GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    ​46 anni fa, il golpe argentino

    46 anni fa, il golpe argentino

    di Francesco Caporale 

    Sommario: I. 24 marzo 1976: il golpe - II. La “dottrina della sicurezza nazionale” - II. La “scoperta” di quella tragedia - IV. L’art. 8 c.p.  –  Il delitto politico - V. Maggio 1999.  Il rinvio a giudizio - VI. Il Processo ESMA - VII. La “missione” in Argentina - VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina. 

    I. 24 marzo 1976: il golpe

    Il 24 marzo 1976, ormai quarantasei anni fa, un golpe militare avrebbe per sette anni, fino al dicembre del 1983, seminato il terrore in Argentina, dando vita ad una dittatura che si sarebbe rivelata  una delle più  grandi tragedie del Novecento.

    I vertici delle Forze Armate  -Jorge Rafael Videla, per l’Esercito;  Emilio Eduardo Massera, per la Marina; Orlando Ramòn Agosti, per l’Aeronautica-  intendevano porre fine, con quel golpe, ad un decennio particolarmente tormentato, iniziato nel 1966 con le manifestazioni operaie e studentesche contro il regime militare di Juan Carlos Onganìa, proseguite sotto i governi anch’essi militari prima di Levingston e poi di Lanusse, e, in buona parte, anche dopo il rientro in Argentina, nel giugno del ’73, di Juan Domingo Peròn.

    L’Argentina – come del resto gli Stati Uniti ed un po’ tutti i paesi europei (con le uniche eccezioni, almeno in parte, dei regimi militari della Spagna del generalissimo Francisco Franco, del Portogallo di Salazar, e della Grecia dei colonnelli) – stava conoscendo, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il forte vento della contestazione giovanile, solo vagamente imbevuta di utopie socialiste dal momento che l’invasione sovietica dell’Ungheria del ‘56, e, più ancora, l’invasione della Cecoslovacchia che nel ’68 stava vivendo, con Dubcek, la sua brevissima “primavera”, avevano di fatto già reso evidenti i limiti, gli equivoci ed il fallimento del socialismo reale, allontanando così, nei sogni giovanili, l’idea di un’Unione Sovietica da considerarsi modello di una società che mettesse al primo posto i valori della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della solidarietà.  E la distanza dalla ambigua utopia del cosiddetto “socialismo reale” si avvertiva, in particolare, proprio in Argentina, e nell’America Latina in generale, e non è un caso che i movimenti giovanili fossero nati, in quei paesi, in buona parte in ambienti di cultura cattolica: erano gli anni dei cosiddetti “preti terzomondisti” e della Teologia della Liberazione, che intendeva privilegiare, anche sulla scorta del Concilio Vaticano II°, la dottrina sociale del cristianesimo. Ed i giovani argentini videro in Peròn, rovesciato a sua volta da un golpe nel ’55, la loro speranza di una “patria socialista” del tutto svincolata, da una parte, dall’influenza nordamericana, e, dall’ altra,  diversa  e  completamente  autonoma dall’imperialismo sovietico: “ni yankees, ni marxistas: peronistas”, era infatti il loro orgoglioso slogan politico.

    II. La “dottrina della sicurezza nazionale”

    Quegli aneliti di cambiamento attraversarono, in quegli anni, tutta l’America Latina, da sempre considerata una sorta di “cortile di casa” degli Stati Uniti d’America. E in un’epoca ancora di “guerra fredda” -in un mondo rigidamente diviso in due blocchi: quello occidentale, ispirato ad una peraltro incompiuta democrazia, che vedeva negli Stati Uniti in qualche modo  il proprio  modello; e, dall’altro, quello orientale, rappresentato dall’Unione Sovietica e dai vari paesi dell’Est, all’epoca tutti più o meno orbitanti nell’altrettanto ambiguo  “socialismo reale”-  la reazione militare fu quella di intervenire con la forza delle armi, dando vita, tra la metà degli anni Sessanta e poi nei Settanta, a colpi di Stato che avevano via via interessato il Brasile, l’Uruguay, il Perù, la Bolivia, il Paraguay, il Cile, ed appunto, nel ‘76, l’Argentina. Erano i paesi latinoamericani del Cono Sur e del tristemente famoso “Plan Condor”, un piano che prevedeva la collaborazione dei rispettivi regimi militari nel dare la caccia, oltre i propri confini, agli oppositori politici che avessero cercato riparo in uno di quei paesi limitrofi. 

    Si era fatta strada, già dai primi anni Sessanta, in chiave dichiaratamente anticomunista, la farneticante “dottrina della sicurezza nazionale”, propugnata dagli Stati Uniti e dalla CIA, e che aveva trovato nella “Scuola delle Americhe”, la scuola interamericana di guerra con sede, allora, a Panama, il proprio fertile terreno di coltura, dove si erano non a caso forgiati tutti gli ufficiali latinoamericani poi protagonisti dei vari colpi di Stato che hanno insanguinato il Sudamerica: una “scuola di guerra” in cui figuravano come “docenti” ex ufficiali francesi che si erano tristemente distinti nelle torture praticate in Algeria, e non sorprende che addirittura un film, “La battaglia di Algeri” del nostro Gillo Pontecorvo, venisse utilizzato come “materiale didattico” per insegnare come e quali torture praticare nei confronti del “nemico”.

    Il “nemico” non era più, secondo la tradizione un po’ romantica del conflitto bellico, il “paese altro” che attentasse ai propri confini, alla propria indipendenza; bensì un “nemico interno”, in realtà semplici giovani prevalentemente tra i venti e i venticinque anni, oppositori dei vari regimi militari latinoamericani, che si limitavano magari,  come appunto accaduto in Argentina, ad esprimere le proprie utopie “socialiste” semplicemente insegnando a leggere e scrivere ai disperati abitanti delle cosiddette villas miserias, le degradate bidonvilles della periferia bonaerense.

    A fronte di non più di due o tremila giovani che avevano in effetti abbracciato la lotta armata – chi tra le file dei Montoneros,  di  dichiarata  fede peronista; chi nell’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo, di ispirazione guevarista –,  la quasi totalità dei trentamila desaparecidos vittime della feroce repressione militare era in realtà costituita niente più che da inermi oppositori politici, come nei miei tre processi per i desaparecidos  italo-argentini  ho cercato di dimostrare.

    III. La “scoperta” di quella tragedia

    Avevo venticinque anni, quel 24 marzo del ’76. Mi ero un anno prima laureato alla “Sapienza”, ed il ricordo che ho della reazione comune alla notizia del golpe argentino è quello di una certa perplessità, se non indifferenza: niente di paragonabile alla forte emozione provata invece, solo due anni e mezzo prima, l’11 settembre del ’73, alla notizia del golpe di Pinochet in Cile, e della tragica fine di Salvador Allende nel palazzo presidenziale della Moneda. 

    Certo dovette influire, su questa diversa reazione collettiva, la tragica spettacolarità mediatica del golpe cileno rispetto a quello argentino: una sorta, quest’ultimo, di “golpe annunciato”, che rovesciava peraltro un governo oggettivamente di destra, quello presieduto dalla sprovveduta Isabelita, vedova di Juan Domingo Peròn che aveva fatto trionfalmente ritorno in Argentina, come ho prima ricordato, nel giugno del ’73, dopo un quasi ventennale esilio prevalentemente vissuto nella Spagna franchista, riprendendo la guida del suo paese fino al 1° luglio del ’74, data della sua morte.

    L’immagine, quasi ostentata, e trasmessa in tutto il mondo, delle migliaia di prigionieri stipati nell’Estadio Nacional di Santiago del Cile, aveva indubbiamente suscitato forti emozioni, a fronte del basso profilo e dell’apparente “normalità” del golpe argentino.

    Cosa fosse in realtà accaduto in Argentina, in quei drammatici sette anni tra il ’76 e l’83, l’avrei scoperto nella sua pienezza solo nel 1998, quando, da pubblico ministero a Roma, mi è toccato occuparmi di un procedimento iniziato già dal 1983, e che stava in quel momento languendo tra richieste di archiviazione e supplementi di indagine invece invocati dai difensori di parte civile.

    Mi sono così imbattuto, tra le migliaia di pagine contenute in quella trentina di faldoni accumulatisi nell’arco di quindici anni, in dichiarazioni di miei coetanei, poco più che ventenni all’epoca del golpe, miracolosamente sopravvissuti dopo essere stati internati e torturati nei veri e propri lager di nazista memoria allestiti dal regime militare, di cui avevano sulla propria pelle conosciuto la ferocia.

    Andavo così scoprendo l’esistenza di circa 350 “centri clandestini di detenzione”  messi in piedi, in maniera occulta, dalla dittatura militare; delle torture con la picana, uno strumento utilizzato nella Pampa per il controllo del bestiame: scariche elettriche su ogni parte del corpo dei giovani internati, fino alla soglia dell’arresto cardiaco; dei “voli della morte”, la pratica decisamente più orribile: giovani scaraventati, vivi, dopo essere stati intontiti con un’iniezione di Pentothal, nelle acque del Rio de la Plata o dell’Atlantico Sur.

    E ancora: il sequestro di circa 500 neonati, sottratti alle loro madri sequestrate in stato di gravidanza, uccise dopo il parto.  Creature affidate “in adozione” a militari o famiglie a loro vicine, perché non crescessero con le “idee sovversive” dei loro genitori desaparecidos. Di questi bambini, grazie all’instancabile ricerca delle Abuelas de Plaza de Mayo ed agli esami del DNA, ne sono stati finora recuperati 130, oggi giovani uomini e donne tra i quaranta ed i quarantacinque anni, restituiti alla loro vera identità ed a ciò che rimane delle loro famiglie biologiche.

    Ce n’era abbastanza per farmi capire quanto approssimativa fosse stata, fino a quel momento, la conoscenza, da parte mia e della quasi totalità degli italiani, sulla reale natura di quel regime militare.

    IV. L’art. 8 c.p.  –  Il delitto politico

    Il primo procedimento, come ho già prima accennato, era stato avviato fin dal gennaio del 1983, quando ancora era in piedi la dittatura militare in Argentina, che avrebbe solo a dicembre di quell’anno ceduto il passo – dopo la disfatta, nel giugno ’82, nella improvvida guerra con il Regno Unito per le Falkland/Malvinas – ad un governo democratico, quello del radicale Raùl Alfonsìn, dopo libere elezioni che avrebbero segnato il rientro dei militari nelle loro caserme.

    Lo strumento normativo che aveva permesso l’apertura, in Italia, di quel procedimento – così come dei successivi due processi da me istruiti, il processo ESMA ed il processo Massera – è stato rappresentato dall’art.8 del nostro codice penale, che, nel disciplinare il cosiddetto delitto politico, prevede la punibilità, previa richiesta del Ministro della Giustizia, “del cittadino o dello straniero” che commettano, all’estero, un delitto politico, precisando poi, al terzo comma, che deve intendersi per delitto politico “ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino”, e che “è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.  

    Il limite dei giudizi in Italia su queste tragiche vicende era ed è comunque rappresentato dal fatto di poter procedere solo per quei casi che vedessero come vittime cittadini italiani, sia pure in possesso di “doppio passaporto”, come previsto dalla legislazione argentina: figli o nipoti, per lo più, di italiani emigrati fin dai primi del Novecento, o tra le due guerre, in quel paese del Sud America che, su circa quarantacinque milioni di abitanti, conta più di un terzo di cittadini di origini italiane.  

    Non vi era, in ogni caso, alcun dubbio che “delitti politici” dovessero considerarsi le barbare uccisioni, tra il 1976 ed il 1983, dei trentamila desaparecidos, eliminati semplicemente perché oppositori del regime militare, peraltro presente in Argentina fin dal 1966, a seguito della presa del potere da parte del generale Onganìa, e poi proseguito (prima con Levingston e poi con Lanusse) fino al 1973, a ridosso del rientro, come avanti detto, di Juan Domingo Peròn.

    Di più: quanto avvenuto in quei sette anni di terrore in Argentina poteva in effetti considerarsi un vero e proprio “genocidio politico”, intendendo questo termine non già nella sua accezione tradizionale, di sterminio di un popolo per ragioni etniche, razziali o religiose, ma come annientamento, o tentativo di annientamento, di un’intera generazione, per ragioni esclusivamente politiche.   Questo lasciava ragionevolmente intendere quella sorta di geografia del terrore rappresentata dalla capillare diffusione, sul territorio, di oltre 350 centri clandestini di detenzione: 350 Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald, Dachau, messe in piedi dai generali golpisti trent’anni dopo la Shoah.

    V. Maggio 1999.  Il rinvio a giudizio

    A maggio del 1999 il gup Claudio D’Angelo disponeva, dopo l’ennesima udienza preliminare, il rinvio a giudizio dei generali Carlos Guillermo Suàrez Mason e Santiago Omàr Riveros, rispettivamente comandanti della Zona 1 (Buenos Aires - Capital Federal,  e  cosiddetto “Gran Buenos Aires”) e della Zona 4 (Tigre – Campo de Mayo), nella suddivisione dell’Argentina in cinque Zone Militari, praticata con il golpe del 24 marzo ’76, ed incidentalmente entrambi affiliati, come del resto l’ammiraglio Massera, alla loggia massonica P2 di Licio Gelli.

    Suàrez Mason era chiamato a rispondere dei sequestri e degli omicidi dei cittadini italo-argentini Laura Carlotto -figlia di Estela Barnes de Carlotto, presidenta delle Abuelas de Plaza de Mayo-,  Norberto Morresi, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, e per il sequestro del piccolo Guido, figlio di Laura Carlotto, nato in cattività quando la madre era internata nel centro clandestino di La Cacha.  

    E Riveros,  invece,  in concorso con il Prefetto Navale di Tigre, Juan Carlos Gerardi, e con quattro sottufficiali  (Porchetto, Rossìn, Puertas e Maldonado),  del sequestro e degli omicidi di Martino Mastinu e Mario Marras, entrambi emigrati in Argentina ancora in tenera età dalla Sardegna, con le rispettive famiglie,  nei primi anni Cinquanta.  

    Il relativo dibattimento sarebbe iniziato nell’ottobre del ’99, dinanzi alla 2^ Corte di Assise, presieduta da Mario D’Andria.

    Confesso che, assieme alla soddisfazione di aver almeno superato, con il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, quella prima importante tappa processuale,  un diverso ed opposto sentimento cominciava a farsi strada dentro di me: il timore di non disporre, al momento, di un numero di testi sufficiente, da un lato, a far comprendere ad una Corte d’Assise composta, oltre che da due giudici togati, da sei giudici popolari, tutti verosimilmente poco edotti su queste tragiche vicende, cosa avesse realmente significato il golpe del 24 marzo del ’76;  e, dall’altro, di testi più specificamente in grado di riferire sui singoli casi su cui la Corte era chiamata a giudicare.

    Provvidenzialmente, devo dire, l’iniezione di fiducia rappresentata da quel rinvio a giudizio fece sì che un’anziana signora, Inocencia Luca, si portasse qualche giorno dopo, dall’Argentina, personalmente nel mio ufficio, presentando una denuncia per la scomparsa di suo marito, Giovanni Pegoraro, imprenditore edile di Mar del Plata, nato in Italia ed in possesso di doppia cittadinanza, e di sua figlia Susanna, entrambi sequestrati a Buenos Aires il 18 giugno del ’77, e da allora  desaparecidos,  facendosi altresì latrice di una denuncia sporta presso il Consolato italiano a Buenos Aires da Dante Gullo, leader nei primi anni Settanta della Juventud Peronista, in relazione alla scomparsa della madre, Angela Aieta, nativa di Fuscaldo, in provincia di Cosenza, ed emigrata giovanissima in Argentina.

    Tanto Giovanni e Susanna Pegoraro che Angela Aieta, sequestrata nell’agosto del ’76, erano stati internati all’ESMA, la Scuola di Meccanica della Marina trasformata nel maggior centro clandestino di detenzione, in cui furono ristretti tra il marzo del ’76 e la fine della dittatura militare non meno di cinquemila giovani e meno  giovani.

    VI. Il Processo ESMA

    L’apertura di questo secondo procedimento, riguardante l’ESMA, anche questo a me assegnato dall’allora procuratore capo Salvatore Vecchione, mi portava a considerare necessaria una mia “missione” in Argentina, che mi consentisse di avvicinare, con l’aiuto delle Madres e delle Abuelas de Plaza de Mayo, i non molti sopravvissuti dell’ESMA che vi erano stati internati nel ’76 e ’77, e che avevano quindi avuto modo di conoscere Giovanni e Susanna Pegoraro ed Angela Aieta, e, più in generale, sopravvissuti degli altri centri clandestini di detenzione  (La Cacha ed El Vesubio) in cui erano stati ristretti Laura Carlotto, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, la cui scomparsa era oggetto del dibattimento in Assise nei confronti di Suàrez Mason, Riveros e gli altri, che sarebbe iniziato ad ottobre del ’99, e per il quale era indispensabile che fossi in grado di presentare una adeguata lista testimoniale.

    Ventilai, con qualche titubanza per il timore potesse essere interpretata come becero pretesto di “turismo giudiziario”, questa ipotesi al mio procuratore capo, che la prospettò all’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, che aveva tra l’altro ricevuto poco tempo prima, in via Arenula, una delegazione di Madres ed Abuelas

    Il Ministro, persona particolarmente sensibile a questi temi, autorizzò una mia “missione” in Argentina “alla ricerca di fonti di prova”.

    Non una rogatoria in senso stretto, dunque, che potesse tradursi in verbali redatti,  su richiesta  dell’autorità  giudiziaria italiana,  dai giudici argentini, né, tantomeno, in verbali di sommarie informazioni testimoniali da me redatti: il governo e l’autorità giudiziaria argentina erano infatti all’epoca decisamente restii – dopo la promulgazione delle leggi del “Punto Final” e di “Obediencia debìda”, emanate tra l’86 e l’87 in Argentina per chiudere la dolorosa vicenda dei desaparecidos- a concedere rogatorie su questo spinoso argomento, ed era tra l’altro in quel momento ancora presidente – si era nell’agosto del ’99 – Carlos Menem, che aveva già concesso una discutibilissima grazia a Videla, Massera ed agli altri componenti delle Giunte Militari condannati nel “Juicio a la Juntas” svoltosi nell’85 in Argentina, e che palesemente inseguiva un proprio decisamente improbabile disegno di “riconciliazione nazionale”, che intendeva sostanzialmente coprire con un velo pietoso,  attraverso l’olvìdo, l’oblìo, i sette anni di terrore vissuti dal paese.  

    VII. La “missione” in Argentina

    La mia “missione” in Argentina durò una decina di giorni, in quell’agosto del ’99. Lasciai un’Italia immersa in una torrida estate per passare ad un peraltro abbastanza mite inverno australe, incontrando decine e decine di persone che avrebbero finalmente arricchito la mia lista testi, sia per il dibattimento ormai alle porte che per il  successivo “processo ESMA”. 

    Quel viaggio mi consentì di conoscere Ernesto Sàbato, grande figura di scrittore ed intellettuale che era stato presidente della CONADEP, la Comisiòn Nacionàl sobre la Desapariciòn de Personas  istituita da Alfonsìn subito dopo la sua elezione, a dicembre dell’83, e che aveva a fondo indagato sulle aberrazioni della dittatura militare, poi trasfuse nel “Nunca Mas”, l’informe  che dava conto della ferocia di quel regime, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti a quell’immane tragedia.

    Ebbi la possibilità di confrontarmi con Julio César Strassera, “fiscal”, pubblico ministero, nel “Juicio a las Juntas” dell’85, e con il suo vice Luìs Moreno Ocampo  (che sarebbe poi diventato, nel 2003, il primo procuratore capo del Tribunale Internazionale dell’Aia); di conoscere Horacio Verbitsky, autore del libro “Il volo”, nato dalle confessioni dell’ex capitano dell’ESMA Adolfo Scilingo, ed Adolfo Pérez Esquivel,  premio Nobel per la Pace 1980, anch’egli sequestrato e torturato durante la dittatura militare;  e poi ancora Magdalena Ruìz Guinazù, editorialista del quotidiano La Naciòn, che aveva fatto parte della CONADEP, occupandosi, al suo interno, proprio dell’ESMA; di incontrare ex militari, come Luìs D’Andrea Mohr, che avevano lasciato l’Esercito prima del golpe, non condividendone metodi e finalità; di approfondire la conoscenza di Madres ed Abuelas de Plaza de Mayo, come Lita Boitano, Vera Vigevani, Estela Carlotto, Laura Bonaparte e Taty Almeida;  ma, soprattutto, di incontrare ed ascoltare sopravvissuti dei vari centri clandestini di detenzione, la cui testimonianza si sarebbe rivelata poi particolarmente preziosa per il buon esito dei miei processi.

    VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina 

    Il processo Suàrez Mason+altri, ed il processo ESMA, si sono poi conclusi, il primo a dicembre del 2000 ed il secondo a marzo del 2007, con la condanna di tutti gli imputati; il processo Massera ha invece dovuto arrestarsi, nel febbraio del 2011, con una declaratoria di proscioglimento per morte del reo, essendo l’ex ammiraglio deceduto nel novembre del 2010. 

    Si è trattato di condanne, quasi tutte all’ergastolo, rimaste soltanto simboliche, dal momento che nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione,  ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro paese. 

    E tuttavia, la prima di queste sentenze, nel dicembre del 2000, ha avuto un effetto  deflagrante in Argentina, tant’è che nel giugno del 2005, sotto il governo del presidente Néstor Kirchner, si è poi arrivati in quel paese al giudizio di incostituzionalità della legge di Obediencia debìda, con conseguente riapertura di decine di processi che hanno consentito la condanna di centinaia e centinaia di responsabili, ancora in vita, delle atrocità commesse nei sette anni di dittatura militare.

    Ma, a distanza di ormai quarantasei anni da quel 24 marzo 1976, sconfortanti segnali ancora ci giungono, da varie parti del mondo, sull’attuale stato dei diritti umani, a dispetto del “Nunca Mas”, Mai più, invocato nel rapporto della CONADEP.

    E le continue sparizioni, sempre per motivi politici, che ancora oggi ci tocca registrare, dal Messico alla Turchia di Erdogan, dall’Ungheria di Orbàn all’Egitto di Al Sisi, come testimoniato dalla terribile fine di Giulio Regeni, ci dicono che certe atrocità sono ancora ben lontane dall’essere solo un triste ricordo del passato. 

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