GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Costo, ritualità, valore. Le qualità della giustizia nell’era digitale

    Costo, ritualità, valore. Le qualità della giustizia nell’era digitale   

    di Daniela Piana    

                                                                                 Occorre trovare un luogo del pensiero e dell’azione

    dove l’Invisibile non sia bandito

    in nome di una utopia tecnocratica

    Paolo Rumitz

     

    Nella vita moderna i miti nascono

    quando i riti muoiono e perdono

    la loro potenza creatrice.

    Marc Augé 

    La tesi di questo articolo è semplice. Tre ondate di riforme hanno assegnato un sempre più alto grado di priorità alle innovazioni tecnologiche e digitali in quanto strumenti efficaci nella promozione di maggiore efficienza, minore costo di accesso alla giustizia e maggiore tutela di trattamento eguale per tutti. Oggi è tempo di mettere la digitalizzazione e le sue tre componenti, dematerializzazione, quantificazione, e standardizzazione nel contesto di un più ampio paradigma di valutazione della qualità della giustizia. Si prendono qui le distanze da una visione riduzionista della tecnologia, che la vorrebbe “semplice” strumento di efficientamento, e si accetta, fra le premesse, quella secondo cui innovazione e ritualità possono e devono combinarsi in modo virtuoso. La prospettiva proposta intende tenere conto, sulla base di un principio di bilanciamento e di complementarietà, delle diverse componenti che intervengono nel processo di legittimazione della giustizia (fra cui anche la dimensione della ritualità e quindi quella del simbolo e del valore della unitarietà degli spazi e dei tempi della celebrazione del processo). La posizione di chi scrive è tesa a valorizzare, ciascuno nel proprio contesto, i diversi metodi di risposta alla domanda di giustizia e le diverse forme con cui si organizza, nello spazio-tempo, l’agire giudiziario ed amministrativo nel sistema giustizia. Una tesi che nega il riduzionismo e che accetta, sulla base di una visione composita e plurale delle forme della normatività che intervengono nel sistema giustizia, che sia necessario non perdere di vista l’aspetto del rito, senza per questo rinunciare al potenziale di miglioramento e di resilienza che viene proprio dall’utilizzo della parte più avanzata della tecnologia digitale, così come oggi essa si affaccia all’orizzonte del post-emergenza pandemica e della attuazione del Piano nazionale di rilancio e di resilienza. 

    Sommario: 1. Introduzione - 2. Dematerializzazione, quantificazione, standardizzazione. Le tre facce della digitalizzazione della giustizia - 3. Nel diaframma del processo: dalla osservazione partecipante all’euristica di sistema - 4. Misurare le qualità, riguadagnare il valore.  

    1. Introduzione

    Dopo avere reagito alle criticità generate dalle misure di necessario contrasto alla diffusione della pandemia SARS-CoV-2[1], i sistemi giustizia si confrontano oggi con una inedita e quantomai complessa agenda di policy, il cui perimetro è definito da tre percorsi distinti, la dematerializzazione, la quantificazione e la standardizzazione, connessi all’interno del più ampio orizzonte di trasformazione digitale.

    Tali percorsi di cambiamento non sono avviati in concomitanza della, ed in esclusiva dipendenza dall’esperienza pandemica. Molta parte delle conseguenze depositate da quei percorsi era già in essere prima dell’esplosione del COVID 19. Quest’ultima, però, ha comportato un’accelerazione del tutto straordinaria nell’utilizzo di strumenti organizzativi e comunicativi, di modi di gestione delle routine di lavoro quotidiane, resi anche solo pensabili proprio per la convergenza delle tre traiettorie trasformative sopra indicate. Tali traiettorie da lungo tempo attraversano il mondo della giustizia.

    Se, infatti, l’idea che sia possibile misurare la qualità della giustizia rilevando con indicatori gli andamenti funzionali degli uffici giudiziari e valutando i risultati di tali andamenti si è affermata negli anni ‘90 e poi in Europa con forza nel corso del primo decennio del XXI secolo, la standardizzazione costituisce il percorso cognitivo coniugato a quella quantificazione, necessario alla possibilità stessa di potere operare comparazioni e osservazioni, le quali sono trasversali a sistemi che, sul piano culturale, antropologico e sociologico, si qualificano invece per la loro diversità.[2] L’innesto su questi primi due percorsi di cambiamento della diffusione omnipervasiva del linguaggio digitale ha permesso di orientare verso la semiotica digitale la formulazione di concetti denotativi di fenomeni fortemente connotati in senso culturale e contestuale.

    Ciò è associato alla valorizzazione, sia sul piano gestionale, sia sul piano conoscitivo, delle tracce digitali di operatività e comportamenti, ovvero della resa digitale della produzione, trasmissione, interpretazione ed uso di contenuti che danno vita e significato al processo e a tutto il mondo della giustizia.

    Nella straordinaria congiuntura storica che ha significato l’emergenza sanitaria del 2020, il ministero della Giustizia italiano ha operato avvalendosi di un ampio potenziale di funzionalità connesse all’esistenza delle infrastrutture di rete, rafforzate in via eccezionale proprio per assicurare, con più ondate di misure organizzative e regolative, la continuità della parte non comprimile – nemmeno in situazioni di emergenza – del servizio giustizia.[3] L’Italia ha così esemplificato un modus operandi che si è riscontrato nella larga parte dei paesi europei e dei paesi membri e/o associati dell’OCSE, inquadrando le politiche di carattere organizzativo, formativo e tecnologico all’interno di un quadrilatero ideale i cui lati sono rappresentati dalla:

    a) preesistente disponibilità di dotazione tecnologica;

    b) virulenza dell’emergenza;

    c) effettiva spinta regolativa e propulsiva del centro del sistema;

    d) esistenza di snodi ordinamentali e funzionali distribuiti sul territorio.

    In tale contesto, i territori sono stati portatori delle prassi virtuose nella esaltazione del potenziale del digitale e del telematico e nell’assicurare il prosieguo di molte delle micro-routine di lavoro proprie di cancellerie, segreterie, servizi amministrativi e contabili, ovvero di lavorazione di fascicoli e trattamento di procedimenti.

    A valle dell’esperienza di reazione emergenziale ed affacciandosi su una nuova visione della governance, è oggi possibile proporre un paradigma di valutazione della qualità della giustizia che appieno contemperi le diverse forme di funzionalità sinora sperimentate, evitando trappole riduzioniste. Valorizzando le esperienze fatte nel corso dell’ultimo anno, mettendo in prospettiva storica la trasformazione digitale e avvalendosi di evidenze empiriche tratte da ricerche svolte e/o coordinate sul campo all’interno degli uffici giudiziari nell’arco dell’ultimo quinquennio, questo articolo intende proporre un metodo di ragionamento e tratteggiare una griglia di analisi. Questi sono orientati a costruire una consapevole, critica, riflessiva e condivisa azione di carattere istituzionale nella quale siano riconosciute ad ognuna delle parti che compongono la qualità della giustizia la loro specificità, l’ambito nel quale esprimono al meglio il loro contributo (funzione) e le modalità con le quali tali specificità possono – e devono – essere composte all’interno di una rappresentazione sociale e di una narrativa politica e mediatica capace di esplicitare il valore aggiunto di ciascuna di esse.

    La proposta è tesa a mostrare come elementi che generano significati e, quindi, fonti di legittimità – sia dentro al sistema sia nella interazione fra sistema e società – devono essere preservati e riconosciuti, pena la perdita di ritualità e di forme simboliche che sono generatrici, ciascuno nel proprio alveo, di valore.

    In sintesi, la giustizia di qualità contempla nel suo spazio funzionale le parti che sono orientate a incontrare la domanda di efficiente soluzione di controversie, le parti che invece sono deputate a costruire una risposta di riconoscimento dello status dei portatori di diritti soggettivi, le parti che rispondono alla necessità di disporre in ogni sistema sociale di un dispositivo capace di generare valore al di là delle specificità individuali, temporali, spaziali, e nel quale ci si riconosca come partecipi di un idem sentire. Si potrebbe, radicalizzando (ma non troppo), affermare che la trasformazione digitale della giustizia sarà ancor più efficace e catalizzatrice di durevoli qualità quanto più saranno valorizzate e narrate le altre parti che contribuiscono a fare della “giustizia” una funzione di costruzione di valore e per questo di conciliazione di parti, visioni, e istanze presenti nella società.

     2.Dematerializzazione, quantificazione, standardizzazione. Le tre facce della digitalizzazione della giustizia  

    L’interazione fra l’innovazione tecnologica e il sistema di giustizia costituisce ormai un acquis per chiunque operi nel settore. Avvocati, magistrati, personale di cancelleria, ai diversi livelli di giurisdizione, hanno integrato nel modus operandi di ogni giorno la consapevolezza del peso della variabile tecnologica nel corretto funzionamento delle procedure e delle organizzazioni che rispondono alla necessità di dare concreta attuazione al diritto al giusto processo.[4] È infatti la domanda di un più “giusto” processo ad avere in parte giustificato e a giustificare tuttora l’enfasi posta dalle istituzioni nazionali ed internazionali sul potenziale di cambiamento migliorativo legato all’innovazione tecnologica. [5]

    A ben osservare il nesso che intercorre – sia sul piano funzionale, sia sul piano della narrativa istituzionale – fra giusto processo e tecnologia, ci si accorge rapidamente di quanto esso sia complesso. È proprio la constatazione di tale complessità – e come vedremo della molteplicità dei livelli di analisi dei processi di cambiamento catalizzati dalle innovazioni tecnologiche – a indurre una posizione epistemologica di cautela dinnanzi a forme di visione riduzionista delle funzionalità e delle qualità del sistema giustizia. La presa di distanza vale anche rispetto ad una visione della tecnologia come “semplice” strumento che intervenendo su variabili strutturali e/o di setting della situazione nella quale operano gli attori della giurisdizione sarebbe linearmente correlato con un quantum di miglioramento nella relazione input/output, ovvero costi/benefici. [6]

    Dal punto di vista generale l’introduzione di strumenti tecnologici nel settore giustizia è ascrivibile nella più ampia traccia aperta dalla strategia di creazione di condizioni di efficienza del settore pubblico. L’agenda condivisa già alla fine degli anni ’90 e poi ancor più nel primo decennio del XXI secolo ha teso a convergere su tre punti nodali:

    • la tecnologia come strumento di razionalizzazione dell’azione istituzionale;
    • la tecnologia come strumento di garanzia di accesso e trasparenza a informazioni e logiche decisionali;
    • la tecnologia come strumento di ottimizzazione delle decisioni istituzionali.

    Le condizioni favorevoli ad una affermazione trasversale alle culture giuridiche ed amministrative nazionali di questo paradigma sono legate ad uno dei temi che ha maggiormente caratterizzato il dibattito dispiegatosi negli anni 80’ e 90’ sulla qualità dei servizi pubblici e sulla sostenibilità della spesa pubblica in una ottica di rapporto costi/benefici. Dinnanzi ad una progressiva estensione delle prerogative dello Stato – qui inteso come attore distinto dal mercato – nella erogazione di servizi e nella produzione di beni collettivi – ambiente, energia, istruzione – il rapporto fra le risorse assorbite dalla macchina pubblica e i risultati conseguiti in termini di risposta ai bisogni dei cittadini diventa dirimente per valutare la cosiddetta “legittimità in output” delle istituzioni.[7]

    In tale quadro, la tecnologia assume – almeno sul piano della narrativa ufficiale – il ruolo di un potenziatore di risorse e di riduttore dei costi di produzione di beni e servizi. In altri termini attraverso la tecnologia ci si attende di potere razionalizzare e aumentare la performance dello Stato. Inoltre, la tecnologia viene intesa come un meccanismo di riduzione dei costi di accesso alle informazioni che riguardano l’agire della macchina pubblica. La tecnologia è vista come un volano di trasparenza e, per questo tramite, di legittimazione attraverso l’attivazione di forme di accountability pubblica: rendere conto del proprio agire, fare comprendere e rendersi “leggibile” da chi non è “addetto ai lavori”. Si noti che a questo proposito ciò che conta non è il de jure, ma il de facto. Che le istituzioni, comprese quelle giuridiche e giudiziarie, debbano essere trasparenti e debbano rendere conto al cittadino è sancito in via di principio e sul piano formale dalle norme che dispongono del diritto di accesso alle informazioni attinenti alla pubblica amministrazione e dalle norme che assicurano nel settore che qui ci interessa il diritto ad un giusto processo.

    Altra questione è tuttavia se tali principi siano declinati in azioni che effettivamente assicurano al cittadino non esperto l’effettività del godimento del diritto di comprendere – e quindi di potere nella eventualità in cui ve ne sia bisogno – sanzionare, criticare, fare ricorso avverso la pubblica amministrazione o le istituzioni il cui agire è sostanzialmente innervato dalle norme giuridiche. Da qui ha origine l’enfasi posta sulla centralità della tecnologia che permette di ridurre i costi di accesso alle informazioni.[8]

    In sintesi, il tema dell’e–government nelle sue diverse declinazioni aveva fatto la sua comparsa agli inizi degli anni ‘90 accompagnando l’insieme degli strumenti di efficientamento della pubblica amministrazione in una ottica di legittimazione delle azioni di produzione e distribuzione dei servizi orientati ad assicurare l’efficienza. Per quanto i paesi, come spesso accade, si siano mossi in questa direzione a diverse velocità e seguendo diverse traiettorie di cambiamento, è nondimeno vero che l’associazione fra tecnologia ed efficienza è divenuta cardine all’interno del discorso condiviso sia dall’Unione europea sia dal Consiglio d’Europa, sia dalle organizzazioni internazionali che, come l’OCSE la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, si occupano dell’intreccio fra crescita e governance. In questa ottica, ‘tecnologia‛ significa innanzitutto ‘dotazione di risorse tecnologiche’: sono risorse le infrastrutture hardware, così come lo sono i dispositivi e gli applicativi software.[9] Una visione che inquadra la relazione fra aumento della dotazione tecnologia e aumento della efficienza in una chiave, da un lato, di neutralità della tecnologia rispetto agli attori che la producono e la applicano e, dall’altro, di derivazione della qualità del servizio dal grado di efficienza con il quale è stato prodotto.

    Pur con differenze di toni e con maggiori enfasi avvertite in alcuni Paesi e in alcuni momenti storico politici – si pensi ad esempio alla piattaforma europea di razionalizzazione della spesa pubblica adottata in contrasto alla crisi economica e finanziaria del 2007 e 2008 – anche giustizia come settore della pubblica amministrazione ha risentito di questa visione e più in generale di una promozione della tecnologia in una prospettiva di riduzione dei costi di accesso e di gestione dei procedimenti giudiziari a fronte del bisogno di assicurare la tutela dei diritti e la risposta alla domanda di soluzione delle controversie che proviene da cittadini e imprese.

    Pertanto, l’incontro fra la tecnologia e la giustizia, in particolare fra quel tipo di tecnologia che permette la digitalizzazione e la gestione su base telematica dei flussi documentali che si dipanano nel procedimento giudiziario, ha vissuto diverse “stagioni”.

    Una prima stagione è stata caratterizzata da una enfasi particolare posta sulla correlazione prospettata fra innovazione tecnologica e aumento della efficienza. Il rapporto fra qualità della giustizia e tempi della risposta giudiziaria è diventato una issue di politica pubblica a partire dagli anni 2000 e ancor più dopo la crisi economica in molti paesi europei. Empiricamente, la tecnologia entra in contatto con l’organizzazione del lavoro attraverso l’adozione di dispositivi di court management; poi si interfaccia con la procedura attraverso la digitalizzazione dei fascicoli; arriva poi a muoversi in un universo di “traduzione” in format digitale il cui portato cognitivo ha un impatto profondo ed esteso al contempo sulla giurisdizione.[10] Tuttavia il primo processo di trasformazione che appare di dimensioni epocali è quello della cosiddetta dematerializzazione. La perdita della dimensione materiale cartacea e la concomitante connessione con gli spazi fisici entro cui sono gestiti – in senso materiale – i supporti cartacei degli “atti” ossia i fascicoli e tutta la dotazione materiale ad essi associata è la prima “porta” da cui entra il “nuovo”. Si tratta di un nuovo non immediatamente “maitrisable” nelle sue conseguenze di tipo cognitivo.[11]

    In Italia il percorso seguito dalle riforme della giustizia che hanno fatto della tecnologia uno strumento di efficienza trova una descrizione puntuale e ancora attuale in diversi lavori di riflessione e di accompagnamento della formazione e della trasformazione, legati alla diffusione del processo civile telematico (PCT) e dell’utilizzo delle banche dati informatizzate per la raccolta, l’analisi e lo storage di dati sensibili nel contesto del contrasto al crimine organizzato. Ad oggi il processo di trasformazione del sistema giustizia attraverso e in associazione all’innovazione tecnologica si prospetta nel settore del penale, con l’avvio del processo penale telematico, ma non si limita a questo. È l’accento messo sulle piattaforme e sulle reti, ovvero sulle infrastrutture materiali ed immateriali, che appare centrale nella agenda istituzionale.  

    Il caso italiano si qualifica come tra i più interessanti e positivi nel quadro europeo ed internazionale, sia per estensione delle innovazioni, sia per grado di consolidamento della innovazione tecnologica nelle prassi di lavoro nella giustizia civile[12].

    Il potenziale di miglioramento della qualità della giustizia a fronte della introduzione delle tecnologie necessita di una preliminare messa in contesto della relazione‚ qualità – innovazione, posto che la qualità della giustizia si articola in diverse componenti, accessibilità, sicurezza (in particolare a fronte della trasformazione digitale che attraversa non solo il settore giustizia, ma in generale il settore della funzione pubblica), garanzia di terzietà, qualità delle decisioni, garanzia di uguaglianza di servizio, efficienza ed efficacia organizzative, rispondenza a criteri di intelligibilità e di prevedibilità della risposta, sostenibilità del sistema giustizia nel medio lungo periodo dal punto di vista degli investimenti.

    Per quanto la tecnologia non sia soltanto uno strumento di riduzione dei costi di “produzione” del servizio giustizia, ma comporti una mutazione qualitativa del modus operandi di tribunali e procure, nonché della avvocatura nella sua interazione con il cittadino e con il sistema giudiziario, resta comunque il fatto che la prima stagione tecnologica ha avuto come connotazione principale quella “efficientista”. Solo in seguito, soprattutto a fronte della crescita e del consolidamento delle banche dati giurisprudenziali, rese possibili anche dalla digitalizzazione dei documenti che intervengono nel corso dello svolgimento del procedimento giudiziario, la tecnologia è divenuta precondizione alla possibilità di ragionare in una ottica sistemica sull’andamento della giurisprudenza, sulla qualità della giustizia intesa come prevedibilità, ossia come esistenza di effetti di convergenza non solo nei dispositivi, ma anche nelle evoluzioni argomentative, categoriali del diritto sostanziali in via interpretativa su base casistica.[13] Prevedibilità e giurisprudenza evolutiva sono due punti in tensione dinamica di un sistema come quello delle norme giuridiche e delle loro applicazioni ai casi individuali che chiedono di essere al contempo adattive e prevedibili, ossia stabili.

    La successiva stagione della tecnologia mette l’accento dunque sul potenziale cognitivo, prima che organizzativo, dell’innovazione, visto che l’analisi di banche dati fatta con strumenti ad alta capacità computazionale permette di conoscere gli andamenti pregressi, individuare potenziali e probabili stabilizzazioni della giurisprudenza, eventualmente oggetto di convergenza decisionale e/o argomentativa.

    Quelle stagioni oggi appaiono come se fossero ordinabili in una prospettiva teleologica che tuttavia non ha ragione di esistere, poiché i processi innovativi scientifici e tecnologici attengono al mondo della scoperta, più che della prevedibilità. L’analisi dei big data e l’elaborazione, attraverso processi di apprendimento machine learning, di algoritmi che a loro volta applicano modelli e pattern di prevedibilità a casi o a tipi di casi rappresenta una ulteriore trasformazione che non solo tocca la efficienza – un algoritmo calcola in modo più rapido di una mente umana – e la prevedibilità. Questa stagione tocca in modo profondo le garanzie e quindi il sistema della governance dei sistemi giustizia, che con le sue norme di carattere ordinamentale e processuale, si è sviluppata nel lungo periodo al fine di assicurare – tenuto conto del modificarsi dei contesti sociali politici ed istituzionali – il rispetto di due principi fondanti lo Stato di diritto: eguaglianza ed imparzialità.

    Rispetto a questi due cardini dello Stato di diritto va valutato il portato, della tecnologia ed in particolare di quella digitale. La tecnologia digitale si interfaccia con i sistemi di giustizia in tutti i suoi snodi e livelli, a partire dalla domanda sino alla offerta della soluzione delle controversie. Dal lato della domanda, la tecnologia incontra il mondo della giustizia sia sul piano della informazione di cui dispongono le parti (ad esempio avvalendosi dei meccanismi di open government che interessano anche i contenuti delle decisioni giudiziarie o i contenuti degli atti di esecuzione), sia sul piano della rappresentazione del problema (ad esempio l’avvocato o il mediatore può essere coadiuvato dal risultato di ricerche fatte con dispositivi computazionali che analizzano basi dati, i cosiddetti big data, massive identificandone trend, specificità, punti mediani, sotto il profilo degli orientamenti giurisprudenziali, etc.). Ancora dal lato della domanda, ma già tenendo conto delle prime forme di interazione fra domanda ed offerta di giustizia, il flusso dei documenti può essere profondamente trasformato dalla disponibilità del canale digitale. Questa trasformazione interessa innanzitutto il rapporto di document delivering e document repository in cui sono coinvolti avvocati e cancellerie, ovvero avvocati e tecnici consulenti di parte.

    Dal lato dell’offerta, ed in particolare sul piano invece della macchina organizzativa interna al sistema delle corti, la tecnologia incontra il rito del processo a tre diversi livelli. Innanzitutto, nella gestione dei documenti, ciò che viene chiamato e-filing e case management. Inoltre, nella elaborazione del ragionamento del personale togato o della magistratura onoraria offrendo basi dati da cui inferire tendenze e convergenze giurisprudenziali e successivamente offrendo la disponibilità tecnica degli algoritmi, i dispositivi computazionali “formati” o meglio “allenati” ad elaborare e processare quantità di informazioni elevate. Infine, la tecnologia interviene nel rito del processo all’interno dei meccanismi di evidence-taking, ossia di acquisizione delle prove. In tal senso, rappresentano la complessità del campo configurato dall’incontro fra tecnologia e giustizia le parole di Pasquale Liccardo: “la storia recente anche dell’informatizzazione giudiziaria ha conosciuto processi di avanzamento dei sistemi informativi non sempre supportati da metodologie progettuali capaci di coniugare innovazione tecnologica e cambiamento organizzativo: «le tendenze mimetiche della tecnologia rispetto al contesto vengono favorite a detrimento della possibilità per essa di divenire veicolo di innovazione organizzativa», consacrando rigidità nei ruoli e nelle competenze professionali ben diversamente riposizionabili”. [14]

    La formazione di quadri culturali e di strumenti metodologici costituisce dunque una conditio sine qua non per potere fare della tecnologia digitale un ambito dove le garanzie, nella forma in cui le abbiamo pensate sino ad ora, danno prova di resilienza e di capacità trasformativa. Condividere problemi e linguaggi è il primo, ineludibile passo perché avvocati, magistrati, esperti, personale amministrativo, cittadini e imprese impegnate nello sviluppo e la ricerca di applicativi, modelli computazionali, tecnologie avanzate, si approprino insieme del potenziale innovativo che in nuce nell’orizzonte digitale. L’accento va messo sulla parola “insieme”. Di qui l’insistenza sulla inter-disciplinarietà e sulla pluralità delle voci di cui si necessita oggi nel modello di governance della trasformazione digitale della giustizia.[15]

    Sguardo critico, formazione e dibattito condiviso e plurale appaiono dunque come i pilastri di un sistema di governance del nuovo fenomeno, la giustizia algoritmica, di cui si sente il bisogno, affinché tali evoluzioni tecnologiche non siano “una promessa di convivenza fra esseri umani senza intermediari e senza diritto, allora dimenticando che l’uomo è un animale politico”.[16]

    Come già anticipato, la terza stagione ha insistito sulla questione della standardizzazione. Il linguaggio digitale, attraverso l’accentuazione della dimensione computazionale, permette una trattazione dei contenuti semantici caratterizzata da un alto grado di standardizzazione (Lassègue, 2020; Garapon, 2020; Piana, 2021).  La promessa che scaturisce dal connubio di quantificazione – traduzione in linguaggio digitale e quindi potenziale di trattamento del dato informativo attraverso la ratio matematica – e dematerializzazione – intesa come straniamento contestuale – sta tutta nella visione della strategia vincente per assicurare l’uguaglianza di trattamento. Sappiamo dai dati di ricerca e dalla esperienza organizzativa che se il punto di partenza normativo – la legge – è uguale per tutti, per valutare se la l’applicazione della legge sia uguale per tutti l’osservazione delle norme giuridiche non basta. Occorre tenere conto degli altri fattori, parte dei quali riguardano il funzionamento della magistratura e dell’avvocatura, la tipologia di contenzioso che caratterizza un territorio, la disponibilità di edifici dove è agevole raggiungere le aule di udienza, la disponibilità di servizi di orientamento e informazione per il pubblico, la facilità con cui si raggiunge un tribunale, la possibilità di svolgere semplici operazioni attraverso il sito internet del palazzo di giustizia, la esistenza di una buona tradizione di dialogo fra il foro e la magistratura del circondario o del distretto, la presenza di un capo ufficio orientato alla gestione delle risorse umane e materiali secondo parametri e criteri attenti al cittadino oltre che alle procedure. La tecnologia si configura quindi come una forma di governance, ossia un sistema di regole che si sovrappongono e si giustappongono a quelle della organizzazione giudiziaria e tendono a sostituirla soprattutto laddove i casi sono semplici, seriali e quindi standardizzabili. Si tratta di un passaggio argomentativo e oggettivo di assoluta importanza.[17]

    In sostanza, il processo di trasformazione digitale costituisce oggi uno spazio ideale, funzionale ed organizzativo entro cui si dispiegano forme di cambiamento profonde capaci di toccare tutti gli aspetti essenziali del mondo privato e pubblico. In senso stretto tale processo è reso possibile dalla integrazione di elementi provenienti dalle tecnologie digitali all’interno della produzione, trasmissione, interpretazione, utilizzo, archivio e recupero di contenuti semantici, i quali sono trattati attraverso un percorso di riduzione ad una grammatica e ad una sintassi che si articola sul linguaggio matematico. Una rivoluzione linguistica che si riflette immediatamente in una rivoluzione cognitiva e che, proprio per la pervasività della sua presenza e per la inedita forza della sua influenza, ha indotto processi di cambiamento in tutte le forme organizzative del vivere sociale.

     3. Nel diaframma del processo: dalla osservazione partecipante all’euristica di sistema

    Nel paragrafo precedente si è proposta una visione “disaggregata” del concetto di trasformazione digitale e se ne sono evidenziate le traiettorie e le stagioni, queste ultime essendo le componenti fondamentali del complesso processo di cambiamento che ha interessato il sistema giustizia nel corso degli ultimi decenni in concomitanza con e a causa dell’avanzamento della tecnologia.

    In sostanza la tecnologia e la razionalità strutturante delle piattaforme hanno comportato una divaricazione fra la funzione – organizzativa, di trattazione di contenuti e documenti, di scambio e transazione di item e significati – e tre forme contestualizzanti: la materia (ossia lo spazio e i supporti fisici dell’azione giudiziaria), il contesto routinario e rituale del lavoro, la cognizione argomentativa e logico-semantica.

    In altri termini, la possibilità di trattare, scambiare, organizzare, e dare un ordine – dunque un significato leggibile anche ad altri – a contenuti che attengono ad un caso di contenzioso o di richiesta di servizi (si pensi alla volontaria giurisdizione) messi in relazione con il complesso articolato delle norme che insistono sul “rendere giustizia” (giuridiche, giurisdizionali, ordinamentali, processuali, ecc) ha aperto un orizzonte inedito che ha reso possibile e ha di fatto realizzato forme di dematerializzazione, computabilità dei suddetti contenuti e standardizzazione del loro trattamento.

    Le tre traiettorie del cambiamento sono fortemente connesse fra di loro. Solo perché e nella misura in cui i contenuti sono trasformati in dati con formato digitale essi possono essere “organizzati” in un formato il cui formante è socio-giuridico e tecnologico, ossia è dato dall’insieme delle piattaforme e degli applicativi che su queste operano. Solo in questo formato i contenuti sono “trattabili” con razionalità matematiche (sono computabili). Questo formato è in re ipsa una esemplificazione di una standardizzazione.

    In questo paragrafo l’esercizio che si propone al lettore è quello di mettere sotto tensione queste forme di normatività non giuridica, entrata nel sistema giustizia “dalla porta” della tecnologia digitale e delle piattaforme telematiche attraverso l’osservazione sul campo di prassi di innovazione.

    La prospettiva che si intende adottare è quella micro-individuale, ossia centrata sugli attori del processo e sugli attori del sistema giustizia. L’unità di analisi, nelle diverse esperienze di ricerca qualitativa qui riportate, è quella della routine e del rituale, ossia di una serie di azioni ripetute in un ordine definito e prevedibile, leggibile per gli attori che condividono il contesto, e capace di generare un significato.

    I tre focus sono basati su dati di ricerca che, in diversi contesti processuali e ordinamentali, hanno insistito tutte sul tema della trasformazione digitale. La prima attiene alla introduzione di applicativi al fine del trattamento – dematerializzato e standardizzato - di documenti e contenuti dei procedimenti; la seconda attiene alla razionalizzazione degli script di redazione degli atti; la terza riguarda invece la remotizzazione – quindi la “de-spazializzazione”, per utilizzare un termine coniato da Antoine Garapon – dell’udienza pubblica nel contesto del procedimento amministrativo dinnanzi al Consiglio di Stato. La diversità dei contesti processuali presi in considerazione in queste pagine è voluta. Essa permette di rafforzare la tesi di fondo che verrà esplicitata nel paragrafo successivo. [18]

    Nel corso di un percorso di ricerca che ha coniugato metodi qualitativi a metodi di misurazione qualitativa, svoltosi nell’arco di tre anni all’interno degli uffici giudiziari del distretto della Corte di appello di Bologna, l’interfaccia fra applicativi e routine di lavoro è stato oggetto di approfondito studio. La diversità dei contesti organizzativi sui quali la ricerca ha potuto cimentarsi rafforza le conclusioni cui si è pervenuti. Una parte importante delle attività di ricerca ha teso a rilevare il margine di adattamento e di flessibilità che è intrinseco nell’interfaccia fra attore e struttura del software, ossia fra forma della razionalità decisionale, che deriva dalla esperienza e dalla professionalità, declinate nel contesto organizzativo e nelle sue routine, e forma della razionalità che è intrinsecamente inserita nel formante tecnologico. Gli applicativi sono stati dunque osservati come degli strumenti che non solo intervengono sul rapporto fra costi e benefici delle azioni individuali – riducendo il costo di transazione e di trasmissione di documenti, così come il tempo di trattazione dei fascicoli –, ma anche sul rapporto che intercorre fra adattamento e regolarità, fra flessibilità contestuale e struttura standardizzante.

    Una volta i documenti resi in formato digitale è chiaro che su di essi potrà essere applicata una razionalità matematica, come, ad esempio, quella che trova la sua espressione nei processi di analisi algoritmica delle tendenze decisionali giudiziarie. La centralità del ruolo garante svolto dall’attore umano in questo snodo appare, alla luce dell’evidenza empirica della ricerca, dirimente.

    Il percorso attraverso il quale si è dipanata l’evoluzione del processo civile telematico si configura come una traiettoria a velocità differenziata, con accelerazioni e punti di arresto, contrassegnata da momenti nei quali l’adesione degli operatori all’idea di fare del processo civile telematico una realtà operativa funzionante ha generato processi virtuosi di elaborazione – in contesto – di soluzioni organizzative, prassi, adattamenti: “È uno sviluppo che riguarda non solo la “macchina” dell’amministrazione della giustizia, ma anche, in maniera altrettanto diretta, la strutturazione della professione legale nonché il suo concreto modus operandi nel processo”.[19] Se si parte dalla importante questione del potenziale di interazione fra uffici giudiziari e pubblica amministrazione, le esperienze fatte dalle ricerche in situ permettono di esplorare percorsi promettenti di miglioramento. Uno di questi percorsi ha condotto alla valutazione del margine di miglioramento in termini di efficienza che si genera con la digitalizzazione completa dell’invio dei template compilati con i dati richiesti dall’applicativo. Un ulteriore approfondimento di tale percorso di ricerca riguarda l’impatto della interoperabilità degli applicativi nelle interazioni fra uffici siti in diversi plessi funzionali dell’amministrazione e fra amministrazione e giustizia. Ad esempio, si è valutato il portato di ottimizzazione dei tempi nella effettuazione delle comunicazioni fra tribunale ed enti della pubblica amministrazione attraverso il diretto inserimento dei dati su una piattaforma che svolga funzione di interfaccia. In relazione all’aspetto del data entry, la ricerca svolta ha mostrato un margine di ottimizzazione dei tempi nelle comunicazioni fra attori che intervengono nei procedimenti. La ricerca ha poi esplorato il margine di miglioramento legato all'attitudine all'utilizzo del sistema informatico correttamente e strutturato per velocizzare e migliorare il lavoro stesso. Sul piano delle ricadute pratiche lo strumento della ricerca si è proposto di valutare come il passaggio dal registro cartaceo a quello telematico sia servito a velocizzare i tempi di lavoro.

    Si tratta di risultati che sono stati portati all’attenzione anche da ricerche svolte in parallelo in diversi siti organizzativi – ovvero in diversi uffici giudiziari e nelle loro rispettive cancellerie, permettendo di supportare empiricamente l’ipotesi di operare in vista di una chiara ed efficiente suddivisione dei ruoli e di un’estensione del deposito telematico a tutti gli atti endo-processuali.

    Nel suo insieme la osservazione in situ ha avuto come oggetto le ritualità e le routine di lavoro, che riguardano sia la modalità con cui attraverso il rispetto di una sequenza di azioni validante il risultati si riconosce – trasversalmente alle singole razionalità individuali che intervengono lungo tutto il percorso endo-processuale – la qualità dell’azione collettiva, sia la modalità con cui senza dovere esplicitare il “dovere essere” de facto modus operandi condivisi e riconoscibili come tali sono in essere negli uffici. Tale osservazione, così capillare, ha permesso di evidenziare fino a che grado di profondità la tecnologia degli applicativi che entra in contatto con l’agire del court management sia portatrice di una normatività – ossia di un set di vincoli e di opzioni di agire, che orientano, strutturano e di fatto organizzano il lavoro. Una dimostrazione empirica di come la tecnologia induca un ordine e, così facendo, comporti una necessaria combinazione fra normatività processuale, normatività derivata da rituali radicati nell’organizzazione degli uffici e nella loro storia, e normatività incardinata nella tecnologia stessa. Non si tratta dunque di negare il potenziale di miglioramento della tecnologia, ma di riconoscerne il quid specifico e conseguentemente di valorizzarlo – formando gli operatori a gestirlo al meglio – in un percorso di bilanciamento fra razionalità (e rispettive normatività di riferimento) diverse.  

    La centralità del ruolo degli attori, proprio perché esiste la traiettoria di trasformazione che è indotta dalla tecnologia, emerge anche dalla ricerca svolta all’interno del distretto della Corte di appello di Firenze in materia di razionalizzazione della redazione degli atti giudiziari. Da tempo, infatti, si riscontra una varianza e una mancanza di prevedibilità nell’ordine delle parti argomentative che costruiscono il valore/significato dell’atto. A fronte di una difficoltà generata dalla standardizzazione ex ante che sarebbe intrinsecamente indotta dalla automazione – un template unico con campi, ad esempio – si è optato per un percorso di ricerca che partisse da una valorizzazione del portato cognitivo delle prassi di lavoro. La scelta del termine razionalizzazione invece che di quello di standardizzazione è in questo contesto gravida di conseguenze. [20]

    L’idea di fondo è che non si voglia estraniare – de-spazializzando – l’azione socio-giuridica che consiste nel redigere un atto, ma che si voglia creare un metodo critico e riflessivo condiviso che diventi un rituale, dove sia facile il reperire i loci argomentativi e le parti funzionali del ragionamento al fine di una più agile e trasparente lettura da parte di altri attori. Si tratta di un metodo che permette la valorizzazione della dimensione collettiva di quell’intelligenza storicamente stratificata nelle organizzazioni e che riconosce a queste tutta la loro rilevanza nella redazione e nella trattazione degli atti giudiziari. 

    L’esperienza avviata nel distretto della Corte di Appello di Firenze si situa sul solco segnato dal lavoro svolto sia in sede ministeriale, sia in sede consigliare, sia ancora all’interno della Corte suprema di Cassazione, avente come obiettivo principale, pur declinato nelle diverse aree di competenza istituzionale, quello di fare della qualità degli atti giudiziari un tema di politica istituzionale. Il laboratorio ha voluto affrontare in prima battuta il potenziale di barriera al cambiamento indotto dalla difficoltà di intravedere per ciascun attore del sistema i vantaggi organizzativi e professionali di un cambio di passo nella razionalizzazione degli atti. Per fare questo, una survey sul grado di salienza percepita è stata svolta in apertura del percorso, al fine di evidenziare e di rilevare la importanza del tema. Le risultanze della survey sono state incoraggianti sia sul piano dei contenuti – la salienza percepita, nelle diverse voci del sistema giustizia e nelle diverse sedi si è attestata al di sopra del valore di 8 su una scala di 10 -, sia sul piano del metodo, che ha visto una ampia partecipazione trasversale a percorsi professionali e a sedi circondariali. Determinante nella complessiva evoluzione del percorso e del dibattito è stata la presenza e l’adesione al metodo di lavoro della formazione decentrata presso la Corte di Appello.

    La governance del laboratorio che ne è scaturito ha profondamente inciso sul valore legittimante del lavoro svolto, attraverso un coordinamento forte della formazione decentrata, che però si è innestato in modo flessibile su una rete di magistrati referenti, direttamente identificati dai capi ufficio delle sedi circondariali, giudicanti e requirenti. La partecipazione unita a snodi di raccordo interno e di coordinamento distrettuale ha permesso una circolazione delle idee coniugata ad una razionalità sintetica delle proposte fatte.

    Si rilevano tre aspetti che meritano di essere presi in considerazione per un eventuale momento di estensione del metodo utilizzato: a) ambito distrettuale comprensivo di tutte le istanze della giurisdizione; b) tipizzazione problemi; c) tipizzazione soluzioni. L’approccio per problemi e soluzioni, invece che per snodi processuali, ha permesso una astrazione del ragionamento che ha conferito forza e potenziale di apprendimento orizzontale a tutto l’esperimento fatto. Il laboratorio, pertanto, non è stato né un mero lavoro sulle tecniche formali del ragionamento giuridico, né tantomeno un lavoro guidato dalla funzione apicale nel merito delle scelte fatte, né ancora una esperienza di standardizzazione, lasciando le risultanze nell’alveo delle linee guida, dei modelli a menu, da implementare attraverso una strategia di adattamento e di ibridazione fra istanze generali – razionalizzanti – e istanze legate alla singolarità del procedimento.

    Il valore aggiunto dell’esperienza di ricerca risiede nel metodo utilizzato al fine di coniugare, in un percorso che costruisce legittimazione e valore, la contestualità e la storicità delle esperienze fatte nei territori del distretto all’interno delle realtà organizzative e la razionalizzazione che fa propri elementi di standardizzazione e di orientamento delle scelte redazionali in una ottica di reciproca leggibilità e prevedibilità. In altri termini la norma standardizzante viene costruita con un percorso bottom up che tende a definisce il perimetro di “accettabilità” delle azioni (redazionali) secondo un criterio che ha un significato per quel contesto, ma che non resta intrappolato nella singolarità soggettiva e imprevedibile.

    È interessante notare come la tecnologia potrebbe indurre una standardizzazione, la quale tuttavia, da sola, non sarebbe in alcun modo in grado di esaurire i requisiti di una qualità della giustizia che al suo interno vuole bilanciare diversi aspetti, spesso fortemente sensibili alla singolarità del caso, della situazione di lavoro, del procedimento, ecc.

    Ancora una volta la consapevolezza della compresenza fisiologica e auspicabile di diverse forme di normatività permette di scongiurare una trappola riduttiva, senza tuttavia rinunciare al potenziale di catalizzazione del miglioramento che viene proprio dall’utilizzo di applicativi e di sistemi software comuni.

    La terza esperienza di ricerca che merita essere qui richiamata a titolo euristico è quella orientata a rilevare se e fino a che punto la ritualità dell’udienza, trasposta in uno spazio virtuale, sia in grado di conservare le specificità che le sono proprie. In letteratura ci si chiede infatti se la trasposizione delle ritualità processuali, così come delle prossemiche che a queste si associano, necessitano di una valutazione di insieme tesa a costruire ad hoc meccanismi di costruzione – o ricostruzione – di quelle componenti che sono necessarie alla significatività simbolico-rituale propria del processo.

    La ricerca avviata nel contesto del Consiglio di Stato e avente come campo di osservazione l’udienza ha permesso di identificare alcuni aspetti che meriterebbero un approfondimento e una attenzione istituzionale condivisi. L’osservazione partecipante dei riti inerenti alle udienze pubbliche ha permesso di individuare non solo alcuni aspetti di particolare importanza per la riorganizzazione del lavoro che sottende lo svolgimento delle ritualità processuali aventi integrato parti di interazione in remoto, ma anche di tracciare i percorsi più idonei per la formazione e la discussione fra professionalità che intervengono nella giurisdizione per le rispettive funzioni. Innanzitutto si evidenzia il ruolo cruciale svolto dal rapporto di consuetudine dialogica e comunicativa fra la figura della Presidenza della sezione e i relatori, consuetudine che si poggia su una precondizione di fiducia e che si esplica nella progressiva definizione deliberativa in merito alle criticità del caso specifico, così come in merito al potenziale impatto delle decisioni prese (si pensi alla dinamica decisionale sulla decisione se rimandare alla trattazione di merito con il costo implicato dalla attesa del tempo che intercorre fra la camera di consiglio e la trattazione).

    Si rilevano poi alcune caratteristiche del modulo organizzativo dei lavori. La funzione di garanzia di controllo incrociato svolto dalla segreteria presente e connessa che verifica se, una volta sentite le parti, ci si trova a deliberare effettivamente in condizione di “porte chiuse”, ossia se le parti sono disconnesse. La funzione di mutuo accordo tacito, ma ribadito, sulla compliance dell’obbligo di non registrare quanto discusso. La funzione di controllo – endogeno e in prassi – del contingentamento dei tempi e della sua effettiva attuazione svolta dalla figura della Presidenza della sezione. Resta cruciale attraverso tutto lo svolgimento del rito il modus operandi – de facto – della Presidenza che si riflette su quattro livelli operativi: a) il controllo del valore marginale informativo aggiunto dalle parti rispetto alle memorie depositate – non ripetere ciò che è stato già scritto; b) la moral suasion a elaborare in tempi brevi la posizione della parte e quindi l’effetto nudging sulla modalità di argomentare; c) il lavoro preliminare svolto che permette una ottimizzazione dell’uso del tempo trascorso; d) la valutazione di carattere deontologico nel merito della scelta su tempi e forme della rappresentanza – ad esempio nel caso di assenza di una delle parti o di sostituzione all’ultimo momento del(la) rappresentante.

    Sul piano della prossemica, la remotizzazione delle udienze comporta una serie di tensioni e torsioni che necessitano di essere messe alla attenzione della formazione. La prima riguarda la modalità di parlare e di esporre da parte dei rappresentanti delle parti. Se, infatti, in uno spazio fisico il linguaggio del corpo completa, rafforza, ovvero rinnega quanto la parola trasmette, in una udienza in remoto esiste la parola e la mimica facciale. Queste sono spesso soggette ad un effetto di deminutio nel loro potenziale di impatto, se la voce, le pause e le espressioni non sono padroneggiate avendo consapevolezza dell’effetto reso al di là dello schermo. La seconda questione riguarda la mancanza dell’”effetto specchio” con i componenti del gruppo di pari appartenenti allo stesso mondo professionale. Mentre si è in studio e si parla in una “sala” di udienza virtuale non si ha in alcun modo la percezione dell’effetto che si genera “attorno” perché non si ha percezione diretta dell’impatto che il comportamento verbale e non ha sulla percezione che gli altri attori della “scena” hanno di chi parla. Il terzo rilievo empirico riguarda l’effetto di raffreddamento del coinvolgimento motivazionale che si costruisce in modo totalmente inedito nella fase di interazione con il monitor e durante l’intermediazione telematica. Infine, ma non di minore importanza, si è rilevata la necessità di uniformare la rappresentazione digitale dello spazio remotizzato. Se, infatti, la giurisdizione è una, la disgiunzione del luogo di posizionamento fisico dal locus di svolgimento della funzione nella sede del processo non può riflettersi in una difformità di sfondi, connotazioni spaziali, incluse le frequenti “finestre” aperte su spazi che non sono in alcun modo suscettibili di essere associati al valore simbolico delle aule di udienza del Consiglio di Stato.

    Un obbligo di uniformare lo sfondo non sarebbe un puntiglio di dettaglio, ma la chiara segnalazione che la dematerializzazione non snatura la giurisdizione né toglie al valore simbolico rituale – co-sostanziale della giustizia – che, in uno Stato di diritto improntato su una narrativa moderna tradizionale aveva voluto situare in palazzi di Giustizia di pregio e di alto prestigio l’esercizio della funzione più intimamente connessa con la tutela dei diritti fondamentali.

    Le riflessioni sin qui tratteggiate per sommi capi e in riserva di approfondimento si qualificano per la loro salienza se viste nel contesto della giustizia amministrativa e del processo amministrativo telematico che ad oggi dopo un percorso di trasformazione è nella sua interezza tradotto in un formante digitale.

    Non deve sfuggire infatti il rischio di estendere la connotazione di qualità che deriva dalla buona gestione e dalla certa efficacia dello strumento di de-spazializzazione alla qualità più ampia e complessiva della giustizia. Accade infatti che nel dibattito internazionale siano sovrapposti facilmente qualità del giudizio – che in ogni caso non può, come ogni forma di ragionamento, essere ridotto a calcolo – e qualità del processo, avendo questa seconda una ineludibile connessione e derivazione dalla qualità del contraddittorio.

    Disporre delle evidenze scientifiche e delle ipotesi interpretative necessarie a, da un lato, valorizzare la qualità organizzativa, la trasparenza, l’efficacia della procedura telematizzata e, dall’altro lato, mettere in prospettiva critica il sovra-dimensionamento delle aspettative di qualità da una non attenta modulazione delle funzioni che attraverso il digitale perdono in qualità – a fronte di altre che invece ne sono rafforzate – appare oggi dunque un bisogno istituzionale e culturale di cui il sistema italiano, insieme con i sistemi che in Europa hanno optato per il format telematico, può e deve essere espressione.

    4. Misurare le qualità, riguadagnare il valore 

    L’esperienza di intensa trasformazione delle funzioni che costituiscono e innervano la procedura giudiziaria e amministrativa ai loro diversi livelli organizzativi e istituzionali ha rappresentato una straordinaria opportunità di apprendimento.

    Durante l’ultimo decennio, infatti, accompagnata da una sempre più diffusa domanda di efficienza la trasformazione digitale ha attraversato il sistema del “diritto in azione” e della amministrazione della giustizia conducendo ad almeno due non reversibili risultati.

    Il primo attiene alla dematerializzazione degli atti e alla disponibilità di quelle infrastrutture che permettono la contrazione dei tempi e l’abbassamento dei costi legati alla spazialità – spostamento, trasporti, dislocazione dei locali – nella esplicazione delle funzioni che fanno perno sul documentale. Deposito degli atti, ritiro degli atti, scambio degli atti e delle memorie nel e sul processo, recupero e valorizzazione del patrimonio di cognizione insito nella traccia digitale lasciata dalla trasformazione del cartaceo in digitale e dalla transazione/scambio di contenuti aventi, appunto, il format del digitale: sono queste tutte le condizioni che hanno reso possibile associare alla digitalizzazione e alla conseguente dematerializzazione una aspettativa di innalzamento della qualità della giustizia.

    Il secondo attiene alla possibilità di standardizzare, proprio attraverso la traduzione digitale del formante giuridico-giudiziario, i comportamenti e le forme di interazione fra funzioni che intervengono nel e attorno al processo. Una standardizzazione ancor più benvenuta se associata, come è accaduto in alcuni paesi, alla aspettativa di una diminuzione della differenziazione di trattamento ed alla tensione verso una effettiva attuazione del principio di eguaglianza all’interno della giurisdizione.

    È tuttavia sul tema della de-spazializzazione, intesa in senso ampio, che si gioca oggi il destino della qualità della giurisdizione se si considera che la ratio manageriale e la propensione alla efficienza possono trovare la loro corretta valorizzazione proprio andando al di là di una visione riduzionista della tecnologia come mero strumento. La ratio decidendi nel prossimo ed imminente momento di progettazione della effettiva articolazione della strategia di resilienza e rilancio della giustizia può distanziarsi da un potenziale effetto di path-dependence se sarà messa nelle condizioni di poggiare su una solida e scientificamente validata consapevolezza di quali siano i reali valori aggiunti che la ridefinizione profonda della spazialità – connotata in senso esperienziale e in senso culturale - è in grado di apportare alla qualità della giustizia.

    Utilizzare un applicativo per gestire una micro-routine non è solo un atto di digitalizzazione. È una esemplificazione di un ri-posizionamento cognitivo e pratico della razionalità dell’attore del sistema giustizia. Analogamente, la remotizzazione delle udienze non è solo uno strumento con cui si facilita l’accesso. Lo è, ma è anche molto altro: è, ad esempio, una trasformazione delle routine di comportamento che innervano alcuni rituali di giustizia e ne cambiano l’ordine ovvero il valore simbolico. Riconoscere tutto questo è fondamentale per, da un lato, riconoscere il valore aggiunto che è in nuce nella trasformazione digitale con le tre facce che qui sono state evocate, e, dall’altro lato, riconoscere ciò che va integrato e appieno valorizzato e che attiene a tutte le altre forme di razionalità e di normatività che intervengono nel mondo della giustizia.

    Naturalmente, questo non implica affatto rinunciare alla centralità della nozione di accesso e di uguaglianza di accesso alla giustizia. In tale prospettiva l’accesso nella singolarità del caso sarebbe generalmente e astrattamente connesso con la trasformazione del confine fra mondo esterno e mondo interno, fra domanda e locus di creazione della risposta, in senso immateriale. Così, per esempio, laddove lo spostamento verso le sedi giuridiche e giudiziarie sia oneroso, tale barriera all’accesso si tempererebbe di molto se lo spostamento non fosse necessario a valle di una intesa attuazione di digitalizzazione e dematerializzazione. Analogamente, se per accesso si volesse intendere leggibilità e trasparenza la disponibilità degli atti in formato digitale assicurerebbe un immediato accesso non connotato da asimmetrie di posizione fra gli operatori interni alla macchina amministrativa della giustizia e gli utenti qualificati e non qualificati del servizio che tale macchina eroga.

    Dunque, esiste una dimensione della qualità che dipende in senso stretto dalla qualità dell’accesso. Essa però va bilanciata con le altre qualità, che qui si è cercato di richiamare facendo riferimento a evidenze empiriche di esperienze di ricerca. Sappiamo infatti che la qualità della giustizia non va intesa in una dimensione singolare, ma che necessita di un intendimento e di una attuazione plurali e multi-dimensionali, se non altro perché alla qualità in termini di sostenibilità di gestione, fondamentale e incomprimibile, deve accostarsi la qualità del contenuto e soprattutto la qualità di quel rito che, solo e unico, può legittimare la decisione autoritativa di sancire, appunto, dove si situa l’ago della bilancia in quel particolare caso, in quel particolare contesto, in quel particolare tipo di materia giuridica, senza rinunciare alla tensione di eguale trattamento e alla elaborazione nomofilattica garante di una prospettica tutela del giusto processo in senso collettivo.

    Così si spiega l’inquadramento già preannunciato nel titolo. Le parole che ricorrono in apertura di questo articolo, costo, valore, ritualità, digitale, giustizia, anticipano il posizionamento epistemologico e metodologico delle pagine che seguono all’incrocio di diversi – e non sempre integrati – saperi e discipline. È quantomai importante oggi riaffermare lo spazio della dimensione rituale e della produzione di valore all’interno del sistema giustizia. Non ci riferisce solo al rito del processo. Piuttosto si vuole considerare quel connubio, sovente implicito e in quanto tale di grande rilevanza nel determinare il ventaglio delle opzioni che sono suscettibili di essere considerare legittime e legittimamente auspicabili, in cui viene de facto “classificato” l’agire collettivo istituzionale. Vi è dunque una ritualità, se così intesa, che travalica i confini della celebrazione, per arrivare a lambire – con Durkheim – le fonti stesse dell’ordine sociale e che si esplica nel fatto che in determinati luoghi le sequenze di azioni che vengono compiute sono fissate nella memoria collettiva ed è proprio in quanto così strutturate che esse determinano la creazione di un valore. Il nesso fra ritualità e simbologia, quindi, è molto significativo per la legittimazione di quelle forme dell’agire istituzionale che incidono sulla vita delle persone ridefinendo prerogative libertà e doveri. È ciò che accade entrando in palazzi istituzionali. È ciò che accade rappresentando nel linguaggio cinematografico una esperienza di interazione con il diritto e la giustizia. È ciò che accade quando un attore del sistema giustizia indossa la toga uscendo dalla singolarità soggettiva e “diventando” ruolo/funzione, carica di simbolico valore e di forza normante il ventaglio di interazioni legittime per il solo fatto di avere, appunto, indossato la toga.[21]

    L’osservazione partecipante di un “rito” come quello di una udienza pubblica in remoto apre squarci di riflessione sui percorsi di trasformazione, che si sono attuati nel medio periodo in dipendenza dalla disponibilità della tecnologia digitale, di cui vale la pena tenere conto in una prospettiva modulare ed integrativa. La dimensione della ritualità ha la capacità di organizzare le azioni collettive conferendo a queste una dimensione di durevolezza e di trans-soggettività che hanno cittadinanza propria nel mondo della giustizia. [22]

    Proprio la comparazione culturale, infine, permette di affermare quanto forte sia la domanda di ritualità per potere riconoscere alle figure (nel senso di funzionalità con una propria profilatura organizzativa e professionale) e ai saperi che “fanno la giustizia” una dotazione normativamente significativa di potere. Si accetta che vi sia una decisione dirimente di un organo terzo perché è “terzo” e perché – premessa secondaria, corollario rafforzativo della prima – tale terzietà è reificata in una serie di ritualità che sono cristallizzate in simboli. Di qui l’intreccio ineludibile e necessario fra spazio, ritualità e simboli: “nessuno spazio collettivo può essere concepito senza una cultura che associ a questo una espressione simbolica identitaria, che esprima in forme linguistiche granitiche sia i suoi valori sia i suoi principi fondanti”.[23]

    I frame degli atti, la distribuzione dei casi su base randomizzata, la salvaguardia dei file su piattaforme accessibili da attori remoti, la valutazione della qualità del servizio sulla base di tempi e costi – insieme alle risorse umane materiali e cognitive – richiedono ai sistemi giudiziari di cambiare il paradigma funzionale e, in questo modo, di pensare alla trasformazione dei modelli di interazione tra professionisti.

    Molte le novità esperienziali di cui è serbatoio oggi la memoria del sistema. Alcuni esempi: i professionisti che non necessariamente devono spostarsi dalla loro sede per partecipare ad una – o ad alcune parti della – sequenza di udienze fissate all’interno di un processo, la lettura e la trattazione dei documenti che in digitale, sono veicolati attraverso il processo civile telematico, attraverso l’accelerazione inattesa della cosiddetta “tiappizzazione” (ossia del passaggio dei documenti che sono associati ai procedimenti penali da un supporto materiale cartaceo ad un supporto dematerializzato per via della digitalizzazione), attraverso l’esperienza di lavorare in modo collaborativo a distanza su uno stesso documento, l’esperienza di avvalersi della piattaforma “Teams” per svolgere sessioni di formazione. L’elenco potrebbe di molto essere arricchito tenendo conto dei diversi settori della giustizia e dei diversi profili di professionalità e ruoli che, ciascuno per le proprie prerogative, sono stati attraversati dalla onda tellurica della iper-connettività e della accelerata dematerializzazione (e remotizzazione) che ha scosso il sistema giustizia.

    La proposta che questo articolo intende condividere fa propria la posizione espressa da Paolo Benati: “la tecnica diviene rivelatrice delle gerarchie di valori di una cultura e di una espressione della moralità vissuta, dell’ethos di una società”.[24] Mutatis mutandis nel contesto della giustizia la tecnologia ci permette di esercitare al contempo una razionalità euristica e una razionalità riflessiva.

    La razionalità euristica guarda a ciò che emerge per differenza dal confronto fra la tecnologia come forma che crea un significato ed un ordine – e quindi, in quanto tale performativa – e l’organizzazione endo-ordinamentale del lavoro e delle azioni di interazione fra attori del processo. Non tutto potrà essere ridotto a nomos tecnologico. Ma questo non è necessariamente una deminutio. Si tratta al contrario di una modalità con cui è possibile distillare il valore aggiunto di quelle componenti che generano valore nel mondo della giustizia e che non sono riducibili al formante tecnologico né alla semiotica del dato. Esse sono essenzialmente legate alle dimensioni che Antoine Garapon evidenzia nel suo lavoro, ossia la unitarietà dello spazio come distinzione di uno spazio chiuso e sui generis dove si celebra un rito avente un valore specifico per la società; la unitarietà dei gesti che gli attori eseguono perché sono nelle condizioni di vedere le reazioni della prossemica degli altri attori del processo; la simbologia che conferisce una dimensione di sacralità al rito giudiziario.

    La razionalità riflessiva guarda a come questi aspetti possano essere inclusi in una visione della qualità della giustizia che valorizzi, ciascuno per i propri ambiti, gli elementi che co-partecipano alla produzione di quell’incontro fra domanda e risposta di servizi giuridici e di giustizia che è l’architrave della legittimazione di cui si sostanzia la ratio essendi della funzione giudiziaria. In tal senso la proposta avanzata in questo articolo va nella direzione di una differenziazione funzionale delle forme di normatività e di performatività che legittimano e costruiscono un ordine nelle azioni e un significato nelle comunicazioni a seconda del tipo di domanda di giustizia che viene rivolta al sistema. In altri termini, il valore della giustizia non si misura né soltanto con la ratio costi benefici, né soltanto con la sola capacità di trasmettere il senso del sacro. Al contrario, sarà proprio nella capacità di compendiare le due dimensioni in un prisma di strumenti, strategie, organizzative e comunicative, capaci di dire e fare in modo chiaro e differenziato ciò che il cittadino chiede, che risiede la chiave di volta della conciliazione delle facce di un prisma di valori vitali, tutti, alla democrazia.

    [1] La letteratura sulle azioni intraprese nei sistemi giustizia per assicurare la funzionalità essenziale durante il periodo di emergenza pandemica è ad oggi ormai molto ricca. In una prospettiva comparata merita essere qui citato il lavoro a cura di Ewoud Hondius (Utrecht University), Marta Santos Silva (Maastricht University and KU Leuven), Andrea Nicolussi (University of Milan), Pablo Salvador Coderch (Pompeu Fabra), Christiane Wendehorst (University of Vienna), and Fryderyk Zoll (Jagiellonian University), uscito per Intersentia, nel 2021 ed in particolare l’ivi incluso contributo di G. Parodi, C. Locurto, R. Bardelle, sul caso italiano (disponibile on line open access https://www.intersentiaonline.com/bundle/coronavirus-and-the-law-in-europe); la Société de Législation Comparée ha analogamente avviato un percorso di raccolta dati e di riflessione con un volume previsto per il 2022 e una giornata di studi tenutasi a giugno 2021 (si veda https://www.legiscompare.fr/web/L-etat-de-droit-et-la-crise-sanitaire-17-juin-2021?lang=fr). Ancora, merita essere citata la Relazione presentata in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno giudiziario dal Dipartimento per l’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi (Relazione informativa sull’attività del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, gennaio 2021). Nel contesto del roundtable OCSE del 2020 sono state realizzate le attività di ricerca comparata sulle policy adottate dai governi dei paesi membri e associati in materia di riorganizzazione dei sistemi di giustizia a fronte della pandemia e di utilizzo delle tecnologie (programma disponibile on line Final_agenda_28 April_meeting.pdf (oecd.org).

     

    [2] Jacques HAMAIDE, La qualité de la justice: un double enjeu, article disponible sur le site internet du Conseil de l'Europe. Benoît FRYDMAN, L’évolution des critères et des modes de contrôle de la qualité des décisions de justice, in La qualité des décisions de justice, Actes du Colloque des 8-9 mars 2007 organisé par la Faculté de droit de Poitiers, disponible sur le site internet du Conseil de l'Europe, disponible sur le site internet du Conseil de l'Europe)

    [3] Durante il virtual roundtable dell’OCSE sul tema della giustizia e delle reazioni organizzative alla pandemia, ospitato dal governo canadese, sono emersi alcuni aspetti che sottolineano la convergenza delle strategie governative nella accelerazione della dematerializzazione e della despazializzazione delle funzioni che attengono al court management, al docket management e ai servizi di cancelleria e di segreteria in senso ampio. justice-roundtable-agenda-eng.pdf (oecd.org). Naturalmente, le legacy dei singoli paesi hanno fatto – come sempre ciò accade – la differenza agli effetti della efficacia delle strategie adottate se si intende misurarne l’efficacia in termini di conservazione di un livello minimo di funzionalità.

    [4] OECD Rapporto internazionale sulla digitalizzazione negli UUGG.pdf  

    [5] o World Justice Project and Pathfinders for Peaceful, Just and Inclusive Societies, Grasping the Justice Gap: Opportunities and Challenges for People-centred Justice Data (Center on International Cooperation, 2021).

    [6] Si tratta di una visione che è fortemente discussa nella letteratura internazionale, sia nella analisi della tecnologia come fenomeno socio-tecnologico, sia nella analisi del processo di innovazione come processo aperto – donde si evince la non sostenibilità della tesi della linearità causale.

    [7] La legittimità in output si misura sulla base della capacità di una istituzione di rispondere alle domande che le sono indirizzate. Essa non esaurisce la legittimità, poiché se così fosse dovremmo accettare l’idea secondo la quale una istituzione che non rispetta le garanzie costituzionali, ma risponde ad un bisogno di servizi è legittima e questo sarebbe inaccettabile in un sistema costituzionale e democratico. Tuttavia, senza delivering capacity, senza cioè capacità di veicolare beni e servizi verso la cittadinanza una istituzione finisce per perdere una parte del proprio quid di legittimità. La inefficienza della macchina pubblica rappresenta pertanto un elemento delegittimante.

    [8] Ancora, si dice, se tutti gli atti del giudice ordinario di ogni ordine e grado sono pubblici perché on line (si pensi ad esempio alle disposizioni di legge previste dalla loi sur la République au numérique) il cittadino potrà leggerli e quindi sottoporre l’agire della magistratura (ma anche della avvocatura) ad un controllo capillare. Restano profili di discussione tuttavia a questo proposito. Ad esempio, resta da discutere se l’esito di un rito processuale sia da considerarsi soltanto come un comportamento finale che scaturisce in una decisione o se siano importanti i percorsi fatti per raggiungere quel comportamento. Se la seconda ipotesi fosse vera allora ci dovremmo porre la domanda se effettivamente il cittadino dinnanzi ai documenti on line sarebbe in grado di individuare le criticità di comportamento dell’avvocato e del magistrato tenutisi – tali comportamenti – in itinere, prima che il contenzioso passi in giudicato.

    [9] Si noti che la riflessione sull’impatto della concomitante rivoluzione di carattere semantico e linguistico che è connessa con la dematerializzazione degli atti della PA e con la gestione per via telematica del documentale è stata fortemente influenzata da una visione incline ad osservare – e a privilegiare – gli aspetti a-culturali della tecnologia. Su questo punto, e con particolare riferimento alle istituzioni del diritto e della giustizia, si veda di Benoit Frydman Gouverner par les standards. De Hume au ranking, Bruxelles, Bruylant, 2014.

    [10] Si vedano le scansioni in “stagioni” delle trasformazioni tecnologiche in Justice Prédictive : la qualité de la justice en deux temps | IHEJ

    [11] Anche se esistono alcune voci che anticipano quanto poi divenuto centrale nel dibattito e nelle dinamiche di innovazione, come per esempio Pasquale Liccardo, in Claudio Castelli ed et. Giustizia, innovazione e territorio, Roma, Carocci, 2015.

    [12] In generale per l’Italia il peso assunto dalle sanzioni di Strasburgo in ragione della violazione dell’articolo 6 della CEDU ha giocato il ruolo di motore nel condurre al diffuso riconoscimento della priorità da assegnare al tema della efficienza e della tempestività nella gestione dei fascicoli, nella definizione dei procedimenti, nella esecuzione delle sentenze. Performance e efficienza come già si è detto non esauriscono di certo l’ampio ventaglio di dimensioni che compongono la “qualità” della giustizia, ma di certo hanno rappresentato il punto di ancoraggio del consenso istituzionale che progressivamente si è visto convergere sulla scelta della procedura telematica. Su questo Luca Verzelloni, Pratiche di sapere, Rubbettino, 2019.

    [13] Claudio Castelli e Daniela Piana, Giusto processo e intelligenza artificiale, Maggioli, 2019.

    [14] http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/ragione-tecnologica-e-processo_ovvero-delle-ere-del-processo-telematico_294.php

    [15] Daniela Piana, Legal Services and Digital Infrastructures, London, Routledge, 2021, capitolo 6, propone un modello partecipato e modulare.

    [16] https://www.franceculture.fr/conferences/revue-esprit/justice-digitale-faut-il-sinquieter

    [17] In effetti, il concetto di "parità di accesso alla giustizia" fonde due principi: uguaglianza di fronte alla legge e parità di opportunità. L'uguaglianza di fronte alla legge è il principio cardine dello Stato di diritto: le leggi hanno il loro primato sulla volontà degli uomini se tengono ciascuno uguale a qualsiasi altro possibile. Questo vale (e deve essere applicato) anche per quegli individui che sono governanti. La parità di opportunità indica un principio diverso e si riferisce invece alla possibilità per tutti di avere accesso allo stesso insieme di opportunità, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali, culturali e linguistiche in cui agisce. Se, da un lato, l'uguaglianza di fronte alla legge è un principio procedurale – che si riflette nella via in una serie di meccanismi istituzionali concepiti per garantire che gli individui siano uguali di fronte alla legge – dall'altro, l'uguaglianza di opportunità è un principio sostanziale – ossia un principio che fa riferimento a quale accesso sia di fatto disponibile ed effettivo per i cittadini.

    [18] Il concetto di spazialità è fortemente connotato in senso esperienziale e culturale. Mentre lo spazio è una nozione asettica, la spazialità è la nozione che denota il rapporto che intercorre fra il vissuto degli attori e il contesto fisico. Pertanto, è rispetto alla spazialità che si costruiscono le relazioni con gli altri attori e si costruiscono altresì i significati condivisi attraverso i simboli e i rituali. Si veda su questo Antoine Garapon La despazializzazione della giustizia, Mimesis, 2020.

    [19] Andrea Renda, Il processo civile telematico: prospettive e criticità, in Justice ER. Percorsi e strumenti per una giustizia digitale al servizio del cittadino, Fondazione CRUI e Regione Emilia Romagna, a cura di Daniela Piana, 2021. 

    [20] Si veda https://www.ca.firenze.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/All._15_PROTOCOLLO_Motivazione_sentenza_e_capi_imputazione.pdf

    [21] A. VAUCHEZ, « Les jauges du juge. La justice aux prises avec la construction de sa légitimité (Réflexions postOutreau) », in La qualité des décisions de justice, Etudes réunies par P. MBONGO, Colloque à Poitiers des 8 et 9 mars 2007, http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/quality/Poitiers2007final.pdf

    [22] J.-P. Jean, « La qualité de la justice face aux attentes du justiciable », in L’éthique des gens de justice, actes du colloque organisé à Limoges les 19 et 20 oct. 2000, PULIM 2000 ; B. François, « Les justiciables et la justice à travers les sondages d’opinion », in L. Cadiet et L. Richer (dir.), Réforme de la justice, réforme de l’Etat, PUF 2003, p 41

    [23] A. Garapon, “Genèse et corruption du rituel judiciaire », in Cahiers de médiologie, 1996, 1, pp 209-219 (corsivo nostro). La riflessione sul rituale giudiziario che sviluppa Garapon trova pieno sviluppo in Del giudicare. Saggio sul rito giudiziario, Milano, Cortina, 2007.

    [24] Paolo Benanti, Le macchine sapienti, Marietti, 2018.  


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