GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Ponti versus muri, o muri e ponti. 7) Gaza. Il dramma del fanciullo palestinese e il muro dell'indifferenza. Quali ponti per il futuro?

    Ponti versus muri, o muri e ponti. 7) Gaza. Il dramma del fanciullo palestinese e il muro dell'indifferenza. Quali ponti per il futuro? di Karim El Sadi

    [Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema, si veda l'Editoriale]

                                                                                           In copertina uno dei murales realizzati da Bansky sul muro di Gaza

    Sommario: 1. Introduzione - 2. Lampi di luce e sguardi distolti, la quotidianità che uccide - 3. Gli invisibili che camminano nel terrore - 4. Una generazione mutilata - 5. Abbattere muri, costruire ponti.

    1. Introduzione

    “Vorrei poter correre a piedi nudi in ogni campo profughi e tenere in braccio ogni bambino, coprirgli le orecchie in modo che non debbano sentire il rumore dei bombardamenti per il resto della loro vita come faccio io”.

    Recitava così, nel 2011, Rafeef Ziadah, poetessa e attivista palestinese naturalizzata canadese. Quanto appena letto è un breve estratto del poema “”We teach life” (“Noi insegniamo la vita”), recitato dalla giovane a Londra. Un monologo potentissimo, divenuto virale in tutto il mondo, in cui la poetessa denuncia il silenzio della comunità internazionale sul dramma di Gaza rovesciando la narrativa sionista e riaccendendo un faro sui giovani della Striscia. Le sue sono parole cadenzate e commoventi che si vedono trasformate periodicamente in realtà ogni qual volta Israele rovescia tutta la propria violenza omicida contro i “gazawi” (gli abitanti di Gaza).

    Come nell’ultima recentissima offensiva lanciata a inizio maggio di questo 2021. Undici giorni di bombardamenti incessanti in cui le scene descritte dalla Ziadah hanno preso forma in tutta la loro drammaticità: i raid, le morti, i feriti, le tv e il dramma dei giovani. Ed è su costoro che questo editoriale si vuole concentrare. Durante l’ultima offensiva criminale israeliana ribattezzata “Guardiano delle mura”, sono stati i giovani quelli più colpiti dalla violenza cieca e spropositata dell'aviazione di Tel Aviv. “Un inferno inevitabile”, l’ha descritta l’ONG Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.

    “Israele ha deliberatamente preso di mira aree civili densamente popolate e ha usato indiscriminatamente armi esplosive mortali durante la sua campagna di attacchi aerei”, ha denunciato l’ONG Aiwars lo scorso 9 dicembre.

    In questo “inferno”, dei 259 uccisi sotto le bombe dell'aviazione e dell'artiglieria israeliana (1500 sono i raid dichiarati da Tel Aviv) 41 erano donne e 66 bambini o ragazzi. In rapporto: circa 1 vittima su 4 dei missili israeliani era un bambino o una bambina. Non solo. Altri rapporti ufficiali notificano che oltre un terzo di tutte le vittime civili segnalate a Gaza era di età compresa tra 0 e 17 anni.

    Nei giorni dell'offensiva sono stati uccisi quasi un minore al giorno, per lo più rimasti uccisi in bombardamenti notturni in cui, a morire sotto i missili insieme a loro, sono stati anche i vari membri delle famiglie.

    Ma questa escalation è solo l'ultima di una lunga serie. Il dramma che affligge Gaza, e in particolare i giovani della Striscia, è ultradecennale e non è solo di carattere militare, ma anche politico, economico e sociale.

    2. Lampi di luce e sguardi distolti, la quotidianità che uccide

    Gli occhi dell’opinione pubblica in Italia - e in generale nel mondo - tendenzialmente si soffermano su Gaza - un fazzoletto di terra bagnato dal Mediterraneo di 360 km² -  solo quando a illuminarla sono i lampi delle bombe israeliane o il fuoco dei razzi lanciati sulle città israeliane dalla resistenza palestinese. Quello che Gaza vive quotidianamente però, specialmente quello che vive la sua gioventù, viene completamente ignorato. La vera grande tragedia di Gaza è proprio questa: la quotidianità. Ed è nella quotidianità che Gaza perisce, giorno dopo giorno. Un’agonia iniziata nel 2007 quando, dopo la vittoria alle elezioni politiche del movimento islamista di resistenza Hamas, e un periodo di tensioni che poi scoppiarono a fine 2008 con la tragicamente famosa operazione “Piombo fuso” di Tel Aviv (1400 morti palestinesi di cui circa 300 bambini), Israele impose il blocco sulla Striscia di persone e di merci. Una misura condannata dalle Nazioni Unite e dalle principali organizzazioni per i diritti umani. Il blocco è di carattere militare, terrestre e navale e tuttora restringe le importazioni di beni e l’erogazione di servizi - inclusa la fornitura di energia elettrica - verso il territorio palestinese, soffocando, così, l respiro economico della Striscia. 

    A tutto ciò bisogna aggiungere che i quasi due milioni di palestinesi che vivono sotto assedio nella Striscia, il 56% al di sotto dei 18 anni, sono privati del bene più vitale: l'acqua.

    Il 95% della popolazione - anche solo per bere e cucinare - dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata, con tutti i rischi che ciò comporta. Una situazione aggravata dopo i bombardamenti di maggio che hanno preso di mira una buona parte delle infrastrutture della Striscia.

    In aggiunta, quasi la metà degli abitanti di Gaza non ha cibo a sufficienza; gli ultimi dati del 2019, cioè due anni prima l’ultima offensiva di Israele, certificano un tasso di disoccupazione salito oltre il 49%. Particolarmente marcato è il tasso di disoccupazione tra le giovani donne (15-29 anni) che raggiunge il 92%, contro il 63,2% di disoccupazione degli uomini della stessa fascia di età. Mediamente il tasso complessivo di disoccupazione giovanile a Gaza è cresciuto dal 64,2% nel primo trimestre, al 69,9% nel secondo. Gli effetti del blocco israeliano si vedono pertanto nella vita di tutti i giorni. Senza poi contare le gravose conseguenze della pandemia da Covid-19 che ha piegato ancora di più la popolazione sia dal punto di vista umano che economico. Parliamo di 1,9 milioni di persone attualmente rinchiuse in un’area molto ristretta di territorio che non possono uscire senza autorizzazioni delle autorità israeliane o egiziane a seconda del valico da attraversare. “La prigione a cielo aperto più grande al mondo”, così viene descritta Gaza dagli esperti. E in questa “prigione” il commercio è praticamente inesistente, le famiglie sono divise e le persone non possono muoversi liberamente per curarsi, lavorare e tantomeno studiare.

    Secondo Oxfam più di 740 scuole si trovano in grande difficoltà per la carenza di energia elettrica, che è disponibile per sole 4-5 ore al giorno, altre invece sono state bombardate o danneggiate dai bombardamenti (circa 50 scuole hanno subito danni strutturali nei raid di maggio) nel corso di questi anni.

    Nel 2012 l’ONU dichiarava Gaza a rischio di invivibilità entro il 2020. Uno scenario che però, secondo Save the Children, si è palesato già nel 2018: oggi un milione di bambini sono costretti a vivere in condizioni inaccettabili.

    3. Gli invisibili che camminano nel terrore

    Per tutte queste ragioni, si può dire chiaramente che da anni Israele viola quotidianamente, in maniera più o meno diretta, la quasi totalità dei diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti del fanciullo approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959. A Gaza, attualmente, vivono circa un milione di minori. Chi ha 13 anni a Gaza ha già vissuto quattro aggressioni militari (2008, 2011, 2014, 2021). Molti di quelli scampati ai missili e all'artiglieria, purtroppo non sono scampati ai traumi che questi hanno provocato. Traumi che segneranno la loro esistenza fin dalla più giovane età e con i quali dovranno continuare a camminare e convivere.

    Per esempio, il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo all’operazione dell’esercito israeliano “Margine protettivo” del 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all'uccisione di persone, per lo più familiari. La conseguenza più diffusa era il disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell'individuo a eventi traumatici o violenti. Nello studio, erano stati registrati sintomi psicologici come continui incubi e flashback, paura di uscire in pubblico o di rimanere soli. Ma anche problematiche fisiche come disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; oltre ai disturbi emotivi che includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. Essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni, vedere soldati, spari, omicidi, corpi dilaniati, sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria di un individuo.

    4. Una generazione mutilata

    Restando sulla violenza esercitata sulla popolazione civile, sempre analizzando la questione dei giovani di Gaza, altro aspetto importante è quello della “gioventù mutilata”. L'oppressione, il contesto sociale in cui vivono i ragazzi e le ragazze, la disillusione, la pressoché totale assenza di prospettive future e la cornice della profonda fragilità politica, hanno fatto in modo di trasformare la delusione giovanile in rabbia e pretesa di giustizia. Questo sentimento di resilienza spesso si manifesta ai confini della Striscia, lungo le linee di ‎demarcazione con Israele dove periodicamente, da marzo 2018, data in cui i palestinesi ricordano la “Grande marcia del ritorno”, migliaia di palestinesi si riuniscono per manifestare contro il governo israeliano e le sue politiche repressive. Qui si tengono ampie proteste pacifiche, salvo il saltuario lancio di pietre e utilizzo di aquiloni incendiari, ai quali l’esercito israeliano risponde con una forza spropositata e criminale. Spesso, infatti, vengono piazzati cecchini e tiratori scelti dietro alle barriere di filo spinato che, con proiettili veri, fanno fuoco ad altezza uomo contro i dimostranti. Centinaia sono stati gli omicidi registrati (circa 200 solo nel 2018), tra questi anche giornalisti e infermieri presenti sul posto per soccorrere i feriti. Israele non guarda in faccia nessuno e spara deliberatamente e in maniera sistematica. Molti dei giovani colpiti, poi, se non perdono la vita (da marzo ad aprile 2018 sono stati uccisi circa 100 dimostranti) restano senza arti. Questo perché l'esercito utilizza “proiettili farfalla”, considerati banditi secondo il diritto internazionale, progettati per espandersi all'interno del corpo del bersaglio, sfracellando così braccia, mani e gambe.

    5. Abbattere muri, costruire ponti

    Giunti a questo punto, occorre soffermarsi, su quelle che dovrebbero essere le mosse politiche e sociali utili a favorire un cambiamento quanto ormai urgente e necessario. Per esempio, andrebbero favorite tutte quelle realtà sociali internazionali, incluse quelle israeliane che si discostano dalle politiche reazionarie e coloniali di carattere sionista, sensibili alla tematica e desiderose di solidarizzare con la popolazione sotto assedio. Molte di queste lavorano da anni, fianco a fianco, con la popolazione palestinese ma vengono ostacolate dalle azioni di contrasto di Tel Aviv. Parimenti andrebbero internazionalmente sostenuti gli spiriti di sano e corretto rinnovamento presenti all’interno della società israeliana, che possano rappresentare un focolare di resistenza culturale e opposizione politica ai progetti espansionistici coloniali di Israele e tutte le loro ramificazioni. Ma, ancor prima di questo, come osservano storici, analisti ed esperti,  palestinesi e non,  il primo passo da compiere è la revoca immediata del blocco su Gaza e la cessazione dell’assedio che soffoca il respiro economico e democratico della Striscia. Abbattere questo muro significherebbe consentire alla popolazione di Gaza di ripartire con le proprie forze e con la propria dignità - esemplare nel mondo - sotto numerosi punti di vista e offrire nuove e concrete opportunità alla popolazione civile, specie ai più giovani. Sono i giovani il presente e il futuro della Palestina. Sono loro che sono chiamati a raccogliere la staffetta della resistenza culturale di generazioni di padri. Ed è a loro che ritengo sia doveroso dedicare le ultime parole di questo editoriale con un passaggio della poesia del grande poeta siriano Nizar Qabbani che durante la Prima Intifada ha voluto dedicare agli scolari di Gaza:

    “Questa è la rivoluzione dei quaderni e dell’inchiostro. Diventate sulle labbra melodie. Fate piovere su di noi valore e fierezza”.

     

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