GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    “A Trento per amore ma con Palermo nel cuore” di Alessandro Clemente

    “A Trento per amore ma con Palermo nel cuore” di Alessandro Clemente

    La prima cosa a cui ho pensato è stata il titolo.

    Era il 23 settembre 2015 e prendevo servizio alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Trento, come sostituto, su mia domanda di trasferimento determinata da esigenze familiari.

    Solo pochi giorni prima, l’ultimo bagno nel mare di Balestrate, col carissimo Gaspare, amico e collega alla Procura di Palermo. Mia prima sede di servizio, voluta con orgoglio e determinazione, dalla quale si può dire che non sia mai andato via.

    In quelle acque limpide, quel giorno, avvertivo con struggimento il peso dell’imminente distacco, che poche ore dopo sfociava in un pianto senza sosta, a poppa di quella nave ormai familiare come casa mia, dalla quale vedevo l’isola allontanarsi e sulla quale lasciavo amici che piangevano con me e che, ancora oggi, mi accolgono con gioia quando mi diventa intollerabile il mancarsi.

    Di lì a poco, seduto accanto al finestrino mi facevo scorrere l’Italia davanti agli occhi, fino a quando il treno iniziò a lambire le foglie precocemente ingiallite dei vigneti di Trento, dove l’estate finisce sempre troppo presto.

    Era, a suo modo, un ritorno, seppure in una nuova veste umana e professionale. Già, perché nel frattempo era spuntata fuori una famiglia con due bambini, e quel funzionario dell’Agenzia delle Entrate – il concorso da sfigati, ricordate? – era diventato magistrato e aveva salutato Trento: destinazione Palermo, appunto.

    Anche nel mio addio ai monti avevo riversato la mia buona dose di lacrime. Certo, è meno dolente il distacco quando non ti porti dietro un bagaglio pieno di rimpianti, ma questo ancora non lo sapevo. O meglio, facevo affidamento sul mio senso di responsabilità, che fino ad allora non mi aveva mai tradito. Il fatto è che nel frattempo avevo letto Julian Barnes – “chiamiamo senso di responsabilità nient’altro che la nostra vigliaccheria” – e il suo avvertimento mi risuonava nelle orecchie.

    Ma insomma. La vita mi aveva fatto decidere di tornare a Trento, e qui avrei continuato nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sebbene in un’altra veste e in una nuova dimensione umana e territoriale.

    P.M. minorile: e dire che durante il tirocinio manco c’ero stato, alla Procura dei minori! E quando si trattò di scegliere la sede, con malcelato pregiudizio avevo snobbato tutti gli uffici, giudicanti e requirenti, che avessero dentro quella parola. Non per una visione retrograda e maschilista, intendiamoci, quanto perché volevo cimentarmi in una funzione e in una realtà in cui la repressione di alcuni fenomeni criminali – i reati economici; l’evasione fiscale; la corruzione; il malaffare in tutte le sue forme; il soggiogamento indotto da iniquità economiche e sociali, il “compromesso morale” – potesse farmi sentire utile nel contribuire a rendere questo mondo, per dirla con Eduardo, “meno rotondo, ma un poco più quadrato”.

    Avendo deciso che la sede del mio nuovo ufficio sarebbe comunque stata Trento, dovetti accontentarmi dell’unico posto disponibile tra gli uffici requirenti del distretto. Sinceramente, all’epoca avrei preferito mantenere le funzioni di p.m. ordinario, e continuare ad occuparmi prettamente di affari penali, sebbene non disdegnassi puntate negli affari civili, in ossequio alle attribuzioni, troppo spesso mortificate, che anche in quell’ambito l’ordinamento riserva al pubblico ministero.

    Iniziai dunque, sul campo, un percorso di formazione all’interno di un ufficio di piccolissime dimensioni: due soli magistrati, me compreso. Mi sentivo come Gulliver in balìa dei lillipuziani, io che ero cresciuto in una Procura con cinquanta e passa sostituti. Fortunatamente, i virgulti della gioventù trentina non mi parevano così animati da tentazioni di devianza criminale, e il settore penale pertanto non mi spaventava. Si trattava soltanto di prendere confidenza con quei tre o quattro istituti del rito minorile che, nel tempo, ho imparato a maneggiare. Ancora fino a poco tempo fa – in pratica, fino al 1 gennaio 2019, quando sono rimasto l’unico magistrato in servizio perché l’allora Procuratore aveva deciso di andare anzitempo a riposo – ho provato più volte l’eccitante sensazione di avere la scrivania sgombra dai fascicoli. Penali, s’intende.

    E già, perché appena misi piede nel nuovo ufficio mi resi conto che la gran mole di lavoro del p.m. minorile era costituita dai procedimenti del settore degli “Affari Civili”. In pratica, tutto quel variegato mondo fatto di interventi socio-assistenziali che, sovente grazie all’intervento dell’Autorità Giudiziaria, si attivano nel superiore interesse del minore.

    Dovevo in poco tempo familiarizzare con istituti e prassi che poco o per nulla conoscevo, quali il mandato di indagine psicosociale, la “presa in carico” del minore, il collocamento in comunità di accoglienza, e poi ovviamente l’adozione, l’affidamento eterofamiliare, la limitazione e la decadenza dalla responsabilità genitoriale.

    Una nemesi storica, perché a suo tempo, su iniziativa di Dino Petralia – allora, mio Procuratore Aggiunto a Palermo e mio maestro – avevo affrontato la tematica del riparto di competenza tra p.m. ordinario e p.m. minorile in ordine all’interpretazione del nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione al codice civile, tentando vanamente di addossare sul p.m. minorile quante più competenze si potesse. Ed ecco che, di lì a pochi anni, mi ritrovavo dall’altra parte, a destreggiarmi in un settore a me sconosciuto e che ancora oggi, dopo oltre quattro anni, mi riserva sorprese.

    In più, soffrivo con malcelata inquietudine la penuria di riferimenti normativi, proprio io che quando ero di turno dormivo col codice sul comodino… Spaesato in questa selva oscura, cercai di affidarmi al più presto ad un Virgilio che, con la sua esperienza e competenza, mi rendesse meno impervio l’ingresso nel misterioso mondo degli affari civili. Per fortuna, la competenza e la dedizione delle persone con cui ho lavorato fin dai primi giorni, hanno contribuito a rendere il mio lavoro meno affannoso fino al punto da riuscire a trattarlo con una discreta padronanza.

    Ho dovuto riadattarmi radicalmente, passando dalle aspirazioni per un posto in D.D.A. alle audizioni di adolescenti ribelli; dall’esame di collaboratori di giustizia agli incontri “di rete” con assistenti sociali, psicologi, educatori; dagli interrogatori all’Ucciardone alle visite ispettive nelle strutture di accoglienza per l’infanzia.

    Più volte, non lo nego, ho messo in discussione il senso della funzione giudiziaria – requirente e giudicante – in ambito minorile, e ancora oggi devo ammettere che ho più di un dubbio sull’utilità di questa persistente diversità. Ciononostante, ho sempre cercato di esercitare le mie funzioni con inalterato spirito di servizio e con la massima serietà, forse ancor più rigorosamente perché percepivo di muovermi in un sistema per il quale non manifestavo spiccate attitudini.

    Nell’ultimo anno, e ancora in questo scorcio di 2020, ho esercitato le funzioni di Procuratore reggente, nell’attesa della nuova nomina da parte del C.S.M. e dell’ormai imminente arrivo del nuovo capo. Ho avuto modo di fronteggiare le tante e spesso spinose grane che connotano il lavoro quotidiano di un direttivo, con l’evidente surplus di carico di lavoro in assenza di applicazioni da altri uffici che, pur gentilmente offertemi dalla Procura generale, ho inteso rifiutare perché convinto di riuscire da solo e stimolato da questa nuova sfida con me stesso. In realtà, da solo non mi sono mai sentito perché il personale, di polizia giudiziaria e amministrativo, ha contribuito a rendere meno gravoso il carico di lavoro.

    Ho affrontato l’esperienza dell’ispezione ministeriale, arricchente ma senza dubbio portatrice di un carico emotivo non indifferente, che ho condiviso con tutto il personale dell’ufficio e che ha sortito effetti positivi contribuendo a migliorare il lavoro di tutti. L’occasione mi ha permesso di considerare con sincero apprezzamento il ruolo del magistrato ispettore, ingrato e scomodo per molti aspetti, ma che probabilmente ciascuno di noi, quale che sia la funzione esercitata, dovrebbe prima o poi esercitare per acquisire consapevolezza piena di ciò che rappresenta il lavoro del magistrato, dagli uffici più piccoli e remoti a quelli di grandi dimensioni.

    Di certo non posso negare che il già lacerante strappo dall’ambiente professionale e umano della Procura di Palermo sia stato acuito dall’assenza, qui a Trento, di un collega “della porta accanto”, col quale poter interloquire e a cui chiedere consigli, prassi operative, o anche per un semplice scambio di vedute. Quante volte mi sono sentito come il Tenente Drogo del “Deserto dei tartari”, rinchiuso nella sua fortezza nella vana attesa del suo giorno di gloria!

    Ho allora deciso – o forse me ne sono accorto solo strada facendo – di cambiare pelle, fin dove la mia formazione intellettuale e il mio temperamento mi consentissero. Mi sono scoperto un abile interlocutore con i vari enti, pubblici e privati, che gravitano nel mondo della giustizia minorile; ho intrapreso una florida attività di relatore a convegni, seminari e corsi di formazione per le più disparate categorie professionali: sanitarie, scolastiche, psicopedagogiche; ho fornito pareri a disegni di legge provinciale in materia di giustizia minorile.

    Resta, dunque, da chiedersi cosa ne è dell’imperativo iniziale, che forse con estrema severità mi sono imposto all’inizio di questa mia esperienza a Trento: sono riuscito a dimenticare Palermo?

    In verità no. E non sarebbe neanche stato giusto: avrei fatto un torto a me stesso e alle tante persone care con cui ho condiviso affetti, gioie, esperienze, dolori privati e l’abbagliante luce di un cielo unico al mondo. Ma è innegabile che, oggi, quello stesso magistrato sia una persona più matura e consapevole del proprio ruolo e della delicata funzione che esercita, e che non ha più paura di quella sottile inquietudine che, per dirla col linguaggio del cinema, “ci fa stare bene solo in mare, in viaggio tra un’isola e l’altra”.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

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