GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari

    Violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari

    Nota a Corte d’Appello di Bari n. 27405 del 01.06.2022

    di Rita Russo

    Sommario: 1. La violenza domestica: prevenzione e repressione. - 2. La valutazione del contesto. - 3. L'interesse del minore.

    1. La violenza domestica: prevenzione e repressione.

    La violenza  domestica e di genere è un fenomeno complesso   che si è   drammaticamente imposto negli ultimi anni alla attenzione del legislatore e degli operatori del diritto. Gli interventi legislativi in materia, in continua sovrapposizione ed aggiornamento, hanno creato un quadro difficile da decifrare, ove si intrecciano misure penali e civili, preventive e riparative. Particolare attenzione è stata riservata alle misure di prevenzione, poiché   la violenza all’interno di una relazione familiare   di regola  non si manifesta subito nelle sue forme più severe, ma segue un andamento crescente (escalation): prima degli atti violenti più severi   si presentano segnali d’allarme e  indicatori che possono presagire violenze più gravi. 

    Nel sistema penale, la violenza domestica o di genere viene ricondotta dalla recente legge n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso) alle seguenti fattispecie:  maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);  violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612-bis c.p.);  diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.);  lesioni personali aggravate e deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e 583-quinquies, aggravate ai sensi dell'art. 576, primo comma, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell'art. 577, primo comma n. 1 e secondo comma.

    Il sistema repressivo è strutturato  con completezza e secondo parametri severi, tuttavia la Corte Edu lo ha considerato insufficiente a contrastare il fenomeno in due casi noti, di cui uno molto  recente, rimproverando alle autorità italiane di non avere saputo valutare il rischio della escalation della violenza e di non aver adottato  idonee misure preventive[1].

    Si tratta, a ben vedere, di un rimprovero che riguarda più l'efficienza concreta del sistema che  la sua struttura; ed infatti nell'ordinamento giuridico italiano gli strumenti di prevenzione della violenza domestica non solo esistono da molti anni, ma sono stati anche rafforzati ed ampliati di recente.

    Per contrastare questi reati sono previste, in ambito penale, sia misure cautelari, che misure di prevenzione. In particolare, per apprestare una difesa anticipata delle potenziali vittime dei reati di questo tipo,  si è fatto ricorso alle misure di prevenzione già previste per i delitti di mafia dal D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 estendendone la applicabilità anche alle persone indiziate di maltrattamenti in famiglia (2019) e di stalking (2017), ai sensi dell’art. 4 comma prima lett. i)ter. Le misure di prevenzione sono misure special-preventive, indipendenti dalla commissione di un precedente reato, e da qui  la denominazione di misure ante delictum o praeter delictum. Il che comporta  una marcata autonomia di queste misure rispetto alle misure cautelari penali e allo stesso processo penale: il giudice deve valutare  se le condotte tenute siano sintomatiche della pericolosità sociale del proposto e anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si è concluso con sentenza di assoluzione possono essere utilizzati ai fini di applicare la misura quando  i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità[2].    

    Ciò ha portato la dottrina ad esprimere qualche dubbio  sulla compatibilità di dette misure con l’art. 27 della Costituzione e sui presupposti scientifici della prognosi di pericolosità [3], rimarcando la differenza con la disciplina delle misure di sicurezza e delle misure cautelari personali, ove la base del giudizio di pericolosità è la commissione di un previo reato, e quindi il riferimento a  una fattispecie incriminatrice determinata e tassativa.

    Può di contro osservarsi che diverse sono le finalità del processo penale, che mira a irrogare la pena, e del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione, che mira invece a prevenire condotte delittuose, ma con autonoma configurazione rispetto alle misure di sicurezza.  

    È vero che vi è una rilevante difficoltà nell'accertamento della pericolosità e nella valutazione del rischio quando non si può muovere da un fatto storico ben definito, ma soltanto da indizi di reato: si rischia infatti di cadere in pericolosi automatismi correlati alla presentazione di una denuncia, specie quando si tratta di reati di rilevante impatto sociale, quale è la violenza domestica e di genere. Ma il rigore con il quale si deve contrastare questo fenomeno non può trasmodare in una applicazione diffusa e indiscriminata delle misure di protezione, perché è sempre necessaria una attività di giudizio, vale  a dire di discernimento e distinzione sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.

    Il caso esaminato dalla Corte d’appello di Bari con il decreto  n. 27405  del  01/06/2022 del 19 maggio 2022  è esemplificativo della difficoltà di rendere un simile giudizio.

    Una coppia di coniugi entra in crisi e il marito  assume l’iniziativa della separazione chiedendo l’addebito  alla moglie; un mese dopo quest’ultima sporge denuncia per maltrattamenti familiari. Mentre il giudizio di separazione segue il suo corso, viene richiesta ed applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La Corte d’appello di Bari, adita dall’interessato, revoca la misura escludendo la sussistenza di un livello indiziario sufficientemente elevato per giustificare la misura nonché la attualità della pericolosità, e a tal fine valuta anche il contesto familiare e la intervenuta cessazione della convivenza coniugale.

    Il decreto offre diversi spunti interessanti.

    La Corte  più che valutare il fatto in sé e cioè la sussistenza del quadro indiziario e la sua gravità, valuta il periculum, soffermandosi  su due punti  specifici:  esamina il contesto familiare in cui sarebbero maturate le denunciate violenze  e  tiene in considerazione l'interesse delle figlie minori. Particolare rilievo viene dato alla circostanza che  la denuncia penale, mai preceduta da altre richieste di intervento, viene presentata dopo che il marito ha proposto il ricorso per separazione con addebito e si è allontanato dalla casa familiare e che tra le parti non sussiste un'apprezzabile disparità socio-culturale. Si tratta di elementi apparentemente marginali, ma che rivestono invece una certa  importanza, poiché la violenza in ambito familiare matura generalmente in un clima di prevaricazione, favorito da una situazione di disparità socio-economica  e spesso  trova il suo acme quando la vittima cerca di liberarsi del legame contro la volontà del soggetto maltrattante, che invece vuole mantenerlo.

    2. La valutazione del contesto.

    Le ipotesi di violenza domestica  non sempre sono facilmente individuabili in punto di fatto: con essa si intende ogni forma di aggressione fisica, di violenza psicologica, morale economica, sessuale o di persecuzione, attuata o tentata, all’interno di una relazione familiare, o comunque di una relazione  intima, presente o passata.

    La violenza non necessariamente consiste in atti di aggressioni fisica che lasciano tracce visibili, ma può anche essere  psicologica, e ciò significa che per contrastarla non basta il solo allontanamento tra vittima e oppressore, ma occorre impedire che possano essere esercitate pressioni, anche indirette, sulla vittima oppure  strategie dirette ad isolare l’offeso dal contesto sociale e dal resto della famiglia.

    La violenza può essere economica, ed in tal caso è costituita da una pluralità di comportamenti, tutti volti ad impedire che la vittima divenga economicamente autonoma o a farle perdere l’autonomia economica e quindi ad esercitare il controllo sulla vita del partner tramite il denaro. Vendere la casa familiare, intestare i propri beni a un prestanome, sottarsi continuativamente all’adempimento degli obblighi di collaborazione al ménage familiare, pretendere che la vittima consegni i propri guadagni al soggetto abusante, oppure renda conto minuziosamente delle spese, costituiscono atti di violenza specie quando la vittima non ha alcun autonomo accesso a risorse economiche alternative o supporto da parte della famiglia di origine.

    Questo genere di comportamenti può trovare -a seconda dei casi- il suo inquadramento nel delitto di maltrattamenti in famiglia, che  si può realizzare, come afferma la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche  tramite comportamenti aggressivi e prevaricatori, manifestazione della pervasiva volontà prevaricatrice e di controllo, tali da incidere sulle condizioni di vita della persona offesa, costretta a vivere la quotidianità con un senso di turbamento e paura[4].

    Il termine “maltrattamento” presenta invero un certo grado di indeterminatezza e per percepircene adeguatamente il significato, rispettando il principio di tassatività, è necessario ancorarlo da un lato ai presupposti di carattere soggettivo  e oggettivo che  qualificano la condotta, e dall'altro al contesto in cui essa si verifica, in modo da rilevarne un contenuto offensivo compatibile con i principi costituzionali e con l'intera logica del sistema di tutela della famiglia. La caratteristica del reato  è quella di punire  comportamenti di vessazione fisica o morale non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, come reato, ma ripetuti nel tempo ed in grado di arrecare offesa, perché la vittima non è un extraneus, ma un soggetto che la relazione familiare pone in condizione di vulnerabilità. All’interno della relazione familiare  esistono infatti doveri di solidarietà e protezione  che impongono ai loro componenti  obblighi positivi, definiti dalla legge, e di astenersi  anche da quelle condotte   che, di scarso rilevo se tenute nei confronti di un terzo, divengono particolarmente offensive se tenute nei confronti del partner o di un figlio. Ad esempio, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche il pubblico disprezzo, che di per sé non è  un reato, ove reiterato e tale da infliggere profonde umiliazioni, può costituire reato di maltrattamenti [5]. D'altro canto, è anche vero che all'interno del nucleo familiare la solidarietà comporta necessariamente un certo grado di tolleranza nei confronti delle offese minime (non penalmente rilevanti), che in un rapporto solido e sostanzialmente sano possono essere riparate spontaneamente.

    La complessità di inquadramento refluisce anche sulle modalità di accertamento del reato o del suo fumus. Ai fini del processo penale rileva la ricostruzione storica di ciò che è avvenuto. La difficoltà in questo caso consiste prevalentemente nel reperire le fonti di prova e cioè testimoni attendibili e che abbiano assistito al fatto o ne conoscano sia pure indirettamente i dettagli, e documenti affidabili che con il fatto abbiano una stretta correlazione (ad esempio i referti medici). Nei giudizi per l’applicazione di una misura di prevenzione invece – e analogo problema si pone in sede civile per l’applicazione dell’ordine di protezione – la questione non è tanto o soltanto ricostruire il fatto, ma valutare il rischio, cioè rendere un giudizio prognostico su ciò che potrebbe avvenire.

    Il giudizio di pericolosità sociale è uno dei più complessi che si possa immaginare, in particolare quando muove da una base fattuale i cui contorni sono ancora incerti.  

    La base fattuale è comunque necessaria: le limitazioni della libertà personale non possono fondarsi su un mero “processo alle intenzioni” e cioè sull’esame di quei moti che avvengono all'interno dell'animo umano e che non trovano alcuna manifestazione all'esterno: nessun fenomeno che si risolva in interiore homine rileva per il diritto. Ogni prognosi sfavorevole deve essere  fondata su elementi concreti, idonei a dimostrare la pericolosità, l’attualità e la probabile condotta futura del soggetto. Si  deve quindi muovere da fatti e comportamenti e da questi desumere la probabilità che il comportamento si ripeta o anche progredisca verso forme più gravi di aggressione dei beni protetti dalla norma. In questo modo si traccia il profilo di personalità del soggetto la cui pericolosità si deve valutare; ma sarebbe un errore pensare che si tratti di un esame  meramente individuale perché la valutazione del contesto in cui i comportamenti sono tenuti è altrettanto rilevante, e in particolare quando si tratta di reati che, come quello di maltrattamenti, sono definiti dal contesto e presuppongono l'esistenza di una relazione tra vittima e aggressore.

    Poiché la violenza domestica si connota essenzialmente come una prevaricazione che assume di volta in volta le forme più varie – violenza fisica, psicologica, economica – occorre fare attenzione a quegli elementi che favoriscono il crescere  e il progredire degli atteggiamenti prevaricatori. Tra questi – come messo in evidenza dalla Corte d’appello di Bari – la attualità della convivenza e  la condizione di disparità tra le parti.

     Ed è determinante la distinzione  tra la mera conflittualità, che è  una dinamica molto comune nelle relazioni familiari in fase di dissoluzione,  e la violenza, posto che la prima  presuppone  una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche, e di contro la violenza si esercita e si può esercitare perché la relazione è – o divenuta per effetto della violenza – asimmetrica. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di mero conflitto. Per distinguere la conflittualità dalla violenza non deve guardarsi soltanto al comportamento materiale, che potrebbe essere simile nell’uno e nell’altro caso,   quanto ai rapporti di forza tra le parti. Ad esempio, la circostanza che la moglie rinunci  alla attività extradomestica è un atto di violenza se imposto, è un atto di autonomia privata dei coniugi, che trova il suo riconoscimento nell’art 144 c.c.,  se frutto di un accordo assunto su posizioni di parità.

    Altro elemento di particolare rilievo è la presenza nel contesto familiare di specifici fattori di rischio, quali  l’alcoldipendenza, la tossicodipendenza, la disoccupazione, pregressi episodi di maltrattamenti  nei confronti dello stesso partner o di partner diverso. Di per sé nessuno di questi fattori è decisivo, poiché ogni caso è diverso dall'altro,   ma la loro presenza o assenza orientano il giudizio prognostico sulla pericolosità e quindi devono essere oggetto di indagine da parte del giudice investito della richiesta di una misura di prevenzione.

    3. L'interesse del minore.

    Altro elemento preso in considerazione dalla Corte d'appello di Bari  è l'interesse delle figlie minori della coppia. Sebbene non si tratti di un giudizio che ha per oggetto l'affidamento delle minori, tuttavia vengono presi in considerazione gli effetti che la misura di prevenzione può avere sulla relazione familiare tra il genitore e le figlie. Si fa quindi applicazione del principio secondo il quale se il giudizio riguarda, sia pure indirettamente, la vita del minore, non può prescindersi la considerazione del best interest of the child.

    Anche in questo caso rileva la distinzione  tra conflitto e violenza. 

    La violenza nelle relazioni familiari investe di regola anche il minore, spesso nella forma della violenza assistita; il che comporta la necessità di valutare attentamente l’idoneità del soggetto violento ad esercitare le funzioni genitoriali o comunque ad esercitarle senza alcuna limitazione e controllo ed, eventualmente, supporto.

    Il mero conflitto tra genitori invece non deve interferire con il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi, ma soprattutto con il diritto a ricevere da entrambi, e non solo dal genitore affidatario, la "prestazione genitoriale" e cioè cura, educazione, istruzione ed assistenza materiale e morale.

    Una spinta decisiva  alla affermazione di questi diritti è  stata data dalla adesione dell'Italia alle Convenzioni internazionali sull'infanzia e in particolare la Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli firmata a Strasburgo il 26 gennaio 1996 e ratificata con la L. 20 marzo 2003, n. 77. Il quadro si completa con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che all'art. 24, tratta espressamente dei diritti del bambino affermando che "I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità".

    Esprimendosi con le parole dall'art. 3 della Convenzione di New York del 1989, si può dire che al fanciullo devono essere assicurate le condizioni perché egli possa svilupparsi in modo sano e normale fisicamente, intellettualmente, moralmente, spiritualmente e socialmente, in condizioni di libertà e dignità e, in ogni decisione che lo riguarda il suo interesse deve essere considerato preminente.

    Si esplicita così il principio della “prevalenza” dell'interesse del minore, ma senza trascurare l'importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono  attuati in chiave relazionale.  È infatti  da chiedersi se l'interesse del minore che il giudice deve tenere in considerazione è veramente “superiore”, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse o soltanto il migliore,  vale a dire che  tra più scelte deve farsi quella che meglio garantisce il suo benessere psicofisico. A questa domanda se ne lega un'altra, sul se, quando e in che misura questo interesse vada bilanciato con ulteriori e diversi interessi di pari rango. La relazione familiare, infatti, non è un diritto solo del minore, ma anche dei genitori.

    Un tempo si parlava di interesse superiore della famiglia, cui si potevano (e dovevano) sacrificare gli interessi individuali.  La prospettiva si è  oggi  in un certo senso rovesciata, poiché si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto,  da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione. Con la doverosa precisazione che, anche quando si parla di mediazione, è decisiva la distinzione tra violenza e conflitto. La mediazione non deve essere  avviata  nei casi di violenza familiare, come peraltro prevede la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia  con legge 77/2013. Invece, nei casi di conflitto,  la mediazione può essere particolarmente utile per riavviare il colloquio tra i genitori e  aiutarli a trovare da soli la via migliore per continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale, nell’interesse dei figli minori, nonostante la separazione.

    In ogni caso, la decisone della interruzione dei rapporti tra i genitori e figli è una questione assai delicata,  che non può  essere regolata da automatismi, poiché la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore. In questi termini la giurisprudenza di legittimità ha affermato il giudice civile deve valutare autonomamente sia sotto il profilo materiale, sia sotto quello della potenziale dannosità per l'equilibrato sviluppo psicofisico del minore, la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti a un genitore  ancora oggetto di accertamento in sede penale[6].

     

    [1]  Corte Edu,  2 marzo 2017, Talpis c. Italia, il testo in  lingua italiana in www.giustizia.it; Corte Edu 7 aprile 2022, Landi c. Italia, in  https://hudoc.echr.coe.int 

    [2] Cass. pen. sez. II, 05/04/2022, n.22732; Cass. Pen. sez. II, 18/01/2022, n.8166

    [3]  Cfr. anche per i riferimenti bibliografici,  PETRINI, Le misure di prevenzione personali: espansioni e mutazioni in  Dir. Pen. e Processo, 2019, 11, 1531

    [4] Cass. pen. sez. VI, 30.05.2022, n.27166

    [5] Cass. pen. Sez. VI, 12.10.2021, n. 2378

    [6] Cass. civ. Sez. I Ord., 19.05.2020, n. 9143

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