GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La risposta giudiziaria all’emergenza della violenza di genere e la sfida della formazione

    La risposta giudiziaria all’emergenza della violenza di genere e la sfida della formazione

    di Costantino De Robbio

    Sommario: 1. Introduzione: il fenomeno della violenza di genere e i diversi livelli di contrasto - 2. L’azione di contrasto di breve periodo: la repressione delle singole condotte di reato - 3. La risposta nel medio periodo: le recenti modifiche legislative - 4. Lo stato attuale dell’azione repressiva: miglioramenti e persistenti criticità - 5. La pronuncia della Corte EDU del maggio 2021 e la decisione del Comitato Cedaw del gennaio 2022 - 6. Il terzo livello del contrasto: la formazione dei magistrati in tema di violenza domestica e Codice Rosso - 7. Riflessioni conclusive. 

    1. Introduzione: il fenomeno della violenza di genere e i diversi livelli di contrasto

    È fuori di dubbio che i reati  riconducibili alla cosiddetta violenza di genere  si sono negli ultimi anni moltiplicati in maniera esponenziale, sino a dare al fenomeno caratteristiche di vera e propria emergenza nazionale.

    Secondo un dato recentemente pubblicato dal Servizio centrale anticrimine della Polizia di Stato, nel 2021, ogni giorno, si sono registrate presso gli uffici di polizia 89 vittime di violenza di genere[1].

    Non si tratta, come è noto, di una forma delittuosa tipica del nostro Paese, essendo questo tipo di reati diffusi endemicamente in tutto il pianeta: da uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità emerge che più di una donna su tre in tutto il mondo è stata vittima di questo tipo di reati e che “la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo è l’uccisione di persone conosciute, in particolare del partner o ex partner[2].

    Si tratta di numeri e dati impressionanti, soprattutto considerando che si tratta di reati spesso connotati da violenza efferata; lo scenario appare ancora più inquietante se si considera che le condotte in esame sono rivolte nei confronti di vittime a cui il responsabile è legato da rapporto diretto (affettivo, verrebbe da dire se non stridesse in maniera evidente con le azioni delittuose in argomento) e non di rado risalente negli anni, quando non addirittura di convivenza.

    Il comprensibile allarme sociale destato dal fenomeno ha fatto maturare la consapevolezza della necessità di una risposta straordinaria da parte dello Stato, conseguenza della constatazione della impossibilità di farvi fronte con gli strumenti apprestati dal codice penale e da quello di procedura penale per la repressione degli altri delitti.

    In particolare,  come sempre è avvenuto ogni volta che i numeri o la percezione dell’opinione pubblica hanno imposto la consapevolezza dell’esistenza di un fenomeno criminale particolarmente allarmante[3], è stata elaborata una risposta articolata in più livelli.

    Un primo livello, che potremmo definire emergenziale o di breve periodo, è consistito nel rafforzamento della repressione delle singole condotte di reato, la cui realizzazione è affidata alle forze dell’ordine e alla magistratura, soprattutto inquirente, oggi sicuramente più preparate e consapevoli di quanto avvenisse in passato nell’affrontare questa emergenza criminale.

    Al fine di rendere maggiormente incisiva l’azione repressiva sopra descritta sono state poi apportate modifiche legislative alle norme sostanziali e di procedura, affiancando dunque alla risposta nel breve periodo una reazione al fenomeno più meditata e destinata ad agire in una prospettiva temporale di maggior respiro (risposta di secondo livello o di medio periodo).

    Infine, si sta affermando negli ultimi tempi la consapevolezza della necessità di agire in maniera più profonda e duratura, facendo leva sulla formazione di magistrati ed operatori del diritto al fine di dotare gli stessi di strumenti tecnici e culturali più adeguati a fronteggiare il fenomeno: è la risposta di terzo livello o di lungo periodo, destinata ad incidere in profondo e con risultati irreversibili per sradicare il fenomeno alla base.

    Questo terzo livello di contrasto alla violenza di genere è oggetto specifico del presente breve scritto.

    Naturalmente i tre livelli di intervento vanno coordinati e devono agire in sinergia e devono essere considerati tre aspetti della medesima risposta dello Stato all’emergenza criminale.

    Pertanto, prima di approfondire gli aspetti culturali e formativi dell’azione dello Stato nel campo in esame, appare opportuna una brevissima panoramica dei primi due livelli, soprattutto per evidenziarne le refluenze sull’offerta formativa e quindi i legami con la risposta di lungo periodo.

    2. L’azione di contrasto nel breve periodo: la repressione delle singole condotte di reato

    La risposta immediata e quotidiana deve essere attuata attraverso un intervento sul territorio della Polizia Giudiziaria e l’attuazione di adeguate misure cautelari a protezione della vittima da parte della magistratura il più possibile tempestivi.

    È noto che si tratta nella maggior parte dei casi di condotte di reato ingravescenti, dove l’autore reitera gli atti aumentandone progressivamente il tasso di aggressività. La violenza dei responsabili di queste condotte si alimenta di se stessa e quasi sempre si accompagna ad un senso di impunità che contribuisce a diminuire i freni inibitori e la sensazione di disvalore del fatto.

    Occorre dunque sensibilizzare magistrati e forze dell’ordine in ordine alla necessità di agire presto e con fermezza, anche attraverso un incremento dell’azione della formazione degli operatori.

    In questo senso vanno peraltro molte delle modifiche legislative introdotte negli ultimi anni, di cui parleremo di qui a breve.

    Un ulteriore sforzo di sensibilizzazione dovrebbe essere rivolto ad evitare di lasciare la vittima sola con il peso di dover rappresentare alle forze dell’ordine ciò che le sta accadendo, ricercando con attenzione riscontri estrinseci e dichiarazioni di terzi.

    Tale sforzo investigativo è necessario sia per l’ esigenza di rafforzare il compendio probatorio  - che è comune ad ogni procedimento penale  - che per evitare che il futuro dibattimento si risolva nella contrapposizione tra le dichiarazioni della vittima e quelle dell’imputato che è a volte fonte di uno dei più ricorrenti bias cognitivi in materia, costituito dalla implicita tendenza a svalutare le prime in presenza delle seconde, nonostante la chiara indicazione contraria agevolmente ricavabile dai principi generali del nostro codice di rito.

    Ancora, un compendio accusatorio che non si accontenta delle sole dichiarazioni della vittima (anche se alle stesse, giova ricordarlo, la giurisprudenza unanime assegna da sempre valore sufficiente a considerare provato il reato, in presenza di congrua motivazione della sentenza di condanna) protegge dal rischio, sempre ricorrente in questo tipo di processi, che la vittima sia esposta ai tentativi del reo di condizionarne le condotte proprio in virtù della vulnerabilità e del legame personale con quest’ultimo.

    È infatti tristemente noto a chiunque si sia occupato di questa materia nelle aule giudiziarie l’esorbitante numero delle ritrattazioni delle accuse da parte delle vittime di violenza, che portano in moltissimi casi al verificarsi del binomio misura cautelare - sentenza di assoluzione, spia evidente di un andamento non fisiologico del procedimento penale.

    Questi dunque i settori in cui la formazione (di magistrati e forze dell’ordine) può migliorare e rendere più efficace (anche) il primo livello della risposta alla tipologia di delitti in esame. 

    3. La risposta nel medio periodo: le recenti modifiche legislative

    Sulla scorta dell’esperienza maturata sul campo dagli operatori giudiziari, sono state realizzate negli ultimi anni diverse modifiche legislative destinate a rendere più efficace l’azione giudiziaria stessa.

    In particolare, si è agito in un primo tempo mediante rafforzamento del presidio sanzionatorio, con inasprimento delle pene per le fattispecie di reato già esistenti e la creazione di nuove fattispecie di delitto (fondamentale l’istituzione del delitto di atti persecutori o stalking).

    Contestualmente, sono state introdotte nel codice di procedura penale due misure cautelari pensate specificamente per questo tipo di reati[4]. Con la successiva modifica all'articolo 275, terzo comma del codice di procedura penale ad opera della legge 47 del 2015 è poi stata attribuita al giudice la possibilità di adottare misure cautelari anche cumulativamente[5].

    È dunque ora possibile adeguare la risposta repressiva al caso concreto, coniugando massima efficacia con il minimo sacrificio della libertà personale del soggetto indagato per questo tipo di reati.

    Anche su questo punto la formazione può giocare un ruolo importante, sottolineando come i presidi approntati, proprio perché comportano una compressione quasi irrilevante della libertà personale (in particolare l’ordinanza volta ad impedire a taluno di avvicinarsi ad un certo luogo), devono essere chiesti ed adottati senza indugio in presenza di una denuncia, convincente ed attendibile intrinsecamente, inerente una condotta violenta.

    Per altro verso, l’adozione di una misura cautelare anche minima costituisce un deterrente rivelatosi in molti casi efficace, proprio perché fa cessare quel senso di impunità di cui si è detto in precedenza.

    Infine, vanno menzionate le modifiche legislative adottate con la legge del 2019 (c.d. Codice Rosso), su cui basti rilevare che esse sembrano adeguatamente realizzare il principio di necessaria immediatezza dell’azione repressiva di cui si è detto in precedenza.

    4. Lo stato attuale dell’azione repressiva: miglioramenti e persistenti criticità

    Le innovazioni legislative sopra sommariamente descritte e la loro pronta metabolizzazione da parte degli organi di Polizia Giudiziaria e della magistratura inquirente (sia pure con le inevitabili eccezioni e le difficoltà dovute soprattutto alle croniche carenze di organico che affliggono la maggior parte delle Procure del nostro paese) ha comportato un indubbio aumento della repressione al fenomeno della violenza di genere.  

    Tuttavia, la risposta giudiziaria è sembrata non sempre all’altezza delle aspettative, soprattutto in considerazione del carattere endemico assunto dal fenomeno di cui si è detto.

    In particolare, da più punti si è messo l’accento sulla difficoltà di tradurre l’intervento immediato in una repressione dagli effetti duraturi e tale da eliminare effettivamente il pericolo di recidiva in capo ai responsabili dei fatti criminosi.

    In altri termini, gli interventi legislativi del 2009, 2013 e 2019 sembrano avere determinato un amento degli interventi in sede cautelare, cui – in percentuale esorbitante rispetto ad altre tipologie di reati - non è seguito il riconoscimento degli elementi raccolti da parte dei Tribunali chiamati a pronunciarsi sull’accertamento processuale dei fatti  ipotizzati.

    Va ovviamente rilevato che una quota parte di sentenze di assoluzione a fronte di decreti di rinvio a giudizio e persino di ordinanze cautelari deve ritenersi fisiologica ed è conseguenza del modello accusatorio adottato (sia pur con le note limitazioni) dal nostro processo penale.

    È infatti logico e persino auspicabile che vi sia uno scollamento tra le decisioni assunte illico et immediato da parte del Giudice delle Indagini preliminari in sede cautelare e quelle adottate dal Tribunale dopo lo svolgimento pieno del contraddittorio. Se così non fosse, lo stesso processo penale come delineato dal nostro legislatore, con la divisione in fasi e la formazione della prova solo nella fase dibattimentale, non avrebbe ragion d’essere.

    Tuttavia, come innanzi si diceva, il binomio misura cautelare – sentenza di assoluzione non può considerarsi pienamente fisiologico e comporta la necessità di una riflessione, soprattutto laddove si constati che in questo tipo di reati ricorre molto più di quanto non avvenga normalmente.

    In altri termini, in presenza del ripetersi di fenomeni siffatti deve logicamente rilevarsi che o nei reati connotati da violenza di genere si ha un uso eccessivo dello strumento cautelare o si verifica un’anomala percentuale di sentenze di assoluzione, di cui occorre approfondire le cause.

    In questo ultimo senso vanno le riflessioni di alcuni giuristi che da tempo rilevano una sottovalutazione delle particolari dinamiche relazionali tra vittima e reo in questo tipo di reati da parte di una certa magistratura giudicante, poco incline  ad esempio – secondo questa ricostruzione – all’utilizzo dell’incidente probatorio, unico strumento processuale in grado di evitare i casi di vittimizzazione secondaria e le innumerevoli ritrattazioni in dibattimento delle accuse da cui è scaturito il procedimento penale.

    A ciò si aggiungono le voci, sempre più numerose ed autorevoli, degli studiosi della violenza di genere (giuristi e non) che da tempo si interrogano sull’esistenza di un tipo particolare di bias cognitivo nelle decisioni dei giudici che si occupano di reati di violenza di genere, causa diretta di una rilevante parte delle pronunce di assoluzione registrate, non a caso (come meglio si dirà di qui a breve) nei processi di Appello.

    Secondo la definizione più comune, i bias cognitivi sono processi di distorsione che intervengono, deviandole, nella valutazione dei fatti ed avvenimenti. Queste distorsioni portano a ricreare una propria visione soggettiva non corrispondente, in tutto o in parte, alla realtà.

    In altri termini, si tratta di percorsi mentali indotti che alterano la capacità di giudizio. Come tali, essi possono influenzare le decisioni allontanandole da canoni di logica ed imparzialità. E’ evidente dunque il motivo per cui se ne studiano le applicazioni ai processi mentali che sono alla base delle decisioni dei giudici nei processi[6].

    La peculiare categoria di bias cognitivi che affliggerebbe una parte dei giudici penali impegnati nelle decisioni nei processi relativi a reati nella materia in esame sarebbe data dall’esistenza di pregiudizi culturali derivanti dalla millenaria cultura maschilista che affliggerebbe, secondo questa ricostruzione, ancora oggi una rilevante parte della magistratura e che porterebbe ad una svalutazione del compendio probatorio nei processi, diretta responsabile delle sentenze di assoluzione.

    Queste cause di distorsione dei giudizi in tema di violenza di genere sono indicate con il nome collettivo di stereotipi di genere.

    Un recente studio su un significativo campione di sentenze dei giudici del nostro Paese, ad opera peraltro di un’esponente della categoria, ha messo in luce la persistente pervasività del fenomeno, evidenziando decine di sentenze emesse dai Tribunali e (soprattutto) delle Corti di Appello del nostro paese in cui la decisione appare viziata dalla presenza di questi stereotipi[7].

    Con due pronunce emesse a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, il dibattito sull’esistenza degli stereotipi di genere è improvvisamente uscito dal circuito dottrinario per irrompere nelle aule giudiziarie, coinvolgendo altresì il mondo della formazione dei magistrati (ed è questo il motivo per cui si ne parla in questa sede).

    5. La pronuncia della Corte EDU del maggio 2021 e la decisione del Comitato Cedaw del gennaio 2022

    Il primo provvedimento è stato emesso nel  maggio del 2021 dalla Corte EDU, che all’esito di un procedimento per violenza sessuale che riguardava il nostro paese ha qualificato come “deplorevoli ed irrilevanti” i riferimenti alla vita non lineare della vittima.

    Nella motivazione la Corte ha altresì ammonito la magistratura italiana ad evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni.

     A distanza di pochi mesi da questo primo “ammonimento”, l’Italia è stata oggetto di una decisione di un organismo dell’ONU, che presenta forti analogie con quella della Corte EDU menzionata.

    Va premesso che nel dicembre del 1979 l’assemblea Generale dell’ONU ha adottato la “Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle donne” (CEDAW); la Convenzione è stata ratificata dall’Italia nel 1985 con legge.

    Nell’ambito delle iniziative connesse alla  Convenzione è stato istituito un Comitato (c.d Comitato CEDAW) con il compito di esaminare i progressi realizzati dagli stati aderenti nell’adempimento degli obblighi della Convenzione e dunque operare un monitoraggio della situazione esistente in tema di discriminazione contro le donne. Tra le attribuzioni del Comitato riveste particolare interesse l’esame delle denunce di violazione della Convenzione presentate da singoli, all’esito del quale il Comitato emette delle Comunicazioni agli Stati contraenti.

    Tali comunicazioni non hanno valore vincolante ma costituiscono raccomandazioni destinate al singolo Stato.

    Il 18 luglio del 2022 il Comitato CEDAW ha formulato una importante Comunicazione nei confronti dello Stato italiano, dopo avere esaminato un processo per violenza sessuale, su impulso della denunciante.

    Nell’esaminare il caso discusso davanti ai magistrati italiani, la CEDAW ha infatti concluso che le decisioni della Corte di Appello (che aveva assolto l’imputato dalle accuse, riformando la sentenza di condanna emessa dal Tribunale in primo grado) e della Corte di Cassazione (che aveva rigettato il ricorso confermando dunque e rendendo definitiva la pronuncia di assoluzione) sono state viziate da stereotipi di genere.

    In particolare, ha affermato che  “la decisione della Corte di annullare la condanna di C.C. per mancanza di prove che dimostrassero gli elementi del reato imputato, nonostante le significative prove forensi, mediche e testimoniali, possa essere attribuita solo a stereotipi di genere profondamente radicati che hanno portato ad attribuire un peso probatorio maggiore al racconto dell'imputato, che è stato chiaramente preferito, senza alcun esame critico delle argomentazioni della difesa, senza alcun riesame o revisione delle prove per consentire ai testimoni di spiegare eventuali incongruenze percepite. Il Comitato ritiene che questa decisione non segua una linea logica di ragionamento se misurata rispetto a qualsiasi criterio oggettivo e non risponda agli obblighi procedurali dello Stato parte”. 

    Si tratta dunque di un pronunciamento importante, da parte dell’organo dell’ONU addetto al monitoraggio sulla esistenza di discriminazioni contro le donne: questo organo ha formalmente rilevato l’esistenza di stereotipi di genere nelle decisioni di una Corte di Appello e della Corte di Cassazione del nostro paese.

    I due provvedimenti emessi dalle Corti italiane dimostrano infatti, ad avviso del Comitato CEDAW, “una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell'abuso di autorità, compreso l'uso e l'abuso di fiducia, dell'impatto dell'esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post-traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici”.

    In altri termini, siamo di fronte ad un problema culturale che coinvolge l’approccio (di parte) dei magistrati italiani inficiandone l’imparzialità di giudizio.

    Ed infatti, all’esito della Comunicazione, il Comitato ha emesso diverse raccomandazioni allo Stato italiano, tra le quali alcune implicano la necessità di promuovere iniziative per aumentare la consapevolezza da parte degli operatori del diritto dell’esistenza degli stereotipi di genere e i mezzi culturali per combatterli[8].

    Non è stata recepita nella Comunicazione l’esplicita chiamata in causa della ricorrente, che aveva indicato come causa diretta degli stereotipi la mancata previsione di una formazione obbligatoria dei magistrati sul punto da parte degli organi addetti alla loro formazione[9].

    Ciò nonostante, appare imprescindibile un esame delle iniziative intraprese e da intraprendere nel campo della formazione dei magistrati per realizzare l’ineludibile cambio di passo culturale in tema di violenza di genere (il terzo livello di contrasto di cui si è detto).

    6. Il terzo livello del contrasto: la formazione dei magistrati in tema di violenza domestica e Codice Rosso

    Le pronunce esaminate chiamano dunque in causa, con autorevolezza, quello che in principio di trattazione è stato indicato come terzo livello di intervento: quello che si propone di provocare un vero e proprio mutamento culturale nell’approccio alla materia da parte degli operatori di giustizia.

    Come si è visto, da più parti è stato più o meno esplicitamente sollecitato un intervento in tal senso degli organismi di formazione di magistrati, avvocati e forze dell’ordine.

    Indubbiamente ricade sulla Scuola Superiore della Magistratura il compito di assicurare una formazione dei magistrati che renda pubblici ministeri e giudici attrezzati per affrontare i delicati processi in tema di violenza domestica e sulle donne evitando le trappole dei bias cognitivi – e gli stereotipi di genere – evidenziati.

    Va rilevato sul punto che, sin dalla sua istituzione (avvenuta nel 2012), la Scuola ha dedicato particolare attenzione al fenomeno in oggetto, dedicando all’argomento della violenza di genere e dei reati sessuali almeno due corsi l’anno nell’ambito della formazione cosiddetta permanente, quella cioè dedicata all’aggiornamento periodico dei magistrati.

    Si tratta di corsi che hanno rivestito un’importanza centrale nella programmazione annuale della Scuola, testimoniata dall’alto livello di relatori selezionati e che ha trovato una rispondenza nel gradimento sempre crescente dei partecipanti.

    È stato favorito in ciascuno dei corsi un dialogo costante sia con gli enti occupati nella prevenzione e nel contrasto contro questo tipo di reati, sia alle istituzioni pubbliche, con il coinvolgimento dei Presidenti di Camera e Senato, dei componenti la Commissione Parlamentare per le Pari Opportunità ed i Ministri competenti, istituzioni con le quali la Scuola ha da sempre un proficuo scambio di informazioni utili a monitorare in tempo reale il fenomeno.

    Di recente, sono stati organizzati corsi interdisciplinari, per aumentare il dialogo tra magistrati penali e giudici civili specializzati in diritto di famiglia e tutela dei minori, al fine di aumentare anche in questo caso gli scambi di informazioni tra i diversi protagonisti dei procedimenti giudiziari.

    Se si considera che in ogni anno solare non è possibile organizzare più di 70-75 corsi di formazione permanente[10], e che in questo numero devono essere ricompresi tutti i corsi di civile e procedura civile, penale e procedura penale, i corsi comuni e quelli aventi ad oggetto temi etici, ordinamentali eccetera, appare evidente il motivo per cui molto raramente si riesce ad organizzare un corso ogni anno per ciascun argomento e che il numero di due corsi mantenuto costante negli anni per il tema della violenza di genere attesta che nessun argomento riceve attualmente maggiore attenzione di quello in esame da parte degli organi di formazione.

    Ciò nonostante, nella consapevolezza del carattere eccezionale della situazione in atto, di cui si è ampiamente detto nei paragrafi precedenti di questo scritto, il Comitato Direttivo ha cercato di rafforzare l’offerta formativa sul tema agendo essenzialmente in due direzioni: attraverso l’impulso alle Strutture Territoriali presenti nei distretti di Corte di Appello e inserendo approfondimenti ad hoc sulla violenza di genere in corsi dedicati ad altri argomenti.

    Quanto alle Strutture Territoriali (veri e propri organismi di formazione dislocati in ciascuna Corte di Appello e dedicati alla formazione dei magistrati che ne fanno parte), il Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura ha fortemente raccomandato l'organizzazione in sede locale di ulteriori approfondimenti su questo specifico tema, con una risposta oggettivamente eccellente da parte dei formatori decentrati.

    Nel triennio 2016-2018, sono stati infatti organizzati in sede decentrata 25 corsi sul tema in esame, che hanno coinvolto pressocché tutte le Corti di Appello; lungi dall’essere iniziative di formazione “minori”, si è trattato di preziose occasioni di confronto tra magistrati appartenenti ad un medesimo territorio (e portatori a volte di specifiche esigenze operative in relazione al contesto culturale di appartenenza) e relatori, sia colleghi che esponenti del mondo accademico, in uno scambio altamente proficuo proprio perché calato nelle singole realtà concrete dei Tribunali e delle Corti di Appello dislocati sul territorio.

    Altrettanto importanti le iniziative intraprese per approfondire il tema della violenza di genere nell’ambito di corsi dedicati ad altri settori del diritto penale. Si riportano di seguito alcuni esempi.

    - Nell’ultimo corso sulle scriminanti è stato previsto un gruppo di lavoro (dunque non una relazione ma un intero pomeriggio) dedicato alla “legittima difesa dalla violenza domestica”;

    - Nel corso sui reati in tema di immigrazione del 2021 uno dei gruppi di lavoro è stato dedicato a “lo straniero e i delitti culturalmente motivati in ambito domestico”;

    - Nel corso sul “Le indagini preliminari dall’apertura delle indagini alla formazione della prova” è stata inserita una relazione su “l’escussione dei testimoni vulnerabili”;

    - altri approfondimenti sulle vittime vulnerabili sono stati inseriti nel corso su “Lo statuto della prova dichiarativa”  ed in quello  denominato “I discorsi d’odio”.

    Sul versante processuale, devono altresì ritenersi pertinenti al tema in esame le relazioni e i gruppi di lavoro dedicati all’esame del testimone nei processi di violenza sessuale e domestica, alle tecniche di conduzione dell’incidente probatorio ed al particolare statuto della ripetibilità della prova previsto dall’articolo 190 bis del codice di procedura penale, nonché alla peculiare disciplina della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale a cui è stato dedicato apposito spazio nel corso sulle impugnazioni.

    Si tratta di alcuni dei numerosi esempi di quella che, nelle intenzioni del Comitato Direttivo della Scuola, è divenuto oggetto non di specifici approfondimenti ma di una sorta di “formazione continua”.

    Ancora, vanno menzionati in tema i numerosi approfondimenti dedicati all’argomento nel corso del tirocinio iniziale, sia generico che mirato, molti dei quali sovrapponibili agli argomenti già menzionati in tema di formazione permanente, altri (come gli spazi dedicati ai bias cognitivi nei processi di violenza di genere nella relazione sulla “psicologia del giudicare”) specificamente immaginati per il percorso formativo dei MOT. Altri specifici approfondimenti sono riservati alla gestione processuale delle vittime vulnerabili. Tra di essi, una delle esercitazioni che i MOT sono tenuti a redigere per la valutazione finale del tirocinio.

    Parimenti, appositi corsi sono stati specificamente dedicati al tema nei corsi di formazione onoraria, mentre sono allo studio implementazioni nei corsi di preparazione ai direttivi e semidirettivi (c.d. formazione dirigenti).

    Occorre infatti promuovere piena consapevolezza del tema anche nei dirigenti degli uffici, con particolare attenzione al linguaggio utilizzato dai magistrati dell’ufficio diretto nella redazione dei provvedimenti ed ai comportamenti da loro stessi tenuti nei confronti delle colleghe e dei colleghi.

    In risposta alle sollecitazioni provenienti dagli organismi comunitari, la Scuola ha inoltre  aderito al primo dei “laboratori di Strasburgo”, in particolare a quello dedicato a La tutela dei diritti della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni: la giurisprudenza italiana e della Corte europea dei diritti dell'uomo”.

    L’evento, realizzato in dialogo con la Rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio d’Europa, inaugura il progetto “Laboratori Strasburgo”, volto a realizzare approfondimenti tematici di tipo seminariale in relazione alle questioni controverse sull'applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della tutela dei diritti fondamentali.

    7. Riflessioni conclusive

    Può fondatamente concludersi che, come detto innanzi, a nessun argomento la Scuola Superiore della Magistratura dedica la stessa attenzione riservata al tema della violenza di genere e domestica.

    Certamente si tratta di un piano formativo  migliorabile e che la Scuola intende implementare ulteriormente: nella programmazione del 2023 è pressocché certo che si darà spazio per la prima volta, sia in sede di formazione permanente che iniziale, ad una riflessione sugli stereotipi di genere, in conseguenza dei provvedimenti sopra menzionati.

    In questo modo la formazione intende raccogliere la sfida di portare la risposta giudiziaria al fenomeno violenza di genere sul piano culturale e formativo.

    Appare parimenti ineludibile che il “terzo livello” della risposta si raccordi con gli altri due, con iniziative legislative ed ordinamentali ad hoc.

    Il nuovo approccio culturale ha infatti bisogno di consapevolezza e professionalità: sarebbe auspicabile ad esempio che all’operatività di pool altamente specializzati esistenti nelle Procure corrispondesse una speculare specializzazione negli uffici dei Giudici delle Indagini preliminari e nei Tribunali (non tutti possono permettersi una sezione dedicata a questo tipo di reati, che richiede invece sensibilità e competenze del tutto peculiari).

    L’auspicato cambio di passo culturale non può, in altri termini, essere delegato solo all’attività di formazione in senso stretto ma deve potersi giovare del dialogo tra formatori, legislatori e operatori del diritto.


    [1] “www.Polizia di Stato.it”, periodico on line, “Violenza di genere”, 2022.

    [2] P. DI NICOLA TRAVAGLINI – F.MENDITTO, Codice Rosso, Milano 2020, pag. 2.

    [3] Si pensi, per rimanere a tempi recenti, al terrorismo internazionale di matrice islamica o ai furti in appartamento che hanno dato origine alle modifiche legislative in tema di “legittima difesa domestica” o, risalendo più indietro, agli omicidi stradali fino ad arrivare ai delitti contro la Pubblica Amministrazione o alla criminalità organizzata, senza trascurare il fenomeno degli infortuni sul lavoro, oggetto di attenzione carsica ed incostante da parte di opinione pubblica e legislatore.

    [4][4] L’allontanamento dalla casa familiare (282 bis) e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (282 ter).

    [5] il primo periodo dell’articolo 275, 3° comma, dopo la modifica menzionata, dispone ora che “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”.

    [6] Come noto, sempre più frequenti sono gli studi sulla “psicologia del giudicare”, oggetto anche di attenzione da parte della Scuola Superiore della Magistratura, che dedica da qualche anno all’argomento corsi di formazione permanente ed approfondimenti destinati ai MOT.

    [7] P.DI NICOLA, “La mia parola contro la tua”, Harper Collins, 2018.

    [8] In particolare, il Comitato ha raccomandato che l’Italia debba “fornire adeguati programmi di sviluppo delle capacità per giudici, avvocati, funzionari delle forze dell'ordine, personale medico e tutte le altre parti interessate, per spiegare le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere; e (...) Sviluppare, attuare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere

    [9] Nel riassumere il ricorso, il Comitato CEDAW così si è espresso: “L'autrice sostiene che questi stereotipi sono il risultato della mancata attuazione da parte dello Stato parte di misure volte a modificare, trasformare ed eliminare gli stereotipi di genere, imponendo una formazione obbligatoria a tutti i livelli della magistratura sugli effetti di tali stereotipi sulla gestione imparziale della violenza di genere, per garantire alle donne un accesso paritario alla giustizia, e quindi non affrontando le norme culturali che hanno un impatto sulla cultura giuridica interna e portano a impatti negativi sull'interpretazione degli elementi soggettivi del diritto penale. La donna sostiene quindi di non essere stata protetta dalla discriminazione da parte delle autorità pubbliche, compresa la magistratura, e di non aver esercitato la dovuta diligenza nel punire gli atti di violenza contro le donne, in particolare lo stupro.”

    [10] Il numero è conseguenza della divisione delle settimane disponibili tra corsi di formazione permanente, iniziale, corsi per onorari, corsi di formazione dei direttivi, scambi internazionali e le altre attività dell’ente e tiene conto altresì dei limiti strutturali derivanti dalla cronica carenza di organico che affligge il personale amministrativo della Scuola, al pari degli uffici giudiziari di tutto il territorio.

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