GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile

    1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo; 2.Le ragioni contro l’unicità di carriera; 2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m.; 2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.; 2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero; 2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale; 2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata; 2.f – La particolarità del Portogallo; 3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera; 3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa; 3.b - La cultura giurisdizionale deve appartenere anche ai PM; 3.c. - I dati statistici sul cambio di funzioni; 3.d - Unica formazione e unico CSM; 3.e - Condizionamento del giudice e gerarchizzazione dell’Ufficio del P.M.: conseguenze certe della separazione delle carriere; 3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia; 4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”; 5. - La proposta dell'Unione delle Camere Penali di determinare la “cancellazione” di fatto dell’ obbligatorietà dell’azione penale; 6. - Per concludere...

    In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti a sostegno delle tesi contrapposte (e delle rispettive obiezioni).

    In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi cambiamento delle norme vigenti in materia e, dunque, manifesto subito il mio dissenso rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (di cui specificatamente tratterò appresso) che giudico del tutto anacronistica e priva di qualsiasi rilevanza diversa da quella mediatica,

    1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo .

    Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, sono quelle previste dal d.lgs n. 160/2006, emesso in attuazione della legge delega 150/2005, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.

    Il conseguente nuovo sistema ha notevolmente cambiato quello preesistente (che qui non serve richiamare) ed ha limitato il passaggio delle funzioni sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:

    a) all’interno dello stesso distretto;

    b) all’interno di altri distretti della stessa regione;

    c) all’interno del distretto di corte di appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

    Sotto il profilo soggettivo , è indicato il limite massimo di quattro passaggi da una funzione all’altra nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni, prima del passaggio all’altra, pari a cinque anni.

    Ai fini del passaggio si richiede inoltre:

    a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;

    b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.

    Il cambio di funzioni, purchè avvenga in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, è possibile – a certe condizioni in ordine al nuovo incarico da ricoprire - anche nel medesimo distretto nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero, nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Il tramutamento di secondo grado può invece avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza.

    Va pure ricordato che la legge n. 111/2007 ha eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla legge Castelli (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): il nuovo sistema, cioè, ha impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali.

    A tale ultimo proposito – ed in relazione allo specifico tema della separazione delle carriere - è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 e di altre previsioni dell’ ordinamento giudiziario 2 , ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:

    • la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda”.

    La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, aveva pure precisato che:

    • Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.

    Di ciò si deve prendere atto, pur ricordando anche altre autorevoli affermazioni secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000 e simili a quelle di cui qui si discute, che ciclicamente sono argomento di dibattito politico, quali la necessità di prevedere concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso 3 , si tratta all’evidenza di proposte di modifiche ordinamentali che, se attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale. Si comprende, dunque, la ragione per cui l’Unione delle Camere Penali è scesa in campo con una proposta di legge costituzionale per introdurre tali modifiche al sistema vigente.

    Ai fini di quanto appresso si dirà, va pure ricordato che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dallastesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), attribuisce al P.M. la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi di tale modello rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.

    Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che periodicamente si addensano all’orizzonte e che sono ora oggetto della iniziativa dei penalisti italiani.

    Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella dellaseparazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007 4 . Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.

    2. Le ragioni contro l’unicità di carriera 5

    2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. .

    Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.

    Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.

    E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: autorevolmente, Francesco Saverio Borrelli ha parlato in proposito di “ diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “ si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” 6 .

    Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?

    2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.

    E’ questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.

    Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di storici o moralizzatori della società, sorprende che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.

    Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose o ad associazioni terroristiche, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma – fortunatamente - dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.

    2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero.

    Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente 7 , va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia alla osservanza delle leggi..”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.

    Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.

    2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale

    Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 Costituzione (“ Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.

    Tralasciando slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.

    In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.

    Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo 8 .

    Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei : il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e l’immagine della bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata.

    Niente di tutto questo, però, vale per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).

    Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è fatto positivo per i cittadini e per la collettività.

    L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale , garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa” 9 .

    2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata 10 .

    E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.

    E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.

    Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente” . Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita persino ad alcuni accademici 11 . Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:

    • in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;

    • in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;

    • in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice);

    • in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.

    Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. ( “Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura” ), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto” .

    Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica, scelta per cui le va reso onore), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).

    E’ stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese.

    • in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;

    • in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni;

    • in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;

    • in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;

    • il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.

    Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento, come appresso si dirà), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è sostanzialmente esercitato (non senza qualche occasione di polemica con gli stessi pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.

    2.f – La particolarità del Portogallo

    La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso come anche la proposta di riforma della Unione delle Camere Penali contiene principi che rischiano di introdurre nel nostro sistema un indiretto controllo della maggioranza politica di turno sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.

    Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese 12 , il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri 13 hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.

    Ecco dimostrate, dunque, la perversione dell’eccesso di specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.

    3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera

    Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.

    3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa

    Per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000 , ove si prevede (al punto 18) che:

    “…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice , o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie” .

    Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “ esposizione dei motivi”), che:

    La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto . Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero” .

    Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero” , contenente la cosiddetta Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.

    Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui ribaditi.

    Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni 14 .

    3.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche ai PM

    Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.

    E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi pur se ormai nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità” 15 . In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.

    Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. a garanzia e tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino, come quelli in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla sua attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria etc. . Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere “inserito”, appunto, nella cultura della giurisdizione 16 : un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura della giurisdizione che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere. Se questo legame si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “ un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica” 17 . Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.

    L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa “agli ordini”) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame).

    3.c – I dati statistici sul cambio di funzione

    E’ opportuno pure ragionare attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. . Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.

    Si riproducono di seguito, a tal proposito, i dati relativi ai trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi al periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016 (cioè, a ben 5 anni e mezzo, peraltro recentissimi):

    Trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti .

    nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

    Totale : 101 , così suddivisi:

    Numero requirenti trasferiti e specifica funzione di provenienza

    Specifica funzione giudicante

    oggetto del trasferimento

    61 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

    2 Procurat. della Repubblica Aggiunti

    Totale 66

    Giudice Tribunale

    (non è noto, tra i 66 trasferiti, il numero degli

    ex requirenti destinati al settore civile)

    11 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat.Repubbl. c/o Tribunale Minori

    Totale 12

    Giudice Tribunale Sezione Lavoro

    1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 1

    Presidente Sezione Tribunale

    1 Sostituto Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 2

    Magistrato distrettuale Giudicante

    5 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    1 Sostituto Procurat. Naz.le DNAA

    1 Procuratore Repubbl. c/o Tribunale Minori

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

    Totale 9

    Consigliere di Corte d’Appello

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 1

    Presidente Sezione di Corte d’Appello

    1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 1

    Consigliere Corte App. Sezione Lavoro

    3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 3

    Magistrato di sorveglianza

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 2

    Magistrato di Trib. destinato a Corte Cass.

    1 Procuratore della Repubblica

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 4

    Consigliere Corte di Cassazione

    Trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti

    nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

    Totale : 78, così suddivisi:

    Numero giudicanti trasferiti e specifica funzione di provenienza

    Specifica funzione requirente

    oggetto del trasferimento

    1 Presidente Tribunale

    Totale 1

    Procuratore della Repubblica c/o Tribunale

    22 Giudici di Tribunale

    2 Consiglieri di Corte d’Appello

    1 Presidente Sezione Tribunale

    1 Magistrato di sorveglianza

    Totale 26

    Sostituti Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    2 Giudici di Tribunale

    1 Magistrato di sorveglianza

    1 Consigliere di Corte d’Appello

    Totale 4

    Sostit.Procurat. Repubbl. c/o Tribun. Minori

    1 Giudice Tribunale

    1 Giudice Tribunale Minori

    Totale 2

    Procur. della Repubbl. c/o Trib. Minori

    1 Giudice Sezione LavoroTribunale

    1 Giudice Tribunale

    1 Consigliere di Corte d’Appello

    Totale 3

    Magistrato distrettuale Requirente

    1 Consigliere Sez. Lavoro Corte Appello

    4 Consiglieri Corte d’Appello

    1 Presidente Sezione Tribunale

    2 Presidente Tribunale Sorveglianza

    1 Magistrato di Sorveglianza

    8 Giudici Tribunale

    2 Giudici Tribunale Minori

    Totale 19

    Sostit. Proc. Generale c/o Corte d’Appello.

    1 Giudice Tribunale

    Totale 1

    Avvocato Generale c/o Corte d’Appello

    2 Consiglieri Corte di Cassazione

    5 Giudici Tribun. destinati a Corte Cassazione

    4 Consiglieri di Corte d’Appello

    2 Consiglieri Sez. Lavoro Corte d’Appello

    1 Presidente Tribunale Sorveglianza

    2 Magistrati di Sorvegianza

    1 Presidente Sezione Tribunale

    5 Giudici Tribunale

    Totale 22

    Sost. Procur. Gener. c/o Corte di Cassazione.

    Pertanto, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti : 6453);

    • i numeri totali (già riportati in testa ai due prospetti precedenti) di quelli trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati) sono:

    • REQUIRENTI: 101;

    • GIUDICANTI : 78;

    • il deducibile numero annuo medio dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati) è, invece:

    • REQUIRENTI: 18,36

    • GIUDICANTI : 14,18;

    ne deriva che negli ultimi cinque anni e mezzo la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra (rispetto al numero di quelli effettivamente in servizio nell’una e nell’altra funzione) - è la seguente:

    • REQUIRENTI: 0,83

    • GIUDICANTI : 0,21

    Tale percentuale sarebbe poi ancora più irrilevante se la si rapportasse al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anzichè a quello dei magistrati effettivamente in servizio.

    Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è affatto così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.

    3.d - Unica formazione e unico CSM

    Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.

    Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate, non avrebbero ragione di essere. E sarebbe un danno per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia.

    3.e - Condizionamento del giudice e gerarchizzazione della struttura del Pubblico Ministero: conseguenze certe della separazione delle carriere

    Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi – nell’esercizio dell’azione penale - alle direttive dell’esecutivo o a leggi variabili approvate da maggioranze anch’esse variabili o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria o, come qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. . Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata. E si estenderebbe quella inaccettabile tendenza alla gerarchizzazione dell’ Ufficio del PM di cui già si vedono preoccupanti segnali nelle direttive che alcuni Procuratori Generali e perfino il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, grazie ad una interpretazione estensiva della nozione di “coordinamento”, impartiscono o vorrebbero impartire ai Procuratori della Repubblica, pure se solo a questi compete, in via esclusiva, la titolarità dell’azione penale.

    3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia

    E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che l’8 giugno scorso 20 Stati membri dell’Unione Europea hanno raggiunto l’accordo politico sull'istituzione della nuova Procura europea (anche se competente solo su alcuni tipi di reato) nel quadro della cooperazione rafforzata. L'accordo dovrà essere approvato dal Parlamento europeo. Si discute, inoltre, della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.

    In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso 18 e di cui – in altri casi – ancora si discute.

    Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato. Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.

    4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose ”.

    In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato, come in Italia, ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed al rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Ci si vuol qui riferire ad un passato che, sia pur non troppo lontano, sembra definitivamente tramontato: basti pensare alle accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche da chi rivestiva talune importanti cariche istituzionali. La crisi della divisione dei poteri si mostrò in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè venne approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari 19 . Nello stesso senso, peraltro, andavano le reazioni di parti consistenti del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si riaccese il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte proprio quella sulla separazione delle carriere, che veniva presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, nè con le altre. Essa andava ad iscriversi, piuttosto, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose” 20 e punitive caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo .

    L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, allora Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009, il cui cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “ avvocato della polizia”. Il tutto in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione ed ancora una volta sottoposizione di fatto all’esecutivo).

    Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini 21 .

    E’ probabilmente vero – e chi scrive ne è convinto - che il livello di queste preoccupazioni è oggi notevolmente diminuito anche se la storia di questo Paese ed, in particolare, quella che riguarda i rapporti tra politica e magistratura in Italia, non è mai tranquillizzante e deve indurre tutti alla massima attenzione. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti nella guida politica del Paese.

    Proprio per questa ragione, è auspicabile che Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo e dei tempi lunghi del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale amministrativo.

    5. La proposta dell'Unione delle Camere Penali rischia di determinare la “cancellazione” di fatto dell’obbligatorietà dell’azione penale .

    Merita specifica attenzione, a questo punto, la proposta dell’Unione delle Camere Penali, tanto indefinita quanto inaccettabile (almeno per chi scrive), di modificare l’art. 112 della Cost. che dovrebbe così essere riformulato: “ Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

    In tal caso si rischierebbe la cancellazione di fatto del principio di obbligatorietà dell’azione penale,

    Sono certamente a tutti noti i problemi e le difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzione perché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essoè semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!

    E’ chiara la ragione per cui quel principio garantisce tale eguaglianza : i cittadini sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro eventuale potere economico o politico.

    Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale, anche senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

    Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.

    Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

    Si è già detto che questo principio postula per il PM l’obbligo di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia comunque notizia. Si obietta però che, nonostante quanto previsto dall’art. 112 Cost., soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.

    Si è già fatto cenno ad un altro argomento, spesso utilizzato a sostegno della proposta di introdurre la separazione della carriere, che nasce da uno sforzo incolto di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo, così affermando che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata: esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sè le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi ormai abolita quasi trent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.

    Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari differenze di cultura giuridica e politica.

    Le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente, comunque, si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.

    Tralasciando in questa sede, visto il tenore della proposta di cui qui si discute, le ipotesi alternative di affidare (eventualmente anche previa interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - le Istituzioni appresso indicate) la competenza circa la linee guida in tema di azione penale al Governo, o al Ministro della Giustizia, o al Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), o al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, o ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale (e così in grado di valorizzare esigenze territoriali) o ai singoli Procuratori della Repubblica, va fermamente criticata anche quella – fatta propria dalle Camere Penali – di affidare tale compito al Parlamento, sia pure previa discussione generale e trasparente.

    Appare del tutto evidente, infatti, che in questo modo si finirebbe con l’accettare la possibilità che l’esercizio dell’azione penale sia condizionato dalle scelte della maggioranza politica di turno. Né è pertinente l’ovvio rilievo secondo cui ogni legge è il frutto dell’accordo possibile all’interno di maggioranze variabili: l’obbligatorietà dell’azione penale è infatti un principio costituzionale e, svuotandolo di fatto con la previsione di attribuire al Parlamento il compito di dettare le linee guida in materia, si finirebbe con il pregiudicare – o rendere oscillante e variabile – la tutela dei diritti fondamentali previsti dalla prima parte della Costituzione, tutela spesso connessa all’esercizio dell’azione penale .

    L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi, a tal proposito, i riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe comunque molto spazio, ben più di quello, già troppo ampio, sin qui occupato. Sia permesso, allora, di fare riferimento a precedenti interventi su questo tema di chi scrive, ampiamente disponibili.

    6. Per concludere…

    Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Unione delle Camere Penali, appaiono a questo punto chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della ferma contrarietà di chi scrive al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati 22 :

    • Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente (art. 104);

    • Artt. 104 e 105 bis, con spacchettamento del Consiglio Superiore della Magistratura in CSM giudicante e CSM requirente, e con composizione paritaria – per entrambi - di membri eletti dai magistrati e membri eletti dal Parlamento;

    • Art. 105 e 105 ter, con spacchettamento anche delle competenze disciplinari, da ripartire tra i due CSM;

    • Art. 106, con previsione di distinti concorsi d’accesso per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante;

    • Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 ( “I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni” );

    • Art. 112, con sostanziale cancellazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, prevedendo che “ Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge ”.

    E’ doveroso precisare – sia ben chiaro - che le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in ogni parte d’Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale. Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali, incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.

    Sono ancora attuali e condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa 23 : “ Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro” .

    Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici” .

    Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi sono sicuramente quelli della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti, della loro comune “cultura giurisdizionale” e quello dell’ indipendenza, costituzionalmente garantita, anche dei Pubblici Ministeri: sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati

    ---===oOo===---

    1 Questo intervento – che l’Unione delle Camere Penali ha ritenuto di non poter pubblicare sulla homepage del proprio sito web - riprende ed aggiorna precedenti relazioni dell’autore sullo stesso tema.

    2 Ci si vuol riferire al quesito referendario proposto da Radicali, SDI e PRI con cui si proponeva l'abrogazione delle norme dell'ordinamento giudiziario allora in vigore che consentivano ai magistrati di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. Il referendum fu “bocciato” poiché il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il necessario quorum dei votanti.

    3 Si rimanda al paragrafo 5, in cui verranno brevemente commentate le recenti proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali.

    4 Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.

    5 Nei titoli dei sub-paragrafi da 2.a a 2.f sono riportate le affermazioni che spesso vengono formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.

    6 MicroMega n. 1/2003

    7 Si ricordi che la previgente formulazione dell’art. 190 Ordinamento giudiziario, poi abrogato, che pure richiedeva il parere attitudinale in questione, era stata introdotta dall’art.29 DPR 22.9.88 n. 449, varato nella stessa data del DPR n. 447/1988 di approvazione del codice di procedura penale vigente.

    8 In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori

    9 Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002

    10 I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.

    11 In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico (fautore della separazione delle carriere), come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia.

    12 Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003)

    13 Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny

    14 Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale svoltosi nel 2007 a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore.

    15 Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.

    16 Sul punto, come si è già detto, sorprende che buona parte dell’avvocatura penale non ritenga importante che il P.M. sia permeato da tale cultura, ritenendo sufficiente che “che il P.M. sia mosso dalla cultura della legalità”.

    17 Livio Pepino : “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02

    18 Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel

    19 A seguito di quella mozione, la giunta dell’ANM si dimise in blocco denunciandola come contrastante “.. con il modello di giurisdizione e di assetto di poteri disegnato dalla Costituzione”. La giunta dell’Anm si era sciolta un’altra sola volta: nel 1924, dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria di Mussolini.

    20 Efficace definizione dell’allora Vice Presidente del CSM, on.le prof. Virginio Rognoni

    21 In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “ se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente” , aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico” (3 luglio 2016, Il Giornale di Sicilia).

    .

    22 Non vengono qui citate le proposte di citare i due istituendi CSM in luogo dell’attuale unico Consiglio Superiore della Magistratura ogni qualvolta gli articoli della Costituzione ad esso facciano riferimento .

    23La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.

    Non separiamoli....

    di Marco Imperato

    Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna

    In questi mesi è tornato forte il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante (i giudici) e requirente (i pubblici ministeri). L'Unione delle Camere Penali, in particolare, ha promosso una raccolta di firme con cui è stato presentato un disegno di legge di riforma costituzionale che verrà probabilmente discusso dal prossimo Parlamento nel 2018.
     
    Conosco bene le ragioni di questa proposta e ho spesso ascoltato le convinte argomentazioni di tanti amici avvocati che davvero credono che questa sia una riforma giusta e necessaria. Il fondamento principale di questo cambiamento si troverebbe nell'articolo 111 della Costituzione, che sancendo il principio del giusto processo, ne individua una delle caratteristiche fondamentali nella terzietà del giudice. Il processo allora diventerebbe davvero uno strumento credibile di giustizia solo quando l'avvocato e il pubblico ministero saranno due parti sullo stesso piano, cosa che oggi non avviene perché il PM e il giudice sono colleghi che provengono dallo stesso concorso e condividono il percorso, così che la loro vicinanza metterebbe in posizione non paritaria l'avvocato.
    Viene anche citato Giovanni Falcone, che in alcuni suoi discorsi avrebbe condiviso tale impostazione ritenendola inevitabile conseguenza del nuovo processo accusatorio, dove devono trionfare il contraddittorio e le garanzie.
    Potrete trovare le legittime argomentazioni delle Camere Penali al sito http://www.camerepenali.it/ e vi raccomando anzi di leggerle con l'attenzione che meritano.
     
    Proprio il costante confronto che ho la fortuna e il piacere di avere con molti rappresentanti dell'avvocatura mi ha spinto a interrogarmi se davvero tale cambiamento non rispondesse a una corretta evoluzione dell'ordinamento, considerando anche il fatto che le Camere Penali non hanno mai dichiarato di voler un Pubblico Ministero sotto il controllo del Governo, creando invece un ordine autonomo con un proprio Consiglio Superiore della Magistratura.
    Mi sono lasciato stimolare dal dubbio e oggi posso dire di avere ancor più chiaro di prima perché la separazione delle carriere sarebbe un clamoroso sbaglio e ancor più grave sarebbe la complessiva approvazione della riforma proposta dalle Camere Penali.
    Sono argomenti complessi e tecnici e non pretendo certo in questo articolo di esaurire le questioni, ma credo che sia importante ragionare e non fermarsi alle facili e superficiali vignette proposte dagli avvocati nei loro banchetti.
     
    Ecco in sintesi perché sono profondamente convinto che quel progetto di riforma sarebbe un errore e un rischio per gli equilibri istituzionali e democratici del nostro Paese:
    1.    anzitutto molti cittadini firmatari certamente non sanno che vi è già una forte separazione delle funzioni, che costringendo a cambiare distretto (in sostanza regione...) se si vuole passare da requirente a giudicante, fa sì che ormai siano meno di 20 colleghi all'anno a fare questo salto (su circa 2900 PM...)
    2.    quei firmatari molto probabilmente non sanno nemmeno che in quella medesima riforma è previsto che i due Consigli Superiori della Magistratura che dovrebbero governare separatamente giudici e PM sarebbero composti per la metà di non magistrati... incrinando in modo estremamente pesante l'autonomia e l'indipendenza della magistratura dalla politica e quindi la separazione dei poteri dello Stato, requisito fondamentale perché si possa parlare di democrazia!
    3.    altro elemento rimasto nell'ombra di questa riforma è che verrebbe eliminato dalla Costituzione il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che impone a tutti i PM di perseguire ogni reato senza fare scelte o distinzioni di sorta (magari in base al potere economico e politico degli indagati o al gradimento popolare di quella particolare indagine, essendo i magistrati sottoposti soltanto alla legge); tale principio è corollario ineludibile del principio di uguaglianza dei cittadini e se è vero che è troppo spesso tradito per l'impossibilità effettiva di perseguire ogni reato, la reazione deve essere quella di risolvere il problema e non di buttare via il bambino con l'acqua sporca... e risolvere si può: depenalizzando, creando procedura più snelle per i reati meno gravi, semplificando le notifiche, investendo nelle risorse della giustizia (i dati europei ci mettono ai vertici per carico di lavoro ed efficienza)
    4.    eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale farebbe sì che la politica criminale sarebbe necessariamente sotto la direzione del potere esecutivo e\o legislativo, che direbbero ai magistrati quali reati perseguire e quali mettere da parte... magari chiedendoci di non spendere troppe energie verso le frode fiscali e le bancarotte e diventando inflessibili con reati commessi dai soggetti marginali e che tanto toccano la pancia di un elettorato che si vuole strumentalizzare e non far ragionare...
    5.    con un Consiglio Superiore della Magistratura con una larga presenza della politica e senza l'obbligatorietà dell'azione penale il PM non sarebbe veramente indipendente e questo ha una ricaduta enorme sulla capacità di fare controllo della legalità anche verso la criminalità del potere (corruzione, mafia, criminalità economica...)
    6.    il giudice indipendente è importantissimo, ma il motore della giurisdizione penale e del controllo di legalità è inevitabilmente il PM: se perdiamo la sua autonomia il giudice non potrà esercitare la terzietà nei confronti del potere... in sostanza diventeremmo leoni sotto al trono, strumento del potere esecutivo e legislativo ma incapaci di controllare chi detiene il potere e che invece deve rispettare la legge anche lui come tutti... anzi, secondo l'articolo 54 di più!
    7.    una magistratura inquirente separata dai giudici e senza alcun controllo sarebbe un unicum al mondo e molti di noi pubblici ministeri siamo spaventati da questa prospettiva, che accentuerebbe il carattere appunto inquisitorio e da "avvocati dell'accusa", facendoci dimenticare la cultura della giurisdizione e per esempio anche l'articolo del codice che ci impone di indagare anche a favore dell'indagato...
    8.    è vero che non sempre oggi i PM sanno dimostrare quella cultura della giurisdizione e quella sensibilità che la Costituzione richiede, tuttavia è curioso notare che ci vorrebbero separare, ma quando poi un avvocato vuole fare un complimento al PM spesso gli dice che ha ragionato e si è comportato come un giudice... certo! così dovrebbe sempre essere... le garanzie devono essere custodite e vigilate anche e soprattutto in quella fase delicata e minacciosa che sono le indagini! se non ci fosse un PM-magistrato in quella fase, rischieremmo di trovare giustizia spesso troppo tardi, dopo che nella fase delle indagini si sono fatti già gravi danni. La separazione non risolve questo problema bensì lo accentua
    9.    se il problema è ritenere che che il giudice non è terzo perché troppo vicino al collega PM, tale argomento è smentito dai sistemi comparati, che dimostrano che a prescindere dalle carriere, PM e giudici tendono comunque ad avere una maggiore vicinanza professionale proprio perché la pubblica accusa non è un super poliziotto ma nei paesi liberali e di diritto svolge una funzione di garanzia, mentre all'avvocato è devoluta una funzione fondamentale ma diversa nella tutela dei diritti, con obblighi anche molto diversi... Se un PM trova una prova a favore dell'indagato e la nasconde commette un reato, mentre se un avvocato portasse delle prove contro il proprio assistito starebbe tradendo la sua funzione
    La magistratura italiana deve riflettere sulle proposte e sulle richieste dell'avvocatura, che sicuramente sono anche il segnale non ingiustificato di una diminuzione di fiducia e anche di una certa insofferenza verso le molte disfunzioni della giustizia italiana, non di rado collegate anche a disorganizzazione da parte dei singoli magistrati.
    Purtroppo constato troppo di frequente una insufficiente attenzione di troppi miei colleghi alla fondamentale funzione dell'avvocato, senza considerare abbastanza la delicatezza e la difficoltà della loro funzione, indispensabile perché si riesca a fare giustizia.
     
    Questo problema culturale va affrontato anche e soprattutto creando maggiori momenti di confronto e ascolto e anche di verifica dei comportamenti, così che vi sia maggiore senso di responsabilità.
     
    La separazione invocata non solo non risolverebbe questo aspetto, connaturato alle funzioni come altri sistemi all'estero dimostrano, portando invece solo problemi e rischi: per un verso l'indebolimento dell'indipendenza della magistratura e per altro verso la possibile creazione di un corpo della magistratura inquirente abnorme e mostruoso nel panorama istituzionale... Pubblici Ministeri senza alcun collegamento con i giudici, che governano come dominus le indagini e la Polizia giudiziaria, che scelgono i propri Procuratori e che finiranno così per accentuare il loro carattere inquisitorio...
     
    Attenzione, il problema non è discutere dei vantaggi o degli svantaggi per avvocati o magistrati. Il problema è ragionare di quali sarebbero le ricadute per i cittadini, per chi chiede giustizia, per gli equilibri istituzionali e democratici del nostro Paese, già precari (vista la sostanziale scomparsa di distinzione tra potere esecutivo e legislativo e la scarsa indipendenza del quarto potere, l'informazione).
     
    Vi chiedo di riflettere su tutto questo, chiedo agli amici avvocati di chiedersi che tipo di magistratura inquirente realizzerebbe quella riforma costituzionale...
     
    Mettiamo da parte la guerra ideologica e di religione su questi argomenti e ragioniamo in concreto, magari ricordandoci che non parliamo di un posto qualsiasi, ma di un Paese in cui la minaccia dell'illegalità e della criminalità del potere sono particolarmente pressanti e decisive per le sorti di tutti i cittadini onesti.
    No, davvero, non separiamoli...

    Relazione del segretario - Assemblea nazionale 18 novembre 2017


    RELAZIONE CONCLUSIVA

    1) Vorrei avviare la mia riflessione dal presente, rivolgendo lo sguardo alla nostra realtà: quella di una magistratura che, insieme agli imprinting ideologici, sembra talvolta perdere anche i riferimenti ideali e il senso profondo del proprio servizio; una magistratura sempre più sollecitata alla produttività da un sistema che esige più quantità che qualità; che – in ragione di una riforma, che abbiamo in buona parte voluto, ma che sta assumendo effetti imprevisti – al venir meno dell’anzianità come carattere distintivo stenta a sostituire valori netti e dichiarati, indotta a cercare visibilità bypassando la giurisdizione, indotta a costruirsi percorsi individuali.
    Una magistratura, però, in forte ricambio, generazioni nuove che continuano a chiedere risposte e modelli di riferimento.  
    Cosa presentiamo a queste nuove e talvolta disordinate istanze e pulsioni; lo abbiamo visto anche nel congresso nazionale ANM, evocato nel dibattito che ha preceduto questa assemblea: per un verso un modello di conservazione, il magistrato cauto, attento a non esporsi, a non urtare sensibilità, che non vuole uscire dal proprio recinto. Oppure l’approccio aggressivo e populista,  la volontà distruttiva che – in nome delle contraddizioni e degli errori, che certo ci sono nelle azioni di ANM e CSM – finisce per minare la stessa idea di associazionismo e la stessa legittimazione dell’autogoverno, modello di magistrato che si fa strumento – involontario? - di profonde trasformazioni e di riassetti costituzionali che molta politica da sempre anela, e che ha capito di potere realizzare meglio dal nostro interno piuttosto che con attacchi diretti.
    Per fortuna ne trova anche un’altra: quella – con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni - capace di parlare di ius soli, fine vita e tutela di soggetti deboli; che sa criticare l’autogoverno, ma senza metterne in discussione il ruolo di garanzia primaria; che – anche al di là dei singoli temi e delle singole occasioni –  rivendica con forza il diritto di parola dei magistrati, come singoli e come gruppi; che sa e vuole parlare alla società, ne ricerca il confronto ma non ammicca al consenso popolare, cercando – e spesso trovando – il filo conduttore dell’etica della professionalità.

    2) Mi sono sempre riconosciuto in questa magistratura; e mi sono sempre più convinto che riuscire a farla vivere ancora, a non fare spegnere questo modello identifichi il nostro attuale ruolo.
    Un ruolo che abbiamo portato avanti per molti anni come Movimento per la Giustizia, in periodi segnati dal terrorismo, dalle connivenze tra parte della magistratura e una politica che dichiaratamente mirava a comprimere la nostra indipendenza e autonomia; lo abbiamo fatto sempre più spesso trovandoci accanto anche Magistratura Democratica, fino a quando non abbiamo cominciato a pensare di farlo insieme.
    Vale la pena ripercorrere, brevemente, le tappe di questo percorso
    Nel dicembre 2005 Nino Condorelli – in una missiva compiuta e meditata, che varrebbe la pena di rileggere tutta - riteneva un documento programmatico di MD ‘pienamente condivisibile, per premesse e per obiettivi, e sicuramente buona base per l'elaborazione di un programma comune, strumento indispensabile per una intesa al tempo stesso credibile e non meramente elettorale’; interlocuzione alla quale idealmente rispondeva Nello Rossi nel 2007 “giudico importante ed innovativa la prospettiva di una unificazione della magistratura di orientamento democratico e progressista, che offra ai magistrati ed ai cittadini l'immagine e la realtà di una magistratura non corporativa, non burocratica ma animata da una forte passione civile e professionale”.
    Questo è stato il terreno su cui è nata la stagione delle ‘doppie tessere’; questo il terreno sul quale si è cominciato a parlare di Area.
    Il Movimento nel 2009 affermava la convinta partecipazione insieme a Magistratura Democratica ad un percorso di area come metodo di crescita e impegno dell’associazionismo basato su valori condivisi e che, pur nel rispetto di varie identità, sappia aggregare anche chi non è iscritto a correnti e condivida il programma comune di lavoro; nel 2012 riteneva il percorso di Area un dato ormai irreversibile. Ma a patto di dare ulteriore impulso alla costruzione di questo soggetto politico, in modo da superare la tendenza a proteggersi di ciascun gruppo e valorizzare le identità come risorsa e non come problema. …. nel 2015 indicava “Area ormai un patrimonio stabile dell’associazionismo giudiziario: sta sempre più diventando l’espressione di un sentire comune diffuso dei magistrati italiani, che si riconoscono nei suoi principi e programmi senza il necessario riferimento ad appartenenze correntizie…” riconoscendo il Coordinamento di Area ….come unico soggetto responsabile e rappresentante esterno della linea politica di Area, destinato ad assorbire le competenze dei gruppi a livello nazionale e locale: Coordinamento al quale dunque va riconosciuta una competenza generale e completa. Per l’autogoverno e per l’associazionismo deve quindi esserci un riferimento unico e autorevole: Area deve parlare con una voce sola. …. “.
    Nel 2016 l’assemblea del MOV poneva, infine, questa “nuova esperienza come momento essenziale per proiettare nel futuro i valori, le risorse e la concezione di giurisdizione che ci sono propri. Per questo definitivo approdo, il Movimento per la Giustizia/art. 3 ritiene irreversibile la scelta di Area e indifferibile il suo compimento come formazione inclusiva, nella quale possono trovare nuovo spazio l’affermazione dei propri valori e le esperienze di tutte le forze che l’hanno  pensata e realizzata; ritiene in questa prospettiva che il superamento dei gruppi che l’hanno realizzata costituisca la migliore condizione per l’affermazione definitiva di Area; …delibera di riconoscere che ad Area compete in via esclusiva l’iniziativa nell’attività associativa e consiliare, e nelle conseguenti manifestazioni di espressione esterne…impegna la propria dirigenza, a livello centrale e locale, a coltivare i valori e le idee e a utilizzare le risorse del gruppo nel Coordinamento nazionale di Area e nelle strutture dei referenti locali, astenendosi da iniziative autonome;…..delibera di avviare fin d’ora gli adempimenti per la conclusione dell’esperienza associativa del Movimento per la giustizia – Articolo 3, da concretizzare una volta costituita Area come soggetto giuridico autonomo nei termini deliberati dall’Assemblea nazionale di Area in data 13/6/15”.
    Vorrei ricordare che questi sono tutti deliberati adottati all’unanimità.
    Vorrei sottolineare, con forza e chiarezza, che questo è stato, per questo Direttivo e per quelli precedenti, il filo conduttore di un’azione: svolta in modo – mi sento di dire – del tutto coerente con questi canoni, perché siamo stati donne e uomini responsabili e rispettosi del mandato ricevuto.
    Vorrei rivendicare che questi obiettivi sono stati raggiunti.
    La ‘condizione’ essenziale che era stata posta in queste delibere si è realizzata: AREA è ormai soggetto giuridico e politico autonomo, ha un suo statuto, suoi organi elettivi, un suo segretario e potrebbe avere a breve anche un presidente, per migliorarne la capacità di azione senza timore che al suo interno possano emergere sensibilità diverse, che sono non un ostacolo ma una ricchezza; ha quasi 1000 iscritti, numero che è tre volte superiore a quello attuale del MOV 3 e che è anche superiore alla somma dei due gruppi fondatori, nonostante non tutti gli iscritti di questi siano iscritti anche ad Area; iscritti che – al contrario di una buona parte di quelli di MOV3 e MD - sono pressoché tutti attivi e presenti; si è caratterizzato per un innovativo sistema di selezione dei candidati all’autogoverno, con un meccanismo di primarie che soprattutto il MOV ha voluto. E’ un soggetto ancorato a solide tradizioni e al contempo nuovo, che va in direzione ostinata e contraria rispetto alle spinte dei particolarismi imperanti, una sfida all’immobilismo che comincia ad avere credibilità e visibilità esterne. AREADG è saputa andare al di là delle proprie radici, e sta crescendo.
    In questi termini, per questa coerenza, l’attuale dirigenza del MOV3 ha più volte ritenuto – da ultimo nel congresso di Siena - di lasciare il maggiore spazio possibile alla sua azione: Area deve parlare con una voce sola. ….  

    3) Vi sono stati, indubbiamente, momenti critici
    La mutata prospettiva assunta da MD, le ‘frenate’ più recenti rispetto ai precedenti deliberati, hanno segnato un chiaro arretramento. Ora, gli ottimi rapporti che abbiamo avuto con tutti i rappresentanti di Magistratura Democratica, con i quali in questi mesi ci siamo incontrati, l’affetto sincero che ho per Maria Rosaria Guglielmi e Riccardo De Vito non ci hanno impedito di rappresentare loro tutta la nostra profonda delusione per questa diversa posizione assunta, di giudicare sbagliata la persistente ricerca di una visibilità autonoma che disorienta questa parte di magistratura, che chiede di potersi riconoscere in una sola casa comune: detto e ribadito questo, va anche detto che tale posizione riguarda ormai solo MD e le sue scelte, che a mio giudizio si troverà ad affrontare in termini del tutto analoghi a quelli che stiamo vivendo nel dibattito di oggi. Non me ne vogliano gli amici di MD: ma anche in questo travaglio il MOV è avanti.
    Una nostra posizione, delle nostre scelte, che non devono quindi dipendere da ciò che fa, o non fa, Magistratura Democratica: mi auguro, nel dibattito, di sentire argomenti diversi da quello del non registrarsi, al momento, una simmetria di comportamenti: in cui certamente abbiamo sperato, che abbiamo constatato non esserci ma che non ha affatto impedito di realizzare AREA.
    Sono state rilevate poi criticità nell’azione dell’autogoverno. Qui si impone una riflessione attenta, a mio giudizio almeno su due fronti.
    Il primo riprende quanto ho accennato sopra, sulla nostra spasmodica attenzione alla coerenza tra principi e comportamenti come dato di identità; diversamente da quanto accade in altri gruppi, ogni consiliatura è sempre oggetto delle critiche più feroci, valutata la peggiore mai vista per essere poi superata in tale giudizio negativo solo dalla consiliatura successiva. Questo è sano, se è il portato di un’attenzione viscerale all’azione dei nostri rappresentanti; è distruttivo, se deriva da personalismi o rivendicazioni individuali.
    Il secondo aspetto è che questa operazione richiede grande capacità di confronto all’interno del gruppo consiliare, e anche – come presupposto perché a tale compattezza si arrivi, e come garanzia di costante saldatura – una forte guida politica. Che non significa, ovviamente, l’orientamento delle singole scelte, ma la capacità di cogliere in anticipo i temi caldi, i passaggi difficili, di valutarli insieme tra decisore politico e organi rappresentativi, di non farsene sorprendere, semplicemente di muoversi sempre come un gruppo. Essere dunque in grado sempre di spiegare perché si è compiuta una certa scelta, anche quando alcuni non l’abbiano condivisa: meccanismo che si è compiuto nell’ANM, in cui molte ambiguità delle altre componenti sono state stanate per la nostra azione corale. Anche nell’autogoverno, organismo politico e rappresentanza devono saper dialogare: e qui certamente abbiamo avuto anche noi, parlo ovviamente del precedente Coordinamento di cui ero componente, carenze e incertezze, pur se forse hanno giocato – alimentando qualche incomprensione - anche fattori contingenti, come il continuo mutare delle persone incaricate di tenere tale dialogo.
    Anche qui, però, non vedo ragioni per fare passi indietro: o ritenete che moltiplicare gli organismi di decisione politica aiuti questa opera? Armando Spataro nel 2013 diceva ‘ho sempre creduto che Movimento ed MD  potessero essere, se non una cosa sola, un’area (l’ “a” è volutamente minuscola) capace di aggregare e motivare la parte migliore della magistratura, a partire innanzitutto dall’azione dei nostri rappresentanti in seno al CSM. Come uscirne? Non certo con un processo, pubblico o privato, finalizzato a condannare qualcuno ed assolvere o premiare altri. Assolutamente no! Per mia esperienza – e per logica evidente – bisogna avere il coraggio e la forza di mettere ogni divergenza alle spalle e di guardarsi negli occhi, cercando di capire se ci si riconosce reciprocamente onestà.. Basta con le accuse e le risposte ….basta con le rivendicazioni e le smentite ...basta con le allusioni ad ipotetici apparati capaci di condizionare il voto dei consiglieri ….insomma basta con tutto ciò che divide !!
    Dopo ben quattro intensi anni da queste parole, dopo i passaggi importanti e difficili descritti, AREA ha saputo assumere la maiuscola, diventare corrente di pensiero e non di mera appartenenza: ci sono e ci saranno divergenze, che l’hanno attraversata, facendo emergere anche le diverse sensibilità, differenze che sono, o dovrebbero essere, ricchezza e non ragione di frattura. Le tappe disegnate nei vari documenti letti sono state percorse, tutte e in molti anni; se è vero che i cambiamenti non si impongono, è anche vero che si guidano e che si sanno fare, in alcuni momenti, i passi necessari a renderli visibili. E’ quello per cui siamo qui oggi.

    4) Ovviamente ogni deliberato può essere rivisto, e si può cambiare strada: ma allora si deve dichiarare esattamente quello che si vuole fare, dove si vuole andare.
    Si vuole discontinuità? Si deve allora avere l’onestà intellettuale di dire ‘non credo più in AREA’, perché chi dice ‘bene Area ma insieme al MOV’, ‘impegniamoci nel MOV per AREA’ alimenta una ambiguità dannosa; finisce per costruire un Tribunale con due litigiosi ‘a latere’ che ogni giorno e in tutti i modi sgomitano per andare a presiedere il Collegio. Ma poi, in concreto, se l’azione del MOV è stata finora sbagliata o va rivista in un mutato contesto, in che cosa dovrebbe cambiare, per lasciarla comunque coerente con l’azione di AREA? Chi ritiene una mera protrazione del MOV compatibile con AREA indichi cosa di diverso si dovrebbe fare rispetto a quanto fatto finora, ma al contempo come questa nuova e più forte azione del MOV non si traduca in un ostacolo per AREA: quali sono le specificità ideali e politiche del MOV che non possono svolgersi semplicemente dentro AREA, arricchendola, ma che hanno bisogno di un campo di azione proprio ?. Se male ha fatto l’attuale dirigenza a non intervenire, a lasciare il campo a MD e alle sue esternazioni individuali e identitarie, la conclusione non può che essere che anche il MOV dovrà mettersi in questa prospettiva. Dovremmo pensare a una rincorsa continua: a chi fa più interviste; a chi interviene prima e meglio su un tema; corriamo a prenotare un intervento anche del segretario del MOV al prossimo congresso ANM, a colmare un’assenza che ci è stata rimproverata; ma così facendo, torniamo di fatto alle logiche del mero cartello elettorale tra soggetti in latente concorrenza tra di loro, che nel 2005 già Nino Condorelli riteneva da superare.
    Con uno spreco di energie che francamente non possiamo permetterci: l’attività associativa è già un di più rispetto a impegni lavorativi che tutti noi viviamo appieno, consapevoli che la prima legittimazione ci viene dal come interpretiamo la nostra funzione, e non possiamo disperderne la spinta, come ci hanno anche ricordato i neoreferenti di Area dell’Emilia Romagna, nel bel messaggio di saluto di pochi giorni fa.
    E quali effetti, questa riaffermata presenza del MOV, potrebbe avere rispetto ad Area? Realmente di stimolo e di crescita? O non, piuttosto, di confusione ?
    Questa ambiguità emerge del resto anche dai numeri: che, insieme alle idee, hanno il loro peso.
    Nel 2007 eravamo  435; oggi siamo 308 di cui il 91% ha più di 50 anni; con il 35% circa di donne, contro il 70% che entra in magistratura attualmente; solo considerando i pensionamenti, tra altri dieci anni – quando chi entra ora avrà solo la seconda valutazione - saremmo in tutto 230: numeri che sono frutto veramente dell’insipienza delle ultime dirigenze politiche o, piuttosto, frutto della coerenza con i deliberati, che tutti insieme abbiamo adottato, decrescita esponenzialmente speculare alla crescita di AREA? Però, se la democrazia richiede rappresentanza e capacità di incidenza e non si risolve in rappresentazione ad uso e vantaggio degli stessi attori, e se riteniamo che questo debba ora essere fatto attraverso il MOV, dovremmo essere capaci di invertire questa tendenza all’esaurimento. Dovremmo riportare non AREA, ma il MOV in quanto soggetto distinto, alla mutata realtà della magistratura, con una ‘campagna acquisti’ che avverrebbe sostanzialmente in competizione con quella di Area. Dovremmo dire ai colleghi ‘non è che Area vada male, ma in fondo è meglio che vi iscriviate al MOV’: è questo che vogliamo fare?
    Un esempio al riguardo lo traggo dall’esperienza di Medel, formidabile sguardo sovranazionale sui diritti ma che non può essere affidato alla memoria e all’impegno dei singoli: come ho già rappresentato a Cristina Ornano e a Maria Rosaria Guglielmi, non possiamo consentire che questo impegno tramonti con il tramontare delle persone che adesso ne sono coinvolte, ma dobbiamo estenderlo. Vorrei ricordare che in questi anni ho più volte sollecitato a che all’interno del MOV ci fossero nuove forze a occuparsene: con il risultato che dal 2013 (ad eccezione di una graditissima presenza di Marcello Basilico) nessuna nuova vocazione dall’interno del MOV è pervenuta: testimone che non può essere lasciato cadere, e che deve essere Area, gradualmente, a raccogliere.    

    5) In definitiva, nessuna ‘mutata situazione’, nessuno di questi ‘fattori sopravvenuti’ a mio giudizio può giustificare arretramenti e paure: e – se riteniamo comunque prematuro lo scioglimento tout court – abbiamo una possibilità, e le risorse, per indirizzare la vita e l’attività del MOV ad altro.       E’ questa la soluzione che – insieme a Claudio Gittardi, a titolo individuale; ma anche per dare pieno sviluppo a una delle opzioni in campo - abbiamo pensato di proporre, in linea anche col rilancio on-line della rivista Giustizia Insieme un Movimento/art. 3 come attore sociale a vocazione culturale, matrice a mio ricordo molto forte agli esordi. Viene in realtà contestato che questa ne sia stata una fortissima opzione genetica: forse ricorderò male, a dimostrazione dell’invecchiamento di noi tutti o quanto meno mio, ma quello che mi colpì nel 1990, quando mi affacciavo per la prima volta in questi incontri, era l’insistito e costante dibattito… se presentarsi o meno alle elezioni o fare solo attività culturale, etica e di informazione negli uffici).
    Come realizzare questa diversa opzione ?
    Ridisegnando un diverso MOV: se non emerge chiaramente una linea autonoma e diversa da quella di AREA, insuscettibile di svolgersi al suo interno, e se veramente non si vuole entrare con essa in competizione, non può che essere eliminato il riferimento all’azione più propriamente politica; viene modificata la modalità di contribuzione; vengono inoltre eliminate le segreterie distrettuali, di fatto già largamente non operanti o ridotte ai minimi termini perché l’azione dei nostri iscritti trova attuazione nelle realtà territoriali di Area; viene ridotto il numero dei componenti del direttivo. Dunque una struttura più agile, che peraltro tiene conto di una realtà dei fatti che preesisteva all’azione di Area: secondo un disegno complessivo che a mio parere dovrebbe essere valutato tutto insieme.
    Non si tratta certo di un espediente per aggirare il numero di voti necessario allo scioglimento ma la traduzione rigorosa in dettati normativi interni, su come vorremmo agisse ora il Movimento: dunque, una soluzione diversa dallo scioglimento perchè prova a coniugare le ragioni politiche esposte e le ragioni del cuore e della memoria, che sono comprensibili e rispettabili. Non capisco invece quali dovrebbero essere le “formule solenni di impegno per scongiurare il pericolo di sovrapposizioni o di parallelismi con Area”, diverse da un deliberato esplicito di un’assemblea, che marchi un ulteriore e chiaro passo avanti in una direzione già disegnata, non rinnegando il percorso fin qui seguito.
    Cosa dovrebbe fare questo ‘Nuovo Movimento’: in via di approssimazione, posso dire che potrebbe sviluppare il dialogo con la società che ci ha sempre caratterizzati, voci di dentro con voci di fuori, secondo lo schema proprio della rivista.
    - é stata evocata l’esperienza, ricchissima, di Fiesole;
    - possiamo creare Fondazioni, o collaborare con esse, per varare - con l’avvocatura, i giornalisti, le ONLUS - specifici progetti per i diritti degli ultimi;
    - facciamo in modo che il 23/5 di ogni anno (sancito  su impulso di Medel come ‘alert day’ europeo della giustizia) porti anche l’impronta del MOV;
    - rendiamo il MOV promotore di iniziative, spettacoli, filmati destinati alle scuole e ai cittadini, che facciano vivere l’idea, la nostra idea, di giustizia.
    - aiutiamo i nostri Tribunali a creare adeguati ‘spazi di ascolto’ delle vittime di violenza
    Abbiamo risorse per fare cose importanti e significative: ed è dunque questa la proposta che, quanto meno a titolo individuale, continuo ad avanzare

    6) Alcuni hanno anticipato che non credono in questo passo, lo vedono come un avvio di eutanasia: e propongono un mero rinvio della decisione. Ma, mi chiedo e vi chiedo, se questo era il desiderio di alcuni, perché prorogare questo direttivo, che aveva questa chiaro mandato politico e che in questi mesi, congresso ANM incluso, non ha potuto che continuare a esprimere la linea della confluenza in AREA, in base alla quale era stato investito? Perché - invece di far trascorrere i mesi con crescenti recriminazioni - non raccogliere la richiesta di fare l’assemblea alla scadenza naturale dell’attuale dirigenza? Nel gennaio e marzo di quest’anno i verbali del Direttivo riportano “….che se vi fosse una diversa richiesta, di un numero anche ridotto di iscritti che volessero proporre da subito una prospettiva di discontinuità con la linea di adesione ad Area sinora seguita, si potrà comunque svolgere un’assemblea in tempi più brevi, in cui poter vagliare questa diversa istanza”.
    Mi sembra proprio che proprio chi lamenta oggi l’inidoneità della linea politica fin qui seguita, e di chi l’ha rappresentata si era fieramente opposto allo svolgimento della nostra assemblea alla scadenza del direttivo, valutandolo come una sorta di attentato alla democrazia quando, invece e molto più semplicemente, voleva essere appunto il naturale momento di verifica della nostra azione.  
    Questa dilazione, decidere oggi semplicemente di non decidere, mi sembra un passo indietro, una posizione troppo condizionata dall’imminenza dell’elezione consiliare, proiettata solo alla conta preventiva dei futuri consiglieri; una non scelta, che aumenta la confusione interna ad Area, ne diminuisce la percezione esterna come soggetto autonomo, finisce per protrarre una situazione di policentrismo decisionale che priva l’associazionismo e l’autogoverno del necessario referente politico, che invece deve essere unico, se vuole essere in grado di bilanciare spinte personalistiche o territorialistiche; di correggere ogni deviazione, reale o presunta tale, dai nostri valori.

    7) I valori, appunto. Suonerà frequente, immagino, il richiamo ai valori del MOV: forse anche ai valori traditi. Ma vi chiedo di riflettere attentamente e senza pregiudizi sul come si tutelano realmente questi valori, se affermando che essi hanno bisogno ancora di un terreno recintato e protetto, ovvero se possano essere proiettati in campo aperto e nel futuro, attraverso un soggetto in cui finora abbiamo dichiarato di credere, che abbiamo costruito e che di questi nostri valori è ormai profondamente permeato.
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    Un grazie, lo voglio rivolgere a Daniela Troja, Paola Ghinoy, Donatella Salari, Maria Teresa Gentile, Morena Plazzi, Paolo Carfì, Gianni Caria, Giovanni Liberati, Giuseppe Sepe; ad Annarita Mantini e Rocco Alfano, generosi tre anni fa nel mettersi comunque a disposizione: sono stati compagni di un viaggio importante e difficile, affrontato insieme anche talvolta nella diversità. Grazie a Luca Ramacci e a tutto il Comitato di Redazione della Rivista, creatura rinata; a Nicola Di Grazia, che insieme a Paola Filippi fino alla fine ha supportato e sopportato un compito particolarmente ingrato, quello della gestione economica e delle iscrizioni.
    Grazie, ai consiglieri e ai componenti del CDC, compagni di tanti incontri, di alcuni scontri, svolti sempre con lealtà e rispetto, nella consapevolezza delle rispettive difficoltà.
    Un abbraccio speciale va al mio ‘gemello diverso’, a Claudio Gittardi: con il quale abbiamo condiviso progetti, preoccupazioni, ore e ore di colloqui, che mi mancheranno.
    Un grazie a tutti voi, qualunque siano le determinazioni che oggi assumerete, per averci chiamati a una sfida difficile: prova che personalmente mi ha restituito la voglia di agire, perchè questa magistratura ‘con la schiena dritta’ che ci è cara non rimanga confinata ai ricordi ma viva nelle future generazioni. 

    Carlo SABATINI

    Segretario Generale

    Direttive a tutela del segreto investigativo

    Procura della Repubblica di Torino.
    Direttive a tutela del segreto investigativo conseguenti all’art. 18 (Disposizioni Transitorie e finali) n. 5 del Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 177 - Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

    PROCURA DELLA REPUBBLICA

    PRESSO IL TRIBUNALE DI TORINO

    Prot. n. 544/17/S.P. Torino, 7 febbraio 2017

    Ai MAGISTRATI DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA

    SEDE

    Al Sig. QUESTORE

    Al Sig. COMANDANTE PROVINCIALE

    DELL’ARMA DEI CARABINIERI

    Al Sig. COMANDANTE PROVINCIALE

    DELLA GUARDIA DI FINANZA

    AI RESPONSABILI DELLE ALIQUOTE DELLA SEZIONE DI P.G.

    PROCURA DELLA REPUBBLICA

    T O R I N O

    e per conoscenza:

    Al Sig. PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA

    PRESSO LA CORTE D’APPELLO di T O R I N O

    Al Sig. PREFETTO

    di T O R I N O

    OGGETTO: Direttive a tutela del segreto investigativo conseguenti all’art. 18 (Disposizioni Transitorie e finali) n. 5 del Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 177 - Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

    L’art. 18 co. 5 del Decreto Legislativo n. 177/2016, in oggetto specificato, prevede che entro sei mesi dalla sua entrata in vigore (avvenuta il 13.9.2016):

    “… al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale ”.

    Si tratta di una previsione che, al di là di altri rilievi che seguono, potrebbe determinare rischi di compromissione del segreto investigativo previsto innanzitutto dall’art. 329 c.p.p., la cui violazione da parte di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio può dar luogo a responsabilità penale ex art. 326 c.p. . Tanto più che i componenti della “ scala gerarchica” cui fa riferimento la norma in questione non sempre rivestono la qualifica di “ufficiali di polizia giudiziaria”. Peraltro, l’art. 329 cpp non vincola solo la polizia giudiziaria ma ogni soggetto depositario del segreto investigativo, sicchè sarebbe singolare che solo la prima possa essere sciolta dall’obbligo del segreto, sia pure in parte e per il fine previsto dall’art. 18 co. n. 5 del D. Lgs.vo 177/2016.

    Desta anche perplessità il fatto che l’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge Delega 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, richiamato quale fonte di legittimazione della norma in discussione, ad avviso dello scrivente, non detta alcun principio che possa giustificare la previsione di un obbligo di trasmissione alla propria scala gerarchica, da parte dei responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, delle “ notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria ”, tanto più in presenza di obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale che sembra vengano di fatto ritenute irrilevanti: non altrimenti può qualificarsi la previsione secondo cui detta trasmissione di notizie deve avvenire “ indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale ”.

    I rilievi appena esposti, tra l’altro, sono stati oggetto di discussione, in vista del parere di competenza, in seno alle Commissioni riunite I (Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e IV (Difesa) della Camera sullo specifico articolo, al punto che, nel corso della discussione del 12 luglio 2016, alcuni deputati hanno chiesto di espungere dal testo in discussione la previsione in questione o, quanto meno, il rinvio della decisione, mentre altro deputato ha rilevato che comunque essa non produrrebbe “.. gli effetti paventati poiché già adesso l’obbligo di informare il superiore dell’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria non è previsto qualora il magistrato chieda di non trasmettere gli atti 1 . Un’affermazione – quest’ultima – convalidata anche dal principio di cui agli artt. 109 Cost. (“ L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” ) e 56 co. 1 cpp, secondo cui “ Le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria”.

    La previsione in oggetto indicata, a dire il vero, trova uno specifico precedente nell’art. 237 del DPR 15.3.2010, n. 90 (Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’art. 14 della Legge 28 novembre 2005, n. 246) che così recita:

    Art. 237 – Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica .

    Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri”

    Nella pratica quotidiana, peraltro, tale norma - a prescindere dal rango di “regolamento” del DPR n. 90/2010 in cui è inserita - ha trovato applicazione attenta ad opera della polizia giudiziaria appartenente all’Arma dei Carabinieri, attraverso una serie di disposizioni interne, in gran parte compendiate nella pubblicazione dell’Arma “Guida per le segnalazioni”, che disciplinano attentamente i dati da fornire, con estrema attenzione al necessario rispetto del segreto investigativo. Proprio per tale ragione, le segnalazioni si riferiscono a fatti già di massima conoscibili e incidenti sull’ordine e sulla sicurezza pubblica, locale e nazionale. Infatti, a proposito dell’oggetto di tali comunicazioni, si legge nella citata Guida 2 che “ le segnalazioni devono riportare gli elementi essenziali del fatto sulla base delle prescrizioni particolari di cui alla parte II della pubblicazione e con l’osservanza degli obblighi di cui al codice di procedura penale e delle relative norme di attuazione . Ed in altro paragrafo della stessa pubblicazione in cui si chiede di anticipare i contenuti delle “operazioni di particolare rilievo”, si precisa che ciò deve avvenire “escludendo qualsiasi aspetto di interesse prettamente investigativo”.

    Comunque, indipendentemente da tali apprezzabili indicazioni e/o dalla loro interpretazione, resta evidente che quanto previsto dall’art. 18 del Decreto Legislativo n. 177/2016, co. n. 5, non potrebbe giustificarsi con esigenze di coordinamento investigativo , funzione peraltro esercitata innanzitutto, ai sensi dell’art. 327 c.p.p., dal Pubblico Ministero, le cui disposizioni non potrebbero essere in alcun modo disattese neppure nei casi in cui la P.G. - come lo stesso art. 327 cpp e l’art. 348 co. 1 cpp prevedono – proceda di propria iniziativa: l’obbligo del segreto, infatti, è posto a tutela di valori che non sono certo recessivi rispetto a quelli della razionalizzazione degli interventi.

    Il contenuto della norma in questione, a dire il vero, fa riferimento non ad un obbligo dei responsabili di ciascun presidio di polizia interessato di trasmettere alla propria scala gerarchica le informative di reato inoltrate all’A.G., ma solo le notizie relative a tale inoltro, il cui contenuto dovrebbe, logicamente, essere “inferiore” a quello delle informative in sè: ma sia che si ritenesse l’obbligo riferito alla trasmissione per via gerarchica di copia delle informative di reato inoltrate alla A.G., sia che lo si ritenesse riferito alla trasmissione di più generali notizie sull’inoltro all’A.G. delle informative di reato (ipotesi questa che, attraverso un’interpretazione estensiva della norma, potrebbe indurre a ritenerla applicabile, addirittura, ai momenti precedenti la redazione e l’inoltro all’A.G. di tali atti), appare necessario evitare potenziali ragioni di criticità nelle indagini visto che, di solito, proprio nelle informative di reato – pur se non ancora conclusive – si compendiano e si illustrano i fatti accertati, di particolare riservatezza investigativa.

    Peraltro, anche nella fase successive all’inoltro all’A.G. delle informative di reato, il valore della segretezza investigativa va doverosamente tutelato , poiché trattasi della fase in cui normalmente si dispiegano e trovano attuazione le direttive del P.M. che possono essere anche finalizzate all’acquisizione – se non ancora intervenuta – delle prove decisive ai fini del promovimento dell’azione penale. Un diverso orientamento finirebbe con il consentire il disvelamento (sia pure in termini generici) delle deleghe investigative direttamente provenienti dal P.M. o con il vanificare la finalità del potere di segretazione riconosciuto al P.M. dall’art. 391 quinquies c.p.p. .

    Il coordinamento informativo, cui l’art. 18 del Decreto Legislativo n. 177/2016, co. n. 5 fa esplicito riferimento, è nozione diversa da quella del coordinamento investigativo (che, come si è detto, spetta innanzitutto al PM) ed esprime a sua volta un apprezzabile valore, quello di consentire alle forze di polizia l’acquisizione di conoscenze utili per l’espletamento dei propri compiti: ma appare evidente che esso non è direttamente riferito al momento in cui le indagini sono in corso (in quel caso, si deve parlare di necessità di “coordinamento investigativo” che include quello “informativo”) e ben può essere rinviato - quando ritenuto necessario - alla fase in cui le esigenze di segretezza investigativa siano cessate, così determinando la circolazione anche informatica dei dati acquisiti e l’arricchimento delle banche dati dei presidi di polizia giudiziaria.

    Le osservazioni che precedono (e le disposizioni che seguono) risultano ovviamente pertinenti anche ai casi in cui il presidio di polizia giudiziaria operante sia costituito dalla Sezione di polizia giudiziaria, direttamente operante alle dipendenze del Procuratore che ne dispone direttamente ai sensi del già citato art.109 Cost. e degli artt. 58 e 59 c.p.p. .

    ---= = =oOo= = =---

    Gli orientamenti dello scrivente sin qui illustrati non hanno carattere meramente astratto, né possono essere interpretati come spia di scarsa sensibilità rispetto al doveroso principio di leale collaborazione tra istituzioni della Stato .

    Al contrario, se correttamente applicati, possono non solo rafforzare la virtuosa collaborazione tra Autorità Giudiziaria e Polizia Giudiziaria, ma anche meglio garantire l’indipendenza investigativa dei presidi di polizia giudiziaria rispetto ad immaginabili e potenziali conflitti di interesse, che potrebbero compromettere il buon esito delle indagini e l’immagine della Istituzione di appartenenza.

    E’ evidente, infatti, che i rilievi critici che precedono non possono che riferirsi, in concreto, ad indagini e notizie di particolare rilievo, nazionale ed internazionale, in ragione della tipologia dei reati per cui si procede e delle qualità soggettive degli indagati.

    In tali casi, ben più che in altri, infatti, può comprensibilmente esistere un interesse preminente e decisivo a tutelare fino all’ultimo passo dell’indagine, cioè fino ai momenti formali di cessazione del segreto investigativo ai sensi dell’art. 329 co. 1 c.p.p., le notizie acquisite durante le indagini stesse.

    Si tratta, peraltro, di tutelare non solo un “interesse” investigativo, ma anche il dovere del pubblico ministero di assicurare il buon esito del possibile promovimento dell’azione penale, un dovere desumibile dal principio di cui all’art. 109 della Costituzione ( “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” ) che consente al P.M. di vietare la diffusione – anche rispetto ai vertici delle Forze di polizia cui appartengono gli organismi che indagano sotto la sua direzione - delle informative di reato in presenza delle ragioni appena specificate.

    Occorre, allora, ricercare un bilanciamento dei “beni” in potenziale conflitto che va attuato per casi specifici e/o per gruppi di casi, partendo dall’assunto che non può in alcun modo pretermettersi – prima dell’inoltro in questione – un controllo da parte del Pubblico Ministero: il fatto che l’art. 18 n. 5 del D. Lgs.vo n. 177/2016 non preveda tale controllo è irrilevante perché quella disposizione va coordinata con l’intero sistema, non potendo configurarsi quale monade normativa.

    ---= = =oOo= = =---

    Pertanto, alla luce di quanto sin qui specificato ed in conformità all’ orientamento manifestato dagli altri Procuratori della Repubblica di questo Distretto nel corso della riunione dell’1 c.m., convocata dal Procuratore Generale, si dispone che i magistrati della Procura della Repubblica di Torino, con la necessaria urgenza, comunichino motivatamente al sottoscritto i casi in cui ritengano di dover segnalare ai presidi di polizia giudiziaria delegati alle indagini preliminari da loro dirette e coordinate il rispetto assoluto del segreto investigativo anche nei confronti delle rispettive “scale gerarchiche ”.

    In particolare, i sostituti ne riferiranno innanzitutto ai Procuratori Aggiunti o ai sostituti coordinatori dei gruppi specializzati di appartenenza, in modo da consentire una preliminare loro valutazione.

    Il sottoscritto, nelle ipotesi di condivisione di tale necessità, provvederà a conseguente comunicazione formale diretta ai dirigenti o comandanti dei presidi di polizia giudiziaria interessati , inclusi servizi centrali di polizia giudiziaria. Ciò anche al fine di valutare opposte ragioni ed esigenze a sostegno della utilità di invio alle scale gerarchiche delle notizie in questione.

    Nei casi in cui i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria interessati dovessero ritenere, ai sensi dell’art. 18 co. 5 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, di non poter aderire alla richiesta di preservare il segreto investigativo, dovranno comunicarlo formalmente allo scrivente per ogni possibile iniziativa dell’ufficio (non escluso il ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, ai sensi dell’art. 37 L. 11 marzo 1953 n. 87).

    Il Sig. Questore ed i Sigg.ri Com.ti Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Torino sono pregati di volere cortesemente curare la diffusione delle presenti direttive ad Uffici e Comandi di polizia giudiziaria rispettivamente dipendenti.

    Sono ovviamente autorizzati a trasmetterne copia anche alle rispettive “scale gerarchiche”, in particolare al Sig. Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza ed ai vertici delle altre Forze di polizia

    IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA

    Armando SPATARO

    1 Si rinvia sul punto a quanto può leggersi nel verbale della predetta seduta di Commissioni riunite del 12 luglio 2016.

    2 Pubblicazione G4 dell’Arma dei Carabinieri “ Guida delle segnalazioni”, Disposizioni di carattere generale, Parte prima n. 2, lettera “A”.

    Formazione giuridica e selezione dei magistrati


    1. Se all’inizio del secolo XIX, la Facoltà di Giurisprudenza era considerata come posta all’incrocio fra teologia, medicina e filosofia e destinata, come le altre, all’educazione spirituale dell’individuo, già pochi decenni dopo il trionfante positivismo, la nascita delle scienze sociali, la rivoluzione industriale, l’espansione egemonica della borghesia conducevano a un nuovo rapporto tra il sapere e il fare, nel quale - poiché il lavoro va svolto efficientemente - il sapere tende a diventare saper fare tecnico-funzionale, indirizzato verso la specializzazione. Questa tendenza è oggi rafforzata dal fatto che il diritto ha perso unità interna, si è distaccato anche dalle sovranità statali e non ha più un centro: risulta contingente, frutto di volontà incoese e incostanti, spesso arbitrario. Il sapere giuridico si frantuma in una molteplicità di conoscenze settoriali e la dottrina, che avrebbe il compito di delineare e razionalizzare il sistema, è diventata timida nei riguardi della giurisprudenza e delle leggi speciali e non si cura di integrarle in un sistema: si è smembrata in piccole scuole, separate dal metodo e dall'ideologia, spesso politicizzate e tormentate da dubbi nei confronti delle finalità stesse della scienza giuridica. Si vive un periodo di incertezza e confusione metodologica. Un giurista completo è impensabile e risulta più appropriato parlare di esperti giuridici o esperti legali. Nel quadro della tecno-economia ogni funzione esige un’abilità specifcia e il sapere assume il valore di una competenza tecnica che si vende e si compra tramite testi e corsi appositamente concepiti per soddisfarecrediti/debiti formativi, competizione, efficienza, abilità, test, competenza, servizi1.

    2. Questa impostazione, che ormai permea anche le Università, è palese nei corsi di specializzazione e nei corsi privati di preparazione ai concorsi, in particolare all’esame scritto per magistratura. L'ormai mutato (e prolungato) percorso preliminare all’accesso al concorso alla magistratura ha modificato sensibilmente la formazione degli aspiranti magistrati, determinando nei fatti una convivenza tra iniziative private di formazione e Scuole di Specializzazione per le Professioni legali (SSPL) che è fonte di problemi.

    Nel 2014, per la prima volta la Scuola Superiore della Magistratura (SSM), valutando l’importanza della preparazione pre-concorsuale e le influenze del sistema di vigente sul periodo di formazione iniziale dei vincitori del concorso, ha promosso una riflessione sul sistema di accesso alla magistratura, coinvolgendo i direttori delle SPL, magistrati componenti dei relativi direttivi, formatori privati e, soprattutto, neo-magistrati e aspiranti magistrati. E’ stato analizzato anche il sistema di reclutamento, comparandolo con quello di altri ordinamenti europei, nonché l’impiego negli uffici giudiziari dei tirocinanti previsti dal decreto legislativo n. 69/2013 (convertito nella legge n. 98/2013) e le successive modifiche.

    3. Attualmente si scaricano sul concorso per la magistratura ordinaria (sia per l’eccessivo numero di laureati in giurisprudenza, sia per la scarsità di altri concorsi nella P.A., sia per le nebulose prospettive della professione di avvocato) le aspettative di migliaia di laureati in giurisprudenza privi di concrete possibilità occupazionali. In realtà, le SPL sono frequentate perché è necessario per accedere al concorso, ma risulta che in realtà il 70/% circa dei vincitori del concorso si è preparato alla prova tramite una scuola privata. Però le scuole private se possono risultare efficaci nel preparare a superare il concorso, non servono a formare un buon magistrato. I formativi tirocini presso gli uffici giudiziari, se ben svolti (e non si può sapere se e come e dove questo avviene), possono fornire una buona preparazione iniziale al futuro magistrato ma non preparano per le prove d’esame del concorso per la magistratura. La SSM interviene, in ogni caso, dopo l’ingresso in magistratura.

    4. Inoltre, negli ultimi anni, verosimilmente per ridurre il numero di quelli che consegnano le prove, la scelta dei temi delle prove privilegia spesso questioni periferiche rispetto ai nuclei fondamentali della preparazione del giurista forense. Questo aumenta il rischio di scartare candidati dalla preparazione solida, ma spiazzati da un tema anomalo, e di favorire coloro che, in qualche modo, si sono trovati nella condizione di affrontare il tema anomalo, producendo una selezione deviante, ingiusta verso gli individui coinvolti e socialmente disfunzionale.

    In generale - sia per la maggior durata del corso universitario, sia per la dilatazione temporale derivante dall’interpolarsi delle SPL nel sistema di accesso al concorso, sia per la reiterazione dei tentativi di superare la prova, avviene che - il concorso viene superato in un’età sensibilmente superiore a quella dei decenni scorsi (e pertanto per un numero di anni minore rispetto al passato sarà offerto alla società il frutto della preparazione acquisita) e una massa di laureati impiega anni, denaro e energie per approdare a un fallimento. E’ chiaro che questi meccanismi privilegiano chi beneficia di migliori condizioni economiche e di maggiori risorse temporali, magari accedendo alla magistratura dopo anni nei quali non svolto attività lavorativa, Ancora: gli anni, i denari e le energie trascorse per superare una selezione così congegnata non affinano sensibilmente la preparazione giuridica ma soltanto le tecniche e le nozioni utili per superare il concorso, diverse da quelle più specificamente utili per esercitare adeguatamente la giurisdizione.

    4. Questo sistema irrazionale va cambiato perché influisce negativamente sulla qualità dei magistrati e della Giustizia. I magistrati hanno interesse a preoccuparsene e l’ANM ha il dovere di occuparsene.

    Varie idee potrebbero svilupparsi al riguardo, ma sembra utile fissare (qui apoditticamente e in modo piuttosto succinto) alcuni punti, tenendo conto di quanto è ragionevole e concretamente fattibile modificare senza distruggere, anzi rivitalizzando le istituzioni già esistenti (SSPL e SSM).

    In primo luogo, i piani di studio universitari devono delineare, nel secondo biennio, un percorso di formazione verso le professioni forensi distinto da altri percorsi, dando adeguato spazio a materie che dovrebbero costituire, anche più che nel passato, le basi metodologiche delle professioni forensi: l’ermeneutica giudiziaria, la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria, lo studio del diritto comparato entro i confini dell’Unione Europea. Occorre insegnare a padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative imperniate sulla normazione ‘per principi’ oltre che ‘ per regole’ e del diritto giurisprudenziale.

    La successiva formazione dei magistrati e degli avvocati va mantenuta comune all’interno delle SSP per poi diversificarsi attraverso distinti meccanismi di selezione che conducano i primi alla SSM e i secondi all’accesso alla Avvocatura. Quel che pare fondamentale è che si appronti un meccanismo di selezione dei magistrati non più imperniato sulla sfida/scommessa del concorso basato sulle prove attuali, ma che si sviluppi gradualmente lungo un percorso teorico-pratico pluriennale diretto verso la Scuola Superiore della Magistratura con l’apporto dell’Ordine Giudiziario, di quello Forense e dell’Università. Occorre un meccanismo di selezione graduale che - senza traumatismi - scarti gli inidonei e - nel tempo - selezioni i più adeguati, facendo così lievitare la cultura giudiziaria, e che potrebbe incentrarsi sui punti che seguono: una percentuale dei posti andrebbe riservata a quanti (da non pochi anni) e con collaudata esperienza (da valorizzare stabilizzandone il ruolo) svolgono concretamente attività giudiziaria come magistrati onorari (g.o.t e v.p.o.); l’accesso alle SPL dovrebbe avvenire mediante selezioni su base nazionale che assegnino, poi, a ogni singola SPL un numero di corsisti sostenibile che segua un percorso di formazione delineato secondo le direttive della SSM; l’accesso alla SSM dovrebbe avvenire mediante una ulteriore selezione nazionale dotando i corsisti di borse di studio o di analoghi meccanismi retributivi (come nella fase inziale della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione) e munendo coloro che non superano il concorso finale di un titolo spendibile per i concorsi pubblici o per l’attività lavorativa privata.

    Angelo Costanzo

    1 S.Patti, Metodo e tendenze del diritto civile in Europa, in: Europa e diritto privato, fasc.3, 2011, p.647; N.Irti, La formazione del giurista, in: Rivista giuridica degli studenti dell’Università di Macerata, 2010), pp. 29-3. Sul tema i vari contributi raccolti in: C.Angelici (a cura di) La formazione del giurista: atti del Convegno, Roma, 2/7/2004. Milano, Giuffrè, 2005; La formazione del giurista nel 21° secolo: seminari dell'Istituto di esercitazioni giuridiche, a cura di Paola Olivelli, Macerata: EUM, 2009. Per una visione anche comparatistica del sistema italiano: M.A. Livingston, P.G.Montaneri, F.Parisi, The Italian Legal System. An Introduction, Second Edition, Stanford University Press, 2015

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