GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Note sul diritto al silenzio in diritto tributario

    Note sul diritto al silenzio in diritto tributario[1]

    di Alessandro Giovannini* 

    Il diritto al silenzio è senz’altro compatibile con i princìpi propri al diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[2], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che l’amministrazione potrebbe esercitare autonomamente. 

    Sommario: 1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa - 2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali - 3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche - 4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo - 5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato - 6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi - 7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali.

    1. Introduzione. Il diritto al silenzio come diritto soggettivo di difesa

    Per i principi costituzionali nazionali e sovranazionali, il diritto al silenzio costituisce articolazione del diritto soggettivo di difesa proprio di chi è chiamato dall’autorità a dare notizie o narrare accadimenti a sé sfavorevoli[3]. Il silenzio esercitato in ragione della difesa, perciò, consente di attribuire un valore giuridico positivo ad un comportamento omissivo altrimenti macchiato da antigiuridicità.

    È un diritto, quello al silenzio, dalle radici antiche, nato in seno al diritto penale e al diritto processuale penale, ma tornato d’attualità dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale italiana lo hanno ritenuto estensibile al diritto sanzionatorio amministrativo e al procedimento amministrativo[4].

    In ambito tributario si sta discutendo, perciò, se un diritto siffatto sia compatibile con i princìpi costituzionali sul concorso impositivo alle pubbliche spese e se, in concreto, siano individuabili ipotesi normative nelle quali possa trovare applicazione[5].

    2. Conclusioni (anticipate) sull’applicazione del diritto al silenzio in ambito tributario e sui suoi limiti generali

    Rovesciando il tradizionale ordine illustrativo, espongo subito le mie conclusioni, consegnando ad esse l'attacco tetico.

    Lo ius tacendi è senz’altro compatibile con i princìpi di diritto tributario. La sua applicazione però intanto è predicabile in quanto il “silenzio” risponda ad un comportamento difensivo all’interno di un procedimento d’accertamento o controllo della capacità contributiva del soggetto passivo in esito al quale sia prevista l’irrogazione di una sanzione amministrativa - propria o impropria - avente i caratteri sostanziali dell’afflizione[6], purché il di lui comportamento non integri la violazione di un obbligo collaborativo che affianca, e nel suo esercizio sostituisce, il potere acquisitivo che la pubblica autorità potrebbe esercitare autonomamente.

    3. La compatibilità costituzionale del diritto al silenzio con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche 

    Il ragionamento che intendo svolgere a spiegazione della conclusione sinteticamente esposta muove da un doppio presupposto. Il diritto tributario, anzitutto, è un diritto come tutti gli altri e dunque metodo e criteri d’interpretazione non divergono da quelli propri di altri settori dell’ordinamento[7].

    Il secondo presupposto è questo: l’obbligo contributivo previsto dall’art. 53 Cost., conseguente al vincolo solidaristico scolpito nell’art. 2, non ha per se stesso privilegio nella scala dei valori costituzionali[8]. E infatti, come non si può accettare l’esistenza di “diritti tiranni”[9], così non sono concepibili “obblighi tiranni”, in grado cioè di contrapporsi, per “azzerarli”, a diritti soggettivi fondamentali[10].

    Anche l’obbligo contributivo, perciò, soggiace alle regole generali di contemperamento proprie a qualsiasi altra posizione giuridica costituzionalmente rilevante.

    Questa precisazione è tanto utile quanto più s’intenda arrivare subito al nocciolo della questione.

    Se il silenzio, come ho detto, traduce un comportamento espressivo del diritto alla difesa, ovvero e in altre parole, se il silenzio come difesa consente di valutare positivamente un comportamento omissivo altrimenti qualificabile come antigiuridico, in linea di principio nessuna preclusione può essere opposta al suo esercizio nel procedimento impositivo.

    L’obbligo contributivo e la capacità contributiva che fonda quell’obbligo, non sono autocostitutivi di posizioni di supremazia dell’amministrazione finanziaria, né è conforme o sarebbe conforme al diritto costituzionale moderno una “giurisprudenza degli interessi” che tendesse ad assegnare all’interesse fiscale ruolo assorbente e privilegiato nella dinamica del procedimento impositivo. E neppure si può ritenere che l’interesse collettivo o gli interessi collegati alla ipostatizzata figura statale prevalgano sempre ed in ogni caso, perché superiori ontologicamente, sui diritti degli individui, specialmente quando questi presidiano la loro dignità[11].

    Questo non significa negare agli art. 2 e 53 Cost. forza immediatamente vincolante e men che meno significa negare loro funzione costitutiva dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche.

    Vuol dire, piuttosto, assegnare a queste norme le funzioni loro proprie, ossia quelle di criterio di riparto dei carichi pubblici e di cerniera fra solidarietà, uguaglianza e diritti proprietari, da un lato, ed interesse generale alla contribuzione, dall’altro. E vuol dire, in seno all’interpretazione, tornare ad invocarle conformemente alle loro funzioni, riservando ad esse la corretta collocazione.

    4. Il diritto al silenzio nella tensione tra posizioni giuridiche delle parti del procedimento d’accertamento o controllo

    Segnati i confini della trama costituzionale, il silenzio deve essere studiato nella sua effettiva qualificazione: come alter ego del diritto di difesa, il suo “altro da sé”, ma pur sempre “sé”.

    Muovendo da questa considerazione, il ragionamento si semplifica e il suo nocciolo diventa questo: solo quando l’esercizio del nemo tenetur se detegere è causato dal precedente o concomitante esercizio del potere d’indagine di un organo dello Stato, il silenzio stesso diventa difesa[12]. In ogni altro caso, il silenzio deve essere qualificato per quello che è: omissione o inadempimento di un obbligo.

    Seppure in un contesto di tensione tra posizioni giuridiche delle parti, come questo, il silenzio non può tuttavia essere invocato se cade su elementi che l’amministrazione potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di accesso, ispezione e sequestro.

    E infatti, se le richieste della pubblica autorità cadono su documenti o atti prodromici e strumentali alla dichiarazione[13] o anche solo strumentali al controllo della sua veridicità e completezza[14], il silenzio si formerebbe su elementi che l’amministrazione potrebbe senz’altro apprendere in autonomia. E che solo per ragioni di efficienza ed efficacia dell’azione il legislatore ha reputato conveniente farli trasmettere o consegnare direttamente dal contribuente, com’è chiaramente desumibile dall’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972[15]           

    5. La radice del dovere di collaborazione tra vincolo solidaristico e poteri derivati riferiti al privato

    Le osservazioni da ultimo svolte esigono un chiarimento ulteriore. Per individuare la radice degli obblighi strumentali di esibizione e consegna ai quali or ora si è fatto riferimento e per cogliere il motivo per il quale il silenzio in tali circostanze non può trovare giustificazione, si possono seguire strade diverse.

    Si può muovere da una lettura estensiva dell’art. 2 della Costituzione. Si può sostenere che, come l’obbligo di dichiarazione assolve un dovere strumentale alla realizzazione del valore solidaristico di concorrere alla spese pubbliche, così gli obblighi secondari concorrono alla realizzazione dello stesso vincolo, compresi quelli il cui adempimento è collegato ad una richiesta dell’amministrazione[16].

    Oppure, nella ricerca di quella radice, si può scegliere di abbandonare il riferimento diretto ai valori costituzionali. È la strada che a me sembra preferibile, poiché richiamarsi ad essi fa correre il rischio, da un lato, di applicarli impropriamente, ossia di utilizzarli oltre le loro reali funzioni e i loro “naturali” confini come fossero passe-partout buoni ad ogni uso; dall’altro, di scivolare nuovamente nell’equivoco concettuale della loro supremazia su concorrenti valori posti a presidio del singolo[17].

    Il motivo più convincente, però, per me è un altro. Utilizzare l’art. 2 Cost. per giustificare i doveri di collaborazione endoprocedimentali rischia di sfociare in argomentazioni che, alla prova dei fatti e per coerenza logica ancor prima che sistematica, potrebbero non lasciare margini residuali di applicazione al diritto di tacere. In parole semplicissime, di sfociare in argomentazioni che alla fine “provano troppo”[18].

    Infatti, se la radice del dovere di collaborazione sta nell’art. 2, tutte le richieste della pubblica amministrazione potrebbero essere intese come funzionali o strumentali alla realizzazione del vincolo solidaristico del concorso alle pubbliche spese. E ciò anche quando, invece, seguendo un’impostazione alternativa e anelastica, il silenzio potrebbe essere applicato conformemente alla sua ratio.

    Credo che l’alternativa si possa costruire collegando il dovere di collaborazione al potere amministrativo di acquisizione diretta degli elementi istruttori e dunque qualificando il dovere collaborativo stesso come potere derivato.

    Mi spiego meglio. Nel procedimento di ricerca della capacità contributiva del singolo si possono isolare coppie diverse di situazioni giuridiche, alcune soltanto riguardanti il rapporto tra potere d’accertamento e obbligo collaborativo del contribuente sottoposto ad indagine. Nella strutturazione moderna di queste coppie e del loro contenuto, è frequente che la legge addossi a quest’ultimo obblighi che, se adempiuti, realizzano in via sostitutiva l’esercizio dei poteri pubblici, dei quali, tuttavia, l’amministrazione rimane titolare in ragione della sua posizione autoritaria “originaria”[19].

    Non mi riferisco, certo, all’obbligo di dichiarazione gravante sul soggetto passivo, che come detto trova autonomo fondamento. Mi riferisco, invece e proprio, agli obblighi posti a suo carico in funzione dell’esercizio dei poteri di controllo nella fase successiva alla presentazione (o mancata presentazione) della dichiarazione medesima.

    Nell’intervallo tra la sua presentazione (o sua omessa presentazione) e il provvedimento d’accertamento, è il potere autoritativo di controllo per come regolato dalla legge ad ordinare e scandire anche la condotta del contribuente[20]. Però, com’ho appena osservato, nelle moderne dinamiche procedimentali l’esercizio di profili strumentali a quel potere è talvolta rimesso al privato. Con un azzardo intellettuale, allora, si può forse dire che, se questi viola il dovere di collaborazione, è come se omettesse l’esercizio di un potere strumentale derivato.

    Ecco perché il diritto al silenzio non può essere invocato a giustificazione dell’omessa collaborazione nei casi in cui la legge autorizza la pubblica amministrazione a richiedere l’esibizione o la consegna della contabilità, di database, documenti bancari, contratti o altri atti che la stessa potrebbe acquisire direttamente con l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e sequestro[21].

    In queste circostanze l’omissione è nient’altro che violazione di obblighi in sé rilevanti, ed è per questo che il silenzio, qui, non può calzare il cappello del diritto di difesa, non si può ammantare, cioè, della dignità giuridica dell’esercizio di un diritto, rimanendo piuttosto macchiato del disvalore omissivo. 

    6. Lo spazio applicativo dello ius tacendi

    Quale, allora, lo spazio applicativo del diritto al silenzio? Mi pare di poter dire che il suo esercizio si possa considerare legittimo nelle ipotesi in cui la legge consente all’amministrazione di invitare il contribuente a comparire di persona per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento[22]. Ed anche nelle ipotesi in cui è legittimata a procedere per il medesimo scopo in forma scritta[23].

    Lo stesso si deve dire, ritengo, per l’invito a rendere notizie durante accessi ed ispezioni. Un conto, infatti, è se l’agente in quei frangenti intima di consegnare un documento o uno scritto che lo stesso agente potrebbe acquisire con l’esercizio diretto dei poteri di controllo[24], altro è se la domanda si appunta su notizie od elementi dei quali non potrebbe avere altrimenti riscontro, giacché acquisibili solo con l’”interrogatorio” del contribuente, tramite, in buona sostanza, una sua “confessione”.

    Il nemo tenetur se detegere è nato, proprio, per casi simili: proteggere l’inquisito che, sottoposto ad interrogatorio, si sarebbe potuto trovare costretto, anche solo moralmente, a rendere edotta l’autorità su questioni a sé sfavorevoli che la stessa non avrebbe potuto conoscere o delle quali non avrebbe potuto formarsi un convincimento compiuto, almeno nell’immediatezza, se non attraverso l’interrogatorio o la confessione indotta.

    Il diritto a non concorrere alla propria incolpazione, stringi stringi, sta proprio e tutto qui. E sono proprio queste le circostanze che rendono il diritto di tacere “l’altro da sé” del diritto di difesa.

    7. Sanzioni proprie, improprie e possibili equivoci concettuali

    Le cose fin qui dette consentono di esaminare un ultimo profilo conseguente all’esercizio del diritto di tacere: quello sanzionatorio.

    Iniziamo col ricordare che le sanzioni amministrative si possono distinguere in proprie ed improprie[25]. Cosa siano le une e le altre è aspetto ormai noto e sul quale, qui, reputo non essenziale soffermarmi.

    La riflessione, invece, deve cadere su aspetti specifici che si legano a questa distinzione.

    Muoviamo dalle sanzioni proprie. In seno ad esse occorre separare quelle composte in funzione della violazione dell’obbligo di parlare dalle sanzioni collegate a fattispecie evasive del tributo che possono o potrebbero essere sorrette dalla narrazione del contribuente a sé sfavorevole.

    La illegittimità delle prime si può predicare quando rivolte a punire un comportamento che in realtà si conforma allo ius tacendi[26]. È il caso nel quale la sanzione rappresenta anche solo una minaccia al comportamento omissivo del contribuente sottoposto ad accertamento.

    Il vizio di previsioni simili è tanto più grave in quanto legato a fil doppio, ancor prima che all’art. 24 Cost., all’art. 3, sotto il profilo della irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte legislative. Vizio che potrebbe perfino connotarsi come “uso distorto della discrezionalità” a tal punto elevato da “raggiungere una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa”[27].

    Più complesso è il discorso sulle seconde. Le sanzioni collegate all’accertamento del credito o del maggior credito erariale vengono giocoforza in considerazione come conseguenza dell’accertamento stesso. È perfino banale rilevarlo. Ma questa constatazione torna utile per chiarire che nella logica sistematica del diritto al silenzio esse possono bensì rilevare, ma soltanto come elementi comparativi del suo corretto esercizio.

    È esattamente la riproduzione di quel che accade in ambito penale: come in questo le pene si pongono a fronte della conoscenza di fatti di reato e dunque sono esse stesse, anche se solo previste, l’effetto indesiderato e perciò combattuto dall’indagato con l’arma difensiva del silenzio, così avviene in tributario. Infatti, le notizie sfavorevoli al contribuente narrate nel corso di un “interrogatorio” sono fatti dai quali scaturisce, sì la determinazione dell’imposta o della maggiore imposta, ma anche l’applicazione delle sanzioni amministrative (o anche penali).

    In queste circostanze, dunque, tanto in diritto penale, quanto in diritto tributario, la sanzione non è un posterius all’esercizio del silenzio, come si deve dire per quelle previste a petto dell’omessa collaborazione, ma viene in considerazione come “antecedente morale” che legittima il privato a non concorrere alla propria incolpazione e ad esercitare la facoltà di tacere.

    Ipotesi ulteriori, ma non diverse nella struttura, sono quelle relative alle sanzioni improprie. Qui, però, occorre sforzarsi di non mischiare la tipologia della sanzione, propria o impropria che sia, con i fatti determinanti l’uso del silenzio.

    La qualificazione della condotta omissiva alla stregua di violazione ovvero di esercizio del diritto di difesa, non dipende dal fatto che l’amministrazione sia legittimata a ricorrere ad un tipo di sanzione piuttosto che ad un’altra. Dipende dalla fattispecie che determina l’uso del silenzio.

    Se il silenzio è esercitato legittimamente e dunque è davvero tale per il diritto, il tipo di sanzione anche solo astrattamente applicabile è irrilevante: che sia propria o impropria poco importa. Sono le circostanze di fatto sulle quali si radica il silenzio che ancora una volta vengono in considerazione, non altro[28]. Purché, ça va sans dire, la conseguenza legata al silenzio sia realmente qualificabile come sanzione, sebbene impropria, secondo i canoni ormai consolidati dell’afflittività[29].        

    Le conclusioni l’ho già esposte in testa. A chiusura, dunque, ad esse rinvio.

      

    *Professore ordinario di diritto tributario presso l’Università di Siena.

    [1] Il lavoro riprende il saggio dal titolo I princìpi del diritto al silenzio in corso di pubblicazione sulla Rivista trimestrale di diritto tributario.

    [2] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.

    [3] Questo aspetto è ampiamente studiato e non più discusso. Si ritenga sufficiente il rinvio a Corte cost., 10 maggio 2019, n. 117, e per la dottrina a L. Paladin, Autoincriminazioni e diritto di difesa, in Giur. cost., 1965, 312; V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel diritto penale italiano, Milano, Giuffrè, 1972, 5 ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2003, 253; P. Moscarini, Silenzio dell’imputato (diritto al), in Enc. Dir., Annali, III, Milano, Giuffrè, 2010, 1079 ss.; G. Stanzione, Autoincriminazione e diritto al silenzio, Padova, Cedam, 2017.

    [4] Mi riferisco a Corte Giust., 2 febbraio 2021, C-481/19, D.B. contro Consob, e a Corte Cost., 13 aprile 2021, n. 84. Non mi soffermo ad analizzare minuziosamente queste pronunce, né ripercorro la vicenda che ne sta alla base, ritenendole ormai note. Su di esse, in questa rivista, v. A. Sciacca, Nemo tenetur se detegere: potenzialità espansive della recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale sul sistema tributario, 2021;  M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob, 2021; B. Nascimbene, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni, 2021; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione: dal giusto processo al giusto procedimento?, in Riv. trim. dir. trib., 2021.

    [5] Cfr. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio del contribuente, in Studi in memoria di Francesco Tesauro, Torino, Utet, 2022, e prima, dello stesso A., Diritto al silenzio del contribuente nell’infedele dichiarazione TARSU,  (nota a Cass., sez. trib., 11 febbraio 2005, n. 2823), in Corriere Tributario, 2005, pp. 1839 ss.; Id, Il giusto procedimento” tributario. Principi e discipline. Cedam, Padova, 2012, 31 ss.; S.F. Cociani, Sul diritto del contribuente al silenzio, cit.

    [6] Si può dare per presupposta la conoscenza del carattere punitivo della sanzione tributaria pecuniaria nella logica e nella struttura del d.lgs. n. 472 del 1997 e dei decreti collegati n. 471 e n. 473, cosi come del diritto unionale e internazionale. Cfr., F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1367 ss.

    [7] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, Milano, Giuffrè, 2014, passim. Sull’interpretazione, in termini ampi, cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, Cedam, 2003.

    [8] Mi sembra che su questo aspetto la dottrina ormai converga unanimemente. Fra i molti, cfr. F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, ETS, 2012; Batistoni Ferrara, Capacità contributiva, in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, Giuffrè, 1999;  F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, ETS, 2007; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Padova, Cedam, 1996, e, se si vuole, per ulteriori riferimenti bibliografici, A. Giovannini, Capacità contributiva, in Treccani, 2013.

    [9] È la nota e assai efficace espressione utilizzata dalla Corte costituzionale in alcuni suoi arresti. V. Corte Cost., sent. n. 85/2013, per la quale: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Tesi riaffermata dalla stessa Corte in successive pronunce, fra le quali sent. n. 5/2018.

    [10] E che il diritto al silenzio si colleghi, proprio, alla dignità dell’individuo è chiaramente detto dalla Corte costituzionale nella già richiamata sent. Cfr. In dottrina, P. Piantavigna, Il diritto del contribuente a non collaborare all’attività accertativa, in Riv. dir. fin e sc. fin., 2013, II, 73 ss.; Id., Osservazioni sul procedimento tributario dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2007, I, 44 ss.; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione europea, Milano, Giuffrè, 2010, 333 ss.

    [11] Non mi sfugge, certo, che questo modo di ragionare contrasta con il pensiero e l’opera di una parte consistente della giurisprudenza. Tuttavia, una timida apertura, seppure in un contesto non schiettamente tributario, si è avuta con Corte costituzionale 11 ottobre 2012, n. 223, in Giur. it., 2013, 2471. Ha detto la Corte che l’eccezionalità della situazione economica, se “è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti altrettanto eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui i cittadini necessitano ... è compito dello stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali e i diritti dei singoli, i quali, princìpi, non sono certo indifferenti alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non possono consentire deroghe a primari interessi posti a garanzia, proprio, delle persone”.

    [12] Nella tavola del diritto sovranazionale ed in quello nazionale del giusto procedimento, il diritto di difesa è considerato tale anche se esercitato in fasi diverse ed antecedenti a quelle processuali. Su questo aspetto, dottrina unanime e giurisprudenza prevalente concordano. Cfr. per tutti Police, sub art. 24, in Comm. Cost., a cura di  Bifulco, Celotto, Olivetti, I, Utet, Torino, 2006, 518 ss.

    [13] Come sono ad esempio le fatture, i documenti bancari, le scritture contabili, il bilancio, i database e altri strumenti di conservazione informatica, contratti o altri scritti, anche informali, comunque riferibili allo svolgimento dell’attività.

    [14] Oppure strumentali alla verifica della giustezza della sua omessa presentazione e, casomai, alla ricostruzione della capacità contributiva del trasgressore.

    [15] Sui poteri d’indagine, cfr. recentemente G. Fransoni, Le indagini tributarie, Torino, Giappichelli, 2020, 45 ss.

    [16] A questa conclusione giunge  A. Marcheselli, Accertamenti tributari e diritto al silenzio, cit.

    [17] E’ possibile che questo sia quel che è accaduto a Cass. Pen, V, n. 3555/2022, chiamata ad esaminare la questione di legittimità riguardante l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi a petto di proventi reato, la cui omissione integra il reato di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000. La Corte l’ha risolta  reputando il diritto al silenzio recessivo rispetto al dovere contributivo (art. 53 Cost.) e dunque qualificando come prevalente l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche rispetto all’omessa presentazione della dichiarazione. Credo che il riferimento ai principi costituzionali, qui, non sarebbe stato necessario, poiché il reato che consegue all’omissione dichiarativa non può trovare “copertura” nell’esercizio del silenzio: l’omessa presentazione della dichiarazione è un obbligo autonomamente rilevante, che non ha niente a che vedere con l’esercizio della difesa, come spero di avere chiarito nelle pagine addietro. Piuttosto, l’obbligo di dichiarazione dei proventi illeciti e ancor prima la loro qualificazione come reddito, determina una diversa e ancor più grave lesione dei principi costituzionali e ordinamentali generali, ma non interessa il profilo per come eccepito innanzi alla Corte di Cassazione (se si vuole, A. Giovannini, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, Giuffrè, 2000, e Id., Proventi e costi di reato in generale nel diritto tributario, in Trattato dir. sanzionatorio tributario, diretto da A. Giovannini, vol. I, Milano, Giuffrè, 2016, 915 ss.).

    [18]  Non intendo dilungarmi sui caratteri del metodo giuridico e sui criteri di verifica dei risultati dell’interpretazione affinché metodo e criteri si possano considerare scientificamente fondati. Se si vuole, anche per ampi riferimenti alla letteratura, cfr. A Giovannini, Il metodo, i princìpi e il sarcofago, in Riv. dir. trib., 2021, I, 507 ss.

    [19] Semplifico molto il ragionamento, prendendo a prestito categorie ed espressioni che la storia del diritto pubblico ha ormai consegnato all’uso, senza avere la prostesa che le parole scelte siano scientificamente esaustive o aggiornate alla modernità.

    [20] Il fatto, poi, che il procedimento si debba informare alle regole di lealtà, parità, trasparenza, buona fede, insomma alle regole del “giusto procedimento”, non annulla il potere autoritativo della pubblica amministrazione. Piuttosto quelle regole lo disciplinano con rigore, costringendo il suo uso a venire allo scoperto ed a giustificarsi, proprio, alla loro luce.

    [21] Mi riferisco agli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 e agli omologhi artt. 32 e 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, ad esclusione delle ipotesi che saranno specificate nel successivo § 6.

    [22] Art. 32, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, e art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.

    [23] Art. 32, n. 4 della legge sull’accertamento, e art. 51, n. 3, della legge sull’IVA.

    [24] Si ricordi che, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, gli agenti possono procedere a perquisizione personale, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, all'esame di documenti ed a richiedere notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale, ferma restando la norma di cui all'articolo 103 c.p.p. sui vincoli e sulla illegittimità di ispezioni, perquisizioni e sequestri presso i difensori  (art. 51 d.P.R. n. 633).

    [25] Su queste categorie, cfr. ampiamente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, in Tratt. dir. sanz. trib., diretto da A. Giovannini, vol. II, Milano, Giuffrè, 2016, 1317 ss., e prima, Id., Sanzioni improprie ed imposizione tributaria, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, ESI, 2006, 519 ss., nonché R. Alfano, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Napoli, ESI, 2020, 289 ss.

    [26] Può essere il caso dell’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, nelle parti in cui si riferisce o si può applicare alla mancata comparizione del contribuente, alla mancata risposta a questionari o alla mancata collaborazione in sede di accesso e ispezione quando le richieste avrebbe determinato una “confessione”.

    [27] Così Corte Cost., sent. n. 313 del 1995.

    [28] Così si può dire per l’accertamento extra contabile previsto dall’art. 39, comma 2, lettera d-bis), del d.P.R. n. 600 del 1973, se fondato unicamente sulla mancata “confessione” del contribuente o sulla mancata risposta ai questionari. Diverso è il discorso sulle preclusioni probatorie di cui all’art. 52, comma 5 e 10, del d.P.R. n. 633 del 1972, tradizionalmente qualificate come sanzioni improprie. Il fatto che i documenti o le scritture, comprese quelle contabili, non esibiti, consegnati o prodotti all’amministrazione non siano più utilizzabili come corredo probatorio favorevole al contribuente, determina senz’altro un vulnus costituzionale. Ma non è corretto ritenere che esso sia conseguenza della compressione del diritto al silenzio. Quel vulnus, che pure è evidente, deve essere affrontato e risolto con altri metri costituzionali, non con quelli riferibili al “nemo tenetur se detegere”, che nelle ipotesi sarebbe improprio invocarlo.

    [29] Molto chiaramente L. Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, cit., 1324 ss.

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