Il “caso Cappato” e le pratiche di suicidio assistito: tra libertà di autodeterminazione e tutela della vita
Le questioni di fine vita, specie grazie al caso che ha visto protagonista Marco Cappato a seguito della morte di Fabiano Antoniani, sono ritornate prepotentemente sotto i riflettori del dibattito giuridico e politico, amplificando l’eco, già particolarmente significativa, della legge n. 219 del 2017.
Il fatto che il quadro normativo attuale risulti almeno parzialmente contraddittorio, come efficacemente evidenziato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018, è un dato che parrebbe imporsi con una tale autoevidenza da non lasciare spazio a considerazioni ulteriori, almeno per ciò che attiene alle premesse da cui muovere per un superamento di quelle aporie. La c.d. eutanasia, però, non solo appassiona i giuristi, ma, soprattutto, li divide. Risulta indubbiamente difficile stabilire da che parte possa stare la Giustizia, ma resta possibile, forse, provare a chiarire da che parte debba stare il Diritto.
Sommario: 1. Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare. – 2. L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale. – 3. Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale. – 3.1. b) l’intervento del legislatore. – 3.2. c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”.
1.Che i riflettori restino accesi, anche quando rischiano di accecare
Le questioni di fine vita sembrano destinate a salire sul palcoscenico del dibattito politico e giuridico solo in rare occasioni, le quali però, in ragione della potenza narrativa delle storie che raccontano, catalizzano l’attenzione dello spettatore in maniera pressoché inevitabile: commuovono, indignano, disorientano e, soprattutto, dividono.
Inutile precisare che le vicende umane e giudiziarie, classificate, secondo le cadenze dell’algido vocabolario di cui i giuristi sono avvezzi a nutrirsi, come i “casi” di Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani, Eluana Englaro, Walter Piludu, Giovanni Nuvoli, Oriana Cazzanello (si è portati, curiosamente, a indicare i casi in questione non con il nome degli imputati ma con quello delle “vittime”), rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno eterogeneo e complesso.
Al contenzioso quantitativamente poco significativo generato dalle “pratiche “eutanasiche, del resto, fa da contraltare la sconcertante ordinarietà con cui le questioni di fine vita si (im)pongono nelle corsie d’ospedale, nel silenzio delle case che ospitano e qualche volta nascondono i pazienti e le loro famiglie, in certe strutture di ricovero per malati terminali che rischiano di somigliare più a un lazzaretto disperato e disperante che a un protettivo rifugio in cui, ostinatamente, si “scelga” di continuare a “vivere”. Il sistema sanitario nazionale, inutile negarlo, non sempre risponde in maniera adeguata alla supplicante richiesta di chi le cure non intende rifiutarle ma ottenerle, pur a fronte di sofferenze atroci che consumano il corpo e lo spirito. Se la questione fosse osservata attraverso una lente un po’ meno appannata da riflessi filosofico-giuridici, susciterebbero forse un sorriso amaro le raffinate e appassionate discussioni attorno a un preteso paternalismo, non importa se hard o soft, praticato da uno Stato al quale sta a cuore che il singolo “per il suo bene, non si faccia del male”, ma i cui cittadini, che magari di Feinberg o Dworkin sanno poco o nulla, hanno spesso l’impressione che la tutela della propria salute assuma la consistenza di un mero “diritto di carta”, almeno per chi non disponga di risorse economiche che consentano di aggirare le liste di attesa, di accedere alle strutture più all’avanguardia, di ottenere un’assistenza dignitosa in presenza di malattie che mettono a dura prova anche la dignità più volenterosa[1].
Ben venga, allora, da qualunque precomprensione ideologica si muova, un dibattito partecipato sui temi compendiati sotto la discussa etichetta della “eutanasia”. Ben venga, allora, il coraggio di chi ritiene che la sofferenza di una scelta in apparenza “controintuitiva”, come quella di darsi o farsi dare la morte, non sia solo un fatto privato, ma una questione pubblica. Ben venga, allora, il tentativo di comprendere non solo (e non tanto) da che parte possa stare la Giustizia, ma (almeno) da che parte debba stare il Diritto.
Il caso che ha visto protagonisti Fabiano Antoniani e Marco Cappato ha riacceso in maniera prepotente, quasi accecante, i riflettori sulle questioni di fine vita. Meno nota, almeno mediaticamente, è la vicenda di Davide Trentini, per il cui suicidio assistito in Svizzera sono attualmente imputati lo stesso Marco Cappato e Mina Welby: il copione, sia pur con le inevitabili peculiarità che caratterizzano ogni singola vicenda, continua dunque a ripetersi. In occasione del caso di Marco Cappato e di Dj Fabo, tuttavia, è salita sul palco anche la Corte costituzionale: l’ordinanza n. 207 del 2018 non ha pronunciato l’ultima battuta, ma ha indubbiamente introdotto un colpo di scena che, allo stato, lascia aperto più di un possibile finale.
2.L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale
La Corte d’assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018[2], ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 580 c.p. sotto un duplice profilo. Anzitutto, si è ravvisato un aspetto incostituzionalità nel fatto che l’art. 580 c.p. attribuisca rilevanza penale anche a forme di aiuto meramente materiale al suicidio, le quali quindi, rivolgendosi a un soggetto volontariamente e liberamente determinatosi a porre fine alla propria vita, non abbiano inciso in alcun modo sul suo proposito[3]. In via subordinata (come chiarito dalla Corte costituzionale[4]), si lamentava una sproporzione del trattamento sanzionatorio, visto che l’art. 580 c.p. prevede la stessa (severa) pena tanto per l’aiuto morale quanto per quello materiale.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018, come ampiamente noto, la Corte costituzionale ha optato per una soluzione prima facie insolita, almeno sul piano strettamente procedurale: pur ravvisando alcune criticità nell’attuale disciplina dell’aiuto al suicidio e pur ritenendo che lo strumento più adatto ad emendarle sia la penna del legislatore, il Giudice delle Leggi ha preferito non ricorrere al consueto e collaudato strumento della sentenza monito, ma, «facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha disposto il rinvio del giudizio al 24 settembre 2019. L’obiettivo dichiarato è quello di consentire un intervento del legislatore che adegui la risposta dell’ordinamento e rimedi alla “disparità di trattamento” che si determinerebbe nei confronti di soggetti in condizioni analoghe a quelle di Fabiano Antoniani.
L’impianto motivazionale dell’ordinanza n. 207 del 2018 può essere idealmente scomposto in due parti, dalla cui lettura congiunta si ricava un tentativo di delimitazione del “campo di indagine” che, a sua volta, sembra rispondere a una doppia finalità. Da una parte, si edificano degli argini robusti, per impedire che il piano su cui è adagiato (in equilibrio precario) l’aiuto al suicidio si inclini troppo, fino a trasformarsi nel famigerato e temibile pendio scivoloso e ingovernabile; dall’altra parte, la Corte si è assunta la responsabilità di non abbassare gli occhi[5], mettendo in evidenza le più plateali incongruenze che emergono dall’attuale quadro normativo.
Quanto al primo aspetto, la Corte afferma, in maniera apparentemente perentoria, che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione»[6]. La scelta, dunque, è quella di “salvare” l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, generalmente e genericamente inteso, e senza che a venire in considerazione siano le specifiche questioni poste dai soggetti affetti da malattie irreversibili. Tralasciando il dettaglio delle singole argomentazioni addotte sul versante tanto dell’art. 2 Cost. quanto degli artt. 2 e 8 CEDU, pare interessante sottolineare il mancato accoglimento del cambio di paradigma relativo al bene giuridico tutelato, pure proposto con forza dal giudice a quo: secondo la tesi di quest’ultimo, in effetti, il bene giuridico sotteso all’art. 580 c.p. andrebbe individuato non più nella vita, come nelle logiche stataliste e statolatriche del codice Rocco, ma nella libertà di autodeterminazione del singolo, con la conseguente necessità di non considerare penalmente rilevanti condotte di aiuto rivolte a un soggetto liberamente e autonomamente determinatosi al suicidio. La Corte costituzionale, viceversa, continua ad assumere quale punto di riferimento l’esigenza di tutelare il bene della vita[7], enfatizzando la condizione di particolare vulnerabilità in cui versano (rectius, potrebbero versare) i soggetti che si orientano a favore di una scelta estrema e irreparabile: spesso, infatti, si tratta di persone «malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine»[8].
La prospettiva in questione risulta indubbiamente significativa, se non altro perché da uno spostamento del fuoco di tutela dalla vita alla libertà individuale sarebbero potute derivare conseguenze di rilievo anche in riferimento alla tenuta della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), in cui, per definizione, il soggetto passivo presta un consenso libero e consapevole[9].
Nella seconda parte dell’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ha cura di sottolineare la peculiarità di quelle ipotesi, assimilabili al caso di Fabiano Antoniani, «in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Al verificarsi di queste condizioni, osserva la Consulta, l’assistenza da parte di terzi potrebbe rappresentare «l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.»[10].
La legge n. 219 del 2017, stabilizzando e precisando gli esiti giurisprudenziali che hanno definito tanto il caso di Piergiorgio Welby quanto quello di Eluana Englaro, ha esplicitamente riconosciuto a ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche se necessario alla propria sopravvivenza. Il punto è che Fabiano Antoniani, pur bisognoso del respiratore artificiale, non ne era completamente dipendente, con la conseguenza per cui il distacco dello stesso avrebbe comportato la morte del paziente solo dopo alcuni giorni: proprio per questa ragione Dj Fabo aveva infine optato per una pratica di suicidio assistito in Svizzera. Trattando questa fattispecie concreta in maniera differente da quella, per intendersi, riassunta dal caso Welby, si verrebbe a determinare una vera e propria disparità tra il soggetto per cui l’unica via praticabile sia quella dell’interruzione “tout court” di un trattamento in atto e il soggetto per il quale questa via, pur materialmente percorribile, cagionerebbe sofferenze chiaramente più atroci di quelle che conseguirebbero all’intervento di un soggetto terzo che lo “aiuti a morire”.
A nulla varrebbe opporre, in questo caso, l’argomento della particolare vulnerabilità di soggetti che si trovino in una condizione come quella di Fabiano Antoniani, poiché «se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione»[11]. Se, altrimenti detto, il consenso informato “funziona” nelle situazioni prese in considerazione dalla legge n. 219 del 2017, dovrebbe poter operare anche in vicende che differiscono da quelle disciplinate dal legislatore solo per un contingente profilo di carattere naturalistico-causale.
Come già precisato, tuttavia, la Corte ritiene che una pronuncia di accoglimento della questione, pur significativamente “ritagliata” rispetto a quella sollevata dai giudici milanesi, lascerebbe aperti profili di criticità evitabili solo con un intervento del Parlamento, il quale, sempre ad avviso della Consulta, potrebbe concretizzarsi in una modifica della legge n. 219 del 2017. Tra le preoccupazioni più significative che emergono dall’ordinanza n. 207 del 2018 si segnalano: a) il rischio che «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – possa lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino»; b) le lacune che verrebbero a determinarsi in riferimento alle «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura»; c) il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010[12].
Per queste ragioni, ricalcando le orme della Corte Suprema canadese e della Corte Suprema inglese, la Corte “mette in mora” il legislatore, nella speranza che il dialogo con il Parlamento, sia pur forzosamente avviato, si traduca nel superamento di una disciplina (quanto meno) anacronistica e (certamente) inadeguata.
3.Soluzioni ipotizzabili: a) l’intervento della Corte costituzionale
Anche muovendo da una delimitazione della questione di legittimità costituzionale rispetto alla fisionomia che la stessa assumeva nell’ordinanza di rimessione, restava pur sempre ipotizzabile un intervento “immediato” della Corte, attraverso una sentenza interpretativa. Lo sviluppo logico-argomentativo seguito dal Giudice delle Leggi, per esempio, avrebbe potuto condurre a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui rende penalmente rilevante l’aiuto meramente materiale fornito a chi, ancora capace di autodeterminarsi, versi in una condizione che gli consentirebbe di richiedere l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua, alle condizioni previste dalla legge n. 219 del 2017.
Non è impresa agevole quella di ipotizzare lo scenario che potrebbe determinarsi qualora il legislatore resti inerte o intervenga in maniera inadeguata. L’ordinanza in questione è stata etichettata fin da subito come una “pronuncia a incostituzionalità differita”: si è affermato, in proposito, che il 24 settembre 2019 la Corte non potrebbe certo tornare sui propri passi, convertendo il sostanziale accoglimento di oggi in un futuro rigetto[13]. La lettura della motivazione non lascerebbe dubbi sul fatto che la disposizione impugnata sia ritenuta illegittima, sebbene a seguito di una drastica delimitazione della questione rispetto a quella sollevata dalla Corte di appello di Milano[14]. La scelta di non dichiarare l’incostituzionalità non obbliga certo la Corte a pronunciarla il prossimo settembre, ma un esito che, qualora la situazione restasse invariata, fosse diverso dalla dichiarazione di parziale illegittimità «infliggerebbe al prestigio della Corte un colpo esiziale»[15].
Le conclusioni dell’ordinanza n. 207 del 2018, in effetti, non sembrerebbero ammettere ripensamenti: «laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale».
Anziché avventurarsi in temerari propositi, sembra però più saggia la via della prudente (e fiduciosa) attesa.
3.1 b) l’intervento del legislatore
La via più agevole per il legislatore che intendesse raccogliere il “monito rafforzato” della Corte costituzionale sarebbe forse quella di intervenire non tanto sulla formulazione dell’art. 580 c.p., quanto piuttosto sull’impianto della legge n. 219 del 2017. Se il Parlamento si limitasse a recepire le indicazioni “minime” suggerite dalla Corte, si tratterebbe di “estendere” la disciplina attuale a coloro che, pur tenuti in vita attraverso tecniche di sostegno artificiale, non ne siano del tutto dipendenti. Questi soggetti, e solo loro, dovrebbero poter optare per tecniche di suicidio assistito, previa acquisizione del consenso nelle forme già previste dalla legge. Resterebbe pur sempre aperta la questione relativa ai soggetti “non punibili”, rendendosi necessario chiarire, in particolare, se si tratti solo dei medici o paramedici, o anche di soggetti “non qualificati”.
Qualora, invece, il legislatore intendesse “andare oltre” le indicazioni offerte dal Giudice delle Leggi, si tratterebbe di introdurre una disciplina organica in materia di suicidio assistito, il cui vero punctum pruriens sarebbe la previsione normativa di meccanismi e procedure capaci di assicurare un effettivo accertamento della “reale volontà” del paziente[16].
Resta infine la possibilità di intervenire direttamente sugli articoli 579 e 580 c.p., ritagliando uno spazio di irrilevanza penale alle pratiche di eutanasia che, vista la presenza nell’ordinamento della legge n. 219 del 2017, con quest’ultima dovrebbe necessariamente coordinarsi.
La strada intrapresa dal Legislatore è proprio quella di limitare l’ambito applicativo delle fattispecie previste dal codice penale, sia pur attraverso un intervento extra codicem: il riferimento, in particolare, è alla proposta di legge di iniziativa popolare presentata il 13 settembre 2013 (XVII legislatura, AC n. 1582), assegnata il 26 giugno 2018 alla Commissioni Giustizia e Affari sociali. Le disposizioni più significative sono quelle contenute nell’art. 3 della proposta di legge, il quale prevede che le disposizioni di cui agli articoli 575, 579, 580 e 593 c.p. non si applicano al medico e al personale paramedico che hanno praticato trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente, al ricorrere di una serie di condizioni. La richiesta deve infatti provenire da un paziente maggiorenne e non in stato di incapacità di intendere e di volere, salvo quanto previsto dal successivo art. 4; il paziente deve essere stato adeguatamente informato sulle possibili alternative terapeutiche; devono essere altresì informati i parenti entro il secondo grado e il coniuge i quali, previo consenso del paziente, devono essere messi nella condizione di colloquiare con lo stesso; la richiesta – si tratta della condizione indubbiamente centrale – deve essere motivata dal fatto che il paziente sia affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi; il trattamento eutanasico deve rispettare la dignità del paziente e non arrecare allo stesso sofferenze fisiche.
Il successivo art. 4 prevede la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento a pratiche di eutanasia, qualora il paziente dovesse trovarsi nelle condizioni descritte in precedenza (malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi) e sia incapace di intendere o di volere ovvero di manifestare la propria volontà, nominando al tempo stesso un fiduciario che, al ricorrere delle condizioni, confermi la richiesta.
Quanto all’estensione della clausola di “irrilevanza penale”, che si traduce in definitiva in una delimitazione della tipicità delle singole fattispecie (lo schema sistematico di riferimento potrebbe essere quello dei limiti della norma penale), qualche precisazione si rende necessaria per la menzione tanto dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) quanto dell’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Nella proposta attualmente in discussione il trattamento eutanasico non è oggetto di apposita definizione, mentre in altri disegni di legge si chiarisce che lo stesso si intende limitato alla somministrazione, da parte del personale medico, di farmaci aventi lo scopo di provocare, con il consenso del paziente, la sua morte immediata e indolore[17]. Un eventuale silenzio del legislatore, potrebbe giustificarsi con l’esigenza di rinviare alla competenza del singolo medico chiamato ad effettuare il trattamento, che, di volta in volta, avrebbe il compito individuare il “mezzo tecnico” più adeguato alle condizioni del singolo paziente. Si tratta però di una scelta che potrebbe comportare qualche difficoltà di coordinamento sistematico, anche in ragione della formulazione dell’art. 3, che fa riferimento, come anticipato, ai soggetti che «praticano trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente». Anzitutto l’impiego del verbo “generico” provocare, in luogo del più “tecnico” cagionare, potrebbe teoricamente riferirsi non solo a condotte attive, ma anche a condotte omissive. In secondo luogo, la menzione congiunta degli articoli 579 e 580 c.p. farebbe ritenere che la nuova disciplina potrebbe trovare applicazione tanto in casi come quelli di Dj Fabo (art. 580 c.p.), quanto nelle ipotesi di somministrazione di un farmaco letale (art. 579 c.p.). La lettera della legge, però, ben potrebbe risultare compatibile anche con ipotesi di interruzione di un trattamento in corso, come avvenuto, per intendersi, nel caso di Piergiorgio Welby: considerando che la legge n. 219 del 2017 fa già riferimento al medico che non esegua un trattamento o ne interrompa uno già esistente, sarebbe auspicabile un coordinamento tra i due corpi normativi.
La proposta di legge esclude anche l’applicazione dell’art. 575 c.p.: questa precisazione parrebbe motivata dall’esigenza di evitare che dalla non applicabilità degli artt. 579 e 578 c.p. possa derivare una “riespansione” dell’art. 575 c.p., che risulterebbe in effetti applicabile, sia pur in ipotesi limitate, anche in presenza del consenso della vittima. Considerazioni in parte analoghe potrebbero valere sul piano dell’omissione di soccorso, anche se in questo caso il riferimento all’art. 593 c.p. risulta indubbiamente “più forzato”.
Una questione estremamente problematica è quella che attiene al novero dei soggetti attivi presi in considerazione dalla proposta di legge. L’art. 3 fa infatti riferimento ai soli medici e al personale sanitario che pratichino trattamenti di eutanasia, provocando la morte del paziente. In altre proposte di legge (più recenti) si prendono invece in considerazione, oltre ai sanitari, anche “tutti coloro che agevolino o aiutino il paziente nell’accesso al trattamento eutanasico”[18]. In assenza di quest’ultima precisazione, in effetti, resterebbe applicabile la sanzione penale a casi assimilabili a quello di Marco Cappato e riconducibili, più in generale, all’aiuto meramente materiale (non si fa riferimento anche alle forme di aiuto morale) prestato da soggetti “non qualificati”, a partire da coloro che compongono la cerchia di amici e familiari del paziente. Si tratterebbe di una conseguenza per certi aspetti paradossale, visto che nel momento in cui si rende lecita la pratica eutanasica, per definizione rivolta a soggetti che il più delle volte non risultano del tutto autosufficienti, risulterebbe irragionevole perseverare nell’applicazione della sanzione penale a fronte di condotte “materialmente prodromiche” alla pratica stessa. Il problema, semmai, sarebbe quello di delimitare con sufficiente precisione l’ambito applicativo delle condotte in questione. Se, per esempio, si estendesse l’irrilevanza penale alle condotte prodromiche “all’accesso al trattamento eutanasico”, ferma restando la necessità di chiarire a che cosa il concetto di “trattamento eutanasico” faccia riferimento, potrebbe ritenersi che nelle condotte di “aiuto all’accesso” rientrino anche quelle di chi reperisca informazioni utili sulla procedura da seguire o, ancora, accompagni materialmente il paziente nel luogo prescelto per il trattamento.
Sul piano della definizione dello stato patologico in presenza del quale è possibile richiedere l’accesso all’eutanasia, deve trattarsi di una malattia che provoca gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi. Sembrerebbe che i requisiti in questione non debbano sussistere congiuntamente, come suggerito dall’impiego della disgiuntiva “o”, anche se non è chiaro se la stessa si riferisca solo ai rapporti tra inguaribilità e prognosi infausta: non è chiaro, altrimenti detto, se la malattia debba essere inguaribile o con prognosi infausta, ma comunque grave, oppure se il requisito della gravità possa operare anche da solo. Il concetto di gravità, ad ogni modo, individua un parametro indubbiamente elastico ma, almeno, non rinvia alla mera percezione soggettiva del paziente (in altri disegni di leggi si parla di “sofferenze insostenibili”[19]).
Nella proposta di legge, pare opportuno ribadirlo, si prevede anche la possibilità di rendere dichiarazioni anticipate di trattamento in riferimento all’eutanasia, sia pur alle rigide condizioni individuate dalla legge stessa. In questo modo il requisito dell’attualità risulta “dilatato”, recuperandosi però un pieno parallelismo rispetto alla legge n. 219 del 2017.
Un’ultima considerazione attiene proprio ai rapporti tra la disciplina attuale e quella che, eventualmente, sarà approvata. La scelta di intervenire con un nuovo testo legislativo, come già precisato, potrebbe comportare dei disallineamenti a livello sistematico. La questione si pone non solo per il coordinamento tra le condotte penalmente irrilevanti, ma anche per i profili relativi alla responsabilità del medico, su un duplice livello: il primo è quello relativo alle conseguenze “sfavorevoli” per il medico che non dia seguito alla richiesta dal paziente; il secondo è quello relativo agli effetti “favorevoli” per il medico che agisca nel rispetto delle condizioni richieste dalla legge.
Quanto al primo aspetto, la legge del 2017 non prevede espressamente conseguenze “sfavorevoli” per il medico “inadempiente”, mentre l’art. 2 della proposta di legge attualmente in discussione alla Camera dei Deputati stabilisce che «il personale medico e sanitario che non rispetta la volontà manifestata dai soggetti e nei modi indicati nell’articolo 1 è tenuto, in aggiunta a ogni altra conseguenza penale o civile ravvisabile nei fatti, al risarcimento del danno, morale e materiale, provocato dal suo comportamento».
Ancora più complessa è la questione relativa alla “non punibilità” del medico. La legge n. 219 del 2017, in effetti, si limita a precisare che il medico «è esente da responsabilità civile o penale». Qualora, come avvenuto per la vicenda giudiziaria successiva alla morte di Piergiorgio Welby, in caso di interruzione di un trattamento già in atto si ragionasse nei termini di una condotta attiva, scriminata ex art. 51 c.p., si determinerebbe una situazione paradossalmente meno favorevole rispetto a quella che, a monte, esclude l’applicabilità degli articoli 579 e 580 c.p. “persino e addirittura” nei casi di trattamenti eutanasici.
Indipendentemente dalla soluzione che si ritenga preferibile, dunque, la scelta di un testo legislativo unitario avrebbe forse evitato eccessive incertezze in sede interpretative, a fronte di una normativa organica e omogenea (almeno) in riferimento alla formula linguistico-terminologica cui si affida la “non punibilità” del medico adempiente.
3.2 c) la valorizzazione di una logica del “caso per caso”
Qualora la situazione legislativa dovesse restare invariata e qualora, per assurdo, la Corte costituzionale decidesse di non dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., resterebbe pur sempre la via “interpretativa”.
Una soluzione praticabile, in effetti, sembra quella fondata sulla valorizzazione della libertà di autodeterminazione del singolo come bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. Muovendo dalla premessa per cui il soggetto che decide di togliersi la vita, a fortiori mediante il contributo di un terzo, versi solitamente in una condizione di particolare vulnerabilità, potrebbe ritenersi che l’art. 580 c.p. configuri un reato di pericolo presunto, posto a tutela della libertà di autodeterminazione del singolo e fondata su una “presunzione ragionevole”, che trovi cioè corrispondenza nelle regole di comune esperienza. È ormai opinione sufficientemente condivisa quella per cui i reati di pericolo presunto possono considerarsi compatibili con il principio di necessaria offensività in materia penale solo in quanto la presunzione di pericolo effettuata in astratto dal legislatore sia “superabile” in concreto da parte del giudice.
La lettura in questione ha un pregio e un difetto, entrambi evidenti.
Il pregio è quello di affidarsi alla (e di confidare nella) logica del “caso per caso” in una materia che, per la delicatezza degli interessi che vengono in considerazione e per la inadeguatezza “culturale” che si registra a più livelli nell’attuale contesto sociale, politico, ma anche giuridico, sembrerebbe mal conciliarsi con una disciplina di carattere generale e astratto.
Il difetto è quello per cui, se davvero si ritesse di assumere come presupposto una sostanziale messa in discussione del dogma dell’indisponibilità della vita umana per approdare alla tutela della (sola) libertà di autodeterminazione, si comprometterebbe non tanto la tenuta dell’art. 580 c.p., ma, come già precisato, quella dell’art. 579 c.p. Si tratterebbe però di conseguenze cui la perdurante vocazione a un paternalismo di facciata, incline più a lasciarsi distrarre dal dito anziché a concentrarsi sulla luna, non sembra per ora disposto a concedere spazi, anche solo ipotetici.
[1] «[…] non c’è nulla da fare: il problema è sempre nello scarto tra l’affermazione formale e l’attuazione dei diritti, scarto che aumenta nelle congiunture di particolare difficoltà economica»: O. Di Giovine, Procreazione assistita, aiuto al suicidio e biodiritto in generale: dagli schemi astratti alle valutazioni in concreto, in Dir. pen. proc., 7/2018, 921.
[2] Sull’iter giudiziario che ha condotto alla Corte costituzionale si rinvia, per tutti, a D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 16 luglio 2018; M. D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737 ss.; R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it, 8 ottobre 2018. Si segnalano, poi, le Note di udienza, relative alla discussione di fronte alla Corte costituzionale, di F. Gallo e V. Manes, consultabili Giurisprudenza penale web, 5 novembre 2018.
[3] Sul punto già L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Giappichelli, 2008, 79.
[4] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 1 del Considerato in diritto.
[5] Come auspicato da V. Manes, Note di udienza, cit., 14. Sottolinea la scelta, da parte della Corte costituzionale, di non occultare il problema, sebbene senza approdare a una sentenza manipolativa, anche S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Riv. biodiritto, 3/2018, 156.
[6] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[7] V. in particolare Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto: «neppure […] è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.».
[8] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 6 del Considerato in diritto.
[9] Per più ampie considerazioni al riguardo sia consentito il rinvio ad A. Massaro, L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita, in Giurisprudenza penale web, 14 ottobre 2018, 6 ss.
[10] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 8 del Considerato in diritto.
[11] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Corte Cost., 24 ottobre 2018, n. 207, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul Caso Cappato), in www.giurcost.org, 2018, III, 574.
[14] M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Quest. giust., 19 novembre 2018, § 1.
[15] Così, ancora, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale, cit., § 3.
[16] Cfr. la proposta di O. Di Giovine, Procreazione assistita, cit., 922.
[17] Il riferimento è al Disegno di legge presentato al Senato il 30 ottobre 2018, AS 912, art. 7, comma 1.
[18] Disegno di legge, AS 912, cit., art. 7, comma 1.
[19] V. ancora Disegno di legge, AS n. 912, cit., art. 7, comma 1, lettera d).