GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La giustizia italiana da Mani pulite ai giorni nostri, vista da Chiara Saraceno

    La giustizia italiana da Mani pulite ai giorni nostri, vista da Chiara Saraceno 

    Giustizia insieme inizia oggi una riflessione sul tema della  giustizia italiana dando la parola a personalità del mondo della cultura italiana, giuridica e non, per scrutarne a fondo i mali e le pubbliche virtù.

    La fonte di innesco di questa riflessione origina dal  saggio proposto da Giovanni Fiandaca - “Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare” presentato al convegno organizzato dall'ANM milanese in occasione del trentennale di Mani pulite ed ospitato da questa Rivista.

    Oggi è la volta di Chiara Saraceno, sociologa, Honorary Fellow, Collegio Carlo Alberto.

    Intervista di Roberto Conti

    1. Professoressa Saraceno, proverò a farle alcune domande partendo dal  saggio proposto da Giovanni Fiandaca  in occasione del trentennale di Mani pulite. Sul tema si susseguono riflessioni e convegni che tentano un bilancio di quella stagione. Cosa fu, per Lei, e come visse Mani pulite?

    Fu innanzitutto un periodo di grande sconcerto per la pervasività della corruzione e per la disponibilità ad essere corrotti. Anche chi riteneva di non essere una ingenua anima candida, l’immagine del funzionamento della società italiana anche nei processi decisionali più minuti che usciva dalle indagini era devastante ed insieme confermava oltre il pensabile le analisi sociologiche e politologiche che  individuano nel clientelismo uno dei tratti distintivi del sistema italiano, in particolare, ma non solo, per quanto riguarda il welfare. Ma, mentre queste analisi parlavano di clientelismo in termini politico-elettorali, che producevano politiche particolaristiche e frammentate, la realtà scoperchiata da mani pulite mostrava come a guidare i processi decisionali non ci fossero solo interessi elettorali, ma anche puramente venali, lungo tutto il processo decisionale e in ogni settore e senza distinzioni.

    2. Da accademica, cittadina e sociologa, avvertì quella stagione come un momento di stravolgimento delle regole democratiche, magari giustificate da istante populiste o tutto al contrario colse in quell’azione giudiziaria un momento di possibile riscatto della società civile, stanca del malaffare?

    Almeno all’inizio prevalse l’idea, la speranza, che fosse l’occasione di una trasformazione positiva della politica e della società italiane. Non parlerei, invece, di “riscatto della società civile”, termine per altro dai contorni e contenuti non chiari e che troppo spesso viene contrapposto in maniera manichea alla politica, come migliore e automaticamente buono. Anche pezzi e soggetti importanti della società civile erano coinvolti nei processi di corruzione, anche se qualcuno ha tentato di operare distinguo tra chi intascava i soldi per sé e chi lo faceva per la propria organizzazione o partito, come se il fatto di corrompere o farsi corrompere per una “buona causa” o comunque per altri costituisse, se non una virtù,  una attenuante abbastanza forte da cancellare non solo il danno morale, ma il danno civile e democratico.

    Da donna e femminista c’era forse anche un altro aspetto positivo di questo scoperchiamento delle malversazioni operate dai potenti grandi e piccoli: smascherava la supposta superiorità maschile in nome della quale si legittimava l’esclusione delle donne dai luoghi di presa delle decisioni. Se è vero che la rarità delle donne tra i corrotti e i corruttori non era e non è una prova della loro superiorità morale, stante che sono rare anche tra coloro che avrebbero il potere e l’opportunità di farlo, certo quella massa di uomini avidi, cinici, corrotti, con scarso o nullo interesse sia per il bene comune sia  per il merito e la competenza avrebbe dovuto provocare una forte delegittimazione al monopolio maschile del potere e una riflessione critica sui meccanismi di selezione delle classi dirigenti. Non è andata così, purtroppo. E forse il prevalere degli atteggiamenti populisti nel sostegno dato a Mani pulite, inclusi i suoi eccessi, e poi l’emergere di movimenti politici populisti a seguito della crisi dei partiti che dal dopoguerra avevano dominato la scena politica italiana,  è stato anche la conseguenza del non avere utilizzato quella occasione per un ripensamento radicale delle modalità di scelta delle classi dirigenti, in politica e in economia.

    3. Fiandaca  non ha mancato di stigmatizzare quello che a Lui pare essere un vero e proprio snaturamento del sistema giudiziario allorché esso diventa espressione di una lotta contro i fenomeni criminali,  spesso favorita dalla mediatizzazione del lavoro di qualche magistrato, da ciò cogliendo il germe di quel populismo giudiziario capace di produrre distorsioni marcate nei rapporti fra il mondo giudiziario e quello  politico.

    Questa rappresentazione della giustizia in termini di lotta, che accomuna Tangentopoli e Mafiopoli,  la inquieta, la rassicura, o trova che debba giustificarsi in relazione agli obiettivi democratici che la animarono?

    Premetto che questa immagine della giustizia come “vendicatrice” delle ingiustizie si contrappone a quella di una giustizia che chiude gli occhi rispetto ai potenti (inclusi i criminali potenti) cui qualche volta è collusa. Sono due immagini semplicistiche e che  si legittimano reciprocamente nella loro semplificazione un po’ manichea, ma che hanno sicuramento fondamento empirico. Per questo l’immagine “militante” del giudice che, anche tramite rivendicazioni pubbliche, si contrappone al malaffare dei potenti non solo tramite la precisa applicazione della legge e l’utilizzo di tutti e meccanismi inquisitori consentiti dalla stessa, ma anche uscendo dai binari e utilizzando i propri potere di ricatto e di squalifica, può  provocare simpatia e adesione, almeno finché non si viene toccati direttamente.

    Non so quanto davvero Tangentopoli e Mafiopoli  siano state occasione di uscita dalle regole e di prevaricazione da parte della magistratura. Sospetto che, almeno in parte questo tipo di accuse (non mi riferisco a Fiandaca)  sia oggi la conseguenza di una sconfitta delle speranze di cambiamento in meglio che  esse a suo tempo avevano sollevato: la fine dei vecchi partiti ha aperto la strada ad altri non certo migliori, i fenomeni di corruzione e concussione non sembrano essersi ridotti. E la mafia è ormai diffusa su tutto il territorio nazionale, anche se in forme meno esplicitamente violente e meno visibili. Accanto alle critiche agli abusi, alle uscite dal seminato, ci sono quelle di “aver fatto tanto rumore per nulla”,  delegittimando ogni seria e sistematica  azione di intervento.

    Ciò detto non credo che gli obiettivi democratici si possano salvaguardare davvero tramite un uso non solo fuori dalle regole, ma autoritario ed autorefernziale del potere giudiziario.

    4. L’analisi di Fiandaca rispecchia l’attuale comune sentire della società rispetto al ruolo della magistratura, al punto da riguardare l‘intero apparato giudiziario o rimane, secondo lei, confinata nell’ambito della giustizia penale?

    A me sembra che oggi il comune sentire nei confronti del ruolo della magistratura non sia influenzato tanto da Tangentopoli o Mafiopoli, ma dalla lunghezza estenuante dei processi da un lato, che non consentono di ottenere giustizia in tempi accettabili, dalla conoscenza delle faide e corruzioni che attraversano la magistratura dall’altro. Si aggiunga la disinvoltura con cui certi magistrati passano dalla professione alla politica e ritorno.  Senza distinzione tra penale e civile. Se Tangentopoli aveva provocato una fiducia eccessiva nella magistratura e un’idea parzialmente sbagliata del suo ruolo, oggi  anche la magistratura viene spesso percepita come una casta autoreferenziale e fuori controllo, che pretende privilegi e impunità per se stessa senza molto curarsi degli interessi dei cittadini (e del paese). Anche questa è una immagine semplicistica, in bianco e nero, naturalmente.

    5. In occasione di un Suo intervento su questa Rivista - Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?- Lei si è soffermata sul ruolo della giurisdizione in  tema di diritti fondamentali. La necessità di inventare il diritto, per dirla con Paolo Grossi, e  di operare “in supplenza” come Lei stessa ha detto, in ragione di una legislazione carente o non adeguata al quadro costituzionale, si pone in contrapposizione o in continuità rispetto alla prospettiva che sembra prediligere Fiandaca?

    Questo mi sembra un problema diverso da quello di cui abbiamo parlato prima. Qui si tratta vuoi di norme che non corrispondono più al sentire comune, vuoi di un vuoto normativo che lascia privo di riconoscimento giuridico e alla mercè dell’interpretazione di chi ha un qualche potere  alcuni bisogni, relazioni fenomeni. Ciò è stato e in parte è ancora vero per il fine vita, affidato alla discrezionalità dei medici o di un comitato di bioetica. Per il cognome materno per cui la mancanza di una norma continua a generare asimmetrie tra padri e madri, per la possibilità delle coppie omogenitoriale di vedersi riconosciuta una genitorialità di coppia e di evitare che i loro figli siano giuridicamente privi di un genitore. Il ruolo della giurisdizione è importante, ma anche a doppio taglio, nella misura in cui può dare esiti difformi creando discrezionalità invece che diritti. Per altro, non è solo una questione di norme obsolete o mancanti. Come tutti noi, i magistrati hanno i propri valori e modelli culturali che influenzano il modo in cui valutano le questioni che vengono loro sottoposte e che richiederebbero da parte loro una sorveglianza critica e autocritica. Ciò tuttavia non sempre avviene. Lo testimoniano, ad esempio,  diverse sentenze (e le loro motivazioni) su casi di violenza contro le donne, che rispecchiano modelli di genere e di rapporti di genere fortemente asimmetrici e dove è la vittima ad essere ritenuta colpevole della violenza subita. La giurisprudenza spesso ha avuto un ruolo innovativo nel campo dei rapporti familiari, tra i sessi e le generazioni, precorrendo i cambiamenti giuridici. Ma è stata è anche un campo di decisioni contraddittorie. Lo stesso vale anche in altri settori, ad esempio sull’immigrazione.

    6. Fiandaca dice che “sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo… aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico”. Questa sembra essere un’occasione ghiotta per sentire la sua opinione sul “modello” di giudice che la società del nostro tempo reclama.

    Non so quale sia il “modello di giudice che la società reclama”. Per quanto mi riguarda, penso che, proprio perché ha un ruolo così importante e delicato, accanto alla preparazione giuridica un magistrato dovrebbe avere anche una formazione di tipo sociologico e psicologico, non per farlo entrare in professioni che non sono la sua (come invece  taluni giudici sembrano voler fare in cere motivazioni di sentenze), ma per metterlo in grado di meglio leggere i contesti in cui opera e i mutamenti e conflitti  anche culturali da cui sono eventualmente attraversati. Quest tipo di formazione dovrebbe essere ricorrente, se non continuo, ovvero non limitarsi agli inizi della carriera, come mi sembra oggi avvenga (mi è capitato di partecipare a corsi dedicati a neo-vincitori di concorso in magistratura). Uno scambio e confronto tra saperi diversi sarebbe utile a tutti, non solo ai magistrati, ovviamente.

    7. L’attuale contesto può portare ad un governo dei giudici, per dirla con le parole usate dal Prof. Sabino Cassese per intitolare la sua personale analisi sul mondo giudiziario italiano?

    Non mi sembra. C’è il rischio che alcuni giudici utilizzino la propria funzione in modo “strategico” per influenzare le dinamiche politiche, ma non sono l’unico potere in campo. E la loro azione, più che a portare al governo dei giudici può facilitare varie forme di populismo più o meno ribellista. Per altro, è ciò che successe dopo la stagione di Mani Pulite. C’è il rischio che agiscano, anche non intenzionalmente, da apprendisti stregoni, D’altra parte, mi preoccuperebbe anche se, per evitare di interferire nelle dinamiche politiche, si astenessero dal portare avanti azioni giudiziarie dovute.

    8. Trova demagogiche le periodiche commemorazioni  dei magistrati caduti nell’adempimento del loro servizio organizzate dai magistrati e da organizzazioni della c.d. società civile, ovvero vi intravede una formidabile rappresentazione di come la giustizia è stata avvertita dalla collettività, proponendosi essa come “modello ideale ed etico anche  per le generazioni chiamate a svolgere il servizio in magistratura?

    Perché demagogiche? Mi sembra giusto ricordare chi è stato colpito solo per aver fatto il proprio dovere perché segnala a noi tutti che rispetto a certi settori e reati, tipicamente di mafia, la funzione del magistrato può essere di frontiera e rischiosa. Ma non può diventare una sorta di auto-assoluzione per tutto ciò che non va nella magistratura ed anche per l’incapacità dello stato a contrastare la mafia, non solo tramite il potere giudiziario. Poi, ovviamente, non sono solo i magistrati a cadere nell’adempimento del proprio dovere – ci sono poliziotti, carabinieri, cittadini comuni che si ribellano alla prepotenza criminale -  che non sono ricordati con altrettanta solennità.

    9. La durata dei processi costituisce la spina nel fianco della magistratura italiana. Crede che  sia appagante e reale  l’immagine dei magistrati lenti che guidano una corriera sgangherata, senza offrire elementi capaci di rappresentare le cause delle lentezze, scaricandone unicamente il peso su chi opera nel settore giudiziario?

    Credo che quell’immagine rappresenti una parte del problema, che va sicuramente affrontata anche se non esaurisce le questioni in gioco. Non sono tuttavia sufficientemente competente in materia per dire la mia circa ciò che si dovrebbe fare.

    Grazie infinte, Professoressa Saraceno.

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