GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L’indipendenza del giudice dipendente del MEF, ossimoro di una riforma che gioca d’azzardo

    L’indipendenza del giudice dipendente del MEF, ossimoro di una riforma che gioca d’azzardo

    di Francesco Tundo*

    Sommario: 1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento. - 2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo. - 3. Il nuovo status del giudice tributario. - 3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia. - 4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione. - 4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest? - 5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini. - 5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie. - 6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.

    1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento.

    Il Disegno di Legge AS 2636, presentato in Senato dal Governo il 1° giugno 2022, è stato salutato dai primi commentatori con parole di grande apprezzamento e toni addirittura enfatici. Ad un esame più ponderato, tuttavia, ne sono emerse le criticità, opportunamente messe in luce dagli studiosi e dagli osservatori più attenti, così come nel corso delle audizioni informali del 28 giugno dinanzi alle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze.

    È indubbio che il dibattito intorno all’assetto della Giustizia Tributaria ha subito un’intensa accelerazione, anche per il fatto che la riforma rientra fra i traguardi individuati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Prima ancora del PNRR, tuttavia, nel corso di questa legislatura si è potuto assistere ad una formidabile osmosi culturale tra Accademia, operatori del settore e iniziative parlamentari. Tanto fermento riformista è stato accompagnato da un grande protagonismo del Parlamento, ove peraltro le numerose proposte di legge presentate nel corso della legislatura, sia alla Camera che al Senato, rivelano un inedito comune sentire circa gli elementi strutturali che dovrebbero caratterizzare la Giustizia Tributaria. Un protagonismo da salutare con grande favore. Perché segna una centralità del Parlamento nella materia tributaria che, auspicabilmente, dovrebbe ulteriormente consolidarsi. E anche perché le iniziative del Parlamento scaturiscono all’esito di un lungo ed articolato débat public che conferisce ad esse maggior valore.

    Anche il Governo ha dato riscontro alla necessità di un intervento. Dapprima, nel 2021, con l’istituzione di una Commissione presso i Ministeri della Giustizia e dell’Economia, la quale, come noto, non ha purtroppo prodotto una relazione unitaria. Poi con i lavori di una seconda Commissione (singolarmente definita “tecnica”, come se quella precedente avesse avuto una natura diversa), che hanno portato al Disegno di Legge qui in esame. È verosimile ritenere che l’insormontabile difficoltà di conciliare le posizioni delle due anime della Commissione precedente abbia contribuito all’esito non pienamente soddisfacente del Disegno di Legge governativo, per effetto della ricerca di una sintesi sostanzialmente impossibile.

    Il fatto è che, più che questioni di tecnica giuridica, delle quali dirò in appresso, siamo al cospetto di rilevanti scelte politiche, che non possono che aver luogo in Parlamento. In un Parlamento che ha ormai acquisito una piena consapevolezza delle determinazioni da assumere, essendo altresì all’esame delle medesime Commissioni molti dei disegni di legge di iniziativa parlamentare. Sono molto chiare le opzioni, le posizioni in campo, le opinioni degli studiosi, le istanze e le “pretese” delle parti interessate. Sono persino stati smascherati gli opportunismi di chi ha intravisto, nell’imminente riforma, inaspettate opportunità professionali e ha provato a piegare l’interesse collettivo a fini di vantaggio di una sola parte.

    È, insomma, il momento che gli addetti ai lavori, i tecnici, i portatori di interessi di categoria, gli “oscuri funzionari di gabinetto” dei quali così tanto diffidava Enrico Allorio[1], lascino il campo al dibattito parlamentare perché siamo innanzi ad un vero e proprio bivio nelle scelte attinenti al modello di tutela dei contribuenti dalle pretese del fisco e dunque, a pieno titolo, nell’ambito delle grandi valutazioni politiche.

    2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo.

    Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una graduale erosione dell’area delle tutele giurisdizionali, a tutto beneficio del rafforzamento delle prerogative delle Agenzie fiscali, che oggi vanno ben oltre la loro missione originaria e si ergono persino a giudici dei loro stessi atti. Ciò concorre a far sì che il numero delle liti davanti ai giudici sia in costante diminuzione. Ma c’è di più e non sempre i numeri spiegano tutto. Il fatto è che tra l’aumento delle liti potenziali concordate direttamente con gli stessi uffici e l’esorbitanza a vario titolo delle attribuzioni delle Agenzie, il contribuente è stato surrettiziamente indotto, nel tempo, ad una percezione, per così dire, strabica dei suoi diritti, convincendosi che il modo migliore per farli valere sia di rivolgersi al medesimo ente che lo sottopone ai controlli e che contesta il suo operato. Niente di più sbagliato.

    In uno Stato di diritto il cittadino deve, prima di tutto, poter contare su un giudice imparziale ed indipendente e ciò anche nella materia fiscale. Oggi, invece, corriamo il rischio che, con il pretesto del PNRR e dell’urgenza delle riforme da esso richieste, la tutela rispetto alle pretese del fisco venga definitivamente consegnata alla stessa amministrazione pubblica che spicca le contestazioni. Il progetto governativo, infatti, sembra l’ultimo miglio di un percorso che, come la macchina del tempo, ci riporta a sorpresa alla situazione del secolo scorso, quando le Commissioni Tributarie erano articolazioni interne alla stessa Amministrazione e i contribuenti non avevano alcun giudice al quale rivolgersi. E’ un prezzo troppo alto, che non ci possiamo permettere di pagare. Occorre dunque che il Parlamento ponga rimedio: è ancora possibile.

    3. Il nuovo status del giudice tributario.

    Il DDL 2636, più che costituire l’attesa riforma ordinamentale della Giustizia tributaria, si limita ad una revisione dello status dei giudici. Una misura indubbiamente di grande rilievo e a lungo attesa ma che attiene ad una sfera molto limitata delle possibili aree di intervento. Si tratta, insomma, di un  intervento più circoscritto rispetto alle prospettive offerte dalle iniziative parlamentari che invece delineano, tutte, ipotesi di riforma di ben più ampio respiro.

    Tengo a sottolineare che, a mio avviso, la Giustizia Tributaria ha dato buona prova: è noto che i giudizi, nella fase di merito davanti alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sono assai più rapidi rispetto a quelli innanzi alla Giustizia ordinaria. Non è, tuttavia, solo una questione di numeri, dato che anche la qualità delle sentenze tributarie di merito è apprezzabile e le Commissioni Tributarie si sono rese protagoniste dell’inaugurazione di filoni giurisprudenziali che talvolta sono culminati con mutamenti di indirizzo della Corte di cassazione.

    Tuttavia la complessità sempre crescente del diritto tributario impone ormai un impegno a tempo pieno e dunque l’introduzione del giudice assunto a tempo indeterminato mediante concorso è da accogliere con indubbio favore.

    3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia.

    Proprio sul concorso che dovrebbe portare all’assunzione dei nuovi Giudici tributari s’incentra, tuttavia, un primo, evidente, inciampo del progetto governativo.

    Il DDL 2636 reca una disciplina (eccessivamente) minuziosa per accedere ai ranghi dei futuri magistrati tributari e, in essa, stringenti requisiti per la partecipazione al concorso, che fanno unicamente riferimento alla laurea in giurisprudenza, così escludendo implicitamente altre competenze ed altri percorsi di studio e di laurea, e in particolare quelli in economia.

    Una siffatta preclusione non è coerente con la natura del diritto tributario, il quale richiede competenze necessariamente sincretiche: oggi non si può giudicare se non si conoscono il diritto tanto quanto i bilanci e i principi contabili, l’economia aziendale, la fiscalità internazionale e così via. A chi l’ha proposta, a chi l’ha scritta e a chi la difende, occorrerebbe dare da leggere i lavori della Costituente. Ezio Vanoni, che non faceva parte della sezione competente in materia di giustizia, chiese di prendervi parte per porre in luce le esigenze attinenti alla difesa dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che a suo avviso non erano adeguatamente tutelate. Sviluppando una serie di considerazioni ancora oggi straordinariamente attuali, concluse per l’opportunità di una giurisdizione tributaria che fosse idonea a contemperare l’esigenza di rapidità del giudizio con la competenza giuridica e le cognizioni tecniche richieste al Giudice in una materia così peculiare come il diritto tributario[2].

    Inoltre, ai propugnatori della conseguente iniziativa che, ostentando una certa sicumera, pretenderebbero l’esclusiva delle difese tecniche davanti alle Commissioni Tributarie, quasi spettassero loro per diritto divino, cercando di escludere i dottori commercialisti, gioverebbe leggere la costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima ha sempre sostenuto che il diritto di difesa garantito dall’art. 24, Cost. è diversamente modulabile dal legislatore, che può disciplinarne l’esercizio secondo valutazioni discrezionali, con il solo limite della non irrazionalità delle scelte[3].  

    Se l’esclusione dei laureati in economia è priva di senso, ciò vale a maggior ragione in un momento in cui i piani di studio delle Scuole di Economia offrono percorsi formativi che, in certi casi, possono essere addirittura più idonei di altri ad assicurare le conoscenze tecniche e a creare la forma mentis per l’esercizio della funzione giurisdizionale tributaria. Aprire la possibilità di partecipare al concorso a più classi di laurea avrebbe un effetto benefico sulla composizione dei futuri collegi, le cui competenze sarebbero altrettanto composite, così come le materie sulle quali essi dovranno pronunciarsi.

    S’impone dunque un intervento emendativo sul punto, accompagnato in parallelo da una revisione delle materie indicate quali oggetto del relativo concorso che, oltre a non essere pienamente condivisibili (si pensi alla singolare previsione del “diritto internazionale privato” o del diritto penale tout court!), sembrano delineate più per dare una giustificazione plausibile alla circoscrizione dell’accesso ai laureati in giurisprudenza che per prefigurare una competenza professionale idonea all’esercizio della funzione giurisdizionale in materia tributaria. 

    4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione.

    Se un indubbio passo in avanti del DDL 2636 è costituito dalla professionalizzazione del Giudice tributario, è sul terreno dell’indipendenza dei Giudici – che costituisce la più preziosa materia prima della giurisdizione – che la riforma risulta, purtroppo, molto deludente.

    Il cordone ombelicale col Ministero dell’Economia è unanimemente ritenuto inopportuno e da recidere. Non è un caso che proprio in questa direzione vadano tutti i progetti di legge parlamentari, che prevedono il passaggio della Giustizia Tributaria alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia. Non è un caso, soprattutto, che non vi sia alcun sostenitore dell’opportunità della permanenza organica nel MEF dei futuri magistrati tributari di ruolo che abbia avuto il coraggio di sostenere la sua posizione a viso aperto né, oggettivamente, alcuna plausibile ragione di siffatta appartenenza organica.

    I futuri magistrati, a differenza di quelli attuali, saranno selezionati con concorsi governati dal Ministero dell’Economia e, non si possono usare perifrasi, diventeranno addirittura dipendenti di quest’ultimo, il quale concorrerà persino al controllo ispettivo sulle modalità di esercizio della giurisdizione.

    Insomma, siamo dinanzi ad un’opzione che determina un impoverimento della caratura giurisdizionale degli organi preposti alla tutela e, al contempo, imprime una sterzata verso un assetto burocratico-amministrativo. Esattamente il contrario degli obiettivi dichiarati. Esattamente il contrario delle aspettative di tutti, dagli studiosi ai componenti del Parlamento che hanno avanzato proposte di legge tutte in direzione opposta, alle categorie professionali. Esattamente il contrario della soluzione più logica e più coerente con il percorso di revisione costituzionale che ha connotato le commissioni tributarie lungo tutta la storia repubblicana.

    Tale situazione è più gravemente compromessa nella misura in cui il DDL 2636 finisce per indebolire le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, negandogli quella funzione di di contrappeso all’ingerenza del potere politico caratteristica di tutti gli organi di autogoverno e, nel nostro caso, di argine alla pervasività del MEF.

    Si tenga ad esempio conto che – ferma restando l’attuale disciplina degli artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 545 del 1992 – il DDL istituisce un “Ufficio ispettivo” presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, volto secondo la Relazione illustrativa a “garantire una vigilanza efficace sull’attività giurisdizionale svolta presso le Commissioni tributarie, disponendo ispezioni nei confronti del personale giudicante”. Tuttavia, all’istituzione di tale Ufficio non si accompagna una riserva a esso in via esclusiva delle attribuzioni in materia, e anzi la Relazione precisa che “[d]etto Ufficio può svolgere attività congiunte con il competente Ufficio Audit della Direzione della Giustizia Tributaria del Dipartimento delle Finanze, al fine di effettuare i controlli di rispettiva competenza”.

    Non si vede perché istituire presso il Consiglio di Presidenza un apposito Ufficio Ispettivo senza trasferire allo stesso attribuzioni oggi di competenza del MEF, ciò che avrebbe avuto un significativo effetto di miglioramento dell’indipendenza dei giudici tributari.

    Del resto, non è un lapsus calami che nel DDL governativo rimanga anche la secolare denominazione di “commissioni tributarie”, a differenza di tutte le proposte parlamentari, che optano per “tribunali” e “corti d’appello”. Queste ultime sono denominazioni più coerenti con la natura di giudici veri e propri, più volte confermata dalla Corte costituzionale, ma che oggi rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Non è una questione puramente formale, quella della denominazione, perché concorre alla “retrocessione” alla natura amministrativa degli organi giudicanti, quando invece avrebbe dovuto confortarne la definitiva consacrazione giurisdizionale.

    Il problema è che tutto ciò non è il frutto della volontà parlamentare e dunque di quella “popolare”, che, infatti, propugnano una soluzione diametralmente opposta.

    La ragione è nota a tutti: è il Ministero dell’Economia che non intende rinunciare al rapporto organico con chi decide le cause che riguardano le sue Agenzie fiscali. L’interesse alla tutela delle entrate pubbliche, tuttavia, non può fare premio su tutto, non può pretermettere le regole dello Stato di diritto. C’è di più: è assai evidente come su questo specifico tema vi sia un preoccupante dualismo tra Parlamento e Ministero, che merita di essere risolto al più presto.

    Intendo essere molto chiaro: l’appartenenza organica della giurisdizione tributaria al Ministero dell’Economia e delle finanze, che è la controparte sostanziale dei contribuenti, per mezzo delle sue Agenzie, è inconciliabile con i requisiti di indipendenza, terzietà, imparzialità del Giudice ed è incompatibile con la Costituzione.

    La  pervicacia nel perseguire la soggezione dei Giudici al MEF mette in gioco l’incolumità di tutto l’impianto. Dirò di più: la mia sensazione è che con questa scelta si compia un vero e proprio azzardo, essendo facile prefigurare numerose questioni di legittimità costituzionale che nei prossimi anni determineranno una vasta incertezza, una vera e propria ipoteca sul futuro dei giudici tributari, che potrà minare la credibilità della giurisdizione e renderla instabile.

    4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest?

    Non è un caso, insomma, che le opinioni prevalenti degli studiosi, degli operatori e tutti i progetti di legge parlamentari, vadano in direzione opposta al DDL governativo e prevedano il passaggio dei futuri giudici di ruolo alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia.

    In breve, il  DDL 2636 prende le distanze da quel progressivo percorso di giurisdizionalizzazione della Giustizia tributaria che costituisce la cifra distintiva della sua storia, ossia quel percorso che parte da lontano e che con passaggi incrementali – in una graduale e virtuosa azione congiunta del legislatore e della Corte costituzionale – ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale e la conformità a Costituzione. Siamo a ottant’anni esatti dalla pubblicazione del “Diritto processuale tributario” di Allorio, che guardava a un primo sistema processuale che già nel 1942 si era allontanato dal contenzioso amministrativo. Da allora in avanti, e soprattutto dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, abbiamo assistito a quella che potremmo definire una “revisione progressiva”, che ha via via superato il vaglio della Corte Costituzionale e ha contemperato i limiti dell’art. 102, Cost.

    Una revisione progressiva che non in pochi mesi, ma in alcune decine di anni, ha portato alla situazione attuale, con graduali interventi su un sistema che non è immodificabile purché ciò avvenga ad opera del Parlamento (cfr. Corte cost. 41/1957) e, aggiungerei, “non forzando la mano” al Parlamento.

    La professionalizzazione del Giudice, insomma, è l’ultimo passo di un cammino che parte da lontano e che con un’azione congiunta, meglio, “combinata” del legislatore e della Corte costituzionale, ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale.

    Ma nel momento in cui è conclamata la natura giurisdizionale delle Commissioni, e – soprattutto -  i giudici sono assunti a tempo indeterminato, allora il tema dell’indipendenza del Giudice – in tutte le sue sfaccettature – diviene decisivo. Ed è proprio su questo che il DDL non raccoglie la sfida, anzi incrementa la sfera d’influenza del MEF sulla Giustizia Tributaria.

    Calamandrei sosteneva che il giudice diventa strumentum regni nei regimi totalitari[4]. Non è il nostro caso, certo, ma rimane il fatto che il progetto governativo delinea un giudice sottoposto alla tutela di chi, per missione istituzionale, ha più dimestichezza con le entrate pubbliche che con i delicati equilibri tra i poteri dello Stato e tra questi e i cittadini.

    Attenzione, peraltro, a dare credito alle strumentali accuse di disfattismo rivolte a chi insiste per il distacco dal MEF della giustizia tributaria: la riforma non sarebbe affatto impedita da questa misura, tutt’altro. Per passare ad un altro Ministero e rendere la riforma conforme a Costituzione è sufficiente un emendamento “prelevato” da uno qualsiasi dei molti progetti di legge che pendono in Parlamento.

    5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini.

    Occorre rammentare che l’obiettivo perseguito dal DDL e fissato, prima ancora, dal PNRR, è quello di alleggerire l’imponente carico di lavoro della Sezione tributaria della Corte di cassazione e il conseguente efficientamento delle tempistiche della Giustizia Tributaria

    Senonché, è proprio la più efficace misura per raggiungere tale obiettivo – ossia l’istituzione per legge di una Sezione tributaria della Corte, composta anche dai nuovi Giudici tributari – a mancare nel DDL 2636. Se fosse adottata, si potrebbe consentire, tra l’altro, di diventare giudici della Cassazione (tributaria) anche ai futuri magistrati tributari di ruolo. Questo garantirebbe loro un lungo periodo di studio e preparazione sul campo prima di approdare alla Suprema Corte e sarebbe il modo migliore per assicurare un più efficace esercizio della funzione nomofilattica.

    Con il DDL invece sono purtroppo destinati a diventare giudici della Sezione Tributaria della Cassazione, come accade già ora, solo magistrati che nel corso della loro lunga e qualificante esperienza non hanno mai praticato, nemmeno per un giorno, il diritto tributario, che invece richiede anni di studio e di dedizione professionale.

    Se le cose rimarranno così come sono, poi, c’è anche da interrogarsi sulle conseguenze di un soffitto di cristallo così rilevante alla carriera dei futuri magistrati tributari: che tipo di appeal potrà esercitare questa professione per i più meritevoli e capaci di essi? Verosimilmente scarso, costituendo semmai una sorta di “parcheggio professionale” in attesa di un approdo presso un’altra, più gratificante, magistratura e dunque un continuo turn over, che significa un livello di qualificazione al di sotto degli standard necessari.

    5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie.

    Il DDL 2636 costituisce un curioso caso nel quale uno strumento processuale – mi riferisco al rinvio pregiudiziale di cui all’art. 2, comma 2, lett. g), del DDL, che inserirebbe un nuovo art. 62-bis all’interno del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – determina ripercussioni ordinamentali.

    A norma dell’art. 62-bis, cit., al ricorrere di particolari condizioni, le Commissioni Tributarie di primo o secondo grado potranno, d’ufficio, investire direttamente la Corte di cassazione della “risoluzione di una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia”.

    Ritengo che l’istituto, per come è stato configurato, sia meritevole di miglioramento.

    Esso non richiede in alcun modo un impulso di parte, e questo potrebbe comportare una violazione dell’art. 25, Cost., nella misura in cui priva le parti del proprio Giudice naturale. Ciò, in particolare, una volta che si raffronta tale istituto con quello pensato dal legislatore processualcivilistico e inserito fra i criteri direttivi della legge delega n. 206 del 26 novembre 2021. I due strumenti risultano, sulla carta, speculari fra loro: simile è il meccanismo di funzionamento, così come le ragioni che ne giustificherebbero l’introduzione nei rispettivi sistemi processuali. Tuttavia, se si raffrontano le due disposizioni, emerge una differenza strutturale assai significativa, che rischia di compromettere l’istituto processuale tributario.

    La differenza sta in ciò, che se i requisiti previsti per il rinvio pregiudiziale tributario risultano fra loro alternativi – come si evince dal fatto che il comma 1 dispone che il rinvio è esperibile se “ricorre almeno una delle seguenti condizioni” – quello previsto dalla legge delega è subordinato al ricorrere di tutte le condizioni ivi previste congiuntamente.

    Che nell’ambito processualcivilistico i requisiti debbano sussistere congiuntamente si evince oltre che dal dato letterale della norma anche dalla Relazione finale della Commissione Luiso – la quale aveva appunto proposto l’introduzione del rinvio pregiudiziale – ove si legge che il rinvio opererebbe “in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto”.

    Una siffatta differenza, oltre a dilatare oltremisura l’ambito di applicazione del rinvio in ambito tributario, ne tradirebbe anche la ratio.

    È infatti evidente che nell’ambito processualcivilistico l’intervento della Corte di cassazione si porrà alla stregua di una extrema ratio, con riguardo a ipotesi nelle quali – data la necessaria sussistenza di tutti i requisiti richiesti dalla norma – una pronuncia di legittimità risolverebbe una questione di diritto nuova, di seria difficoltà interpretativa, nonché dal carattere “seriale”. In altri termini, il “ribaltamento” dell’ordine processuale si giustificherebbe vista l’eccezionalità e particolarità della questione sottoposta alla Suprema Corte e alle sue vaste ripercussioni per una platea assai ampia di interessati.

    Viceversa, in ambito tributario, lo scollamento fra i vari requisiti priva l’istituto della sua identità originaria e finisce per tradirne la natura atteso che, più che riguardare fattispecie eccezionali, esso potrebbe trovare sempre applicazione.

    Lo iato strutturale fra i due istituti è ulteriormente dilatato dal fatto che – oltre che disgiungere i requisiti previsti per esperire il rinvio – il DDL scinde il requisito previsto in maniera unitaria dalla legge n. 206 del 2021, di cui al punto 1.1. della lett. g) – secondo il quale la questione dev’essere “esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza” – in due differenti requisiti, fra loro distinti, di cui alle lett. a) e b) dell’art. 62-bis.

    Dunque, anche tale scissione, se valutata unitamente al carattere alternativo dei requisiti previsti per l’esperibilità del rinvio pregiudiziale tributario, finisce per dilatarne ulteriormente l’ambito di applicabilità, atteso che basterebbe a tal fine una questione la presenza di una questione “nuova” – lett. a) – oppure esclusivamente di diritto nonché di particolare importanza “per l’oggetto o per la materia” – lett. b).

    Lo spettro della disposizione è talmente ampio da poter riguardare, virtualmente, qualsivoglia controversia fiscale: pertanto, un siffatto strumento processuale potrebbe semmai portare all’ulteriore ingolfamento della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, anziché giovare alla celerità del processo – e ciò impatterebbe, a cascata, anche sul rispetto del canone della ragionevole durata del processo, essendo facile ipotizzare una ricaduta negativa sulle tempistiche per l’ottenimento della pronuncia di merito.

    A ciò si aggiunga che alla pervasività delle ipotesi di rinvio si accompagna un rilevante effetto ordinamentale, costituito da una vera e propria mozione di sfiducia (preventiva) verso il nascente magistrato tributario, che peraltro porta a intravedere anche una possibile menomazione dell’autonomia del Giudice (qui inteso sia come ordine sia come Giudice individualmente considerato), che invece dovrebbe essere soggetto solo alla legge (art. 117 Cost.).

    Insomma: un caso classico di eterogenesi dei fini, al quale però appare possibile porre rimedio, quantomeno “allineando” esattamente la struttura e i presupposti del rinvio pregiudiziale tributario a quello processualcivilistico.

    6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.

    Da ultimo, mi preme soffermarmi brevemente sull’assenza, nel DDL 2636, di disposizioni transitorie che consentano di traghettare adeguatamente l’attuale assetto della Giustizia tributaria, senza gli effetti traumatici derivanti da difetti di coordinamento, nella graduale successione fra gli attuali giudici tributari e quelli che saranno assunti tramite i futuri concorsi.

    È evidente che il numero dei magistrati da assumere tramite concorso non sarà sufficiente a coprire le vacanze degli attuali giudici tributari, e a ciò si aggiunga che i vertici delle Commissioni Tributarie sarebbero decapitati ipso iure a causa del limite a settant’anni fissato dal DDL per l’uscita dal servizio, determinando un grave nocumento all’ordinato svolgimento delle attività di Giustizia nel periodo transitorio. Occorre dunque apportare una certa gradualità nella fissazione dei limiti di cessazione del servizio  

    Ritengo inoltre che sarebbe opportuno prevedere – oltre alla riserva di posti del 15% nei primi tre bandi di concorso già dedicata dal DDL agli attuali Giudici Tributari non togati, che mi pare una misura francamente irrisoria – una procedura di interpello analoga a quella già contemplata dal DDL con riferimento ai magistrati togati, per permettere l’assorbimento nei nuovi ruoli anche dei magistrati tributari (oggi) non togati con più esperienza e più competenze.

     

    *Ordinario di diritto tributario – Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.

    [1]  E. Allorio, La scienza, la pratica, il buonsenso e il processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1946, I, 182 ss.

    [2] V. Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di mercoledì 18 dicembre 1946, 51.

    [3] Per tutte: Corte cost., ord. 20 maggio 1998, n. 210 (pres. Granata, red. Marini).

    [4] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, 70.

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