari.

    Queste ultime, infatti, sebbene rispondano spesso  a logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, non mirano alla rieducazione del condannato, e, quanto meno nei casi concernenti pubblici funzionari cui sono affidati compiti essenziali a garanzia dello Stato di diritto, hanno anche la finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri. E ciò anche sulla base di automatismi sanzionatori, come quello incorporato nella disposizione scrutinata, che  potranno eccezionalmente superare il vaglio di non manifesta irragionevolezza proprio e soltanto in quanto funzionali all’applicazione di una mera sanzione disciplinare.



     

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (prima parte)*

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (prima parte)* 

    di Mario Fresa

    Sommario: 1. Giustizia e informazione: un necessario bilanciamento tra valori costituzionali - 2. La responsabilità disciplinare ed il riserbo - 3. I limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste. 

    1. Giustizia e informazione: un necessario bilanciamento tra valori costituzionali

    Ogni possibile disciplina dei rapporti tra informazione e processo deve passare attraverso il bilanciamento di valori costituzionali fondamentali: la tutela della sfera privata dell’individuo e la libertà di espressione, il segreto investigativo ed il categorico rifiuto di una amministrazione occulta della giustizia. Valori tutti al servizio dei cittadini e della collettività in un qualsiasi Paese democratico.[1]

    La dimensione mediatica straripante di alcuni processi, penali e civili, è capace di distruggere non solo il diritto alla riservatezza, ma a volte anche la vita di chi subisce la spettacolarizzazione della propria vicenda processuale.[2]

    Se è vero che il popolo, in nome del quale viene amministrata la giustizia, ha diritto di sapere come essa viene conseguita e come i magistrati, soggetti soltanto alla legge, esercitino il loro potere giurisdizionale, è anche vero che è necessario rafforzare gli anticorpi del sistema, capaci di evitare - o comunque limitare - i rischi della cosiddetta spettacolarizzazione della giustizia, e cioè che la narrazione mediatica degli avvenimenti giudiziari, rimandi all’opinione pubblica una immagine distorta ed alterata della giustizia.[3]

    Una immagine distorta della giustizia non solo non è utile al processo di democratizzazione del Paese, costituzionalmente previsto, ma normativamente e culturalmente non ancora attuato, ma è dannosa proprio in relazione all’esigenza di assicurare la trasparenza nelle scelte di chiunque eserciti un potere dello Stato, legislativo, esecutivo o giurisdizionale che sia.

    Trasparenza che è alla base di qualsiasi ordinamento democratico, dato che è in forza di essa che il popolo può, con cognizione di causa e non per improvvidi slogan, determinare le sue scelte elettorali in tema di opzioni di politica legislativa e, quindi, anche in tema di possibili riforme giudiziarie.

    La mancata informazione sulle dinamiche processuali, o la errata informazione sulle stesse, determinano entrambe il rischio di una giustizia occulta, non giudicabile dal popolo in nome del quale essa è amministrata e, in ultima analisi, foriera di sfiducia e delegittimazione verso la giurisdizione che, tra i vari poteri dello Stato, è un potere di garanzia nell’assetto costituzionale del Paese.

    C’è il rischio così che si passi da una giustizia “popolare” ad una giustizia “populista”, contravvenendosi ai principi fondanti della Carta costituzionale,[4] ad una giustizia come “fabbrica del consenso”.[5]

    La distorta immagine della giustizia, certo, è in parte la conseguenza del fatto che le regole processuali e le tecniche di informazione hanno differenti modalità di estrinsecazione: il processo ha i suoi tempi e le sue regole di acquisizione delle prove, che passano attraverso le garanzie fondamentali delle persone coinvolte, attraverso le continue attività di riscontro dei fatti, che non possono dirsi mai certi, fino al giudicato, spesso a distanza di molti anni dalla loro consumazione; l’informazione necessita invece di tempi brevi, direi immediati, e non è sottoposta a regole di valutazione probatoria dei fatti, potendo attingere liberamente da ogni fonte.

    Ma la distorta immagine della giustizia è anche fonte di patologie nei rapporti tra i protagonisti della giustizia e dell’informazione che, con espressione sintetica, ma efficace, possono essere ricondotte alla logica dello scambio, nella quale gli intrecci possibili sono praticamente infiniti.[6] Non può sottacersi il fatto che le scelte improntate alla diffusione mediatica di fatti giudiziari possano essere causate, nella migliore delle ipotesi, per un verso, dal protagonismo dei magistrati e, per altro verso, dal sensazionalismo dei giornalisti; quando non anche da interessi personali o da condizionamenti politici degli uni o degli altri protagonisti.

    Non è un caso che queste patologie rilevano soprattutto nella fase procedimentale penale, caratterizzata dalla segretezza delle indagini. E’ in questa fase che la divaricazione tra le diverse modalità di estrinsecazione di giustizia e informazione appare maggiormente rilevante, giacché le esigenze di segretezza caratterizzano il procedimento penale in questa fase, dove massima dev’essere la tutela delle garanzie degli indagati e massimo il dubbio che deve caratterizzare l’azione del magistrato, mentre l’opinione pubblica esige certezze immediate che non possono assicurarsi.

    Vengono allora in rilievo, nella prospettiva di migliorare la qualità dell’informazione giudiziaria e di orientarla verso il rispetto dei principi costituzionali (artt. 21 e 101) e sovranazionali (art. 6 C.E.D.U.), per un verso - con riferimento alla necessità di coordinare, sul piano generale, l’organizzazione degli uffici giudiziari e le relazioni con la stampa e con gli altri organi di informazione - gli interventi adottati in sede europea dall’ENCJ (European network of councils for the judiciary) e dal CPPE (Consiglio consultivo dei Procuratori europei) e in sede nazionale dal Consiglio superiore della magistratura; per altro verso - con riferimento alla necessità di prevenire e comunque di sanzionare le menzionate patologie nei rapporti tra magistrati e giornalisti - le previsioni dei codici etici e disciplinari propri delle rispettive categorie, per i giornalisti il testo unico dei doveri del 2016 e poi il codice delle regole deontologiche del 2018, per i magistrati il codice disciplinare del 2006 ed il codice dell’A.N.M. del 2010.  

    Per il primo aspetto, va sottolineato che negli ultimi anni è sempre più avvertita, tra i magistrati dell’Unione europea, l’esigenza di governare il rapporto con gli organi di informazione.

    In due fondamentali report dell’ENCJ del 2012 (Giustizia, società e media)[7] e del 2018 (Fiducia dell’opinione pubblica e immagine della giustizia),[8] si esclude che la magistratura debba parlare soltanto con le sue decisioni sapendo che i media possono disinformare il pubblico, si esprimono raccomandazioni affinché i singoli ordinamenti prevedano corsi di formazione per i magistrati al fine di affidare loro il compito di comunicare la giustizia anche attraverso i social media e coinvolgano anche magistrati nella formazione dei giornalisti giudiziari e si sottolinea come migliorare la comunicazione giudiziaria significhi migliorare la fiducia dei cittadini nella giustizia.

    Sempre sul piano dei rapporti tra libertà di informazione e attività giudiziaria rileva il parere espresso dal CCPE,[9] che ha esaminato in particolare “il giusto equilibrio tra i diritti fondamentali relativi alla libertà di espressione garantiti all’articolo 10 della CEDU ed il diritto-dovere dei media ad informare il pubblico in merito ai procedimenti giudiziari ed i diritti legati alla presunzione di innocenza, ad un giusto processo ed al rispetto della vita privata e familiare, garantito dagli articoli 6 e 8 della CEDU”.[10] 

    Il parere è rivolto ai procuratori - ma analoghi principi aveva espresso anni prima anche il Consiglio Consultivo dei Giudici europei (CCJE) - e si conclude con raccomandazioni di massimo interesse:

    - le comunicazioni tra i procuratori e i media dovrebbero rispettare i seguenti principi: libertà di espressione e di stampa, diritto alla riservatezza, diritto all’informazione, principio di trasparenza, diritto alla vita privata e alla dignità, nonché riservatezza nelle inchieste, presunzione di innocenza, parità delle armi, diritti della difesa e diritto ad un giusto processo;

    - i rapporti dei procuratori con tutti i media dovrebbero essere basati sul rispetto reciproco, la fiducia, la responsabilità, la parità di trattamento ed il rispetto per le decisioni giudiziarie; 

    - nei rapporti con i media, il pubblico ministero dovrebbe prendere in considerazione di adottare sia un “approccio reattivo”, rispondendo così alle richieste dei media, che un “approccio proattivo”, informando di sua iniziativa i media in merito ad un evento di natura giudiziaria; 

    - potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero a portavoce o a procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni; 

    - si raccomanda, laddove ciò sia possibile e/o pratico, che i procuratori cerchino di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media;

    - laddove i procuratori abbiano rapporti diretti con i media, sarebbe opportuno fornire loro una formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione;

    - le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali;

    - al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.

    Si tratta di raccomandazioni non vincolanti per i singoli Stati, ma autorevoli che si possono mettere a confronto con la disciplina che, anzitutto sul piano dell’organizzazione degli uffici giudiziari e poi sul piano dei doveri dei singoli magistrati, è vigente nel nostro ordinamento.

    Sul piano organizzativo è come noto intervenuta l’approvazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, delle “Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di un’informazione pubblica efficace e di una corretta comunicazione istituzionale”.[11]

     La risoluzione del C.S.M., che non è la prima in materia[12] e che presuppone con espressa previsione un’adeguata attività di formazione sul tema dei rapporti tra magistratura e organi di informazione, muove dalla premessa che “la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori che discendono dal carattere democratico dell’ordinamento e sono correlati ai principi d’indipendenza e autonomia della magistratura nonché a una moderna concezione della responsabilità dei magistrati” e traccia “linee d’indirizzo ispirate dalla convinzione che trasparenza e comprensibilità della giurisdizione non confliggono con il carattere riservato, talora segreto, della funzione” e che esse, “correttamente interpretate, aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzano l’indipendenza della magistratura e, più in generale, l’autorevolezza delle istituzioni”.

    In buona sintesi, agli uffici requirenti - nei quali, si ricorda, l’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 riserva al capo dell’Ufficio, eventualmente tramite un magistrato delegato, i rapporti con gli organi di informazione - si raccomanda di bandire “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”, di costruire le relazioni con gli organi di informazione sulla base del reciproco rispetto e della parità di trattamento, evitando “canali riservati e ogni impropria rappresentazione dei meriti dell’azione dell’ufficio e dei servizi di polizia giudiziaria”, di fornire un’informazione “rispettosa delle decisioni e del ruolo del giudice”.

    Agli uffici giudicanti si raccomanda, tra l’altro, di dare la notizia della decisione, contestualmente o immediatamente dopo la deliberazione, con un abstract “consistente nell’illustrazione sintetica (di regola 6 righe al massimo), con linguaggio semplice, chiaro e comprensibile, delle statuizioni decisorie e delle ragioni delle stesse”, di affidare “la selezione e la rielaborazione tecnica della notizia” al responsabile per la comunicazione, di trasmetterla “agli organi di informazione e ai media”.  

    Naturalmente, questo compendio di regole vale a migliorare la comunicazione istituzionale e la stessa cronaca giudiziaria, ma non incide sul versante delle condotte dei singoli magistrati e giornalisti per le quali, come si è detto, i rispettivi ordinamenti hanno da tempo introdotto i codici di disciplina.

    2. La responsabilità disciplinare ed il riserbo

    Sono chiamato in questa sede ad affrontare la delicata problematica attinente alla sfera della giustizia disciplinare, concernente le condotte dei magistrati poste in essere in violazione del generale dovere di riserbo e ad essa riservo l’attenzione, non senza una premessa che riguarda il codice etico dell’A.N.M.

    Ai sensi dell’art. 6 del codice etico approvato il 13 novembre 2010 (“rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa”):

    “Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.

    Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.

    Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.

    Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica”.

    Mentre le disposizioni previste dai primi due commi sono trascritte anche nel c.d. codice disciplinare (il d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 così come modificato dalla legge n. 69 del 2006), le disposizioni previste dal terzo e quarto comma dell’art. 6 del codice etico non sono tradotte in disposizioni normative per i profili disciplinari. Sicché può senz’altro affermarsi che, sul versante delle dichiarazioni, interviste e partecipazione a trasmissioni televisive, l’Associazione nazionale magistrati - almeno sul piano della regola astratta che, però, non risulta mai applicata nella pratica - è più rigorosa del legislatore, stigmatizzando in particolare le dichiarazioni non ispirate a criteri di equilibrio, dignità e misura e la partecipazione a trasmissioni televisive finalizzate a rappresentare in forma scenica vicende giudiziarie in corso.    

    D’altra parte, dopo l’entrata in vigore del codice disciplinare e l’avvento della tipizzazione degli illeciti disciplinari, si è osservato[13] che almeno una parte delle previsioni deontologiche sono state trasfuse in fattispecie tipiche di illecito, sì che, su tale versante, la tendenza ad attribuire al codice etico una funzione di supporto al generico precetto di cui all’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, progressivamente emersa in via giurisprudenziale, può dirsi portata almeno a parziale compimento dall’intervento del legislatore e, al tempo stesso, superata.

    Coglie questa prospettiva una decisione della Sezione disciplinare[14] che trae origine proprio da una vicenda relativa a rapporti tra procedimento penale e stampa. In particolare, un procuratore aggiunto era stato incolpato per avere reso dichiarazioni agli organi di informazione sull'attività giudiziaria dell'ufficio senza delega del Procuratore della Repubblica. Egli, nel rilasciare l’intervista, dichiarava: "Posso affermare soltanto, ma con certezza, che abbiamo trovato un modo di amministrare paragonabile all'organizzazione di una "cupola", destinata a privilegiare l'interesse privato di pochi". Domanda: “qual è il quadro che salta fuori dalle tangenti sulla sanità?”. Risposta: “...dalle intercettazioni che abbiamo disposto, i protagonisti usano un linguaggio estremamente esplicito. Altro che ‘pizzini’”.

    Dalla lettura del provvedimento di non luogo a procedere[15] emerge che non era stato fatto, nella specie, alcun riferimento specifico ad atti processuali, si trattava di dichiarazioni generiche e non era più possibile, attesa la tipizzazione degli illeciti, trarre la responsabilità disciplinare dalla norma violata del codice etico, come veniva fatto in precedenza, nella vigenza dell’art. 18 r.d.lgs n. 511 del 1946.

    Dunque, ai fini della configurabilità dell’illecito tipico, deve ritenersi venuto meno, per le norme del codice etico, il ruolo di supporto interpretativo, in quanto esse o sono coincidenti con le fattispecie tipiche, il che esclude in radice l’utilità di tale funzione, ovvero prevedono condotte ulteriori ed eticamente più impegnative, nel qual caso costituiscono precetti diversi, che si collocano su un piano distinto e separato rispetto al precetto disciplinare e, come tali, sono inidonee a supportarne l’interpretazione.

    Sotto tale versante le regole deontologiche espresse dal codice etico hanno una rilevanza soltanto indiretta e mediata nella materia disciplinare, nella misura in cui i precetti in esso previsti coincidono con una delle fattispecie tipiche previste dal d.lgs. n. 109 del 2006; al di fuori di tali casi rilevano solo ai fini delle eventuali sanzioni in sede associativa, sanzioni che - di fatto - non risultano però mai essere state adottate (ai sensi degli artt. 9, 10 e 11 dello Statuto dell’A.N.M.) dagli organi dell’associazione a ciò deputati (il Comitato direttivo centrale, con eventuale ricorso all’assemblea generale, sulla base dell’azione esercitata dal Collegio dei probiviri).

    Pertanto, nel passaggio da un sistema in cui l'atipicità dell'illecito disciplinare poteva essere integrata da un'attività ermeneutica fondata anche su norme interne alla magistratura, quale il codice etico dei magistrati, ad uno incentrato sulla tipizzazione degli illeciti, si è determinata una mancata previsione di sanzioni disciplinari in presenza di condotte che pure pongono a rischio l’immagine di imparzialità, riserbo ed equilibrio del magistrato, ma non sono più perseguibili, in quanto non previste quale illecito, mentre, nel vigore dell’art. 18, potevano assumere rilevanza disciplinare, se costituenti una violazione del codice etico e ritenute compromissive del prestigio e della credibilità del singolo appartenente all'ordine giudiziario, nonché dello stesso intero Ordine magistratuale.

    Vero è che il sistema disciplinare non dev’essere l’unico anticorpo del sistema del governo autonomo della magistratura avverso condotte non in sintonia con il “dover essere” o il “saper fare” il magistrato. Esistono altri, più efficaci, strumenti del sistema ordinamentale, capaci di prevenire simili cadute di professionalità e garantire meglio i cittadini. Ad esempio, il sistema delle valutazioni di professionalità e la stessa formazione da parte della Scuola superiore della magistratura possono essere in grado di limitare comportamenti che, pur non rilevanti per i profili disciplinari, siano deontologicamente scorretti e, comunque, potenzialmente lesivi dell’immagine del magistrato, del prestigio dell’ordine giudiziario e, in ultima analisi, della credibilità della giurisdizione.  

    Ecco perché, seppur i rapporti tra codice etico e codice disciplinare sembrano non rispondere agli auspici del CCPE e seppur, de iure condendo, taluni auspichino una riforma che recepisca, per alcuni aspetti, sul piano disciplinare ciò che la stessa A.N.M. ha sentito come disvalore deontologico, può ritenersi che il sistema disciplinare vigente sia la conseguenza di una scelta legislativa di non ricondurre qualsiasi patologia che si determini a causa di condotte di magistrati nell’alveo sanzionatorio della giustizia disciplinare.

    Con riguardo al sistema disciplinare vigente, la necessità di un efficace bilanciamento tra i diversi valori costituzionali viene comunque in particolare rilievo nell’atteggiarsi del magistrato che si occupa di processi di interesse mediatico ed è fonte di possibile responsabilità.[16]

    Il dovere di riferimento in relazione ai limiti delle esternazioni e, comunque, di ogni relazione con gli organi di informazione da parte dei magistrati è riconducibile all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, che pone a carico del magistrato nell’esercizio delle funzioni il dovere di “riserbo” e che comunemente si estende anche all’attività extrafunzionale del magistrato.[17]

    Tale dovere di riserbo ha una portata più ampia del c.d. dovere di riservatezza.[18] Nella lingua italiana riserbo vuol dire, con riferimento al comportamento, “l’essere molto riservato nell’esprimere il proprio stato d’animo, le proprie intenzioni e valutazioni”, mentre per riservatezza si intende “il fatto di essere riservato, discreto e controllato nell’esprimersi e nel comportarsi”.[19] Come affermato dalla Corte di legittimità “si tratta di un atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione”.[20] 

    Su un piano generale, deve evidenziarsi l’esigenza di una particolare sensibilità richiesta ad ogni magistrato, che dovrebbe trattenerlo dal dibattere pubblicamente vicende che hanno costituito oggetto di trattazione da parte sua, attesa la possibilità che le dichiarazioni rese, oggettivamente, diano adito a polemiche in grado di pregiudicare l’apparenza di imparzialità della quale il magistrato stesso deve godere.

    Invero, il rapporto tra la possibilità di cagionare un siffatto pregiudizio ed il diritto di libertà di espressione del pensiero, non può essere risolto attribuendo incondizionata prevalenza solo a quest’ultimo.

    Anzi, va sottolineato che l’interferenza tra i diritti generali di libertà e di espressione del proprio pensiero ed il possibile pregiudizio per l’apparenza di imparzialità del magistrato, costituisce tema di tale delicatezza da aver formato anche oggetto di pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

    Al riguardo la prima, pur riconoscendo al magistrato gli stessi diritti di espressione attribuiti a chiunque dall’art. 21 della Costituzione, ha affermato che l’esercizio di questi diritti non può essere privo di limiti,[21] precisando poi che il valore della imparzialità e quello dell’indipendenza, posti per dettato costituzionale (artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.), “vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”.[22]

    A sua volta, la Corte EDU ha affermato che “la più grande discrezione si impone” alle autorità giurisdizionali, perché è ciò che esigono gli “imperativi superiori di giustizia e di grandezza della funzione giudiziaria”,[23] sottolineando che anche l’apparenza di imparzialità ha un peso rilevante, in quanto con essa si mette in gioco la fiducia che in una società democratica un magistrato deve ispirare nella generalità dei cittadini.[24]

    Più recentemente, la C.E.D.U.,[25], nel rigettare il ricorso alla Corte europea per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (limiti alla libertà di espressione) da parte di un magistrato italiano, condannato in sede disciplinare per dichiarazioni diffamatorie rilasciate alla stampa nei confronti di altro magistrato, ha svolto considerazioni pregnanti sul tema del dovere di discrezione e di riservatezza che incombe sui magistrati in ragione della loro delicatissima funzione ed al fine di preservare la fiducia dei cittadini nel potere giudiziario. In particolare, si legge che “sottolineando la massima discrezione imposta alle autorità giudiziarie, la Corte rammenta che questa discrezione deve indurle a non utilizzare la stampa, neanche per rispondere alle provocazioni”.

    Vero è che ciò vale essenzialmente, come ha pure precisato la Corte di Strasburgo, prima di decidere la causa[26] e, se è vero che le dichiarazioni alla stampa possono perciò essere valorizzate per ritenere lesa l’imparzialità,[27] rilevando l’esigenza di un’estrema discrezione, al fine di scongiurarne la lesione, anche sotto il profilo dell’apparenza,[28] è anche vero che, secondo detta Corte,[29] la stampa svolge un ruolo fondamentale in una società democratica e, se non deve superare taluni limiti, le spetta tuttavia comunicare informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale, ivi compreso quelle che riguardano il funzionamento del potere giudiziario.

    Di questo era consapevole il Consiglio superiore della magistratura già prima della redazione delle menzionate Linee-guida in materia di comunicazione istituzionale, laddove è specificamente intervenuto a regolamentare con più puntuali direttive l’attività di partecipazione dei magistrati a trasmissioni televisive e radiofoniche, riconducendola a quella per cui necessita l’autorizzazione.[30] Detta circolare è significativa poiché, per un verso, pone in luce l’esigenza di differenziare la narrazione a seconda che concerna o meno vicende definite, poiché nel secondo caso il diritto di manifestazione del pensiero può esplicarsi in termini più ampi, fermo il rispetto di tutti gli altri limiti che la stessa incontra e, per altro verso, rende evidente che, con le dovute autorizzazioni, il magistrato può partecipare a dibattiti mediatici su processi in corso, nell’ovvio rispetto dei limiti di estensione del dovere di riserbo posti nelle fattispecie tipizzate dal codice disciplinare. In questo contesto, la mera narrazione avente ad oggetto l’attività svolta nel processo, nel rispetto dei limiti previsti dagli illeciti tipizzati, non espone il magistrato a rischi di sanzioni.

    Il contemperamento tra i valori costituzionali e comunitari in gioco deve essere risolto infatti, sul piano disciplinare, in un sistema ispirato al principio di tipizzazione degli illeciti, in punto di sussumibilità, o meno, di una specifica condotta nella fattispecie astratta.[31]

    Invero, la declinazione disciplinare del dovere di riserbo incombente sui magistrati si articola - in esito all’intervento abrogativo di alcune ipotesi sanzionatorie operato dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269, che ha soppresso le fattispecie di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 2, primo comma, lett. bb) e z) e 3, lett. f) - nei tre distinti illeciti funzionali previsti dalle lett. v), u) e aa) dell’art. 2, che riguardano, rispettivamente, i limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste (lett. v), l’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza (lett. u) e, infine, il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali (lett. aa).

    Dunque, fra le tre categorie generali di possibili violazioni del dovere di riserbo del magistrato enucleate nel sistema disciplinare abrogato (dichiarazioni sul processo trattato; dichiarazioni di critica politica; osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario)[32] nel sistema disciplinare vigente sono ascrivibili agli illeciti funzionali del magistrato soltanto le dichiarazioni o comunicazioni di notizie aventi ad oggetto il procedimento penale trattato dal magistrato dichiarante, sia che riguardino la fase delle indagini preliminari, sia che riguardino altre fasi del processo (art. 2). Le dichiarazioni riguardanti la cosiddetta critica politica o le dichiarazioni, per così dire, autopromozionali sono attinenti, invece, alla sfera degli illeciti extrafunzionali (art. 3) ed oggi sono perseguibili solo in quanto conseguenti a reato (art. 4). Le osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario non pertinenti al suo scopo esulano, sul piano logico-sistematico, dalla tematica delle violazioni del dovere di riserbo, essendo ascrivibili alla tematica della violazione dei doveri di correttezza ed imparzialità (lett. d ed a dell’art. 2).

    In linea generale, nell’ambito del predetto bilanciamento tra valori costituzionali e con riferimento specifico al magistrato che viola di dovere di riserbo nell’esercizio delle proprie funzioni, viene in considerazione anche un altro valore fondamentale, il diritto all’onore professionale del magistrato, che potrebbe essere violato da notizie mediatiche false o, comunque, non rispettose della verità e della reale portata delle indagini o del processo.

    Come affermato dalla Corte di cassazione,[33] nel sistema giudiziario delineato dalla Costituzione, che prevede l’assunzione dei magistrati per concorso (art. 106, primo comma, Cost.), “il magistrato ripete la propria legittimazione soltanto dalla preparazione giuridica e dal rigoroso rispetto dei doveri consacrati nell’art. 1 del d.lgs. n. 109/2006”. Pertanto, quando è in discussione “la reazione all’attribuzione di un provvedimento non solo di contenuto diverso da quello effettivamente adottato, ma anche inconciliabile con i doveri del magistrato e con l’immagine che il magistrato deve dare di sé per la credibilità propria e della magistratura” il diritto all’onore professionale può costituire una causa di giustificazione della violazione del diritto al riserbo corrispondente allo stato di necessità, posto a tutela dell’onore del magistrato e della credibilità della giurisdizione.

    3. I limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste

    Costituiscono illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. v) le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.

    La disposizione prevede, dunque, due diverse fattispecie di illecito disciplinare.

    La prima trae il suo fondamento dall’esigenza di non divulgare, con pubbliche dichiarazioni o interviste, notizie sui soggetti coinvolti negli affari pendenti, dei quali il magistrato si stia occupando o si sia occupato. Il divieto di pubbliche dichiarazioni o interviste sussiste sino all’emissione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione ordinaria; quindi, il magistrato è tenuto al riserbo anche dopo la fase o grado del procedimento in cui ha trattato “l’affare”, sino a quando sui fatti oggetto di trattazione dinanzi a sé non si sia formato il giudicato.  

    Garantite dal dovere di riserbo sono quindi le notizie acquisite dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni; la finalità della norma è di evitare che le notizie riguardanti soggetti coinvolti negli affari in corso pervengano a chi non ha titolo per esserne informato, anche quando non si tratti di notizie segrete. La norma è posta, pertanto, a tutela di ogni soggetto coinvolto in affari pendenti, in considerazione della specifica invasività dell’attività giudiziaria, che determina l’intromissione nella vita privata delle persone.[34] Per questo profilo, la norma pare già rispettosa della raccomandazione del CCPE, laddove nel richiamato parere si auspica che la libertà di espressione e di stampa, il diritto all’informazione, il principio di trasparenza trovino il loro naturale limite nel diritto alla riservatezza, nel diritto alla vita privata e alla dignità, nonché al riserbo nelle inchieste, alla presunzione di innocenza, alla parità delle armi, ai diritti della difesa e nel diritto ad un giusto processo.

    Parte della dottrina ritiene che la fattispecie si applichi solo ai magistrati giudicanti e non ai magistrati requirenti, ai quali sarebbe riservata l’altra fattispecie, descritta nella seconda parte della disposizione,[35] ma la giurisprudenza disciplinare in materia è di contrario avviso.

    In un caso, mediaticamente noto come il caso della Guerra tra Procure, il giudice disciplinare aveva giudicato (assolvendolo per lo specifico capo di incolpazione di cui alla lett. v) il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catanzaro, il quale aveva tenuto una conferenza stampa in cui aveva qualificato l'azione dei pubblici ministeri di altra Procura della Repubblica, quale atto "istituzionalmente inammissibile", nonché "scandaloso ed eversivo", a cui era necessario rispondere con tempestive iniziative "idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell'Ordine Giudiziario”. Il giudice di merito ha così argomentato l’assoluzione: “la pur vivace intervista (…) appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento, e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (la violazione dei doveri di correttezza e diligenza connessi alla mancata astensione ed alla redazione di un provvedimento di sequestro ritenuto abnorme).[36]

    In un altro caso, il giudice disciplinare ha affermato il principio (invero rimasto isolato in giurisprudenza) secondo cui “costituiscono illecito disciplinare le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui. Tale disposizione va posta in relazione all'art. 21 della Costituzione ed in tal senso la giurisprudenza disciplinare, in costanza del precedente regime giuridico, è approdata alla conclusione, utile ai fini della interpretazione della nuova norma, che le dichiarazioni rilasciate dal pubblico ministero, proprio in quanto manifestazione del pensiero tutelata dal citato art. 21 Cost., non integra illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza. Allo stesso modo si è rilevato che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è resa (nel caso di specie in ottica di contestualizzazione delle dichiarazione rese, esposizione mediatica del magistrato per la rilevanza dei procedimenti trattati e iniziative prese nei suoi confronti concretatesi in denunce ad autorità giudiziarie competenti, si è ritenuto che le stesse non abbiano superato il limite della continenza)”.[37] 

    Le ragioni per cui la fattispecie è applicabile anche ai pubblici ministeri si traggono dalla esegesi dell’altra fattispecie prevista dalla stessa disposizione di cui alla lett. v), di cui tratterò a breve.

    Per il profilo della condotta materiale, si tratta di un illecito di pericolo. In effetti, la condotta descritta nella fattispecie dev’essere diretta a ledere indebitamente diritti altrui. Deve trattarsi non necessariamente di diritti delle parti processuali; può trattarsi anche dei diritti dei difensori, degli ausiliari del magistrato, di testimoni o di terzi eventualmente indirettamente coinvolti.

    Non è necessario che vi sia stata in concreto la lesione dei diritti altrui, ma è sufficiente che le dichiarazioni pubbliche o le interviste del magistrato concretizzino anche il fondato rischio della lesione dei diritti.

    Il pericolo di questa lesione deve derivare da un comportamento “indebito”, non giustificato in alcun modo. Ne consegue che potrebbe essere esclusa la configurabilità dell’illecito quando il magistrato si sia trovato nello stato di necessità di svolgere pubbliche dichiarazioni proprio a tutela del procedimento trattato, o a garanzia del buon esito dell’inchiesta, o per legittima difesa avverso aggressioni verbali o tentativi di intimidazione, o delegittimazione, o altro.

    All’elemento materiale della condotta illecita deve accompagnarsi l’elemento soggettivo che, secondo la prevalente dottrina, consiste nella intenzione di ledere i diritti altrui in maniera ingiustificata e, perciò, “indebita” ed “antigiuridica”.[38] Non può tuttavia escludersi che il pericolo della lesione dei diritti altrui possa derivare anche da un comportamento colposo del magistrato, non necessariamente doloso, che potrebbe essere costituito da grave negligenza e, comunque, imprudenza, nel rivelare notizie che, pur non protette da segreto, siano idonee a porre in pericolo la lesione dei diritti altrui. Invero, sembra una interpretazione più conforme alla lettera e alla ratio della norma collegare il termine “diretta” alla condotta materiale della pubblica dichiarazione o intervista e non alla sua intenzione specifica di ledere i diritti altrui.

    In altri termini, è la portata materiale della pubblica dichiarazione o intervista che - per lo strepitus fori, per la particolare rilevanza mediatica a livello nazionale, o anche solo locale, per la sua oggettiva inopportunità, non accompagnata da cause di giustificazione - deve esporre i diritti altrui al pericolo della lesione. Non sembra necessario, ai fini della configurabilità dell’illecito, accertare l’intenzionalità del magistrato di ledere i diritti altrui, lesione che potrebbe essere determinata anche per “colpa cosciente”. La norma non presuppone il dolo e la sua ratio mira a porre i diritti dei soggetti coinvolti negli affari trattati al riparo anche dalle semplici manie di protagonismo del magistrato che, magari sensibile al clamore mediatico, dimentica, anche per grave negligenza o imprudenza, di essere il principale garante dei diritti alla riservatezza di quegli stessi soggetti coinvolti, siano essi parti del procedimento o, come si è detto, anche terzi direttamente o indirettamente interessati.[39]

    Come si è visto, secondo una isolata decisione della Sezione disciplinare,[40] la fattispecie andrebbe posta in relazione al diritto tutelato dall’art. 21 della Costituzione. A tal proposito, già nel sistema disciplinare abrogato, si era affermato che l’intervista rilasciata da un pubblico ministero, costituendo espressione della libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione, non integra un illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza e che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è stata resa.[41]

    Dunque, le dichiarazioni rese non andrebbero valutate solo per il loro tenore letterale, ma anche in relazione al particolare contesto nelle quali sono state rese, sicché andrebbe valutata, ad esempio, la circostanza che il magistrato sia suo malgrado esposto al crescente interesse mediatico.

    In ogni caso, laddove le dichiarazioni non varchino il limite della continenza, afferma il giudice disciplinare, esse si disvelano irrilevanti sul piano sanzionatorio.

    Non risulta che la giurisprudenza di legittimità si sia mai pronunciata sul punto, ma il collegamento tra la fattispecie in esame ed il limite di continenza non sembra sostenibile nel sistema vigente. Invero, nel sistema abrogato, l’art. 18 non distingueva tra dichiarazioni pubbliche e dichiarazioni diffamatorie tout court. Oggi, per un verso è prevista la fattispecie di cui alla lett. v) - accanto alle analoghe fattispecie di cui alle lett. u) e aa) - a tutela delle mere violazioni del dovere di riserbo e, per altro verso, rientrano nella previsione di cui all’art. 4, lett. d) - che riguarda gli illeciti disciplinari collegati a reato - quelle dichiarazioni pubbliche, relative ad affari pendenti presso il magistrato, non solo idonee a ledere indebitamente diritti altrui, ma di fatto lesive dell’altrui reputazione, sì da configurare il reato di diffamazione (del quale si tratterà in seguito). 

    Se così è, i limiti alla manifestazione del pensiero sembrano esorbitare dalle tematiche attinenti la fattispecie in esame, per confluire nella diversa valutazione dell’illecito disciplinare connesso al reato di diffamazione.

    D’altronde, quando vi sia una pubblica dichiarazione o intervista diretta a ledere indebitamente diritti altrui, una volta accertata la sussistenza anche dell’elemento soggettivo del magistrato incolpato, sembra estraneo alla fattispecie l’accertamento di un presupposto non richiesto espressamente dalla norma, la continenza delle espressioni; presupposto che, del resto, sembra al contrario aver voluto escludere il legislatore, giacché, nel bilanciamento di opposti diritti costituzionalmente garantiti, quello alla libera manifestazione del pensiero da parte del magistrato e quello alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione (ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria), ha ritenuto la prevalenza di questi ultimi.

    In questo senso si è orientato il giudice disciplinare in fattispecie cautelare in cui è stata configurata la violazione della lett. v) per avere il magistrato incolpato rilasciato gravi dichiarazioni nel corso di una conferenza stampa in cui aveva qualificato l’azione dei pubblici ministeri di diversa Procura come un atto “istituzionalmente inammissibile”, nonché “scandaloso ed eversivo”, a cui rispondere con tempestive iniziative “idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell’Ordine giudiziario”. Ha osservato nell’occasione il giudice disciplinare che queste dichiarazioni, definite “impulsive ed irresponsabili”, si sono prestate a considerazioni dei mass media quali “guerra tra Procure” e “scontro tra magistrati” ed hanno contribuito alla lesione del prestigio dell’ordine giudiziario.[42]

    Il giudice di legittimità, nel confermare l’ordinanza cautelare del giudice disciplinare, ha precisato che si era trattato di dichiarazioni riguardanti “soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione” e dirette a lederne indebitamente i diritti.[43]

    Nello stesso senso si è ancora espresso, successivamente, il giudice disciplinare, in fattispecie riguardante dichiarazioni pubbliche rilasciate dal giudice del riesame che si era occupato del caso dei fratellini morti a Gravina di Puglia, ritenute lesive per il padre indagato, poi scagionato.[44]

    Non integra invece l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, qualora tali dichiarazioni non incidano sul buon andamento del procedimento.[45]

    La seconda parte della disposizione in esame, come detto, sanziona la violazione del secondo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 il quale, tuttavia, non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma.[46]

    Il secondo comma dell’art. 5 dispone, infatti, che “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento”.[47]

    Ciò è contestato da una buona parte della dottrina. Si è ad esempio sostenuto che “la condotta sanzionata si identifica con il divieto del 3° comma, dell’art. 5, perché, altrimenti, rimarrebbe priva di rilevanza proprio la condotta che si intendeva colpire: l’esternazione dei singoli sostituti”.[48] Si è pure sostenuto, sempre nello stesso senso, che “non si comprenderebbe altrimenti la disposizione del quarto comma del medesimo articolo”.[49]

    Pur condividendo la teoria della “svista” del legislatore, altra parte della dottrina giunge a diverse conclusioni.[50] In effetti, si deve osservare che, dopo le modifiche apportate all’originario impianto del d.lgs. n. 109 del 2006 dalla legge n. 269 del 2006, sono confluite in questa disposizione le disposizioni già previste dalla stessa lett. v)[51] e dalla abrogata lett. z). Quest’ultima sanzionava “il tenere rapporti in relazione all’attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli articoli 1, comma 1, lett. d) e 2, comma 4, della legge 25 luglio 2005, n. 150”.

    Si trattava pertanto di un rinvio al complesso della normativa introdotta con il d.lgs. n. 106 del 2006. Come si è visto, la vigente disposizione di cui all’ultima parte della lett. v) sanziona soltanto la violazione del divieto di cui all'articolo 5, secondo comma, del predetto decreto legislativo e non del successivo terzo comma.

    Certo, la teoria della “svista” del legislatore ha una sua dignità scientifica e non è da escludere che ciò sia per l’appunto avvenuto. Vero è che non possono essere condivise le conseguenze che taluni vogliono trarre da questa “svista”, e cioè che la prima fattispecie disciplinare prevista dalla lett. v) sarebbe applicabile soltanto ai magistrati giudicanti, mentre la seconda fattispecie sanzionerebbe, appunto, soltanto i pubblici ministeri che contravvengano al divieto di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio”.

    Sarebbe irragionevole escludere la sanzionabilità delle pubbliche dichiarazioni o interviste rilasciate da magistrati del pubblico ministero “che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui” solo in considerazione di una “svista” del legislatore che, sicuramente, non può avere alcuna conseguenza modificativa di una fattispecie di illecito chiara e non equivoca, che difetta di alcun riferimento soggettivo ai giudici o ai pubblici ministeri.

    Del resto - come si è visto - vi è un indirizzo del giudice disciplinare univoco nel senso dell’applicabilità della fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v) anche ai pubblici ministeri. Ed allora - non potendo configurarsi come disciplinarmente illecita una condotta, quella posta in essere in violazione del terzo comma dell’art. 5 cit., non più tipizzata - sembra che non possa che prendersi atto che la fattispecie disciplinare prevista dalla seconda parte della lett. v) riguardi un illecito proprio dei Procuratori della Repubblica, ovvero dei magistrati da questi delegati a mantenere i rapporti con gli organi di informazione (primo comma dell’art. 5 cit.) ed abbia ad oggetto la condotta consistente nel fornire informazioni inerenti alle attività della procura della Repubblica non attribuendole in modo impersonale all'ufficio ed al contrario riferendole ai magistrati assegnatari del procedimento (secondo comma dell’art. 5).[52]

    Anche per questo profilo, il sistema italiano appare in piena sintonia con le Raccomandazioni del CCPE, laddove si auspica l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero ai portavoce o ai procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni, ritenendosi che le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali e si osserva altresì che, al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.

    Dove il sistema italiano è invece carente, rispetto alle raccomandazioni del CCPE, è proprio in ordine alla formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione. Di qui, come recentemente disposto nelle Linee-guida del C.S.M., l’importanza di corsi di formazione, anche al fine di evitare informazioni non solo inopportune, ma anche - a volte - intempestive, nel senso che mai dovrebbe concretizzarsi l’ipotesi, rimarcata dall’autorevole organo consultivo dei procuratori europei, che i procuratori della Repubblica non adottino cautele nel senso di cercare di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media.

    Quanto alla violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica - e, deve intendersi implicito, trattandosi della medesima ratio, per i magistrati delle Procure generali della Repubblica - di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio (terzo comma dell’art. 5), essa deve ritenersi di per sé priva di alcuna conseguenza disciplinare, non sussistendo più alcuna fattispecie tipizzata, a meno che non si riverberi in altre fattispecie tipizzate: ad esempio, in quanto realizzi la fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v), oppure in quanto conseguenza di reato ex art. 4 lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006, oppure in quanto condotta scorretta che potrebbe rilevare ai fini della configurabilità di altri illeciti, quali quelli previsti dalla lett. d), o dalla lett. a), oppure, più semplicemente, a causa della mera violazione del divieto di legge previsto dalla richiamata norma, l’illecito previsto dalla lett. g), ove detta violazione di legge si configuri come “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile”, con specifico accertamento, caso per caso.[53]

    Con ciò potrebbe rimanere a prima vista priva di significato concreto la previsione di cui al successivo quarto comma dell’art. 5 (“il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”). Si tratterebbe quindi di un obbligo, la cui violazione rimarrebbe priva, di per sé, di sanzione disciplinare, a meno che non sia stata integrata, attraverso la violazione del dovere di riserbo gravante sui magistrati della Procura della Repubblica, una diversa fattispecie disciplinarmente rilevante. In realtà non è così perché, come si è già detto a proposito delle omissioni dei magistrati dirigenti costituenti illecito disciplinare, la violazione del quarto comma dell’art. 5 da parte del Procuratore della Repubblica è pur sempre una violazione di legge che, se “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile”, potrebbe configurare il diverso illecito di cui alla lett. g) del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

    In conclusione, nel vigente sistema disciplinare, la violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio non comporta di per sé una loro responsabilità disciplinare, a meno che queste dichiarazioni non integrino la violazione della fattispecie disciplinare di cui alla prima parte della lett. v), o integrino fattispecie disciplinari diverse dalla lett. v), quale ad esempio la grave violazione di legge a causa di negligenza inescusabile, di cui alla lett. g).

    L’omissione della comunicazione agli organi competenti, da parte del Procuratore della Repubblica, della violazione del divieto per i sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione  può comportare, di per sé, la responsabilità disciplinare del Procuratore della Repubblica (lett. dd) in quanto l’esternazione del sostituto si riverberi in una fattispecie tipica prevista dal vigente sistema disciplinare, oppure quando l’omissione di segnalazione del Procuratore si riverberi, essa stessa, in una “grave” violazione di legge conseguente a “negligenza inescusabile” (lett. g).

    Secondo il giudice disciplinare, invece, non integra l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, atteso che il secondo comma dell’art. 5 d.lgs n. 109/2006, unicamente richiamato dalla lett. v) seconda parte, non pone un divieto ai singoli sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.[54]

     *Intervento al corso di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci, 21 marzo 2019, prima parte

    [1] Cfr. VALENTINI, Stampa e processo penale: storia di un’evoluzione bloccata, in Dike, 2011, n. 3.

    [2] Ricordiamo la penosa vicenda risalente al 1989, di Lanfranco Schillaci, accusato di violenza sessuale sulla figlia di due anni, linciato su tutti i quotidiani e poi assolto con formula piena con sentenza passata in giudicato.

    [3] GIOSTRA, Riflessi della rappresentazione mediatica sulla giustizia “reale” e sulla giustizia “percepita”, in Legislazione penale, agosto 2018.

    [4] Si veda in tal senso il recente intervento del Vice Presidente del C.S.M., David ERMINI, del 2 marzo 2019 al XXII Congresso di Magistratura Democratica in Roma, “Il giudice nell’Europa dei populismi”, secondo cui il mix di populismo e sovranismo metterebbe in crisi i capisaldi della democrazia costituzionale e dello stato di diritto, alimentando politiche del rancore e della chiusura e agitando l'ideologia moralistica della volontà popolare. Nell’occasione il Vice Presidente del C.S.M. ha affermato che vanno denunciati “i guasti di una visione ordalica e sommaria della giustizia” e “di un’ottica secondo cui la decisione del giudice viene valutata secondo fuorvianti e inesistenti legami con idee di popolo dal significato emotivamente ambiguo, più vicine all’immagine della piazza o della folla”.

    [5] CAFERRA, La questione del potere giudiziario, Bari, 2018, 61 ss.

    [6] GAETA, Il problema della divulgazione delle notizie giudiziarie, in Questione giustizia on line, 7 marzo 2019. Si v. anche FERRARELLA, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 4.

    [7] Le principali raccomandazioni del rapporto ENCJ su Giustizia, società e media comprendono: a) la costituzione di portavoce giudiziari/giudici della stampa; b) la stesura di regolamenti per l'uso di registrazioni audio e video nei tribunali; c) avere chiare linee guida per l'uso di smartphone e altri dispositivi di comunicazione; d) lo sviluppo di una strategia per l'uso di ciascun social media; e) la creazione di un sito web con informazioni per i professionisti, la stampa e il pubblico in generale e una banca dati di sentenze liberamente accessibile; f) la regolamentazione delle relazioni tra la magistratura e i media attraverso le linee guida della stampa, dovrebbero indicare cosa i media possono aspettarsi dal personale dei tribunali e come i tribunali dovrebbero trattare i bisogni dei media prima, durante e dopo i procedimenti giudiziari; g) lo sviluppo di un approccio mediatico proattivo incentrato sui singoli casi giudiziari e sull'intero sistema giudiziario.

    [8] Il rapporto, approvato a Lisbona il 1° giugno 2018, sviluppa ampiamente la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, tra l’altro, raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.

    [9] Parere CPPE n. 8 del 9 ottobre 2013, espresso a Yerevan. Il CPPE è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa ed è stato costituito nel 2005, il cui Presidente era all’epoca un magistrato italiano, il dott. MURA, ora Procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia. Il CPPE è l’organo parallelo al Consiglio Consultivo dei Giudici (CCJE), con il quale ha redatto la Dichiarazione di Bordeaux, su giudici e magistrati del pubblico ministero in una società democratica, adottata ufficialmente a Brdo (Slovenia) il 18 novembre 2009. Al par. 10 della Dichiarazione di Bordeaux già si sottolineava che “è (…) interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.

    [10] V. il commento di SALVI, I rapporti tra Procuratori e Media nel parere del CPPE, in Questione Giustizia, 17 gennaio 2014, il quale sottolinea come il parere del CCPE sia fondato sulla concezione dell'informazione non come diritto del PM, ma come dovere, corrispondente al diritto della collettività ad essere informata.

    [11] Delibera CSM dell’11 giugno 2018. Tra i primi autorevoli commenti, v. FERRARELLA, Non per dovere, ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi” e BRUTI LIBERATI, Un punto di arrivo o un punto di partenza?, entrambi in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [12] Con la risoluzione su Uffici Relazioni con il Pubblico e modalità di comunicazione degli Uffici giudiziari e del Consiglio superiore della magistratura, approvata il 26 luglio 2010, il C.S.M. aveva già individuato nella strategia comunicativa il presupposto necessario per una moderna e democratica configurazione dei rapporti tra cittadini ed istituzioni, indicando quale prima soluzione organizzativa ispirata a questa finalità la costituzione degli Uffici per il Rapporto con il Pubblico (URP).

    [13] FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Torino, 2013, 37 ss.

    [14] CSM, sez. disc., ord. 7 marzo 2008 n. 19 in merito alle dichiarazioni rese dal procuratore aggiunto di Bari, Marco Dinapoli su un procedimento a carico dell’on. Raffaele Fitto e altri.

    [15] Sulla natura e gli effetti dell’ordinanza di non luogo a procedere nel processo disciplinare, v. FRESA, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al CSM: iniziativa, istruttoria, conclusione, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano 2010, Cap. IV, par. 4.2.

    [16] FRESA, La responsabilità disciplinare, in Il magistrato e le sue quattro responsabilità, Milano, 2016, 263 ss.

    [17] Si segnalano in dottrina, FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208 ss., 315 ss, DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303 ss.; CAVALLINI, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239 ss.; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano, 2010, 222 ss.; CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, in Ordinamento giudiziario, leggi, regolamenti e procedimenti, a cura di ALBAMONTE-FILIPPI Torino, 2009, 744 ss.; DE NARDI, La responsabilità di espressione dei magistrati, Napoli, 2008; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 69 ss.; GRISOLIA, A proposito di esternazioni dei magistrati e controllo disciplinare, in Quest. Giust., 2002, 6, 1237 ss.; DE NUNZIO, Libertà di manifestazione del pensiero e deontologia professionale del magistrato, in Doc. Giust., 1998, 1977 ss.; GILARDI, Rapporti ‘maturi’ tra giustizia e mass-media: basta poco per riequilibrare l’informazione, in Guida al dir., 1997, 100 ss.; GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria: cause, effetti e falsi rimedi, in Dir. pen. e proc., 1995, 390 ss.

    [18] CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47 utilizza invece i due termini “riserbo” e “riservatezza” in maniera equivalente.

    [19] Dal vocabolario Treccani on line.

    [20] Cass., sez. un. 24 marzo 2014 n. 6827 in relazione alla vicenda delle dichiarazioni rese da Annamaria Fiorillo, pubblico ministero minorile a Milano, sul noto caso Ruby.

    [21] Corte cost. n. 100 del 1981.

    [22] Corte cost. n. 224/2009 sul caso di Luigi Bobbio e, più recentemente, Corte cost. n. 170/2018 a proposito della nota vicenda di Michele Emiliano.

    [23] C.E.D.U., 13 novembre 2008, Kayasu c. Turchia.

    [24] C.E.D.U., 15 dicembre 2005, Kyprianou c. Cipro.

    [25]  C.E.D.U., sez. seconda, 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia.

    [26] C.E.D.U., 16 settembre 1999, Buscemi c. Italia.

    [27] C.E.D.U., 5 maggio 2009, Olujic c. Croazia.

    [28] C.E.D.U., 8 dicembre 2009, Previti c. Italia.

    [29] C.E.D.U., 27 febbraio 1997, De Haes e Gijseks c. Regno Unito.

    [30] Il riferimento è alla modifica della circolare sugli incarichi extragiudiziari realizzata con delibera del 2 dicembre 2015, la quale, nell’art. 4 della circolare, ha inserito il comma 4.2-bis, il quale stabilisce: E’ altresì soggetta ad autorizzazione, da rilasciare secondo i criteri del capo che precede, la partecipazione, programmata, continuativa e non occasionale, anche se gratuita, a trasmissioni televisive, radiofoniche ovvero diffuse per via telematica o informatica, da chiunque gestite, nelle quali vengono trattate specifiche vicende giudiziarie ancora non definite nelle sedi competenti.

    [31] Sul punto, consistente è la casistica delle condotte dei magistrati affrontate dalla Procura generale e definite senza esercitare l’azione disciplinare. Si ricorda, tra i tanti, il caso del Procuratore della Repubblica di Catania e delle sue pubbliche esternazioni sulle ONG e sul salvataggio in mare degli immigrati; il caso del pubblico ministero di Trani e delle sue esternazioni all’indomani della sentenza di assoluzione di esponenti di rilievo dell’agenzia di rating Standard & Poor’s con l’accusa, tra le altre, di manipolazione aggravata del mercato finanziario; il caso del Procuratore della Repubblica di Cosenza e della intervista rilasciata al TGR Calabria, riguardante la riapertura delle indagini sulla morte del calciatore del Cosenza “Denis” Bergamini; il caso del Presidente del Tribunale di Bologna e delle sue esternazioni sul referendum in tema di riforma costituzionale; il caso del Procuratore della Repubblica di Macerata e delle sue esternazioni in tema di c.d. scarcerazioni facili; il caso del Procuratore della Repubblica di Modena e delle sue esternazioni sul processo Parmalat; il caso del pubblico ministero siciliano e della sua intervista sulla vicenda della pretesa fuga di Marcello Dell’Utri all’estero; il caso della partecipazione ad un servizio televisivo sulla c.d. trattativa Stato-mafia del pubblico ministero e del GIP protagonisti del relativo processo.

    [32] Si rimanda per brevità a FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208-212.

    [33] Cass., sez. un., 24 marzo 2014 n. 6827, cit., con ampi riferimenti al diritto all’onore quale diritto della personalità nella costante giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione penale.

     

    [34] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 243.

    [35] In questo senso, FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 72; DE NARDI, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555; FANTACCHIOTTI, op. cit., 243; contra, CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 751.   

    [36] CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, che ha trovato conferma in Cass., sez. un., 12 maggio 2010 n. 11431, ove peraltro l’assoluzione relativa all’illecito di cui alla lett. v) non era stata oggetto di ricorso da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione.

    [37] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, che ha riguardato le dichiarazioni del pubblico ministero Luigi De Magistris, condannato alla sanzione della censura con trasferimento d’ufficio per plurime violazione dei doveri di diligenza e correttezza, connesse ad indagini di rilevanza nazionale. Cass., sez. un., 11 luglio 2008 n. 19279, ha dichiarato inammissibile il ricorso del magistrato per tardività. 

    [38] CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 752; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244, parla apertamente di dolo specifico e ritiene da escludersi la rilevanza disciplinare quando la dichiarazione pubblica sia giustificata dallo scopo di difendersi da offese e critiche ricevute o di fornire notizie a tutela della corretta informazione giudiziaria. Nello stesso senso, APOSTOLI, Implicazioni costituzionali della responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 2009, 159; BELTRANI, Come (ri)cambia l’illecito disciplinare, in Dir. e giust., 2006, n. 41, 90.

    [39] Contra, CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, nel caso delle dichiarazioni rese a “La Repubblica” da Antonino Di Matteo in merito al processo sulla c.d. trattativa Stato-mafia, secondo cui “il dato letterale della lett. v) (…) allorquando richiede che la condotta sia diretta a ledere l’altrui diritto, illumina significativamente, oltre che la condotta materiale in senso teleologico, anche e soprattutto l’elemento soggettivo che va necessariamente qualificato come dolo intenzionale”.

    [40] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., in fattispecie in cui il pubblico ministero De Magistris era stato incolpato dell’illecito in esame perché manteneva un disinvolto rapporto con la stampa ed i mezzi di comunicazione del tutto disattento ai profili di opportunità, nonché di riservatezza delle attività d'indagine preliminare, oggettivamente in grado di determinare la divulgazione del contenuto di atti giudiziari sottoposti al segreto d'ufficio, anche quando svincolati dal segreto investigativo, rendendo dichiarazioni senza la delega del Procuratore della Repubblica e suscitando altresì pubblicità sulla propria attività di indagine. In particolare, rilasciava interviste su quotidiani aventi per contenuto fatti oggetto di indagini in corso e (sia pure allusivamente) soggetti nelle medesime coinvolti, spesso utilizzando espressioni improprie ed incontinenti, in termini di inammissibili sfoghi, del tenore “vogliono togliermi le inchieste”, “vogliono fermarmi”, ed altre della medesima portata; inoltre, dichiarava che il procuratore della Repubblica aveva disatteso le sue richieste di essere affiancato nelle indagini più delicate ed anzi era stato oggetto di accuse “per convincere il CSM ad allontanarmi per incompatibilità ambientale”. Rendeva, quindi, in più occasioni, dichiarazioni pubbliche o interviste riguardanti gli affari in corso di trattazione, con le quali faceva apparire che le iniziative giudiziarie o con finalità di accertamenti deontologici, adottate nei suoi confronti, fossero in realtà manifestazioni di un complotto per far cessare la sua attività di indagine anche con il ricorso ad istituti processuali strumentalmente utilizzati per intaccare l'autonomia e il potere diffuso della magistratura.

    [41] CSM, sez. disc., 4 luglio 2003 n. 70, in fattispecie in cui è stata sottoposta al vaglio disciplinare una intervista rilasciata dal sostituto Procuratore della Repubblica Giuseppe Pititto a un quotidiano contenente critiche all'operato del Procuratore della Repubblica in relazione ad un procedimento trattato dall'ufficio di appartenenza e già a lui stesso assegnato, nonché ai componenti del Consiglio superiore della magistratura in relazione al provvedimento negativo assunto nei suoi confronti. Le dichiarazioni sono state ritenute continenti ed il pubblico ministero è stato assolto (la sentenza non è stata impugnata per cassazione).

     

    [42] CSM, sez. disc., ord. 4 febbraio 2009 n. 11 nella ordinanza nota giornalisticamente come risolutiva del conflitto tra Procure della Repubblica.

    [43] Cass., sez. un., 8 luglio 2009 n. 15976. E’ interessante notare che lo stesso episodio, riesaminato nel merito da CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, come si è visto, è stato poi ritenuto non configurare la violazione di cui alla lett. v) in quanto “la pur vivace intervista, non può essere, a parere del Collegio, assunta autonomamente. Essa appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento, e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (il magistrato è stato condannato in via definitiva alla sanzione disciplinare della temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo per anni uno con trasferimento d'ufficio ad altra sede e ad altre funzioni per l’illecito di cui alle lett. c), e) ed ff) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006).   

    [44] CSM, sez. disc., 9 luglio 2010 n. 148, dalla quale emerge che le dichiarazioni, su un quotidiano di tiratura nazionale, erano state le seguenti: “ripeto, ho pianto per i bambini. I loro corpi sono i morti che mancavano. Io credo che il ritrovamento non crei contrasto con l'impianto accusatorio dell'epoca quando gli elementi acquisiti risultarono sufficienti per sostenere il coinvolgimento del padre e la sua custodia cautelare. La situazione non è cambiata, anche alla luce dei due corpi ritrovati. Quando la difesa riuscirà a scalfire l'impianto dell'accusa e a dimostrare che invece lo è, saranno possibili altre valutazioni. E' omicidio anche se si vede cadere qualcuno o se si sa che è in pericolo di vita e non si fa nulla”. Ed ancora: “Ci sono molte cose che restano inspiegate e che lui dovrebbe spiegare. Resta un punto fermo e cioè che lui quella sera è stato visto nella piazza delle Quattro Fontane con i suoi figli. Deve dire dove ha portato i bambini quella sera, deve spiegare. Invece dice di non aver visto i figli quella sera, non ha risposto a molte domande, ha depistato, non ha offerto alcuna giustificazione. E mi chiedo qual è il padre che non vede tornare i suoi figli e che alle sei e mezzo del mattino se ne va a lavorare? Lui ha dimostrato quantomeno noncuranza, indifferenza e disaffezione... ...Difendo il lavoro della Procura e della squadra mobile in questa inchiesta. E' stato mirabile. Adesso tutti sono bravi a dire questo o quello, con il senno di poi. Ma prima era come cercare un ago in un pagliaio”. La sentenza, che aveva condannato il magistrato alla sanzione dell’ammonimento, è stata annullata, per motivi procedurali, da Cass., sez. un., 5 luglio 2011 n. 14664.

    [45] CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, su cui però v. oltre, particolarmente in ordine all’illecito di cui alla lett. aa).

    [46] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., secondo cui “… quanto alle dichiarazioni rese senza la delega del procuratore, (…) esse non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma”.

    [47] Pare opportuno riportare l’intero testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 (“Rapporti con gli organi di informazione”): “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione.

    2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.

    3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.

    4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”.

    [48] FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73, il quale osserva anche che “l’evidente discrasia sembra collegarsi ad una svista se non ad un mero errore materiale (che ben si giustifica con la fretta e le modalità con le quali la modifica è stata approvata)”.

    [49] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244.

    [50] CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 750 ss.

    [51] Il testo originario della lett. v) era il seguente: “pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo,   riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in  corso  di  trattazione,  ovvero  trattati  e  non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”.

    [52] In tal senso, anche CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, cit..

    [53] Peculiare la fattispecie esaminata da CSM, sez. disc., ord. 9 luglio 2012 n. 99, che ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un sostituto procuratore, in relazione all’addebito di aver violato la lett. v) del d.lgs. n. 109 del 2006 ed il terzo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006, in quanto era risultato che aveva partecipato ad una conferenza stampa avente ad oggetto indagini da lui svolte, senza tuttavia rendere alcuna dichiarazione.

     

    [54] CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, cit., secondo cui “la Sezione ben conosce la disputa dottrinale secondo la quale ci si trovi innanzi ad un refuso del Legislatore che intendeva sanzionare le dichiarazioni dei singoli sostituti procuratori non autorizzati. Ma già la sezione disciplinare, esaminate questioni analoghe, affermò che esse "non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma". Nello stesso senso, CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, che non ritiene in particolare applicabile l’illecito di cui alla lett. g) del d.lgs. n. 109 del 2006, pur motivando comunque sul punto della violazione di legge (art. 5, terzo comma, d.lgs. 106/2006) ritenendola nella specie non grave e non dovuta a negligenza inescusabile. 

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (seconda parte)*

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (seconda parte)* 

    di Mario Fresa

    Sommario: 1 Il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali - 2. L’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza - 3. Profili penali e disciplinari delle esternazioni extrafunzionali - 4. La rilevanza disciplinare delle esternazioni extrafunzionali dei magistrati - 5. Conclusioni.

    1. Il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali

    Costituisce illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. aa) “il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati”.

    Come rilevato dalla dottrina,[1] la disposizione si ricollega soprattutto ai principi fissati dall’art. 6 del codice etico della magistratura. La fattispecie tipizzata esprime l’esigenza del legislatore, già codificata dalla stessa magistratura associata, di evitare le molteplici forme di collegamento che il magistrato può essere tentato di stabilire con i canali di informazione per sostenere, anche sul piano di una sua distorta immagine pubblica, la sua azione o, peggio, per attirare su di sé l’attenzione dei mezzi di comunicazione mediatica, al fine di soddisfare protagonismi inopportuni.

    Anche questa norma, come quella contenuta nella lett. v), deve essere coordinata con l’art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 106 del 2006 che, riservando  al Procuratore della Repubblica (o al magistrato da lui delegato) il potere di mantenere i rapporti con gli organi di informazione in buona  sostanza consente, soltanto nei limiti segnati dalla norma stessa, la gestione di questi rapporti non soltanto attraverso interviste finalizzate alla comunicazione della verità di fatti rilevanti, ma anche attraverso la convocazione di conferenze stampa o la promozione di altre forme di esternazione sulle attività dell’ufficio. Rimane, invece, vietata, anche al Procuratore della Repubblica, l’utilizzazione di canali informativi riservati o privilegiati.

    Pure questa disposizione prevede distinte fattispecie di illecito: a) la condotta consistente nella sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di magistrato; b) la condotta consistente nella costituzione e nella utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.

    La prima condotta, sotto il profilo materiale, può essere unisussistente[2] e, cioè, può concretizzarsi anche in un’unica attività di sollecitazione presso gli organi di informazione in merito all’attività dell’ufficio che il magistrato intende assumere. Essa può consistere, sostanzialmente, in un imput agli organi di stampa o radiotelevisivi o, più frequentemente, ai singoli giornalisti con i quali si è entrati in contatto, per la diffusione di notizie attinenti alle proprie attività di ufficio. Naturalmente, la sollecitazione (o anche l’oggetto cui si riferisce, particolarmente delicato e rilevante), deve essere idonea a compromettere o, quanto meno, a mettere in pericolo, il bene protetto dal dovere di riserbo, e cioè l’immagine di imparzialità e la stessa credibilità della funzione giudiziaria, che può indubbiamente risultare delegittimata ogni qualvolta vi sia un magistrato che spinga o esorti un giornalista o organi di informazione affinché si interessino di una specifica attività giudiziaria.

    In questo caso, quindi, il comportamento sanzionato non è quello della esternazione (lett. v) o della divulgazione (lett. u), ma quello, appunto, della “sollecitazione”.  Se poi alla sollecitazione si unisce anche la esternazione o la divulgazione di notizie, può discutersi se i diversi illeciti disciplinari possano concorrere tra loro, con le conseguenze di cui all’art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006,[3] ovvero se debba considerarsi speciale, rispetto alle due diverse norme, quella in esame.

    Quanto all’elemento soggettivo, la “sollecitazione” non può che essere intenzionale, per cui si tratta di illecito essenzialmente doloso.

    Secondo una sentenza, che si è occupata di questa fattispecie, integra l’illecito disciplinare per sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività d’ufficio la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, in assenza di alcuna condizione di urgenza ed in violazione delle previsioni del documento organizzativo dell’ufficio, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, qualora non abbia previamente provveduto ad avvalersi degli strumenti di tutela istituzionale previsti dall’ordinamento, con forme e modalità tali da consentirne la piena esplicazione.[4]

    La sentenza è stata però annullata in sede di legittimità, ove è stato affermato il fondamentale principio di diritto: “la condotta con la quale il magistrato si difende dall’attribuzione, sulla base di dichiarazioni diffuse dagli organi di informazione, di un provvedimento non solo di contenuto diverso da quello adottato, ma anche inconciliabile con i doveri del magistrato e con l’immagine che il magistrato deve dare di sé per la credibilità propria e della magistratura, non si pone di per sé, ma solo per i mezzi concretamente usati, in contrasto con il valore dell’imparzialità, al quale, anche sul piano dell’immagine, il magistrato deve sempre uniformarsi. Ne consegue che, nel caso in cui il magistrato faccia ricorso per difendersi ad interviste e comunicati stampa, la legittimità della condotta sul piano disciplinare, in relazione alla configurabilità delle esimenti dello stato di necessità e dell’adempimento di un dovere, deve essere valutata con un giudizio ex ante che, avendo riguardo alle specifiche circostanze che hanno connotato la lesione dell’onore del magistrato, non può limitarsi ad individuare astratte alternative percorribili, senza prevedere quali siano gli effettivi risultati che con esse il magistrato avrebbe potuto ottenere a tutela del suo onore professionale, in relazione alle esigenze di difesa come concretamente emerse”.[5]

    Secondo altra ordinanza di non luogo a procedere della Sezione disciplinare, quando sussiste un programma organizzativo il quale preveda che “il magistrato di turno esterno, nel solo periodo in cui è di turno e se richiesto, può dare notizia agli organi di informazione relativamente e limitatamente agli accadimenti verificatisi nel suddetto periodo”, programma del tutto conforme all'art. 5 del d.lgs. 106 del 2006, è da escludersi la responsabilità disciplinare del magistrato che informi i giornalisti di un fatto rilevante sotto il profilo del diritto di cronaca, senza peraltro violare il segreto investigativo.[6]

    La seconda condotta si concreta, invece, nella “costituzione” e “utilizzazione” di canali informativi riservati o privilegiati. L’utilizzazione, da parte del legislatore, della congiunzione “e” piuttosto che la disgiunzione “o” sembra stare a significare che non può essere sanzionata la mera utilizzazione di un canale informativo riservato o privilegiato se non ne viene accertata anche la costituzione. Ciò, evidentemente, fa parte del mero esercizio retorico, in quanto ogni utilizzazione di un canale informativo, ne presuppone la sua costituzione. Naturalmente, poco importa se la costituzione del canale informativo riservato o privilegiato sia opera dello stesso magistrato che poi lo utilizza, oppure di altro magistrato che si sia occupato, prima di lui, di certe inchieste, o anche di altri soggetti (avvocati, organi di polizia giudiziaria o, in genere, operatori del diritto) che abbiano messo in contatto il magistrato con il singolo giornalista, o con la testata giornalistica, o con la rete televisiva privata, o quant’altro.

    Questa seconda fattispecie prevista dalla lett. aa) presuppone perciò, a differenza della prima, una pluralità di atti, costituiti almeno dalla costituzione del canale informativo riservato o privilegiato e dal suo successivo utilizzo. 

    La giurisprudenza disciplinare ha affrontato per la prima volta il tema dell’illecito di cui alla lett. aa) nel caso del noto magistrato della Corte di cassazione, Corrado Carnevale, che era stato tratto a giudizio, tra l’altro, per aver gravemente mancato ai propri doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio e per aver sollecitato la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di presidente dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione. In particolare, per aver accettato, a seguito del giudizio di ammissibilità di quesiti referendari emesso dall’Ufficio suddetto, di rilasciare un’intervista ad un giornale (il cui titolo era “Con la Consulta possibili sorprese politiche”) nel corso della quale, tra l'altro, affermava che “è la legge che prevede che la suprema Corte dia un primo vaglio di costituzionalità alle domande referendarie, almeno sugli errori macroscopici. Che poi nel tempo sia venuta meno questa cosa e la prassi si sia burocratizzata è un altro discorso ...”; in tal modo lasciando intendere che a tale prassi, sotto la sua presidenza, era stata posta fine; riferiva, infatti, che era stata eccepita “la mancanza di chiarezza delle norme che si volevano abrogare” ed era stato “imposto che fossero riportate per intero sulla scheda elettorale”

    Il giudice disciplinare ha nel caso di specie configurato l’illecito disciplinare, per aver costituito ed utilizzato canali informativi personali riservati o privilegiati, nella condotta del magistrato che, dopo aver trattato un determinato affare, rappresenti ad un giornalista, che gliene faccia richiesta, le dinamiche interne all’ufficio di appartenenza in ordine a presunte prassi circa la soluzione delle questioni poste da vicende della medesima tipologia di quella appena affrontata, anche se il secondo non informi il primo della successiva pubblicazione delle sue dichiarazioni, quando le stesse abbiano un rilievo di interesse pubblico, sia perché, sotto il profilo oggettivo, l’utilizzazione di canali informativi personali è ipotesi autonoma da quella consistente nel sollecitare pubblicità di notizie in ordine alla propria attività di ufficio, sia perché, sotto il profilo soggettivo, non può non tenersi conto del dovere professionale e deontologico del giornalista di pubblicare tutte le notizie che assumono interesse pubblico e della possibilità del magistrato di apprezzare la sussistenza di tale interesse in considerazione del tenore delle dichiarazioni rese e del contesto nel quale le stesse siano state sollecitate.[7]

    La sentenza del giudice disciplinare è stata tuttavia cassata dal giudice di legittimità proprio in relazione al motivo di ricorso riguardante l’illecito in esame. La Corte Suprema ha sul punto affermato che non è conforme al diritto il decisum del giudice disciplinare nella parte in cui viene imputata all’incolpato una condotta - l'asserita utilizzazione di un canale informativo personale - storicamente (quanto incontestatamente) difforme rispetto a quella concretamente accertata. Invero, era stato accertato che le dichiarazioni del magistrato erano state sollecitate dal giornalista e, dunque, non era stato il magistrato ad utilizzare un canale informativo riservato o privilegiato. Tale, irredimibile distonia tra fatto storico e sussunzione dello stesso nella dimensione del giuridicamente rilevante a fini disciplinari - secondo le Sezioni unite - incide tanto sul principio della corrispondenza tra il contenuto del capo di incolpazione ed il provvedimento sanzionatorio adottato a conclusione del procedimento, quanto su quello della omogeneità di una condotta, contestata in termini di dolo, rispetto all'effettivo accertamento della concreta predicabilità di tale, specifico elemento soggettivo, non sovrapponibile né surrogabile con una dimensione soltanto colposa della medesima.

    La Corte ha quindi ritenuto che “in tema di responsabilità disciplinare del magistrato, le dichiarazioni volte a rappresentare la Corte costituzionale come condizionata e contigua - quantomeno in alcuni suoi esponenti - a un diverso potere dello Stato integrano l'illecito previsto dall'art. 4, primo comma, lett. d) d.lgs. n. 109 del 2006, in quanto assumono valenza offensiva e fuoriescono dai limiti del legittimo diritto di critica”.[8]

    In un’altra occasione, il giudice disciplinare si è ancora occupato dell’illecito di cui alla lett. aa), questa volta contestato in concorso con l’illecito di cui alla lett. u), in quanto il magistrato incolpato era stato tratto a giudizio, tra l’altro, per aver interloquito con un giornalista e propiziato la pubblicazione su un noto settimanale di un articolo dal titolo “Giudici contro Giudici”, che riportava il contenuto di alcune notizie e documenti d'ufficio (in particolare, di tre missive indirizzate dal magistrato al Procuratore generale presso la Corte d’appello in ordine alla “gestione” del procedimento denominato Why not).

    In tal modo, il magistrato - secondo il capo di incolpazione - avrebbe divulgato atti, coperti da segreto, del predetto procedimento in corso di trattazione, violando il dovere di riservatezza in modo tale da ledere indebitamente, a causa della negativa contrapposizione evidenziatane, l’immagine degli altri magistrati coassegnatari dello stesso procedimento. Nel contempo, lo stesso magistrato avrebbe sollecitato la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività d’ufficio, mediante la costituzione di un canale informativo privilegiato, all’uopo utilizzato.

    Nel caso di specie, però, il giudice disciplinare non ha configurato alcuno dei vari illeciti attinenti la violazione del dovere di riserbo, non ritenendo provati, né la divulgazione degli atti coperti da segreto, né la sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio, né infine la costituzione ed utilizzazione di un canale informativo privilegiato. In particolare, la sentenza ha affermato che la prova di alcuni contatti tra il magistrato ed il giornalista, da sola, ed in mancanza di alcun altro riscontro, non è sufficientemente apprezzabile al fine di dimostrare la sussistenza della contestata violazione dei suddetti doveri di riservatezza. Più specificamente, in relazione a questo illecito, la sentenza ha ritenuto che non vi fossero elementi dai quali desumere che il magistrato avesse utilizzato un proprio canale informativo per rendere pubblica la propria attività d'ufficio. Tale prova, infatti, non può desumersi dalla sola pubblicazione dell’articolo sul settimanale.[9]   

    2. L’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza

    Ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. u) costituisce illecito disciplinare “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”.

    L’illecito consta di diverse fattispecie[10] ricollegabili alla violazione del dovere di riserbo, considerata particolarmente grave in queste ipotesi in cui viene realizzata attraverso mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, giornali in genere, reti televisive, siti internet).

    Le fattispecie disciplinari previste dalla lett. u) si distinguono da quelle esaminate in relazione alle lett. v) ed aa) in quanto in esse la violazione del dovere di riserbo non si concreta in dichiarazioni pubbliche o interviste, ma attraverso la divulgazione di atti o di notizie di procedimenti, che debbono rimanere segrete o che, comunque, non possano essere rese pubbliche.

    Mentre nelle fattispecie precedentemente esaminate il magistrato si rivela personalmente all’opinione pubblica (tramite la stampa, la televisione o anche in occasione di pubblici incontri) esprimendo verbalmente un proprio pensiero in violazione del dovere di riserbo, nelle fattispecie previste dalla lett. u), che si concretano nelle cosiddette “fughe di notizie”, il magistrato può anche non rivelarsi in prima persona, ponendo direttamente, o per interposta persona, a disposizione dei mass-media, atti o notizie di procedimenti che devono rimanere, quanto meno, riservati. La fattispecie può assumere esclusiva rilevanza disciplinare in quanto, come avviene anche per le pubbliche dichiarazioni o interviste, la fuga di notizie non sia la conseguenza di un reato (es. rivelazione del segreto d’ufficio ex art. 326 c.p.)[11] perché, in tal caso, verrebbero a concorrere le diverse fattispecie disciplinari di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 109 del 2006.

    La disposizione di cui alla lett. u) prevede quali illeciti disciplinari: a) la divulgazione di atti del procedimento coperti da segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, che può essere determinata intenzionalmente o può dipendere anche da mera negligenza; b) la violazione del dovere di riservatezza quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui, che può riguardare affari in corso di trattazione o anche affari definiti.

    La prima fattispecie, che si concreta nella divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, si realizza non tanto in una generica violazione del dovere di riservatezza del magistrato, quanto in una violazione di quello specifico dovere di riservatezza che nasce dall’obbligo di non rivelazione dei segreti di ufficio o di notizie riservate.

    Condotte di tal genere si sono rivelate in molteplici occasioni anche nel sistema disciplinare abrogato, come, ad esempio, frequente si è rilevata la condotta del magistrato estensore di una sentenza, che riveli ai giornalisti il contenuto, parziale o integrale, di essa, prima degli adempimenti di cancelleria funzionali alla pubblicazione.[12] 

    L’attività di divulgazione consiste nel rendere noto un atto giudiziario riservato ad  una pluralità di persone, ad un numero limitato o anche ad una sola persona[13] che possa a sua volta operare nello stesso senso.

    Il comportamento del magistrato può essere intenzionale e determinato dalle più varie ragioni, che possono consistere, ad esempio, in desiderio di protagonismo, o comunque di farsi pubblicità, o anche per finalità lato sensu politiche, o ancora perché ritenga che la pubblicità delle indagini sia utile allo scopo. Ma, così facendo, il magistrato trasforma un procedimento penale che, per sua natura, deve rimanere quanto meno riservato, anche a tutela degli interessi e delle persone coinvolte, in una inchiesta giornalistica, se non addirittura in uno scoop mediatico, lesivo di per sé dell’immagine della magistratura e potenzialmente fomentatore di “polveroni” giudiziari, controproducenti in riferimento alle ineludibili esigenze di accertamento della verità storica dei fatti.

    Il comportamento del magistrato può tuttavia essere anche, e soltanto, connotato da negligenza, come ad esempio avviene quando egli comunichi gli atti del procedimento, segreti o riservati, ad una o poche persone, senza l’intenzione di divulgarli e, ciononostante, per dolo o per colpa dei destinatari delle comunicazioni riservate, gli atti del procedimento diventino ugualmente pubblici.

    La fattispecie, sia nel caso di condotta intenzionale che nel caso di condotta negligente, si configura con la mera divulgazione degli atti giudiziari in violazione dello specifico dovere di riserbo, senza possibilità, per il magistrato, di far valere ragioni giustificatrici, come, ad esempio, la circostanza che la notizia fosse già stata resa nota o che le illazioni e supposizioni intorno alla stessa rendessero opportuna una rettifica che riportasse l’informazione su binari di verità, o altro ancora. In effetti, questa fattispecie, a differenza di quella prevista nella seconda parte della stessa lett. u), non fa riferimento al carattere “indebito” della condotta. Il legislatore ha ritenuto sempre ingiustificabile la divulgazione di atti giudiziari segreti o riservati, mentre, nel caso di divulgazione di notizie attinenti affari giudiziari, anche non riservati, dev’essere accertato in concreto il carattere indebito di essa.

    Si è posto in dottrina[14] il dubbio che l’illecito possa anche dipendere dalla rivelazione, in atti giudiziari non coperti da segreto o da divieto di pubblicazione, di altri atti segreti o riservati e, cioè, da un’illegittima discovery anticipata. La soluzione positiva offerta è quella di includere questa ipotesi tra quelle considerate dalla disposizione in esame soltanto quando la notizia sia stata riportata nella motivazione del provvedimento senza alcuna effettiva necessità ai fini della giustificazione del provvedimento. Tuttavia, sembra preferibile la soluzione di ricondurre, anche in base ad un’interpretazione logico sistematica del sistema vigente, questo genere di condotte agli illeciti posti in essere in violazione del dovere di correttezza (lett. d) o a) dell’art. 2).

    La giurisprudenza disciplinare si è attestata in questo senso nel noto caso concernente la c.d. “guerra tra Procure”.[15] In particolare, alcuni pubblici ministeri erano stati incolpati dell’illecito di cui alla lett. u), per aver riprodotto integralmente atti (le cui modalità di acquisizione non erano risultate indicate con chiarezza nel contesto dei decreti di perquisizione e sequestro sottoposti all’esame del giudice disciplinare) dei procedimenti penali denominati Poseidone e Why not, nonché di altri procedimenti, ancora coperti da segreto o, comunque, da divieto di pubblicazione, non essendo concluse le correlative indagini preliminari. Il giudice disciplinare, inoltre, ha osservato che, di per sé, anche il provvedimento di perquisizione e sequestro era coperto da segreto e che, quindi, i dati e le informazioni processuali coperte dal segreto o, comunque, dal divieto di pubblicazione, non potessero ritenersi divulgati, direttamente, dai magistrati incolpati. Il giudice disciplinare ha ritenuto che non è possibile affermare che la divulgazione degli atti obiettivamente verificatisi, anche attraverso internet, sia dipesa da una grave negligenza dei pubblici ministeri incolpati, pur se - tenuto conto del forte interesse mediatico della vicenda - questo poteva ritenersi prevedibile.  Conseguentemente, ha convenuto con la difesa degli incolpati, secondo cui una discovery anticipata non implica automaticamente anche la divulgazione degli atti “disvelati”, resi cioè conoscibili soltanto agli indagati ed ai loro difensori.[16] 

    Sempre in quella sede si è detto che solo il segreto di Stato non è recessivo dinanzi al primario interesse della giurisdizione e che il problema deontologicamente rilevante non è connesso alla divulgazione di atti coperti da segreto o, comunque, da divieto di pubblicazione, ma è legato principalmente all’impertinenza ed all’assoluta irrilevanza, nel contesto delle perquisizioni e dei sequestri che i pubblici ministeri incolpati hanno ritenuto di disporre, di una serie sterminata di dati sensibili, atti, documenti, dichiarazioni, notizie riservate, comportamenti di magistrati e di altre persone non indagate, del tutto estranei alle finalità del provvedimento giurisdizionale ed in questo inseriti in maniera scorretta e con grave ed inescusabile negligenza.[17]

    L’orientamento ha poi trovato riscontro anche nella giurisprudenza di legittimità, ove si è ribadito che “non integra l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lett. u), d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 (divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto) la riproduzione in provvedimenti giudiziari di atti di indagine coperti da segreto compiuti in un altro procedimento penale, mancando, in tale ipotesi, la diffusione delle relative notizie in un ambito esterno alla cerchia dei soggetti autorizzati o tenuti alla conoscenza, per dovere d'ufficio, dei predetti provvedimenti”.[18]

    La seconda fattispecie si configura nella violazione del dovere di riservatezza consistente, come si è detto, nella divulgazione non di atti giudiziari, ma di notizie relative ad atti giudiziari o, più genericamente, ad “affari”, che possono essere ancora in corso di trattazione, oppure già definiti.

    Tale figura di illecito richiede però, a differenza di quanto previsto nella prima fattispecie prevista dalla lett. u), che la violazione sia in concreto “idonea a ledere indebitamente diritti altrui”.

    Per il profilo della condotta materiale, possono ripetersi in parte le considerazioni già svolte in relazione all’illecito di cui alla lett. v). Si tratta, anche in questo caso, di un illecito di pericolo.[19] La circostanza che la condotta descritta nella fattispecie dev’essere “idonea” e non “diretta” a ledere indebitamente diritti altrui non sposta di molto i termini della questione. Si tratta di termini quasi equivalenti, ai quali non sembra che il legislatore abbia voluto attribuire significato diverso se non quello, forse, di rendere configurabile l’illecito in esame sulla base di un minor grado di colpevolezza dell’autore, rispetto all’illecito di cui alla lett. v). Entrambi gli illeciti implicano che il bene che si intende tutelare (“i diritti altrui”) non debba essere necessariamente leso, ma possa anche e soltanto essere messo a rischio di lesione. Deve trattarsi, anche in questo caso, non necessariamente di diritti delle parti processuali, ma anche dei diritti dei difensori, degli ausiliari del magistrato, di testimoni o di terzi eventualmente indirettamente coinvolti.

    Anche in questa fattispecie, il pericolo della lesione deve derivare da un comportamento “indebito”, non giustificato in alcun modo. Ne consegue che potrebbe essere esclusa la configurabilità dell’illecito quando il magistrato si sia trovato nello stato di necessità di divulgare notizie a tutela del procedimento trattato, o a garanzia del buon esito dell’inchiesta, o per legittima difesa avverso aggressioni verbali o tentativi di intimidazione, o delegittimazione, o altro. Manca poi la possibilità di incolpazione per i casi in cui la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione (o definiti) possa pregiudicare altre indagini in corso.

    Anche in questa disposizione il legislatore ha fatto proprio un orientamento della precedente giurisprudenza disciplinare che considerava rilevante non il pericolo astratto ma il pericolo concreto di pregiudizio del diritto altrui.[20]

    All’elemento materiale della condotta illecita deve accompagnarsi l’elemento soggettivo. Anche in questo caso non può escludersi che il pericolo della lesione dei diritti altrui possa derivare da un comportamento meramente colposo del magistrato, che potrebbe essere costituito da grave negligenza e, comunque, imprudenza, nel divulgare notizie attinenti ad “affari” in corso di trattazione, o già definiti, idonee a porre in pericolo la lesione dei diritti altrui. In questo caso, il riferimento, nella prima parte della disposizione, sia pure concernente l’altra fattispecie disciplinare prevista dalla lett. u), alla mera “negligenza”, sembra consentire senz’altro il collegamento del termine “idonea” alla condotta materiale della divulgazione di notizie e non alla intenzione specifica di ledere i diritti altrui.

    E’ quindi, anche in questo caso, la portata materiale della divulgazione della notizia che - per lo strepitus fori, per la particolare rilevanza mediatica a livello nazionale, o anche solo locale, per la sua oggettiva inopportunità, non accompagnata da cause di giustificazione - deve esporre i diritti altrui al pericolo della lesione. Anche in questo caso la norma mira a porre i diritti dei soggetti coinvolti negli affari trattati al riparo dalle violazioni del dovere di riserbo del magistrato, che in tal modo non garantisce i diritti alla riservatezza di quegli stessi soggetti coinvolti nel procedimento, direttamente o indirettamente.

    Quanto alla giurisprudenza disciplinare formatasi in relazione a questo illecito, è stato ritenuto che “configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, sia per divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti da segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, sia per violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui, la condotta del magistrato che autorizzi un laureato in giurisprudenza, iscritto nell’albo dei praticanti avvocati, a prestare, anche gratuitamente, attività di collaborazione e di supporto presso gli uffici di una Procura della Repubblica, pure prendendo visione di atti segretati o riservati, giacché, da un lato, l’attività di divulgazione consiste nel rendere noto un fatto o una notizia, anche ad una sola persona, che a sua volta possa operare nello stesso senso, e, dall’altro, l’acquisizione di dati o notizie processuali, segrete o riservate in quanto contenute in fascicoli del pubblico ministero procedente in sede di indagini preliminari, è senz’altro potenzialmente idonea a ledere i diritti degli indagati, con pericolo non astratto ma concreto di pregiudizio per gli stessi”.[21]

    In altri casi in cui la giurisprudenza disciplinare si è occupata di questo illecito, non si è pervenuti all’accertamento di responsabilità del magistrato incolpato, come nella fattispecie del pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Catanzaro, Luigi De Magistris che, nell’esercizio delle proprie funzioni giudiziarie, aveva posto scarsa attenzione al profilo della riservatezza nello svolgimento dell’attività investigativa ed aveva omesso qualsiasi cautela idonea a prevenire la diffusione di notizie attinenti a procedimenti in corso, rendendo in tal modo possibile ripetute ed incontrollate fughe di notizie.[22]  

    In altra ipotesi, è stato ritenuto che non configuri tale fattispecie la condotta del magistrato che comunichi ad un indagato, tramite un comune amico, l’avvenuta emissione di un provvedimento di revoca della misura di custodia cautelare già depositato ed in concomitanza con la conoscenza di esso da parte dei difensori, poiché in tale caso si tratta di un atto non più coperto da alcun segreto o di cui sia vietata la divulgazione, né è ipotizzabile la lesione di diritti altrui.[23]

    In altra occasione è risultata non provata la divulgazione, da parte di un giudice fallimentare, di notizie relative ad un procedimento, di cui egli era relatore, in corso di trattazione ed i cui atti erano coperti da segreto.[24]

    Ancora, è stato ritenuto che non integri l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale rediga un libro nel quale non divulghi atti processuali, ma descriva - anche nei dettagli riservati - l’andamento di una riunione di coordinamento delle indagini relative ad un noto caso giudiziario, qualora la pubblicazione di tale notizia, largamente postuma, non possa arrecare alcun nocumento alle indagini.[25]

    Più recentemente, è stata esclusa la configurabilità dell’illecito in esame nel caso in cui il pubblico ministero, incolpato di avere preso parte alla realizzazione di un documentario televisivo avente ad oggetto un procedimento penale dal medesimo magistrato definito, dalla notevole risonanza mediatica, abbia usato espressioni e tenuto condotte inidonee a ledere indebitamente diritti altrui, né a rivivificare la colpevolezza degli imputati, risolvendosi nella narrazione dei fatti processuali del tutto analoga a quella che può essere contenuta in un libro scritto ad un anno di distanza dai fatti. Traspare invero nell’ordinanza di non luogo a procedere, resa dalla Sezione disciplinare, un diverso peso, in punto di rischio di indebite lesioni di diritti altrui, tra dichiarazioni rese nel corso del giudizio e dichiarazioni rese in un processo penale ormai definito.[26]

    3. Profili penali e disciplinari delle esternazioni extrafunzionali

    Gli illeciti funzionali connessi alla violazione del riserbo possono concorrere, ove essi integrino anche un reato, con gli illeciti previsti dall’art. 4 d.lgs. n. 109/2006 (“illeciti disciplinari conseguenti a reato”), con relativa applicazione dell’art. 5 del medesimo decreto legislativo quanto alla sanzione da irrogare in tali casi. Vari sono stati anche i contesti extrafunzionali nei quali è stata valutata la rilevanza sia penalistica che disciplinare delle dichiarazioni di natura critica pronunciate dal magistrato. In tali casi, la natura diffamatoria delle dichiarazioni dipende dal superamento dei limiti di continenza nel diritto di critica, configurabile in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato[27] o si traducano in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo[28].

    Se per i fatti di cui il magistrato si rende autore, integrandosi il reato di diffamazione, anche a mezzo stampa (art. 595, 596 bis c.p.), o di rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.), o qualsiasi altro reato, interviene “condanna irrevocabile”“sentenza ai sensi dell'articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale”, trattandosi di “delitto doloso” e stabilendo la legge la “pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria”, si configura l’illecito di cui all’art. 4, primo comma, lett. a), indipendentemente dal carattere di particolare gravità della condotta, che invece viene in rilievo nelle ipotesi di delitti colposi (lett. b) o per i quali è prevista la pena dell’arresto (lett. c).

    Non si rinvengono nella giurisprudenza disciplinare appositi precedenti in materia. Se il magistrato incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, egli, ai sensi dell’art. 12, quinto comma, del d.lgs. n. 109/2006, subirà la sanzione della rimozione. Anche tenuto presente il principio di autonomia che caratterizza il processo disciplinare rispetto a quello penale, in tali fattispecie, non sembra che la sanzione disciplinare prevista come obbligatoria per legge, possa essere messa in discussione nel conseguente processo disciplinare.

    La casistica è sterminata in relazione all’ultima ipotesi prevista ex art. 4, primo comma, lett. d) (“qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita”). La condotta del magistrato, oltre a dover configurare, in astratto, l’ipotesi di un reato, deve essere idonea a ledere l’immagine del magistrato stesso. 

    L’archiviazione del procedimento penale, non essendo equiparabile ad una sentenza assolutoria, poiché trattasi di provvedimento revocabile ed insuscettibile di passare in giudicato, in nessun caso preclude la configurabilità dell’illecito, tanto se disposta per estinzione del reato o sua improcedibilità, quanto per infondatezza della notizia di reato, anche per difetto dell’elemento soggettivo.[29] La giurisprudenza si è mostrata però quasi sempre rispettosa delle determinazioni assunte in sede di archiviazione, sovente facendole proprie, pur riconoscendo che le stesse non sono suscettibili di efficacia extrapenale.[30] 

    Per quanto riguarda la critica di carattere scientifico a sentenze, si è configurato l’illecito in esame nel caso della pubblicazione di un articolo di commento ad una sentenza in cui il tono di dileggio e di arroganza impiegato in una pluralità di espressioni era tale da offendere la reputazione dell’intera magistratura e non solo dei giudici che avevano emesso la sentenza criticata, delineando un quadro di incapacità e di ignoranza, in tema di reati concernenti le armi e le munizioni, del complesso degli appartenenti all’ordine giudiziario.[31]

    Altro versante è stato quello delle dichiarazioni rivolte pubblicamente nei confronti di altri magistrati. In tale ambito, è stata esclusa la natura diffamatoria di dichiarazioni pubblicate dalla stampa con cui, in un contesto di "forte personalizzazione" di una vicenda tra due magistrati, uno di essi aveva affermato che se l’altro non conosceva la differenza tra astensione e incompatibilità “era un suo problema”, in quanto l’affermazione "non appare superare la soglia di una opinione di forte dissenso interpretativo, non certo fino ad integrare una grave scorrettezza, né, tanto meno, un illecito penale".[32]

    Si è affermata, invece la responsabilità disciplinare di un magistrato che, usando uno pseudonimo, aveva formulato su un sito internet giudizi dal contenuto altamente diffamatorio nei confronti di diversi colleghi, affermando che essi avrebbero agito nell'ambito di un processo per ragioni politiche, usando reiteratamente espressioni gratuitamente lesive, prove di qualsiasi prova o fondamento e, comunque, diffamatorie, esorbitanti gli ordinari limiti di continenza, ed idonee, quindi, a ledere il prestigio dell'ordine giudiziario.[33]

    Altro versante in cui è stata verificata la natura offensiva delle dichiarazioni del magistrato è quello delle discussioni telematiche in social network o anche in mailing list riservate, ma aperte ai giornalisti che ne facciano richiesta e, quindi, suscettibili di essere riportate dalla stampa. 

    Oggi Facebook è il social network più diffuso e utilizzato, da tutti nel mondo, compresi politici, giornalisti e magistrati. Il fatto di possedere un profilo Facebook non è tacciabile, di per sé, di avere valenza negativa, nemmeno per un magistrato.

    Bisogna però saper utilizzare ogni mezzo di informazione, comunicazione che le moderne tecnologie mettono a disposizione. E’ un mezzo di possibile arricchimento culturale, se utilizzato bene. Il problema è che anche Facebook, come ogni altro strumento di comunicazione, televisione, stampa, blog, ecc. si presta a divenire mezzo attraverso il quale possono consumarsi reati, illeciti disciplinari e quant’altro. Mezzo attraverso il quale possono realizzarsi diffamazioni e illeciti disciplinari conseguenti alla consumazione di questo reato, pur in assenza di qualsivoglia querela o semplice doglianza della parte offesa.

    Mezzo attraverso il quale un magistrato, pur senza violare codici penali o disciplinari, può violare le regole deontologiche e, comunque, mettere a rischio l’immagine della propria indipendenza e, con essa, la credibilità e la legittimazione sulle quali devono necessariamente fondarsi l’azione della magistratura ed il sistema della giustizia, vero e proprio tessuto connettivo della democrazia di una Nazione.

    In ogni caso, Facebook è un mezzo idoneo a consentire anche ad un magistrato pubbliche dichiarazioni in violazione del generale dovere di riserbo che deve connotare sempre e comunque la sua condotta, anche in relazione a facili e demagogiche polemiche, anche relative a fatti di cronaca o ad aggressioni da parte di qualche esponente politico.

    Nel corso degli ultimi anni, si sono registrate diverse pronunce disciplinari sul tema. Si veda il caso del pubblico ministero romano che aveva diffamato a mezzo Facebook l’ex Sindaco di Roma Ignazio Marino e che, in un primo momento, era stato assolto per scarsa rilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006 e che, dopo l’annullamento della sentenza ad opera delle Sezioni unite, è stato sanzionato con l’ammonimento.[34]

    Si veda, ancora, l’assoluzione del pubblico ministero che aveva impropriamente commentato in maniera colorita, tramite il suo profilo Facebook, l’avvenenza fisica del noto attore Gabriel Garko, coinvolto quale persona offesa in una indagine da lei condotta.[35]

    Queste pronunce dimostrano la non coincidenza tra le fattispecie tipizzate ed il disvalore deontologico di certe condotte destinate ad accentuare la scarsa considerazione dei cittadini verso l’amministrazione della giustizia.

    Quanto alle esternazioni dei magistrati che si sono a volte collocate in un contesto di forte aggressività, anche verbale, da parte di noti esponenti politici, in questo contesto, l’illecito può essere escluso solo se si ritenga il reato di diffamazione, presupposto della responsabilità disciplinare, giustificato dalla esimente della provocazione (art. 599 c.p.).

    Non può, invece, ritenersi che una reazione oltre i limiti della continenza e, quindi, tale da far assumere alle esternazioni carattere penale, non sia lesiva dell’immagine del magistrato per essere stata effettuata in un contesto di attacchi denigratori; il rispetto della continenza costituisce, infatti, un risvolto del generale dovere di riservatezza ed il superamento dei relativi limiti, anche per l’impatto mediatico delle dichiarazioni offensive, ne implica la violazione, con conseguente compromissione dell’immagine del magistrato.

    Il collegamento tra dovere di riservatezza e rispetto della continenza si registra pure con riguardo alla trasmigrazione delle dichiarazioni dall’ambito privato in cui sono profferite a quello pubblico. Si è, così, affermata la responsabilità disciplinare per fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, nel caso di dichiarazioni a contenuto offensivo rese ad un giornalista nel corso di un colloquio telefonico, anche se il giornalista stesso non informi il magistrato della successiva pubblicazione delle sue dichiarazioni.[36]

    4. La rilevanza disciplinare delle esternazioni extrafunzionali dei magistrati

    Anche sul piano delle esternazioni extrafunzionali non conseguenti a reato possono venire in rilievo i rapporti tra processi in corso e media, pur se non con riferimento a specifici atti o notizie inerenti il singolo processo. Esternazioni extrafunzionali di un magistrato, specie se si occupi di indagini o processi di rilevante interesse nazionale, possono porre problemi di lesione di immagine della sua imparzialità. Bisogna vedere se questa lesione di immagine si riverberi nella violazione di un illecito tipizzato nel sistema vigente.

    L’apparenza di imparzialità costituisce il confine entro il quale i diritti del magistrato come cittadino e, in particolare, i diritti di libertà di espressione e di opinione, possono esplicarsi senza pregiudizio alcuno per i valori essenziali della giurisdizione. L’imparzialità equivale a neutralità rispetto agli interessi delle parti, ma è al tempo stesso adesione a principi generali che trascendono gli interessi in gioco nel singolo caso.

    L’interferenza tra i diritti di libertà e di espressione del pensiero e delle convinzioni politiche, da un lato, ed il possibile pregiudizio per l’apparenza di imparzialità del magistrato, dall’altro, non è questione nuova, essendovi state sul tema varie pronunce della sezione disciplinare.

    La tematica, come si accennato nella prima parte della trattazione, è stata anche oggetto di pronunce della Corte costituzionale, chiamata a valutare il bilanciamento tra il diritto individuale del magistrato-cittadino ed i limiti che derivano dallo svolgimento di una funzione fondamentale dello Stato.[37]

    Lo stesso CSM,[38] a proposito del rispetto dei criteri di equilibrio, dignità e misura nei rapporti del magistrato con i mezzi di informazione, ne afferma l’appartenenza “allo stile magistratuale, al buon costume giudiziario e forense, all'educazione civile e alla cultura di chi esercita una pubblica funzione in generale e la funzione giudiziaria in particolare”, precisando che “si tratta di tutta una trama di prassi e di stili difficilmente catalogabili e controllabili, che deve rimanere eminentemente affidata all'autoregolamentazione e all'autocontrollo, alla formazione culturale, alla riprovazione all'interno del mondo giudiziario, del mondo forense e, più in generale, della pubblica opinione, piuttosto che alle sanzioni disciplinari”, in quanto “è sempre, del resto, una velleità assurda quella di giuridificare tutte le regole sociali, morali e deontologiche”.

    Anche il Presidente della Repubblica ha più volte invitato i magistrati a “ispirare le proprie condotte a criteri di misura e di riservatezza, e a non cedere a fuorvianti esposizioni mediatiche che possano mettere in discussione l’imparzialità dei singoli, o dell’ufficio giudiziario cui appartengono o della magistratura in generale”.[39]

    Nonostante la pluralità di fonti che riconoscono l’esistenza di un generale dovere di riserbo del magistrato in funzione della sua immagine di imparzialità, per la sua violazione non è previsto alcun illecito specifico.

    Tale carenza potrebbe apparire come un vuoto di tutela, con riferimento a due situazioni in cui è forte il pericolo di compromissione dell’immagine di imparzialità del magistrato e precisamente: a) le dichiarazioni che possono classificarsi in senso lato come aventi contenuto “politico”; b) le esternazioni consistenti nel sostenere pubblicamente le ragioni e la bontà delle iniziative di indagine delle quali lo stesso magistrato dichiarante sia assegnatario.

    Nella prima, le critiche politiche, le manifestazioni ideologiche, le dichiarazioni o i commenti sulle iniziative del potere politico-governativo, pur svolte in modo occasionale, possono creare un concreto pericolo di confusione dei ruoli, quello pubblico di magistrato e quello di cittadino, potendo ingenerare nella collettività il convincimento - non importa se erroneo - che l’attività istituzionale del magistrato sia stata condizionata, se non guidata, dalle opinioni personali. Pericolo tanto maggiore quanto più il magistrato sia conosciuto in ragione delle funzioni delicate che riveste, stante il maggior impatto mediatico derivante dalle sue pubbliche dichiarazioni.

    Una situazione di possibile vuoto sanzionatorio si verifica pure nel caso di pubbliche dichiarazioni del magistrato titolare di indagini delle quali egli sostenga pubblicamente le ragioni e la bontà.

    Si tratta di fattispecie che presenta aspetti di forte problematicità per la possibilità che da tale condotta ne risulti condizionato, anche solo in forza di suggestioni morali o per l’autorevolezza del dichiarante o per l’eco mediatica di tali interventi, il giudizio di chi è chiamato a definire la sorte processuale di quella indagine. Ciò nonostante ridotti sono gli spazi per la rilevanza disciplinare di tali comportamenti: le occasionali esternazioni aventi contenuto “politico” od “autopromozionale” sono apprezzabili solo sul piano deontologico, secondo l’art. 6 del “codice etico”, ma questo - per quel che prima si è sostenuto - potrebbe essere una ragione di riforma più per aspetti attinenti il sistema delle valutazioni di professionalità, che per aspetti attinenti l’inclusione di nuove e diverse fattispecie tipizzate nel sistema disciplinare.

    5. Conclusioni

     E’ interesse sia dei magistrati,[40] sia dei giornalisti,[41] sia della collettività,[42] migliorare il sistema della comunicazione tra giustizia e informazione, anche con riferimento a possibili riforme del sistema disciplinare vigente tipizzato, soprattutto se si considera che l’azione disciplinare è oggi obbligatoria e che, in presenza di fatti certi, dev’essere possibile catalogare gli stessi in una fattispecie di illecito dai contorni chiari ed inequivoci, senza determinare i sempre più frequenti “tormentoni” mediatici, che oggi accompagnano anche i processi disciplinari a carico dei magistrati, così come gli ordinari processi penali e civili.

    Il magistrato ingiustamente attinto dall’azione disciplinare determina una delegittimazione della giurisdizione, allo stesso modo di come la determina il magistrato che viola i precetti del codice disciplinare e non si attiene al c.d. minimo etico esigibile avvertito dalla collettività come il presupposto essenziale per un corretto esercizio delle funzioni magistratuali.

    Questa considerazione vale, a maggior ragione, con riferimento alle violazioni dei doveri di riserbo, che implicano, di per sé, un “corto circuito” tra giustizia e informazione, potenzialmente produttivo di delegittimazione della giurisdizione e di “fake news” giornalistiche, soprattutto se si tiene conto che oggi la tribuna mediatica di un magistrato è costituita non solo dalla sua “autorevolezza” acquisita sul campo, dalle sue possibili conoscenze di giornalisti “amici”, ma anche dal web e dai social network sempre più imperanti nel mondo della comunicazione (Facebook, Twitter, ecc.).

    Ne consegue che, accanto ad una serie di magistrati che “appaiono” in un rapporto diretto con gli organi dell’informazione, vi è un’altra serie di magistrati che non “appaiono”, ma sono potenziali fornitori di informazione, anche attraverso le quasi mai disvelate “fughe di notizie” e, infine, vi è una serie di magistrati che non comunica notizie o informazioni, ma comunica, anche attraverso popolari “social network”, un modo di essere, che può essere o meno consono alla necessaria credibilità e legittimazione della giurisdizione.

    Non è questa la sede per discutere se sia maggiore il disvalore deontologico delle condotte di un magistrato che parla sempre e comunque, anche a sproposito, ai giornalisti, ovvero di un magistrato che non parla mai pubblicamente, ma ha tanti giornalisti amici ai quali si rivolge, determinando fughe di notizie o, ancora, di chi non parla mai di processi, ma lascia pubblicamente trasparire un modo di essere magistrato non consono alla dignità della giurisdizione.

    Personalmente, non sono un fautore della necessità, per il magistrato, del ritiro in una torre eburnea e, anzi, un magistrato calato nella società in cui vive può essere garanzia in punto di tutela dei diritti delle persone e dei cittadini, sempre in continua evoluzione. Vero è che la “comunicazione” non è solo il portare alla conoscenza della collettività notizie o informazioni che per loro natura debbono restare più o meno riservate. La comunicazione può consistere anche nel modo tacito di porsi e di proporsi del magistrato nei confronti del cittadino suo interlocutore, attraverso il comportamento, gli atteggiamenti, lo stile, il linguaggio e tutto ciò che, anche non intenzionalmente, contribuisce a costituire la relazione.[43]

    E’ attraverso questa sempre più diffusa forma di comunicazione che il cittadino individua il livello di rispetto che il magistrato esprime verso la dignità del suo interlocutore. E’ questo modo di porsi del magistrato, moltiplicato per la pluralità delle relazioni quotidiane, che determina la sua immagine diffusa nel sentire comune e, in ultima analisi, il consenso più o meno ampio del quale la magistratura gode nell'opinione pubblica, prezioso sostegno nelle frequenti tensioni con il potere politico.

    Migliorare questa forma di comunicazione, certo, può essere in parte possibile attraverso una riforma del sistema disciplinare, ma ritengo che sia perseguibile, a monte, ed in misura più efficace, attraverso una sinergia culturale tra il C.S.M., la Scuola superiore della magistratura e l’A.N.M. per le rispettive sfere di competenza, giacché è un problema che attiene, essenzialmente, alla professionalità, alla formazione e alla deontologia di ogni magistrato.

    Ecco, quindi, che una riflessione sui profili sostanziali del sistema disciplinare, anche in tema di violazioni del fondamentale dovere di riserbo, finisce, inevitabilmente, per avere sullo sfondo un modello di magistrato capace di apparire, oltre che di essere, imparziale ed indipendente e, nel contempo, aperto alle esigenze di efficienza del terzo millennio e della società della globalizzazione.

    Un magistrato che possa definirsi - come affermato già molti anni fa da un collega “prestato” alla politica, Elvio Fassone, in occasione della presentazione di un suo disegno di legge sulle verifiche di professionalità dei magistrati - “laborioso, ma non attento soltanto a fare statistica; capace di ascoltare, più che di esprimere subito le sue convinzioni; portatore di opinioni, anche ferme, ma disposto a cambiarle dopo avere ascoltato; osservante del codice deontologico non meno dei quattro codici; prudente nel discostarsi da ciò che è consolidato, ma coraggioso nel sottoporre a verifica ciò che è pacifico; consapevole che ogni fascicolo non è una “pratica”, ma un destino umano; paziente nell’approfondire, indipendente nel giudicare, rispettoso nel trattare”.[44]                                            

     

    *Intervento al corso di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci, 21 marzo 2019, seconda parte                                                                                                                                                                
    [1] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 240.

    [2] Così viene definita da CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 752, mutuando categorie penalistiche.

    [3] Il testo è il seguente: “Quando per il concorso di più illeciti disciplinari si debbono irrogare più sanzioni di diversa gravità, si applica la sanzione prevista per l'infrazione più grave; quando più illeciti disciplinari, commessi in concorso tra loro, sono puniti con la medesima sanzione, si applica la sanzione immediatamente più grave. Nell'uno e nell'altro caso può essere applicata anche la sanzione meno grave se compatibile”.

    [4] CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, cit., che ha condannato alla sanzione della censura un pubblico ministero minorile per aver sollecitato personalmente la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio da parte di giornalisti televisivi e della stampa che si trovavano occasionalmente, e per altre ragioni, dinanzi al suo ufficio giudiziario, per rilasciare agli stessi un “comunicato” ed alcune dichiarazioni in merito alla nota vicenda Ruby, dopo essersi proposta con queste affermazioni: “Ma tutte queste telecamere sono qui per cosa? ... se volete avrei io da dirvi qualcosa. Mi chiamo Annamaria Fiorillo, sono sostituto procuratore dei minori e quello che ha dichiarato in aula Maroni non mi va giù”. La sentenza è stata annullata da Cass., sez. un., 28 gennaio 2014 n. 6827, che ha ritenuto la possibile applicabilità dell’esimente del diritto all’onore professionale. In un altro noto caso di rilevanza mediatica (le dichiarazioni di Antonio Esposito in merito al processo penale a carico di Silvio Berlusconi), CSM, sez. disc., 15 dicembre 2014 n. 23/2015 ha applicato la stessa esimente, richiamando il precedente delle Sezioni unite.

    [5] Cass., sez. un., 24 marzo 2014 n. 6827, che ritiene applicabile in via di astratta (salvo riesame in fatto in sede di rinvio) l’esimente del diritto all’onore professionale del magistrato e, quindi, dello stato di necessità. CSM, sez. disc. 17 luglio 2014 n. 154, in sede di rinvio, ha recepito il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite.

    [6] CSM, sez. disc., ord. 16 gennaio 2014 n. 8, con riguardo alla nota denuncia di violenza sessuale ad opera di Patrizia D'Addario, vicenda di forte impatto mediatico, divulgata dagli stessi interessati. Secondo il giudice disciplinare, nella specie, non si è trattato “di un'iniziativa personale della dott.ssa Mininni, dettata da voglia di protagonismo, né tanto meno dell'utilizzo di un canale privilegiato con la stampa”.

    [7] CSM, sez. disc., 23 gennaio 2009 n. 39.

    [8] Cass., sez. un., 24 novembre 2009 n. 24666. Cfr. analogo caso che si è ripetuto in periodo più recente, ove però il pubblico ministero, Antonino Ingroia, che aveva svolto dichiarazioni potenzialmente denigratorie nei confronti della Corte costituzionale in relazione alla decisione che aveva accolto il noto ricorso per conflitto di attribuzioni proposto dal Presidente della Repubblica, si è lasciato decadere dall’ordine giudiziario e conseguentemente CSM, sez. disc., ord. 18 dicembre 2013 n. 1/2014, ha dichiarato il non luogo a procedere per cessata appartenenza all’ordine giudiziario.

    [9] CSM, sez. disc., 11 novembre 2011 n. 51/12, nel caso di Pierpaolo Bruni, che ha invece condannato il medesimo magistrato alla sanzione della censura in merito ad altro illecito posto in essere in violazione del dovere di correttezza. Nello stesso senso, di escludere la sussistenza dell’illecito di cui alla seconda parte della lett. aa), è più recentemente intervenuta CSM, sez. disc., ord. 22 ottobre 2018, n. 163, nel caso delle dichiarazioni del pubblico ministero Giuliano Mignini in merito alla nota vicenda del processo penale a carico di Amanda Knox.

    [10] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 241, ne indica due; CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 749, ne indica quattro, con una più specifica distinzione interna alle due fattispecie principali (intenzionalità o negligenza con riferimento alla prima, affare in corso di trattazione o definito con riferimento alla seconda).

    [11] Su cui v. MARUOTTI, Violazione del segreto d’ufficio, in Treccani.it, L’Enciclopedia italiana, 2013. 

    [12] Cfr. CSM, sez. disc., 18 maggio 2005 n. 21 riguardante il noto caso dell’estensore della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Perugia, in data 17 novembre 2002, aveva condannato il senatore Andreotti alla pena di 24 anni di reclusione per l'omicidio del giornalista Pecorelli, aveva rivelato al giornalista di un quotidiano il contenuto della motivazione della sentenza prima che essa fosse formalmente depositata, mettendolo a parte di interi brani, che venivano dal giornalista riportati, in forma "virgolettata", nel testo di un lungo articolo pubblicato, in via esclusiva, sul quotidiano stesso.

    [13] CSM, sez. disc., 10 febbraio 2015 n. 16.

    [14] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 242.

    [15] La questione pose seri problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e giustizia, come testimoniato dall’intervento del Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano, alla cerimonia per lo scambio degli auguri con le Alte Magistrature della Repubblica, il 17 dicembre 2008, in cui fece riferimento ad un vero e proprio “corto circuito istituzionale e giudiziario”, dinanzi al quale “sono in giuoco, al di là dei singoli casi, essenziali norme di condotta, di cui garantire il rispetto”.

    [16] CSM, sez. disc., ord. 4 febbraio 2009 n. 11, che richiama CSM, sez. disc., 27 luglio 2008 n. 71, concernente l’altro noto caso del giudice per le indagini preliminari, Clementina Forleo, assolto dall’incolpazione di aver determinato un danno ingiusto ad alcuni politici citati a sproposito in un provvedimento giudiziario.

    [17] Proprio per questo, i magistrati sono stati poi ritenuti responsabili di illeciti disciplinari correlati alla violazione del dovere di correttezza e diligenza.

    [18] Cass., sez. un., 24 settembre 2010 n. 20159, riguardante la medesima fattispecie oggetto del menzionato intervento disciplinare cautelare, a conferma di CSM, sez. disc., 19 ottobre 2009 n. 156. Successivamente, in senso conforme, CSM, sez. disc., 15 marzo 2013 n. 56, secondo cui non integra l’illecito in esame la divulgazione e l’utilizzazione a fini processuali di atti coperti da segreto investigativo in altro procedimento.

    [19] Contra, FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 242.

    [20] Cfr. Cass., sez. un., 9 luglio 1998 n. 11732, che, in un noto caso di una rivelazione di notizie provenienti dal procuratore della Repubblica di Firenze, Pier Luigi Vigna, ebbe ad affermare che “in via di astratta e pur remota ipotesi la rivelazione di qualsiasi notizia è idonea ad influire negativamente su un procedimento penale, anche quella apparentemente più banale ed insignificante, con la conseguenza che, se all'integrazione dell'illecito in questione bastasse il primo dei due elementi ora detti (il pericolo astratto), il solo fatto della rivelazione conterrebbe, in via di presunzione assoluta, il pericolo per le indagini. Se invece si ritiene, con la Sezione disciplinare, che al comportamento rivelativo debba aggiungersi un ulteriore elemento della fattispecie, ossia il pericolo per il corretto svolgimento delle indagini, allora l'inflizione della sanzione dev'essere giustificata con un minimo di riferimenti al caso concreto, non essendo sufficiente, ed anzi risultando contraddittoria, l'affermazione di astratta idoneità del comportamento. Non occorre che il danno si sia realizzato ma è pur sempre necessario che il pericolo appaia effettivo e concreto”.

    [21] CSM, sez. disc., 18 settembre 2009 n. 117, la quale - nel processo a carico del Procuratore della Repubblica di Frosinone, Margherita Gerunda - ha pure osservato, da un lato, che l’attività di divulgazione è consistita nel rendere noto un fatto o una notizia, anche ad una sola persona, che a sua volta potesse operare nello stesso senso e, dall’altro, che l’acquisizione di dati o notizie processuali, segrete o riservate in quanto contenute in fascicoli del pubblico ministero procedente in sede di indagini preliminari, è senz’altro potenzialmente idonea a ledere i diritti degli indagati, con pericolo non astratto ma concreto di pregiudizio per gli stessi. Va osservato che la sentenza è stata annullata da Cass., sez. un., 27 aprile 2010 n. 9960, per un motivo di ricorso attinente la mancanza di recidiva del magistrato incolpato ma, nel merito, il giudice di legittimità ha confermato il principio di diritto enunciato dal giudice disciplinare.

    [22] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., che ha assolto il magistrato dall’incolpazione di cui alla lett. u) in quanto l’addebito faceva riferimento ad un profilo di negligenza senza tuttavia in alcun modo indicare in cosa essa sarebbe concretamente consistita, rendendo per ciò stesso indeterminata la contestazione.

    [23] CSM, sez. disc., ord. 26 gennaio 2010 n. 15, in fattispecie di divulgazione - da parte del giudice napoletano Renato Vuosi - non di atti giudiziari, ma di notizie relative al procedimento, sicché pare assorbente la considerazione del mancato pericolo di lesione dei diritti altrui, mentre sembra ininfluente la circostanza che l’atto non fosse più coperto da segreto o non divulgabile, trattandosi di “affare”, sia pur definito.

    [24] CSM, sez. disc., ord. 21 gennaio 2014 n. 10 nella vicenda riguardante il giudice cosentino Giuseppe Greco.

    [25] CSM, sez. disc., 21 luglio 2015 n. 103, nel processo a carico del pubblico ministero napoletano Catello Maresca in merito alla pubblicazione del libro “L’ultimo bunker”.

    [26] CSM, sez. disc., ord. 22 ottobre 2018 n. 163, nel caso delle dichiarazioni rese dal pubblico ministero di Perugia Giuliano Mignini nell’ambito di un docufilm prodotto da Netflix sul caso dell’omicidio di Meredith Kercher, ormai definitivamente chiuso a seguito della sentenza della Corte di cassazione.

    [27] Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2011, n. 15060.

    [28] Cass. pen., Sez. V, 27 gennaio 2011, n. 3047.

    [29] Cass., sez. un., 12 luglio 2010, n. 16277.

    [30] Ex multis, CSM, sez. disc., ord. 29 novembre 2011 n. 167; 28 settembre 2009 n. 20/2010; 30 maggio 2008 n. 59.

    [31] CSM, sez. disc., 6 giugno 2008 n. 60, che ha condannato con la sanzione della censura il magistrato autore delle critiche.

    [32] CSM, sez. disc., ord. 13 marzo 2009 n. 35 che, in accoglimento della richiesta del Procuratore generale, ha dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non costituisce illecito disciplinare.

    [33] CSM, sez. disc., 19 gennaio 2007 n. 1. Nella fattispecie, verificatasi nella vigenza dell’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, la Sezione disciplinare, rilevato che i fatti erano sussumibili nell’ipotesi di cui all'art. 4, lett. d, ha ritenuto gli stessi di particolare gravità, evidenziando come l'incolpato, nell'accusare i colleghi di svolgere la propria attività con finalità politiche, abbia egli stesso svolto attività definibile come "politica", candidandosi, peraltro, successivamente alle elezioni amministrative, senza successo.

    [34] Si tratta della vicenda di Desiré Digeronimo, affrontata da CSM, sez. disc., 8 luglio 2016, n. 207, da Cass., sez. un., 31 luglio 2017, n. 18987 e da C.S.M., sez. disc., 12 gennaio 2018, n. 2 in sede di rinvio.

    [35] CSM, Sez. disc., 25 luglio 2017, n. 127 nel caso del pubblico ministero di Imperia, Barbara Bresci. Non riguarda condotte poste in essere in violazione del dovere di riserbo, invece, la vicenda di Simona Merra, pubblico ministero di Trani, fotografata mentre un avvocato le baciava un piede nel corso di una festa, vicenda affrontata da CSM, sez. disc., 19 marzo 2018, n. 52 e Cass., sez. un., 27 dicembre 2018, n. 33537. 

    [36] CSM, sez. disc., n. 39/2009, cit., relativa al caso delle dichiarazioni di Corrado Carnevale volte a rappresentare la Corte costituzionale come condizionata e contigua - quantomeno in alcuni suoi esponenti - a un diverso potere dello Stato.

    [37] Corte cost. n. 100 del 1981, Corte cost. n. 224 del 2009 e Corte cost. n. 170 del 2018.

    [38] Parere CSM del 18 dicembre 1997, sul disegno di legge recante: “Responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, delle incompatibilità e degli incarichi estranei ai compiti di ufficio”.

    [39] Discorso del Capo dello Stato del 21 luglio 2011 ai magistrati in tirocinio, tema successivamente sempre ricorrente negli omologhi interventi del Capo dello Stato.

    [40] ROSSI, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [41] STASIO, Il dovere di comunicare dei magistrati: la sfida per recuperare fiducia nella giustizia, in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [42] LINGIARDI, Condividere un linguaggio, aprire una finestra, in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [43] FASSONE, Un esempio virtuoso di comunicazione, l’etica della relazione, in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [44] Disegno di legge n. 1367 del 2002, “Norme in tema di funzioni dei magistrati e valutazioni di professionalità”, di iniziativa dei senatori FASSONE, CALVI, AYALA, BRUTTI, MARITATI.  

    Please publish modules in offcanvas position.

    × Progressive Web App | Add to Homescreen

    To install this Web App in your iPhone/iPad press icon. Progressive Web App | Share Button And then Add to Home Screen.

    × Install Web App
    Mobile Phone
    Offline - No Internet Connection

    We use cookies on our website. Some of them are essential for the operation of the site, while others help us to improve this site and the user experience (tracking cookies). You can decide for yourself whether you want to allow cookies or not. Please note that if you reject them, you may not be able to use all the functionalities of the site.