GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il coordinamento tra gli articoli 8 e 10 Cedu in una recente pronuncia della Supreme Court inglese* di Mario Serio

    Sommario: 1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee. - 2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona. - 3. I termini fattuali della vicenda giudiziale. - 4. La ratio decidendi della Supreme Court. - 5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square.

    1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee

    Tra i luoghi comuni capaci di riscuotere successo nell'esame degli effetti riconformativi della scena giuridica inglese conseguenti alla fuoriuscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea uno dei più comprensibilmente temuti è quello della progressiva perdita delle consistenti tracce della diffusione nel common law d'oltremanica dei portati della finestra da questo aperta verso il continente. Tracce riscontrabili non soltanto nel prima necessario recepimento nell'ordinamento interno di disposizioni normative europee, ma riferibili anche al dichiarato ed attuato desiderio dei giuristi inglesi di sviluppare un dialogo con i loro corrispondenti di civil law intessuto di confronti, emulazioni, circolazioni di concetti e soluzioni in vista di processi variamente denominabili come di ravvicinamento, uniformazione, omologazione. Si è propagato il timore, così, che dal voto referendario del giugno 2016 non potesse che derivare l'abbandono di quella ricca stagione passata, presumendo che essa avesse trovato i natali e la successiva forza per mantenersi in vita solo nel doveroso rispetto degli obblighi comunitari, dai quali il dialogo avrebbe tratto esclusivo vigore e ragion d'essere.

    Per quanto in astratto non ingiustificata, la preoccupazione si sta rivelando largamente eccessiva alla luce dell'esperienza giurisprudenziale inglese, che ha offerto di sé il volto del radicato interesse ad interiorizzare, in termini di nuovo costume intellettuale, il patrimonio ideale e culturale acquisito in lunghi anni di incisiva presenza del Regno Unito nelle istituzioni comunitarie.

    Tra i molti e benefici esempi dimostrativi dell'incancellabile eredità ricavata dal diritto inglese in virtù della continuità tra il canale della Manica ed il territorio continentale se ne sceglie in questa sede uno particolarmente probante sia in ragione della provenienza sia con riguardo alla materia trattata. 

    2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona

    Ormai da tempo la giurisprudenza inglese ha allontanato da sé il sospetto di concepire come possibile solo all'interno del proprio ordinamento il reperimento dei criteri di diritto positivo (includendo ovviamente nell'accezione il complesso delle pronunce giudiziali) utilizzabili nella propria attività, dirigendo anzi il proprio sguardo verso sistemi ordinamentali diversi, nazionali e transnazionali.

    Non è possibile stabilire anche in via di approssimazione alla certezza quali chiare ragioni abbiano contribuito a spingere la letteratura giuridica inglese in genere fuori da un isolamento culturale che appariva molto più pronunciato nei decenni scorsi. Sul piano della ragionevolezza probabilistica ben può ritenersi che la facilitazione al dialogo esterno ai confini nazionali abbia trovato salda origine nella quasi semisecolare presenza della Gran Bretagna nell'Unione Europea, la cui aria ha saputo respirare, beneficamente inalandola anche nel proprio polmone giudiziario. Argomenti, scritti, citazioni, esempi tratti dal diritto europeo quale autonomo corpo normativo e dai diritti degli Stati-membri dell'istituzione comunitaria hanno riforgiato il modo stesso di pensare delle corti di giustizia britanniche nel duplice senso di escludere la possibilità aprioristica di prescinderne e di consigliare di adottare come metro di misura dell'adeguatezza delle proprie decisioni la conformità, o la ragionata difformità,  rispetto agli orientamenti accreditati in altri ambiti spaziali.

    È motivo di consolazione, per chi osservi da una prospettiva, almeno potenzialmente, eurounitaria, constatare che questo profondo sommovimento in un terreno storicamente poco votato agli innesti non patriottici si sia consolidato fino al limite della creazione di feconde radici, mostrandosi indifferente al mutato quadro di riferimento istituzionale dei rapporti con l'Unione Europea.

    Ad oltre un decennio dal debutto sulla scena giudiziaria di ultima istanza della Supreme Court è doveroso il riconoscimento che la fattiva partecipazione della giurisprudenza inglese allo scenario europeo ha trovato nel nuovo organo un interprete di rilievo centrale sia per la calibrata provenienza dei suoi componenti da tutte le regioni del Regno Unito sia per la loro partecipazione al circuito delle giurisdizioni superiori europee ed al collegato apporto in termini di rivisitazione, rinnovamento, adattamento di categorie concettuali prima coltivate nell'esclusivo recinto domestico.

    Il caso che qui si presenta, Bloomberg v ZXC[1], deciso dalla Supreme Court il 16 febbraio 2022, si pone nella scia dei nessi comunicativi tra common law inglese e diritto europeo in senso ampio tanto per la trasversalità del problema affrontato quanto per la ricerca di soluzioni di cui non si è in alcun modo tentato di dissimulare la riconducibilità, se non l'identità, ad una comune ispirazione “continentale”.

    Lo spinoso punto di diritto attorno al quale si è sviluppata nei tre gradi di giudizio la controversia è stato così precisamente riassunto nella parte introduttiva della sentenza redatta dai Lord Hamblen e Stephens ed adottata con l'approvazione degli altri tre componenti il Collegio: se, in via generale, una persona sottoposta ad indagini penali abbia, nel periodo antecedente alla formale incriminazione, una ragionevole aspettativa di riservatezza circa l'esistenza delle stesse indagini.

    Un preliminare chiarimento concettuale è di fondamentale importanza per rendere comparabile la vicenda in questione con gli istituti processualpenalistici propri del diritto italiano (e di altri ordinamenti europei di civil law). L'espressione in lingua originale utilizzata per definire la fase delle indagini penali anteriori all'incriminazione è “prior to being charged”. E questa circostanza potrebbe condurre alla conclusione che letteralmente la sentenza abbia preso in considerazione il momento del procedimento penale che, secondo il metro italiano, parrebbe equiparabile a quello in cui la persona sottoposta ad indagini acquista, per effetto della richiesta di rinvio a giudizio rivolta dal pubblico ministero procedente al giudice dell'udienza preliminare, la qualità di imputato con il conseguente avvio dell'indagine penale. Accedendo a questa prima impressione sarebbe innegabile il notevole spostamento in avanti del momento fino al quale l'aspirazione alla riservatezza di cui si dibatte potrebbe trovare riconoscimento e protezione. Tuttavia, il dubbio può agevolmente sciogliersi non solo ricorrendo ad una nozione di “charge” coerente con l'acquisizione di una qualità processualmente rilevante e definita dal punto di vista anche delle garanzie soggettive, quale quella di persona sottoposta ad indagini secondo il nostro lessico familiare. D'aiuto ad avallare questa opinione si mostra anche la collocazione degli elementi di fatto rilevanti nel caso, i quali chiaramente fanno risaltare che il problema si pose con riguardo ad informazioni relative alla fase delle indagini preliminari di un'agenzia governativa che nella massima riservatezza stava raccogliendo presso autorità anche straniere elementi utili per determinarsi ad una successiva e del tutto eventuale fase diretta a muovere alla persona interessata contestazioni di rilevanza penale: queste, al contempo, avrebbero assicurato alla stessa l'attribuzione di una condizione soggettiva protetta in termini di garanzie procedimentali. In altri termini, la divulgazione della notizia dell'esistenza di indagini era avvenuta allorché le informazioni richieste non consentivano, nel momento della relativa formulazione, di prospettare alcuna chiara e definita posizione, secondo i canoni del diritto positivo, della persona interessata. Né, d'altro canto, lo stadio puramente embrionale di queste indagini dirette a verificare anticipatamente la possibilità di una loro estensione e di una contestuale eventualità di contestazione poteva in alcun modo lasciar prefigurare una qualche forma di determinazione stabile ed orientata da parte dell'autorità procedente. Ed invero, il nodo della lite, per come focalizzato dalla persona su cui si acquisivano notizie, risiede proprio nella mancata, preventiva assegnazione di una condizione rientrante nei paradigmi propri del procedimento penale dal cui alveo si era ancora lontani: ed in ciò, ossia nella predizione di un'evoluzione pregiudizievole per l'interessato, ben prima che questo evento si fosse avverato, veniva ravvisato il pregiudizio alla riservatezza della vita privata di cui si chiedeva la salvaguardia attraverso il rinvio alle previsioni convenzionali europee.

    La precisazione non è di poco rilievo in quanto, soprattutto in un ancora fluttuante spazio applicativo delle disposizioni domestiche, racchiuse nel d.lgs.188/2021[2] sulla presunzione di innocenza e sui limiti all'informazione pubblica che potrebbe comportare, essa consente di restringere in modo ragionevole e non ingiustificatamente angusto lo scenario della vicenda esaminata dalla Supreme Court e, pertanto, di prevenirne una sconsigliabile  interpretazione speculare che induca ad identificare nel common law inglese un avallo, in effetti non rinvenibile, ad una visione soffocante degli obblighi e dei corrispondenti diritti informativi. Può al contrario anticiparsi che i principii di diritto desumibili dalla giurisprudenza inglese sembrano apprezzabilmente riproporre, dotandoli dell'irrobustimento europeo, il complesso precettivo, garante della riservatezza sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo, che il diritto italiano riserva alla fase delle indagini non ancora risoltesi nella individuazione di ipotesi di responsabilità penali individuali.

    3. I termini fattuali della vicenda giudiziale

    Ridotta ai suoi termini essenziali la questione dedotta in giudizio aveva ad oggetto la pubblicazione nei mezzi di informazione di cui il convenuto era editore di notizie riguardanti l'esistenza di indagini svolte da un ente investigativo inglese, lo United Kingdom Law Enforcement Body (d'ora in poi UKLEB), istituito per legge all'interno di una visione specialistica degli organi titolari dell'iniziativa penale. Esse erano intese a mettere a fuoco lo svolgimento delle proprie attività all'estero da parte di una società di capitali, della quale l'attore era direttore di divisione proprio nello Stato straniero al quale l'agenzia si era rivolta, con espressa e cogente  richiesta di massima riservatezza o della indicazione della impossibilità di garantirla (nel qual caso la richiesta avrebbe dovuto essere intesa come oggetto di revoca), allo scopo di apprendere notizie utili circa la sussistenza di ipotesi di condotte di rilevanza penale per corruzione e frode. La lettera con cui si richiedevano notizie allo Stato straniero era inquadrata come una forma di mutua assistenza giudiziaria tra Stati in materia di corruzione ai sensi della Convenzione ONU siglata nell'ottobre 2003. La pubblicazione da cui il procedimento giudiziale poi devoluto all'esame della Supreme Court aveva tratto origine si incentrava, in particolare, sulla rivelazione che l'UKLEB aveva interrogato nell'ambito delle proprie indagini l'attore in quanto dipendente della società di cui si sospettava un'attività illecita all'estero. Malgrado le diffide dei suoi legali la notizia dell'interrogatorio dell'attore - danneggiato, nei cui confronti non sarebbe stato in seguito mai avviato un procedimento penale, era stata diffusa in via mediatica, al pari di quella della richiesta di informazioni presso lo Stato straniero nel quale l'attore prestava la propria attività lavorativa.

    L'agenzia investigativa britannica espresse la propria costernazione per la pubblicazione della notizia relativa alle indagini, ed al connesso oggetto, che stava conducendo, poiché la propalazione le avrebbe certamente pregiudicate.

    Sulla base di questo contesto fattuale l'attore, che, si ripete, lavorava alle dipendenze della società di cui si investigavano le condotte all'estero, convenne in giudizio l'editore facendo valere il proprio diritto a coltivare un'aspettativa di riservatezza in ordine alla circostanza che l'UKLEB avesse richiesto all'estero informazioni in merito alla sua attività nonché a quella, correlata, che lo stesso ente stesse svolgendo indagini che lo riguardavano. L'ombrello protettivo addotto dall'attore era costituito dall'art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo del 1950, trasposta nello Human Rights Act inglese del 1998 (entrato in vigore due anni dopo) intitolato al rispetto della vita privata e di quella familiare. In entrambi i gradi di giudizio anteriori a quello della Supreme Court (rispettivamente davanti la High Court e la Court of Appeal) la pretesa attrice fu ritenuta fondata sotto il profilo che alla condotta del convenuto andava addebitata una specifica forma di illecito civile classificato come “tort of misuse of private information”, vale a dire come un uso a fini indebiti di un'informazione di natura privata (perché riferita ad una persona titolare del diritto tutelato dall'art. 8 citato). La accertata violazione del diritto alla riservatezza personale e familiare fu ritenuta ragione sufficiente per decretare la prevalenza del bene giuridico protetto dall'art. 8 della CEDU rispetto a quello garantito dal successivo art. 10 in materia di libertà d'espressione. La misura risarcitoria, a carico dell'editore giudicato responsabile del tort, dapprima accordata in sede monocratica dal giudice Nicklin della High Court e poi mantenuta nelle susseguenti sedi collegiali, fu pari a 25.000 sterline.

    La doppia decisione conforme delle Corti inferiori fu confermata dalla Supreme Court infruttuosamente adita dall'editore soccombente nei due gradi.

    4. La ratio decidendi della Supreme Court

    I Giudici di ultima istanza risolsero il “thema decidendum” muovendo da una preliminare condivisione dell'impianto metodologico che era servito ad orientare in senso identico le pronunce del doppio grado. E proprio nel criterio di giudizio adottato è agevole scorgere non solo il metro valutativo adibito  per rigettare l'impugnazione ma anche e principalmente la bussola capace di indirizzare in linea di principio future decisioni su analoghi casi di denunciato conflitto tra le norme poste dagli articoli 8 e 10 della CEDU ed i valori in essi rispettivamente incarnati.

    Ed invero, il metodo informatore che deve guidare l'interprete in simili contingenze va suddistinto in due separate verifiche, il cui esito positivo soltanto può lasciar certi sulla effettiva commissione dell'illecita utilizzazione a fini divulgativi di dati afferenti alla sfera individuale convenzionalmente protetta dall'art. 8 più volte citato, riassunta nella locuzione “tort of misuse of private information”.

    Il primo stadio dell'indagine è diretto a stabilire se le circostanze del caso concreto obiettivamente autorizzino l'attore nel giudizio risarcitorio a nutrire una ragionevole aspettativa di riservatezza in relazione all'informazione concernente la sua sfera personale, poi resa pubblica. Lo stadio successivo, che presuppone il superamento del precedente, si propone il fine di acclarare se l'aspettativa alla tutela della riservatezza piuttosto che cedevole possa nella fattispecie ritenersi preminente, in una logica di bilanciamento tra interessi in competizione, rispetto alla libertà di espressione: proposta in termini diversi la questione implica lo scioglimento della concorrenza tra gli articoli 8 e 10 della CEDU alla stregua del parametro di giudizio fornito dalla sezione 12 (4) della legge inglese del 1998 traspositiva della Convenzione stessa secondo cui occorre tener conto, tra gli altri elementi della fattispecie, dell'interesse pubblico alla diffusione della notizia.

    Nel concludere che le decisioni di primo e secondo grado avevano fatto buon governo dei principii applicabili ai due stadi del test appena illustrato la Supreme Court confermò che essi erano certamente meritevoli di doppia replica positiva. La risposta al quesito poggia convincentemente sulle basi fornite da recenti precedenti di giurisdizione sia interna sia europea.

    Tra i primi certamente degno di menzione è quello della House of Lords del 2004 in Campbell v MGN LTD[3] che, nel sancire la transizione della figura di illecito per antigiuridica diffusione di notizie attinenti alla sfera protetta dall' art. 8 CEDU, pur commisurata al valore della libertà di informazione, dall'originaria configurazione di “breach of confidence” (costruita sull'idea che una simile violazione realizzasse caratteristicamente un attentato alla fiducia da una parte coltivata nel corretto e discreto operato dell'altra in possesso di informazioni riservate a sé relative) a quella del “misuse of private information” (evidentemente declinata sul piano oggettivo dell'approfittamento di conoscenze lesive dell'altrui riservatezza), ritenne illecita, in quanto trasgressiva del precetto dell'art. 8 CEDU, la pubblicazione di fotografie ritraenti una celebre modella, Naomi Campbell, che usciva dai locali di un'associazione frequentata da persone dipendenti dall'uso di narcotici. La sentenza della House of Lords, al cui interno si segnalano le potenti opinioni dissenzienti di Lord Nicholls of Birkenhead e di Lord Hoffmann, paladini dell'idea che il caso andasse ricondotto ai consentiti margini di apprezzamento discrezionale spettanti all'editore in tema di pubblicazione di notizie o immagini di persone note al pubblico, si è, tuttavia, posta in linea con un orientamento dottrinario di poco precedente che, seguendo un'interpretazione evolutiva dell'art. 8 conseguente all'emanazione dello Human Rights Act inglese, aveva sostenuto il valore primario della norma in quanto diretta a promuovere lo sviluppo di una concezione della personalità umana meritevole di essere protetta da indebite interferenze esterne[4].

    L'altro precedente cui la Supreme Court si è ispirata nel caso Bloomberg deciso nel 2022 proviene dalla Court of Appeal inglese in Murray v Express Newspapers plc del 2008[5] in cui fu statuito il diritto degli attori a non vedersi rigettare in via preliminare per manifesta infondatezza la propria domanda nei confronti di un giornale che aveva pubblicato la loro foto (ossia quella di una celebre coppia, la moglie essendo la creatrice ‒ con il nome di J. K. Rowling ‒ della serie di libri dedicati al personaggio di Harry Potter) mentre spingevano in una via pubblica di Edimburgo il passeggino con il figlio di pochi mesi, ossia una scena raffigurante un momento di intimità familiare che si riteneva riconducibile alla previsione dell'art. 8 della CEDU. Nell'escludere la carenza di plausibilità “prima facie” della domanda risarcitoria, la sentenza si preoccupò di indicare una serie di fattori (da allora in poi noti come i “Murray factors”) da tenere in considerazione nella prospettiva del bilanciamento tra i valori ed i principii, in ipotesi confliggenti, derivanti dai citati articoli 8 e 10 della Convenzione europea del 1950. In particolare, tali elementi vengono ancora oggi, come è accaduto nel caso Bloomberg, considerati risolutivi ai fini della prima fase del test in esso sperimentato dai Giudici e consistente nello stabilire,come già ricordato, se all'attore potesse accreditarsi una ragionevole aspettativa di riservatezza con riferimento alle informazioni poi pubblicate. Tra tali indici si ricordano le caratteristiche professionali del danneggiato; la natura dell'attività espletata ed il luogo di suo svolgimento; le modalità e lo scopo dell'invasione della sfera privata; l'assenza di consenso alla pubblicazione o la ragionevole previsione che sarebbe stato negato; gli effetti di ogni genere prodotti dalla pubblicazione sulla persona dell'attore; l'occasione nella quale le informazioni sono pervenute nella disponibilità dell'editore ed il fine perseguito. Il catalogo delle linee di indirizzo nella soluzione del quesito circa la ragionevolezza dell'attesa di riservatezza circa informazioni di carattere personale è stato poi dalla Supreme Court integrato attraverso l'approvazione di ulteriori criteri formanti la presunzione della relativa sussistenza che autorevole dottrina è andata suggerendo[6].Vengono, infatti, citati i seguenti, ulteriori fattori, attagliantisi allo stato soggettivo della persona offesa, che normalmente vanno apprezzati come indici probatori dell'illiceità dell'intrusione nell'altri sfera intima: le condizioni fisiche o mentali; le origini etniche o razziali; il particolare momento emozionale o di tensione; la natura delle relazioni familiari; l'orientamento sessuale; l'esposizione di dettagli riservati della vita personale; l'acquisizione delle informazioni nell'ambito di uno speciale rapporto fiduciario; le opinioni politiche e le eventuali appartenenze associative; il credo religioso; il riferimento della notizia alla sfera finanziaria o a quella della corrispondenza personale; il richiamo di precedenti penali o di altri procedimenti giudiziari. La Supreme Court rinvia, a sostegno della utilità di questo ricco elenco, ad altra dottrina specialistica, anche in tema di protezione di dati personali[7]: è da notare, tuttavia, che la sentenza oggetto di studio non manca di chiarire opportunamente che sfuggono alla lista di presunzioni di ragionevole aspettativa di riservatezza numerose informazioni che siano ormai entrate nel dominio pubblico, quali quelle riflettenti dati notori sulla situazione di una società quotata in borsa, il generale discredito suscitato dall'attività pubblica svolta dalla persona che invoca la riservatezza, la sua implicazione in gravi procedimenti giudiziari, le notizie tratte da processi oggetto di commento mediatico, etc.

    Si è anticipato che la sentenza pronunciata nel caso Bloomberg ha propiziamente spalancato il proprio orizzonte conoscitivo in esso includendo la giurisprudenza europea, meticolosamente citata ed analizzata quale imprescindibile fondamento decisorio. In particolare, munito di promettenti e certamente spendibili spunti è stato riconosciuto il precedente della Corte Europea dei diritti dell'Uomo nel caso Von Hannover v Germany del 2004[8] attinente ad una causa promossa in Germania dalla figlia maggiore del Principe Ranieri di Monaco contro un editore che aveva pubblicato parecchie foto della di lei vita privata.

    Varii ed abbondantemente argomentati sono i principii che la Corte europea rese allora espliciti: ad essi ha espresso motivata adesione la Supreme Court nell'identificare la linea di confine, o meglio di non interferenza reciproca, tra le pretese individuali azionabili ai sensi dell'art. 8 CEDU e le eccezioni opponibili al rispetto della vita personale e familiare in virtù della libertà di espressione consacrata dal successivo art. 10. Una volta di più la tensione che ha animato la Supreme Court nel reperimento del conforto della giurisprudenza europea è stata quella di circondare l'intera materia del potenziale e frequente conflitto tra due norme di primaria importanza della Convenzione europea sui diritti umani del maggior numero possibile di presidi precostituiti per almeno affievolire il ricorrente rischio di discontinuità interpretative propedeutiche a possibili e destabilizzanti arbitrii decisori. La Corte di Strasburgo, nel decidere il primo dei tre ricorsi proposti in poco meno di un decennio dalla erede della dinastia monegasca, si attenne ad un parametro di rigore definitorio della nozione (fatta propria in Bloomberg dalla Supreme Court) di vita privata rilevante ai sensi dell'art. 8, individuandola estensivamente negli aspetti relativi all'identità personale, quali il nome, ed includendovi l'integrità fisica e psicologica. E ciò nell'ottica, già menzionata perché frutto di interiorizzazione da parte della giurisprudenza inglese, di favorire lo sviluppo delle personalità individuali, svincolandole dai rischi delle interferenze esterne, nei rapporti con gli altri esseri umani. Ed i Giudici dei diritti umani anticiparono quel concetto di ragionevole aspettativa della protezione della vita personale e familiare che le corti inglesi avrebbero concordemente esaltato quale modello di civiltà dei rapporti interindividuali applicabile senza il diaframma di confini nazionali. La lingua parlata a Strasburgo (dai Giudici anglofoni d'oltremanica interamente tradotta in omologhi e collimanti segni semantici) sulla portata dell'art. 8 fu ancora più eloquente perché ne rese certa la propensione a creare negli Stati-membri, in aggiunta a quello negativo di astenersi da condotte interferenti con la vita personale e familiare degli individui, l'obbligo di adempiere prestazioni positive rivolte a rendere effettivo il diritto soggettivo incapsulato nella disposizione in esame. L'investimento culturale effettuato dalla Supreme Court in Bloomberg produsse ulteriori ed opulenti dividendi a proposito della delicatissima questione ‒ a propria volta costituente una delle più intricate svolte del caso ‒ del bilanciamento tra i beni presi in considerazione dagli articoli 8 e 10 CEDU. Ed infatti, nella decisione Von Hannover n.1 la Corte europea espose l'aggregazione dei criteri di ragionamento proiettati verso la soluzione dei possibili grovigli conflittuali. Facendo leva sul presupposto del ruolo essenziale della stampa, quale organo di informazione collettiva, in una società democratica allo scopo di diffondere notizie di interesse pubblico, la Corte non volle ignorare il problema dei limiti invalicabili di tale opera, riferendoli al rispetto ed alla reputazione altrui. In questo senso un primo criterio discretivo venne colto tra l'attività informativa svolta mediante la cronaca di fatti e quella volta a riportare dettagli di vita privata. La precisazione intese rispondere alla sollecitazione intellettuale generata dall'ammissione, dalla medesima Corte resa, che la tutela della vita privata valica l'area della cerchia familiare, comprendendo una dimensione sociale. È, infatti, necessario garantire a qualunque individuo il pieno godimento di legittime aspettative di protezione e rispetto per la propria vita personale. E l'esito circolare di questa forma di sillogismo giudiziale portò a cogliere il decisivo elemento idoneo a fungere da bilanciamento tra l'aspirazione alla tutela della vita privata ed il perseguimento della libertà espressiva nella qualità del contributo ad un dibattito di interesse generale che la pubblicazione di fotografie o notizie si rivela in grado di fornire. La stessa Corte europea dei diritti umani si è impegnata nella sentenza resa nel 2018 nel caso Denisov c Ucraina[9], anch'essa richiamata dalla Supreme Court, nel rinvigorire, attraverso un processo di integrazione in via logica del relativo contenuto, la nozione di “vita privata” aggiungendo alle sue stesse pregresse definizioni l'osservazione secondo cui essa, pur insuscettibile di un'esauriente descrizione, assorbe molteplici aspetti dell'identità fisica e sociale, incluso quello che si esplica nel diritto a stabilire e sviluppare relazioni con altre persone e con il mondo esterno in genere.

    La risorsa costituita dall'attingimento agli insegnamenti della giurisprudenza europea dei diritti dell'uomo fu ulteriormente sfruttata dalla Supreme Court in Bloomberg nel prefiggersi di scolpire il concetto di reputazione personale meritevole di essere difesa, ai sensi dell'art. 8 CEDU da illegittime intrusioni: ragione e finalità di tale difesa sono state, infatti, scorte nell'esigenza di rimuovere qualunque ingiustificata limitazione al pieno godimento del rispetto della vita privata, in totale simmetria con l'analogo principio espresso dalla Grande Camera nel 2012 a Strasburgo in Axel Springer AG c Germania[10]. Ma il controlimite, rispondente alla necessità di soluzioni proporzionate, è stato prontamente esposto dalla Supreme Court nella esclusione dalla sfera di tutela consentita dall'art. 8 dei casi in cui il danno reputazionale trovi la propria fondamentale scaturigine nella stessa condotta penalmente rilevante dell'attore: così abbracciando il plesso di pensiero fatto esplicito dalla Corte EDU nel citato caso Denisov, a propria volta tributario della precedente sentenza del 2007 in Pfeifer c Austria[11].

    Da questa premessa, che riveste evidente carattere di eccezione rispetto ai più permissivi postulati dedotti dall'art. 8, la Supreme Court trae una conclusione solo parzialmente attenuativa nel senso di richiedere, perché operi  a favore dell'editore l'esimente della precedente condotta riprovevole dell'attore, che essa sia stata definitivamente affermata sulla base di un processo dalle conclusioni univoche: il che sterilizza la possibilità che l'attore stesso possa alimentare una ragionevole aspettativa di riservatezza circa le informazioni ruotanti attorno ai propri misfatti.

    5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square

    Il dovere di generoso riconoscimento alla Supreme Court del merito di aver compiuto un tentativo largo e privo di predeterminazioni geografiche o ideologiche per dipanare fili ad alta tensione perché capaci di innescare un nocivo corto circuito tra valori di alto rango giuridico e sociale a confronto non può che esaurirsi concentrandosi sul precipitato decisorio delle molteplici premesse tratte in prevalenza dai precedenti citati. In effetti, sarebbe fallace l'impressione che considerasse l'epilogo del caso come una mera operazione deduttiva della Corte dal proprio esteso e diffuso preambolo argomentativo. Ed infatti, nell'avvicinarsi alla pronuncia definitiva i supremi giudici sembrano disposti a decampare dalla linea consequenzialista-sillogistica per indulgere alla rappresentazione della propria (unanime) concezione di un rapporto tra diritti del singolo alla difesa della propria immagine pubblica ed interesse pubblico all'informazione particolarmente attento a non concedere uno spazio eccedente limiti rigidamente prefissati al secondo. E questo non per preconcetta insensibilità ai benefici effetti di uno scorrevole flusso informativo, quanto, piuttosto, per il timore che, invertendo i rapporti tra regola ed eccezione a favore della seconda (pubblicazione illimitata), si finirebbe con il porre a carico della persona che si professa danneggiata il difficoltoso onere di controbattere, con il semplice ed opinabile riferimento alla propria condizione personale e familiare, la presunzione dell'interesse alla pubblicazione in tutti i casi in cui non sia possibile dimostrare il contrario.

    Forse la matura consapevolezza, che nell'affrontare un tema conflittuale di queste dimensioni, per di più aggravato dalle imponenti implicazioni inter-ordinamentali, il margine di fallibilità di soluzioni anelastiche e stentoree è sensibilmente elevato, ha suggerito alla Supreme Court di abbinare all'analisi generale svolta sul filo di principii e regole di giudizio astratti un metro valutativo ispirato alla puntuale valutazione delle particolarità del singolo caso. Più esattamente il criterio che la Corte battezza come “fact-specific enquiry” viene indicato come la via maestra per rispondere alla domanda indotta dal primo stadio del test bi-fasico prima illustrato, quello tendente ad appurare se le circostanze del caso autorizzassero l'attore a coltivare una ragionevole aspettativa di riservatezza in ordine alle informazioni sulla sua vita privata arrivate nella disponibilità dell'editore. Soluzione che non si può esitare a qualificare come saggia e prudente nella ovvia misura in cui ben si guarda dal legare le mani al futuro interprete-decisore che potrebbe trovarsi a giudicare intorno ad un caso fuoriuscente dai cliches abituali ed involgente profili prima mai esaminati. Ed in fondo, proprio dirigendosi verso un'analisi “fact-specific” la sentenza ha confermato la dichiarazione di fondatezza della domanda attrice già effettuata nei due precedenti gradi di giudizio poiché ha ritenuto che la cornice storico-fattuale della controversia concorresse a consolidare l'aspettativa di riservatezza dall'attore fatta valere in giudizio, esattamente percepita dalle Corti sottostanti. Ma la Supreme Court non si è accontentata di decidere sulla semplice base di una valutazione “ex post” della fondatezza delle aspettative della persona danneggiata: essa non ha, infatti, voluto eludere nella parte finale della propria pronuncia il più grave nodo problematico che sin dall'inizio avvolgeva l'intera fattispecie: quello del confronto tra il rispetto della vita privata e la libertà di espressione giornalistica rivendicata dall'editore con riferimento alla notizia dell'indagine. La risposta data, ancora una volta ricavata dalla ponderata analisi delle circostanze del caso, tronca il dubbio alla stregua del valore attribuito alla concreta individuazione del pubblico interesse preminente nel caso di specie. Ed infatti, la sentenza afferma senza circonlocuzioni che a primeggiare dovesse essere un terzo genere di interesse, anch'esso di natura pubblica: quello a che venisse salvaguardata la necessità, chiaramente segnalata dall'autorità inquirente britannica nella lettera di richiesta di informazioni indirizzata allo Stato straniero, di segretezza della richiesta stessa. La sede del commento ad una pronuncia di simile rilevanza non può scoraggiare, dovendo anzi incoraggiare, una considerazione non esattamente allineata al merito della causa. Guardando fino in fondo questo argomento risolutivo, seppur concorrente nell'economia della decisione, esso si disvela come una specie di diversivo motivazionale rispetto all'intima radice della controversia, più volte qui spiegata come sintomatica di un conflitto tra le posizioni soggettive, individuali e collettive, rispettivamente declamate dagli articoli 8 e 10 CEDU. Nel ragionamento della Supreme Court entra in scena, addirittura con un ruolo da protagonista, un attore del tutto non evocato nel teatro del conflitto tra norme e titolari dei diritti da esse conferiti. Ed invero, l'interesse alla segretezza della comunicazione interistituzionale non solo non sembra correlabile alla dinamica competitiva tra le due norme; esso è addirittura imputabile ad un soggetto terzo rispetto allo stesso processo, ossia l'agenzia inquirente inglese. Questo dimostra che la via scelta è stata elegante e, al contempo, sfuggente: per dirimere la controversia tra le parti vertente sulla preponderanza di uno dei due interessi contrapposti si è preferito privilegiare quello di un terzo estraneo al giudizio in quanto più fedele rappresentante di un interesse pubblico ‒ quello alla segretezza delle comunicazioni interistituzionali, appunto ‒ esterno al perimetro della lite. A propria volta questa via di fuga non ha prodotto effetti neutri in quanto, al tirar delle somme, si è risolta nell'attribuzione all'attore vittorioso di un vantaggioso merito in effetti spettante ad altri, dietro le cui prerogative si nasconde, quindi, il successo giudiziale. E non può certo dirsi che la Supreme Court sia stata ignara del bisogno di donare alla propria sentenza un fondamento al tempo stesso razionale e di principio, in tal modo destreggiandosi per non naufragare tra i marosi delle critiche degli osservatori, soprattutto militanti nel campo dell'informazione. Il terz'ultimo capoverso della pronuncia, infatti, (il n. 156) con grande schiettezza dichiara ‒ citando un proprio precedente del 2016[12] ‒ che l'esercizio orientato al bilanciamento tra i diritti discendenti dagli articoli 8 e 10 della CEDU va descritto come analogo a quello proprio dei poteri discrezionali[13].

    Alla luce di questa intelligente virata verso un porto dogmaticamente più sicuro a sostegno di una opzione a favore del diritto al rispetto della vita privata, che nella fattispecie probabilmente aveva dalla sua parte il favore del maggior peso del rispettivo piatto della bilancia (in special modo apprezzando l'abusiva violazione del segreto investigativo responsabile dell'evaporazione delle indagini a causa del venir meno dell'effetto “sorpresa” espressamente lamentato dall'agenzia UKLEB) può concludersi l'esplorazione sul singolo caso senza inscriverlo duramente ed inappellabilmente nella cerchia di quelli venati da un preconcetto penalizzante a danno della libertà di espressione.

    Vi è, tuttavia, un delicato fronte che resta aperto e si annida non solo nelle pieghe della sentenza del 2022, ricorrendo in tutta la recente linea giurisprudenziale inglese e, in maniera non dissimile, della Corte europea dei diritti umani. Si tratta della ennesima legittimazione come punto di partenza iniziale di ogni giudizio in questa materia[14] dell'idea che, in ogni caso in cui si controverta della liceità della pubblicazione di notizie concernenti un'investigazione ancora in fase preliminare e non sfociata in addebiti formali, debba ritenersi sussistente la ragionevole aspettativa della persona interessata dall'indagine stessa alla riservatezza per non veder compresso il proprio diritto alla tutela della vita privata. Quel che qui si vuol porre in rilievo non è certo una qualsiasi perplessità sull'esattezza di un siffatto criterio in quanto espressione di piena aderenza a specifici divieti normativi sulla segretezza delle indagini (ed il discorso è perfettamente trasponibile all'esperienza giuridica italiana) nonché a sane regole di civiltà giuridica. Su un altro aspetto, di affatto secondaria importanza, può essere consigliabile proseguire il dibattito per approssimarsi ad una più solida e ferma base di giudizio: vi è, infatti, da porsi la domanda se questo punto di partenza, che, come visto, è solito giocare una parte di somma decisività, possa realmente ascendere, come molti concorrenti indizi sembrano suggerire, al rango di una presunzione, quanto meno semplice e, come tale, soggetta ad essere “rebuttable” secondo le regole probatorie del common law inglese in materia di relativo superamento. La questione si manifesta in tutto il suo rilievo in casi come quello esaminato in quanto, attribuendo al punto di partenza un valore dirimente, si renderebbe superflua la valutazione delle circostanze del caso concreto per stabilire la ragionevolezza (che, a quel punto, non richiederebbe di essere provata volta per volta) dell'aspettativa di riservatezza vantata dalla parte danneggiata. La più recente casistica giudiziale inglese offre spunti univoci per reputare che questo dato iniziale di riflessione (lo “starting point”) tenda a tramutarsi in regola di giudizio fondata sostanzialmente su una presunzione, di talché l'indagine, che, comunque, viene effettuata per trarre conferma di questa convinzione dalle concrete circostanze del caso, finisce inevitabilmente con l' asseverare la risposta positiva preventivata. Ed allora, non può non dirsi rispondente a coerenza logica, che si esprima l'auspicio che la giurisprudenza di common law britannico non si fermi a metà del guado e guadagni rapidamente la riva dell'affermazione dell'esistenza di una presunzione, almeno semplice, nel senso delineato. Ne otterrebbe beneficio il quadro dei rapporti tra norme appartenenti al medesimo corpo disegnato dalla Convenzione europea del 1950. Ed in pari misura il dialogo interordinamentale taglierebbe un ulteriore traguardo di compiutezza.

    * Scritto destinato ad onorare il personale debito di gratitudine umana ed accademica verso Rodolfo Sacco, co-fondatore della comparazione giuridica italiana, accademico dei lincei, giovanissimo partigiano piemontese.

     

    [1] (2022) UKSC 5.

    [2] Sui cui prodromi genetici si può vedere N. Rossi, Il diritto a non essere additato come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questione Giustizia, on line, 2021.

    [3] (2004) UKHL 22.

    [4] G. Phillipson, Transforming breach of confidence?Towards a common law right of privacy under the Human Rights Act, in The Modern Law Review, 2003, 726 ss. ed in particolare pag. 732 nota 52 in cui cita a suffragio la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in Botta c. Italia del 1998.

    [5] (2008) EWCA Civ 446.

    [6] Viene citata una delle più note opere in tema di diffamazione a mezzo stampa e non, R. Parkes QC, A. Mullis, G. Busuttil, A. Speker, A. Scott, Gatley On Libel and Slander, 12° ed., London, 2017, parr. 22-25.

    [7] C. Doley, A. Mullis, Carter-Ruck On Libel and Privacy, 6°ed., London, 2010, par. 19.

    [8] Causa 59320/00.

    [9] Ricorso 76639/11.

    [10] Ricorso 39954/08.

    [11]Ricorso 12556/03.

    [12] PJS v News Group Newspapers Ltd (2016) UKSC 26, che, a sua volta, richiama una sentenza della Court of Appeal di tre anni precedente in AAA v Associated Newspapers Ltd (2013) EWCA Civ 554.

    [13] “The exercise of balancing article 8 and article 10 rights has been described as analogous to the exercise of a discretion”.

    [14] L'espressione “starting point” è ripetuta in numerosi passaggi della sentenza della Supreme Court ed assunta a taumaturgica formula di giudizio: si veda per tutti il paragrafo 146, che definisce “legitimate” l'adozione di tale criterio di ponderazione delle opposte ragioni in conflitto.

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