GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La giustizia, il potere e il senso di ingiustizia nell’opera verghiana. Riflessioni nel centenario della morte di Giovanni Verga

    La giustizia, il potere e il senso di ingiustizia nell’opera verghiana. Riflessioni nel centenario della morte di Giovanni Verga

    di Alessandro Centonze 

    Sommario: 1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini. – 2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia nei personaggi verghiani. – 3. Il Ciclo dei vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano. – 4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano.

    1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini

    Il 27 gennaio 2022 ricorre il centenario della morte di Giovanni Verga e queste mie brevi riflessioni[1] vogliono essere un piccolo contributo all’approfondimento dei temi della giustizia e del potere, tanto cari all’Autore etneo e non sempre approfonditi dai molti, pur esemplari, esegeti della sua opera.   

    Mi preme sottolineare che sono consapevole del fatto che confrontarsi coi testi verghiani, soprattutto per chi come me non ha una formazione squisitamente letteraria, è un atto di vanità di cui mi scuso sin d’ora; la ricorrenza del centenario tuttavia è stata per me – cresciuto nelle terre di Vita dei campi e delle Novelle rusticane, che dal Simeto si spingono sino all’area montana iblea, attraverso le province di Catania, Siracusa e Ragusa – una tentazione inesausta di perlustrare parte dei territori verghiani ancora vergini. Il cimento, dunque, è diretto verso àmbiti ignoti ma, proprio per questo, anche d’incerto approdo.    

    Compiute queste doverose premesse mi sembra opportuno evidenziare che le due tematiche della giustizia e del potere si presentano, nella concezione verghiana, intimamente connesse[2]. L’autore le indaga e le sviluppa in una cornice di crescente pessimismo esistenziale, impregnato di dolore e sostanzialmente diffidente innanzi ai meccanismi di sviluppo della società moderna. Le istituzioni statali sono intese come un gravame che schiaccia l’individuo e alimenta la competizione, soprattutto nei ceti più umili, determinando un mondo di Vinti, di cui le tragiche vicende de I Malavoglia e della famiglia Toscano sono una rappresentazione esemplare[3].

    La stessa vita di Giovanni Verga[4], a ben vedere, è un’esemplare rappresentazione di questo senso di sfiducia verso il progresso e le istituzioni, tanto è vero che gli ultimi ventisette-ventotto anni della sua lunga esistenza fluirono in una sorta di consapevole e forzato isolamento. In questi, lunghi, anni, Verga si mosse nel piccolo spazio cittadino compreso tra il suo palazzo etneo di Via Sant’Anna e la sede del locale Circolo Unione, ubicata nella centralissima Via Etnea, essenzialmente impegnato nell’amministrazione delle sue proprietà terriere, che lo tennero lontano – complice anche una certa crisi vocazionale e alcuni assilli finanziari, pur risolti sul finire del diciannovesimo secolo – dal mondo letterario, anche quando le sue opere conobbero una meritata diffusione editoriale[5].

    Quello che comunque è certo è che le realtà sociali descritte nelle opere di impronta verista sono governate da regole e da poteri, umani e naturali, ispirati a una sorta di cinico antagonismo. I soccombenti, ovviamente, peggiorano la loro condizione economica ed esistenziale, donde la loro sfiducia verso il progresso sociale dei ceti inferiori, inesorabilmente composti da soggetti vinti dalla «fiumana del progresso»[6].

    I protagonisti di questa narrazione, invero, cercano di ribellarsi alla loro dolorosa condizione economica, ma non sempre vincono, perché l’esistenza umana e le leggi che la governano pongono gli individui in una condizione fatalisticamente di sfiducia verso il mondo e verso se stessi. E’ per questo che l’autore si sente costretto a parlare di “ciclo dei vinti”.

    In quest’àmbito i personaggi verghiani diventano preda di un atteggiamento rinunciatario, che è, al contempo, esistenziale e istituzionale, oltre a essere il frutto della convinzione filosofica che né le leggi di natura né quelle umane, o meglio della classe ricca, consentono ai ceti sociali più umili di uscire dalla loro condizione di disagio e di prostrazione.

    Tutto questo, del resto, è il riflesso delle più intime convinzioni di Verga, che riteneva le leggi naturali difficilmente modificabili e, di conseguenza, reputava inutile ogni tentativo di mutarle attraverso il richiamo al progresso e alla giustizia, capisaldi del positivismo[7]. Qualsiasi intervento sul corso naturale dell’economia, per tanto, ritenuto immodificabile, è inutile, come superflui appaiono i richiami agli ideali positivistici, primo fra tutti quello anzidetto di giustizia. Tutto ciò viene descritto con una tecnica nuova e originale, incentrata sull’impersonalità del racconto[8].

    Verga, per esser più chiari, osserva che a dominare i meccanismi economici non sono i valori della giustizia, dell’uguaglianza e del progresso, ma i disvalori della prevaricazione, dell’interesse individuale e, in ultima analisi, del profitto. Ne deriva che il dominio di questi disvalori, di matrice sostanzialmente hobbesiana[9], si ripercuote sui meccanismi della giustizia che è patita, dai personaggi verghiani, come un male necessario. Si sottolinea che i disvalori sono ritenuti immutabili perché legati alla stessa natura umana. L’uomo, in altre parole, contiene l’impulso antagonistico, la tendenza alla sopraffazione e la tendenza al profitto, che condizionano gli uomini di potere e, di conseguenza, le leggi. L’intervento giudiziario, in questo contesto, non può non presentare due caratteri: quelli della permanenza e della stabilità e, allo stesso tempo, dell’inutilità[10].

    I personaggi verghiani, invero, cercano di ribellarsi e di ricorrere alle istituzioni per essere tutelati, ma, in questo modo, peggiorano la loro condizione e precipitano nel degrado e nell’emarginazione. Questo è il mondo in cui si muovono i personaggi sfiduciati di Verga, che sono destinati alla sconfitta e che, nonostante tutto, mantengono una loro dignità, quasi eroica, che trae origine dalla loro forza d’animo che, a sua volta, è la conseguenza di una non totale rassegnazione con cui sopportano le avversità quotidiane, spesso senza inutili ribellioni e senza aiuti esterni.

    La concezione verghiana dell’esistenza umana, quindi, è tragica, perché tragica è la vita degli uomini sottoposti a un destino impietoso e crudele, che li condanna, non solo all’infelicità, ma anche all’immobilismo sociale ed economico, da cui scaturisce il senso immanente di ingiustizia patito dai suoi indimenticabili protagonisti.

    2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia dei personaggi verghiani

    Rispetto alle precedenti opere narrative le Novelle rusticane[11] si caratterizzano per una puntuale attenzione ai problemi sociali ed economici della Sicilia dell’Ottocento, con accentuazione pessimistica sui rapporti umani e l’assunzione di un ruolo centrale di quel senso immanente di ingiustizia proprio dei personaggi verghiani, su cui sono incentrate queste brevi riflessioni.

    A dire il vero, Giovanni Verga si era già cimentato con la forma del racconto di impronta verista con la raccolta Vita dei campi[12], di ambientazione geo-sociale analoga alle successive Novelle rusticane, a cui si attribuisce tradizionalmente la sua svolta narrativa; tuttavia è indubbio che è solo con la pubblicazione de I Malavoglia e delle Novelle rusticane – che sono due opere sostanzialmente coeve, essendo pubblicate a distanza di un anno – che giunge a compimento quel percorso letterario che portò il nostro Autore alla piena maturità artistica e, per quello che ci interessa, fece esprimere quell’atteggiamento di ingiustizia immanente dei suoi personaggi, che è una delle cifre stilistiche verghiane più significative.  

    Com’è noto, le Novelle rusticane sono una raccolta di dodici racconti, ambientati nella vasta area della Piana di Catania – che, come si è detto, dal fiume Simeto si diparte fino ad arrivare alla zona montana iblea, attraversando le province di Catania, Siracusa e Ragusa –, pubblicati a distanza di un anno da I Malavoglia. Si tratta, in particolare, delle novelle intitolate Il Reverendo; Cos'è il Re; Don Licciu PapaIl Mistero; Malaria; Gli orfani; La roba; Storia dell'asino di San GiuseppePane nero; I galantuominiLibertàDi là del mare.

    Il nucleo narrativo essenziale attorno al quale ruotano le Novelle è quello della “roba” ovvero del possesso materiale dei beni, che viene visto dai protagonisti dei racconti verghiani come l’unica possibilità di contrastare la miseria della condizione umana, che si caratterizza per una lotta di sopravvivenza, che rende inesausti gli individui, che – in linea con quanto Giovanni Verga aveva affermato ne I Malavoglia – vede solo vinti e nessun vincitore. Queste tematiche, però, sono affrontate con un approccio narrativo diverso sia rispetto a Vita dei campi sia rispetto a I malavoglia, caratterizzandosi i racconti verghiani “rusticani” per una particolare attenzione alle problematiche socio-economiche della Sicilia dell’epoca post-unitaria e da toni descrittivi decisamente più cupi, che, a ben vedere, sono quelli che caratterizzano il marcato pessimismo esistenziale di Mastro-don Gesualdo[13].

    Nelle Novelle rusticane, inoltre, trovano prepotentemente spazio i temi della giustizia e del potere, che alimentano l’approccio pessimistico verghiano e ci fanno comprendere quale fosse il punto di vista del Maestro etneo rispetto a queste complesse tematiche, al contempo, istituzionali e socio-economiche.

    Questi temi, in particolare, assumono una connotazione narrativa centrale nelle novelle intitolate Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà, alle quali vorrei dedicare qualche breve riflessione.

    Il primo di questi racconti, Il reverendo, si incentra sulle descrizioni della resistenza ai cambiamenti istituzionali in corso nella Sicilia post-unitaria e dell’esercizio prevaricatore del potere da parte del ceto ecclesiastico. Il protagonista, in breve, attraverso complessi percorsi giudiziari, persegue la tutela dei propri interessi materiali che coincidono con la protezione della “roba” accumulata nel corso della vita.

    La novella mette in evidenza l’ascesa sociale del protagonista – il reverendo appunto – che, partito da origini modeste, con un’abile strategia, si impone sui compaesani e, abusando del potere conquistato, accresce le proprie ricchezze. La scalata del reverendo, tra l’altro, viene consentita non solo dall’utilizzo degli strumenti giudiziari, ma anche dai suoi poteri sacramentali, di cui la confessione è lo strumento principe. Per moltiplicare il patrimonio il reverendo si avvale dei suoi rapporti collusivi con le autorità del posto. In particolare, afferma Verga, «egli era tutt’uno col giudice e col capitano d’armi e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi […]»[14].

    Il secondo di questi racconti è intitolato Don Licciu Papa ed è una novella in cui, ancora una volta, campeggia il tema della giustizia, strumentale alla tutela “roba”. Vi si descrive la vicenda giudiziaria che coinvolge un pecoraio, Arcangelo, che si pone contro il protagonista, ancora una volta un parroco, finendo per essere schiacciato dal suo antagonista che – come nel caso de Il reverendo – è, al contempo, ecclesiastico e giudiziario.

    In questo caso contro l’umile protagonista perseguitato dall’avido parroco si schierano non solo le leggi umane ma anche quelle divine, perché ad Arcangelo, a conferma della sua empietà e della sua, intrinseca, ingiustizia, andava male anche l’allevamento, perché chi si mette contro la volontà espressa del ministro di Dio, si mette contro Dio e dev’essere castigato. In un passaggio esemplare del racconto, Verga notava che ad Arcangelo «le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi d’inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava con la Chiesa» […]»[15].

    Il terzo e più famoso dei racconti sulla giustizia delle Novelle rusticane è certamente Libertà, che è la storia di una rivolta contadina realmente avvenuta a Bronte nel 1860, nell’immediatezza dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, sedata con efferatezza da Nino Bixio. Introduce il tema dell’immobilismo politico-istituzionale del mondo isolano, sul quale, in epoche diverse, si sarebbero confrontati con esiti narrativi mirabili Federico De Roberto[16] e Giuseppe Tomasi di Lampedusa[17].

    La storia di questa novella verghiana è nota e non occorre tornarci; quello che, invece, è indispensabile comprendere è che, anche in questo caso, la giustizia viene utilizzata per asservire gli interessi dei potenti e stroncare, secondo il loro volere, le iniziative popolari per non inquietare la borghesia italiana nel momento dell’unificazione nazionale.

    In questa cornice, la parola “libertà” che dà il titolo alla novella è legata al fraintendimento del termine “giustizia” – inteso nella sua accezione di uguaglianza sociale – e fa trasparire la visione irrimediabilmente pessimistica del mondo di Verga, sullo sfondo dell’idea, anch’essa pessimistica, del funzionamento delle istituzioni giudiziarie. Esemplare, da questo punto di vista, è uno dei passaggi conclusivi della novella, in cui, con toni tragicomici, il Maestro etneo afferma: «Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore [...]. Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà! [...]»[18].  

    Da queste brevi ma spontanee espressioni che si formano, quasi con torpore, sulle labbra di una persona che sembra si stia appena svegliando da un lungo e profondo sonno, si ricava la visione sfiduciata che Giovanni Verga aveva della giustizia e dei suoi distratti rappresentanti[19], vissuta non solo come la critica tradizionale osserva, con rassegnazione, ma anche, che è ben più importante, con torpida meraviglia sotto la quale, forse, potrebbe riposare, giacere assopito, il démone della ribellione.

    Gli ultimi della scala sociale si approcciano alle istituzioni giudiziarie con un atteggiamento fatalistico e sconsolato, avvertendo il mondo giurisdizionale come un destino inesorabile che sovrasta la popolazione, la quale, di fatto, non ne comprende i meccanismi di funzionamento né il significato più intimo. Ma più in là nel tempo, non sappiamo che potrebbe accadere. Di solito queste domande hanno una risposta dopo che una reazione è avvenuta. Diciamo che la rassegnazione la annota Verga, ma quel che si cela sotto di essa o quel che essa è capace di determinare quando l’uomo rassegnato avvampa non può saperlo né il vinto né tanto meno Verga. Il lettore non può andare oltre quel che vede.

    Nella prospettiva delle Novelle rusticane, dunque, il diritto è sostanzialmente uno strumento di prevaricazione istituzionale, utilizzato dai ceti dominanti per difendersi dalle rivendicazioni sociali ed economiche degli umili verghiani, le cui pretese – giuste o ingiuste che siano, non è questo il problema – sono stroncate con le armi del potere, tra le quali ruolo principale viene assunto dalla giustizia e dai suoi disinteressati esponenti.

    Per questo, ogni discorso ideale o morale sulla giustizia, nella dimensione verghiana – che, a ben vedere, non è dissimile da quella degli imputati inconsapevoli descritti, quasi un secolo dopo, da Dante Troisi con grande incisività[20] –, è inevitabilmente una mistificazione culturale, strumentale all’esercizio di un potere di prevaricazione utilizzato dai ceti dominanti ai danni degli umili verghiani, che sono i vinti magnificati dalle sue narrazioni, rassegnati di fronte ai tempi e agli esiti della giurisdizione, che li vede inesorabilmente Vinti.

    3. Il Ciclo dei Vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano

    Com’è noto, con l’espressione Ciclo dei Vinti si indica il complesso dei romanzi che avrebbe dovuto realizzare un impegnativo progetto letterario verghiano, articolato in cinque opere narrative.

    Di questo progetto soni stati realizzati solo i primi due romanzi: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. I Malavoglia, pubblicato nel 1881, rappresenta le vicende di una famiglia di pescatori siciliani di Aci Trezza, che lotta per la propria sopravvivenza; Mastro-don Gesualdo, pubblicato nel 1889, rappresenta le vicende di un operaio edile che riesce a scalare la gerarchia sociale di Vizzini, un paese della provincia etnea, crocevia delle tre province di Catania, Siracusa e Ragusa.

    Il terzo di questi romanzi, intitolato La Duchessa di Leyra, mira a descrivere le ambizioni aristocratiche della piccola nobiltà terriera isolana. L’opera fu iniziata ma non fu completata. Federico De Roberto ne ha ricostruito e pubblicato i primi due capitoli.

    Avrebbero dovuto completare il Ciclo dei vinti altri due romanzi: L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, progettati per rappresentare le ambizioni dell’alta società isolana, in una sorta di percorso sociale, che partiva dalla condizione di emarginazione de I Malavoglia e si concludeva con la condizione alto-borghese, sostanzialmente parassitaria, de L’uomo di lusso

    Le ragioni per cui il progetto verghiano del Ciclo dei Vinti non andò in porto non sono rilevanti ai presenti fini, anche se su alcune delle possibili cause, che ne impedirono la realizzazione torneremo più avanti. Quello che, invece, ci interessa evidenziare è che l’idea di giustizia che pervade I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo costituisce la prosecuzione ideale delle tematiche relative ai rapporti tra le istituzioni giudiziarie e i Vinti.   

    Giovanni Verga, dunque, porta a ulteriore compimento le sue riflessioni sull’uomo e le istituzioni giudiziarie attraverso un percorso che conduce il lettore a valutare il rapporto che gli esseri umani sviluppano con il contesto sociale in cui vivono, che può essere compreso solo mediante un’analisi scrupolosa e impersonale dei protagonisti. Ne I Malavoglia questo rapporto si manifesta in un modo elementare, primordiale, essendo espressione di una lotta per il soddisfacimento dei bisogni materiali dei componenti della famiglia Toscano; soddisfatti questi bisogni, però, il rapporto tra l’individuo e il contesto sociale diventa più complesso, si stratifica, rendendo più vivido il tessuto narrativo verghiano e facendoci comprendere come nessun essere umano può vivere in modo svincolato dal milieu nel quale opera e del quale è espressione[21].

    In questa cornice, il Ciclo dei Vinti esprime la visione fortemente pessimistica dei rapporti sociali secondo Giovanni Verga. Si ammette la possibilità di elevazione esistenziale dell’individuo appartenente ai ceti più modesti, ma si riconoscono pure le difficoltà di miglioramento economiche e sociali, che rendono sostanzialmente inutile la funzione di intermediazione svolta dalle istituzioni giudiziarie, inadatte ad aiutare gli strati più poveri della società e a tutelarne le legittime istanze[22].

    Esemplare, da questo punto di vista, è il ruolo svolto dall’avvocato Scipioni[23] nella vendita della Casa del Nespolo dei Malavoglia, che convince la famiglia Toscano a cedere alle istanze dei creditori, fattisi avanti prepotentemente dopo il tragico naufragio della “Provvidenza”. Lo stesso avvocato Scipioni è protagonista di un altro episodio cruciale del racconto, atteso che dopo avere accoltellato Don Michele Cipolla, ‘Ntoni Toscano riesce a evitare una pesante condanna penale a causa del fatto che il difensore dell’aggressore lascia intendere che la rissa era scoppiata perché l’imputato voleva difendere la reputazione della sorella Lia – che nel corso della narrazione si darà alla prostituzione –, della quale la vittima si era invaghita, gettando ulteriore discredito sulla già martoriata famiglia Toscano.

    Considerazioni analoghe valgono per la vicenda delle tensioni per l’affitto delle terre comunali di Vizzini, descritta nel primo capitolo della seconda parte di Mastro-don Gesualdo, dove il protagonista utilizza le leggi del tempo per avere la meglio sugli altri contendenti, allo scopo di prevaricare gli avversari e accaparrarsi le terre comunali.

    Gesualdo Motta, del resto, arriva addirittura a entrare nella carboneria isolana pur di raggiungere i suoi obiettivi, nei quali si intrecciano scopi sentimentali – collegati al matrimonio fallimentare con Bianca Trao – e scopi più squisitamente verghiani, come l’attaccamento alla “roba” faticosamente accumulata con il duro lavoro[24], di cui il protagonista è un rappresentante esemplare. 

    In altri termini, in una società dominata da meccanismi di sopravvivenza tipicamente antagonistici, accentuati dall’affermazione prepotente del mondo capitalistico, il mondo del diritto e le istituzioni giudiziarie non possono svolgere alcun ruolo effettivo di tutela degli umili, operando con una funzione esclusivamente rappresentativa dei ceti dominanti, rispetto alla quale gli umili non possono che trasformarsi, inesorabilmente, in Vinti. L’esistenza umana, del resto, è reputata da Giovanni Verga come una dura lotta per la sopravvivenza destinata alla sopraffazione delle persone, con un meccanismo crudele che distrugge gli individui più deboli a vantaggio di quelli più forti; quest’ultimi riescono a dominare gli avversari, anche attraverso le leggi istituzionali, che sono espressione del ceto dominante.

    Giovanni Verga, pertanto, vede la società umana come un consesso di individui antagonisti, in cui ognuno tende a prevaricare l’altro per non essere sopraffatto.

    Appare utile, in proposito, il richiamo alla teorica dell’individualismo possessivo, tipicamente capitalistica, ma anche allo stato di natura prefigurato da Thomas Hobbes[25], secondo cui l’uomo è il principale nemico degli altri uomini (homo hominis lupus est), vivendo una condizione che, secondo il Maestro etneo, non è superata dall’apparato legislativo espresso dallo Stato. Le istituzioni pubbliche, infatti, soprattutto tra le classi sociali più umili, non sono viste come strumento di tutela delle istanze individuali, ma come ente indifferente o, peggio ancora, come un nemico, in linea con quanto affermato dallo stesso Verga in alcune delle Novelle rusticane, (Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà)[26].

    Lo stesso Mastro-don Gesualdo, del resto, costituisce la concretizzazione della visione della società di Giovanni Verga, antagonistica e alienante, atteso che, da semplice muratore diventa imprenditore edile, proprietario terriero e, infine, marito di una nobildonna, Bianca Trao. La scalata sociale, però, non gli comporta alcun riconoscimento nella sua amata-odiata Vizzini, la cui popolazione, al contrario, lo isola, essendo Gesualdo Motta detestato sia dagli strati popolari del paese, invidiosi della sua inarrestabile scalata sociale, sia dal ceto nobiliare locale, che lo considera solo un parvenu, inadeguato a interloquire con loro e incapace di condividerne abitudini e rituali. 

    4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano

    La parte conclusiva della vita di Giovanni Verga, trascorsa nel palazzo di famiglia, ubicato in Via Sant’Anna a Catania, ancorché poco conosciuta, è uno degli aspetti di maggiore fascino dello scrittore. Le modalità con cui il Maestro etneo trascorse questi anni ci forniscono anche alcune indicazioni sull’atteggiamento che lo scrittore teneva verso le “cose della giustizia”, che possono farci comprendere il senso con cui i suoi personaggi si avvicinano alle istituzioni giudiziarie.

    Le ragioni di interesse di questa lunga fase della vita di Verga, durata dal 1893, quando lo scrittore lascia definitivamente Milano, alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1922 per ictus cerebrale, sono molteplici.

    Una di esse è certamente quella della lunghezza di questa fase, durata ben ventotto anni, durante i quali la vena narrativa di Verga si attenua. Basti, in proposito, considerare che le ultime opere di finzione narrativa sono due raccolte di racconti – intitolate Il capitano D’Arce e Don Candeloro e C. – pubblicate dai Fratelli Treves di Milano nel 1891 e nel 1894, oltre un ventennio anni prima della sua morte, rendendo evidente l’allontanamento dalle precedenti opere.

    Un’altra delle ragioni di interesse è data dal fatto che i motivi dell’allontanamento di Verga dal mondo narrativo non sono mai stati del tutto chiariti, oscillando i pur attenti esegeti dell’opera verghiana tra cause collegate all’esaurimento della sua vis narrativa e cause collegate al pessimismo esistenziale che aveva caratterizzato la parte finale della sua vita; quest’ultimo profilo, a sua volta, si collegherebbe alle gravose incombenze familiari a cui lo scrittore si era dovuto dedicare dopo il suo ritorno a Catania.   

    L’attenuazione della vena narrativa, invero, è un dato di fatto incontroverso, reso evidente dall’abbandono del progetto legato alla stesura del Ciclo dei Vinti, che, come si è detto, si interruppe con l’incompiuto La Duchessa di Leyra, di cui conosciamo solo due capitoli, appena abbozzati[27].

    Con la pubblicazione di Mastro-don Gesualdo, avvenuta nel 1889 presso i Fratelli Treves di Milano, l’attività di romanziere di Verga si interrompe, essendo I ricordi del capitano D’Arce[28] e Don Candeloro e C.[29] due raccolte di racconti. Queste raccolte costituiscono l’espressione di una fase ormai conclusiva dell’opera verghiana, che, del resto, con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo – come verrà riconosciuto a partire dall’inizio del ventesimo secolo[30] – aveva raggiunto l’apice della letteratura del suo tempo.

    Per altro verso, non può non rilevarsi che, considerando I ricordi del capitano D’Arce e Don Candeloro e C., l’attività letteraria di Giovanni Verga era proseguita per oltre un trentennio, essendo riconducibile il suo esordio letterario alla pubblicazione de I carbonari della montagna[31], avvenuta nel 1861.

    Né può trascurarsi che l’attività di narratore di Giovanni Verga s’accompagnò a quella di autore teatrale, testimoniata da un nutrito numero di opere, una delle quali, Cavalleria rusticana – su cui si sviluppò un’aspra controversia giudiziaria[32] –, grazie alle musiche di Pietro Mascagni e al libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, diventò una delle opere liriche di maggiore successo della sua epoca, venendo, tra l’altro, adattata per il cinema con sei differenti trasposizioni.

    L’attività di autore teatrale di Giovanni Verga, inoltre, proseguì ben oltre la pubblicazione delle raccolte di racconti de I ricordi del capitano Arce e Don Candeloro e C., essendo l’ultima fatica teatrale di Giovanni Verga Dal mio al tuo[33], edita nel 1903 dai Fratelli Treves; opera che venne riadattata in forma di romanzo nel 1905.

    Il prematuro silenzio letterario di Giovanni Verga, dunque, è storicamente assodato, ma deve essere confinato alla sola attività di narratore, che effettivamente si interruppe nel 1894, con la pubblicazione di Don Candeloro e C., a cui fecero séguito alcuni interventi confinati al mondo teatrale, dal quale lo scrittore etneo si allontanerà a partire dal primo decennio del ventesimo secolo; solo allora, con la pubblicazione di Dal mio al tuo, datata 1903, si può parlare di definitivo allontanamento dalla scena letteraria di Verga, che, ormai sessantatreenne, si dedicherà esclusivamente alle sue incombenze familiari, conducendo, a Catania, una vita ritirata, sviluppatasi tra il suo palazzo di Via Sant’Anna e la sede del Circolo Unione, in Via Etnea.

    Rimangono da chiarire le ragioni del prematuro distacco dall’attività narrativa, per le quali non azzardo ipotesi, essendosi cimentati nella risoluzione di tale dilemma, umano e artistico, alcune tra le figure più importanti della critica letteraria italiana.

    Certamente contribuì al distacco il suo definitivo rientro a Catania, intorno al 1893, a cui fecero séguito le pesanti incombenze di proprietario terriero di cui era gravato; incombenze che crebbero con la morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, in conseguenza della quale si vide assegnare la tutela dei nipoti, Giovanni, Caterina e Marco, che successivamente adottò, facendoli diventare suoi figli legittimi.

    A mio modesto avviso, questa lettura delle cause del progressivo allontanamento di Verga dalle scene letterarie italiane sembra essere avvalorata dallo stesso scrittore, che, nel corso di una conversazione con Giuseppe Villaroel[34], riportata in appendice alla più volte citata opera di Luigi Russo, a proposito del suo allontanamento dal mondo letterario, affermava: «Io, per esempio, sono stato distratto gravemente dalla morte di mio fratello. Prima vivevo fuori, conducevo la vita più spensierata del mondo, lavoravo quando volevo, come volevo. Libertà assoluta e piena»[35].

    E ancora: «Dopo la morte di mio fratello, invece, piombai nel più bruto materialismo. Divenni un buon padre di famiglia. Sentii pesare su me tutte le preoccupazioni comuni: gli affari ordinari dell’esistenza, l’educazione dei miei nipoti di cui ero divenuto tutore, la cultura dell’ingranaggio oscuro e intimo della famiglia mi afferrò. E come poteva avvenire diversamente!?»[36].

    Giovanni Verga così concludeva questo passaggio della conversazione con Giuseppe Villaroel: «Così ho dovuto interrompere il Ciclo»[37].

    Nient’altro mi sembra di potere aggiungere alle parole dell’illustre romanziere, scusandomi conclusivamente con gli eventuali lettori per qualche approssimazione o per inevitabili omissioni. La conoscenza umanistica, d’altronde, va ritenuta ed è, inevitabilmente, in permanente evoluzione.


    [1] Desidero ringraziare per i preziosi consigli che mi hanno fornito durante la stesura di questo intervento i professori Mario Grasso e Ugo Maltese – il primo noto poeta e il secondo bibliofilo di lungo corso – della cui amicizia mi onoro. Entrambi hanno costituito un punto di riferimento insostituibile per questa mia incursione su un terreno, quello verghiano, da me molto amato ma esplorato in modo quasi privato.

    All’ineguagliabile cultura bibliografica di Mario Grasso e di Ugo Maltese devo anche alcuni fondamentali suggerimenti metodologici, che mi hanno consentito di acquisire notizie biografiche poco praticate dall’accademia ufficiale, con la sola eccezione di Luigi Russo, concernenti il periodo1893 - 1922. Proprio il 27 gennaio 1922 Verga moriva, ottantunenne, per ictus cerebrale.

    [2] Ciclo narrativo che, com’è noto, trae origine da G. Verga, Vita dei campi, Fratelli Treves, Milano, 1880; in realtà l’approccio verista alla letteratura del Verga deve farsi risalire a diversi anni prima, tanto è vero che il Maestro etneo, nell’autunno del 1874, aveva cominciato a lavorare a un bozzetto di ispirazione marinaresca, intitolato Padron ‘Ntoni, diventato poi il nucleo narrativo de I Malavoglia.

    [3] In questa direzione mi sembra utile richiamare un passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I malavoglia (Fratelli Treves, Milano, 1881), in cui si afferma: «Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio».

    [4] Per una ricognizione delle principali vicende biografiche di Verga mi permetto di rinviare a N. Cappellani, Vita di Giovanni Verga, Opere di Giovanni Verga, Le Monnier, Firenze 1940; G. Cattaneo, Giovanni Verga, UTET, Torino 1963; F. De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di C. Musumarra, Le Monnier, Firenze 1964.

    [5] Occorre, in proposito, ricordare che il primo, grande, scopritore-riscopritore dell’opera di Giovanni Verga, sostanzialmente dimenticata a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e soppiantata dai successi editoriali di Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro, mal sopportati dal Maestro etneo, fu Benedetto Croce che, ne La Critica (Ricciardi, Napoli, 1904), espresse giudizi molto positivi nei confronti del nostro Autore, avviando una lettura più attenta della sua produzione.

    Questa riscoperta, ulteriormente testimoniata dal fatto che nel 1918, quattro anni prima di morire per ictus cerebrale, Verga venne nominato senatore a vita, giunge a definitivo completamento con la pubblicazione dell’opera di L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli, 1920, che determinò il vero rilancio dell’autore nel mondo letterario italiano.

    [6] L’espressione «fiumana del progresso» venne utilizzata da Verga per descrivere la condizione socio-economica propria del Ciclo dei Vinti, che emargina coloro che non riescono a stare al passo con il progresso della società, travolgendo inesorabilmente e violentemente i ceti sociali inferiori e – potremmo dire con un’espressione oggi molto in voga – meno resilienti.

    [7] Per l’influenza dell’ideologia positivista sul pensiero della seconda metà del diciannovesimo secolo si rinvia ad A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino, 1967.

    [8] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, edizioni Salvatore Sciascia, Roma 1969, pp. 27 ss.

    [9] Vedi infra § 3.

    [10] Si veda L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 131 ss.

    [11] Si veda G. Verga, Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1882.

    [12] Vedi supra nota numero 2.

    [13] Si veda G. Verga, Mastro-don Gesualdo, Fratelli Treves, Milano, 1889.

    [14] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1990, p. 232.

    [15] Si veda G. Verga, op. ult. cit., p. 251.

    [16] Ci si riferisce a F. De Roberto, I Vicerè, Galli, Milano, 1894.

    [17] Ci si riferisce a G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 25 ottobre 1958.

    [18] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, cit., p. 347.

    [19] La sfiducia di Giovanni Verga nelle istituzioni giudiziarie traeva origine anche da alcune sue personali vicende giurisdizionali, di talune delle quali ci si occuperà nel paragrafo conclusivo, che, unitamente alla cura delle sue proprietà terriere, gli destarono grande preoccupazioni nell’ultima parte della sua vita.

    [20] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1953; su questi temi, tra l’altro, mi sono soffermato in A. Centonze, Il Diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi, in Giustizia Insieme (www.giustiziainsieme.it), 7 dicembre 2020, pp. 1-12.

    [21] Mi sembra utile richiamare un altro passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I Malavoglia, in cui, a proposito delle spinte emotive che animano gli esseri umani, si afferma: «Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali […]».

    [22] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, cit., pp. 35-38.

    [23] Anche se non si ha alcuna certezza in proposito, alcuni autorevoli critici ritengono che l’avvocato Scipioni, citato nei capitoli VI e XIV de I Malavoglia, nelle originarie intenzioni di Verga potesse essere il protagonista de «L’onorevole Scipioni», quarta opera del Ciclo dei Vinti, che non superò mai la soglia meramente progettuale; si rinvia, in proposito, a L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 192 ss.

    [24] Vedi supra § 2.

    [25] In questo contesto, si veda la ricostruzione storica di C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), trad. it., Isedi, Milano, 1973, dove si stabilisce un parallelismo tra sviluppo capitalistico e affermazione dello Stato borghese moderno, osservandosi che la sovranità nazionale è inseparabile dal mercato.

    [26] Vedi supra § 2.

    [27] Vedi supra § 2.

    [28] Si veda G. Verga, I ricordi del capitano Arce, Fratelli Treves, Milano, 1891.

    [29] Si veda G. Verga, Don Candeloro e C., Fratelli Treves, Milano, 1891.

    [30] Vedi supra nota numero 5.

    [31] Si veda G. Verga, I carbonari della montagna, Galatolo, Catania, 1861-1862.

    [32] Occorre precisare che, dopo la messa in scena della Cavalleria rusticana da parte di Pietro Mascagni, Giovanni Verga accusò l’editore Sonzogno di plagio, intentando nei suoi confronti una lunga causa, che, tra alterne vicende, si concluse nel 1893 con una transazione, all’esito della quale venne corrisposta allo scrittore la somma, ragguardevole per l’epoca, di 143.000 lire, che, tra l’altro, comportò la cessazione degli assilli economici che avevano caratterizzato la sua vita dopo il ritorno a Catania.

    [33] Si veda G. Verga, Dal mio al tuo, Fratelli Treves, Milano, 1906.

    [34] Si tratta della conversazione tra Giovanni Verga e Giuseppe Villaroel pubblicata sul Messaggero della Domenica del 19 marzo 1919, riportata in L. Russo, Giovanni Verga cit., pp. 229 ss.

    [35] Si veda L. Russo, Giovanni Verga cit., p. 230.

    [36] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.

    [37] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.

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