GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La Corte edu interviene sul diritto della persona offesa a un equo processo nelle ipotesi di irragionevole durata delle indagini preliminari(Corte edu, Petrella c. Italia)

    La Corte edu interviene sul diritto della persona offesa a un equo processo nelle ipotesi di irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte edu, Petrella c. Italia)

    di Alessandro Centonze  

    Sommario: 1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale – 2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia” – 3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – 4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia” – 4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – 4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa – 5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89 – 6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek – 7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12.  

    1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale  

    Il tema di cui mi occuperò in questo intervento riguarda la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Petrella contro Italia”[1], con cui sono stati precisati i contorni del diritto della persona offesa a un equo processo “entro un termine ragionevole”[2], così come prefigurato dall’art. 6, par. 1, CEDU, nelle ipotesi in cui le sue pretese risarcitorie vengono frustrate dall’eccessiva durata delle indagini preliminari.

    In conseguenza di tale pronuncia e della rivisitazione del diritto a un processo equo della persona offesa dal reato che ne conseguiva – che traeva origine dal ricorso proposto davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da Vincenzo Petrella –, lo Stato italiano, con una decisione emessa all’unanimità dei componenti del collegio, veniva condannato per la violazione degli artt. 6 e 13 CEDU. Tale violazione derivava dall’eccessiva durata del procedimento penale instaurato dal ricorrente quale persona offesa del reato di diffamazione, che si concludeva con la declaratoria di prescrizione pronunciata dal giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007.

    Lo Stato italiano, inoltre, veniva condannato, con il dissenso di due dei componenti del collegio giudicante, per l’ulteriore violazione dell’art. 6 CEDU, relativa al pregiudizio subito dal ricorrente per il mancato accesso a un’autorità giudiziaria, collegato all’esito del procedimento penale che lo riguardava.

    Si tratta, come si dirà, di una pronuncia le cui conseguenze sistematiche non sono facilmente preventivabili, pur collocandosi tale decisione in un contesto interpretativo consolidato, atteso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è costante nell’affermare che il riconoscimento delle pretese risarcitorie della vittima del reato deriva dalla previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU; riconoscimento da cui discendono le garanzie a un processo equo, rispetto alle quali, come affermato dalla stessa Corte[3], la persona offesa del reato deve ritenersi una parte processuale a tutti gli effetti, godendo del diritto a un processo che sia celebrato “entro termine ragionevole”.

    2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia”

    Come si è detto, la decisione del caso “Petrella contro Italia” affronta il tema della ragionevole durata delle indagini preliminari svolte nell’ambito di un procedimento penale instaurato da una, presunta, vittima del reato di diffamazione. Questo tema viene esaminato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in correlazione alla questione dei rimedi riconosciuti nel nostro ordinamento alla persona offesa per tutelare le sue pretese risarcitorie nelle ipotesi di decorso dei termini prescrizionali.

    In questa cornice, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo muoveva da un dato cronologico, osservando che le indagini preliminari conseguenti alla querela presentata dalla persona offesa erano durate cinque anni e sei mesi e che, in conseguenza di tale decorso, erano spirati i termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla vittima, Vincenzo Petrella.

    Ne era derivata la mancata soddisfazione delle pretese risarcitorie della persona offesa, esclusivamente dovuta all’eccessiva durata dei tempi del procedimento penale, che risultavano incongrui rispetto ai parametri di ragionevolezza prescritti dall’art. 6, par. 1, CEDU[4]. Tale irragionevole durata delle indagini preliminari, dunque, aveva determinato la violazione delle garanzie di equità processuale collegate alla celebrazione del procedimento penale, recepite nel nostro ordinamento dalla previsione dell’art. 111, comma secondo, Cost., assicurate tanto al soggetto attivo quanto al soggetto passivo del reato.

    La Corte di Strasburgo, al contempo, evidenziava che il pregiudizio subito dal ricorrente era dovuto al ritardo ingiustificato dell’autorità giudiziaria nazionale presso la quale era transitata la querela presentata dal ricorrente nei confronti dei soggetti che lo avevano diffamato su un quotidiano. Era, infatti, incontroverso che il decorso di cinque anni e sei mesi dalla presentazione della querela di Petrella, senza il compimento di atti d’indagine, aveva determinato lo spirare dei termini di prescrizione del reato, asseritamente, commesso nei suoi confronti, impedendogli di tutelare le sue prerogative risarcitorie[5].

    Ne discendeva che il comportamento inerte dell’autorità giudiziaria aveva privato il ricorrente della possibilità di tutelare le sue pretese risarcitorie, che non potevano essere altrimenti garantite, nell’ambito della giurisdizione penale, sulla base delle regole vigenti. Né assumeva alcun rilievo giustificativo del comportamento inerte dell’autorità giudiziaria nazionale la circostanza che la persona offesa avrebbe potuto tutelare la sua posizione davanti al giudice civile, atteso che tale opzione – a prescindere dalla sua astratta praticabilità – non poteva incidere negativamente sulle prerogative di cui la, presunta, vittima disponeva nel processo penale, alle quali doveva essere riconosciuta una tutela autonoma rispetto ai rimedi processuali extra-penali[6].

    A tali considerazioni, occorreva aggiungere che il ricorrente non poteva nemmeno avvantaggiarsi dei benefici previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, convenzionalmente nota come “legge Pinto”, la cui applicazione postulava che il danneggiato si fosse costituito parte civile nel processo penale. Tutto questo rendeva ulteriormente evidente la carenza di adeguati strumenti di tutela della persona offesa, alla quale, nell’ordinamento italiano, non erano riconosciuti idonei poteri di sollecitazione della trattazione della sua vicenda giurisdizionale entro un “tempo ragionevole”[7].  

    3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

    Occorre, a questo punto, occuparsi della vicenda giurisdizionale da cui traeva origine la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, evidenziando che il ricorrente, Vicenzo Petrella, è un professionista italiano residente a Caserta, che, all’epoca dei fatti di cui si discute, presiedeva la squadra di calcio cittadina, denominata “Casertana”.

    Tra il 22 e il 25 luglio 2001, un quotidiano locale, il “Corriere di Caserta”, pubblicava alcuni articoli corredati da riproduzioni fotografiche di Vincenzo Petrella, accusandolo di frode e corruzione finanziaria.

    Il ricorrente, pertanto, il 28 luglio 2011, ritenendo che gli articoli pubblicati sul “Corriere di Caserta” costituivano un’offesa per il suo onore e per la sua reputazione, presentava una denuncia all’autorità giudiziaria per diffamazione aggravata, effettuata mediante comunicazioni sulla stampa periodica. Nella sua denuncia, la persona offesa precisava che, nell’eventuale procedimento penale instaurato a seguito della sua querela, intendeva costituirsi parte civile, richiedendo la condanna dei soggetti denunciati al risarcimento dei danni che le erano stati provocati, quantificati in dieci miliardi di lire dell’epoca.

    A seguito della querela presentata da Vincenzo Petrella, il 10 settembre 2001, il procedimento veniva incardinato davanti all’ufficio requirente competente, dove rimaneva pendente nella fase delle indagini preliminari fino alla data del 9 novembre 2006, quando il pubblico ministero assegnatario del fascicolo processuale ne chiedeva l’archiviazione per l’intervenuta prescrizione del reato. In conformità della richiesta presentata, il 17 gennaio 2007, il giudice delle indagini preliminari disponeva l’archiviazione del procedimento incardinato da Petrella.

    La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infine, evidenziava che l’archiviazione del procedimento lasciava il denunciante sprovvisto di tutela, atteso il disposto dell’art. 79 cod. proc. pen., a tenore del quale la costituzione di parte civile può avvenire fino all’udienza preliminare e, dopo la sua celebrazione, fino al compimento degli adempimenti previsti dall’art. 484 cod. proc. pen.[8]

    4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia”

    Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, allo scopo di inquadrare le linee ermeneutiche del percorso argomentativo seguito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si ritiene indispensabile distinguere i vari segmenti della decisione oggetto di vaglio, che riguardano le previsioni degli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU.

    4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU

    Cominciamo, allora, con l’osservare che la valutazione delle censure difensive postulava l’individuazione della data da cui fare decorrere il termine per verificare l’eventuale inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo individuava in quella del 28 luglio 2001.

    Questo termine, a sua volta, doveva essere correlato alla data di emissione del decreto di archiviazione, pronunciato dal Giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007, in conseguenza del quale si ritenevano irrimediabilmente pregiudicate le prerogative processuali di Vincenzo Petrella[9].

    L’arco temporale al quale occorreva fare riferimento per valutare le pretese di Petrella, dunque, riguardava una frazione cronologica di cinque anni e sei mesi, durante i quali il procedimento instaurato a seguito della denuncia della persona offesa era rimasto fermo nella fase delle indagini preliminari, senza il compimento di atti d’indagine, fino a quando non era intervenuto il decreto di archiviazione che concludeva la vicenda processuale, pronunciato, come detto, il 17 gennaio 2007.

    Si consideri, ulteriormente, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si limitava a valutare acriticamente i dati cronologici richiamati, atteso che effettuava un esame del merito della vicenda giurisdizionale, evidenziando che il caso sottoposto all’attenzione dell’autorità requirente non era “particolarmente complesso”[10] e, tuttavia, nonostante l’assenza di connotazioni di complessità, non era stata compiuta alcuna attività processuale nel corso delle indagini preliminari.

    Né tantomeno il Governo italiano, nel giudizio celebrato davanti alla Corte di Strasburgo, aveva fornito indicazioni utili a giustificare la notevole durata delle indagini preliminari e il mancato compimento di atti processuali dell’ufficio requirente durante tale frazione temporale pluriennale[11].

    Sulla scorta di tale ricostruzione della vicenda processuale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affermava che, nel caso di specie, si era concretizzata una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, ritenendo pacifico che l’eccessiva durata delle indagini preliminari aveva determinato l’elusione dei parametri di ragionevolezza prescritti da tale disposizione, che impone la celebrazione di un processo “entro un termine ragionevole”[12].

     4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa

    Deve, al contempo, rilevarsi che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo inseriva le sue statuizioni sulla violazione dell’art. 6 CEDU in un più ampio contesto ermeneutico, relativo alla ricorrenza di condizioni che imponevano di ritenere imputabile all’autorità giudiziaria italiana l’inerzia che aveva determinato la lesione delle prerogative processuali di Vincenzo Petrella, quale persona offesa dal reato[13].

    Si evidenziava, in proposito, che era incontroverso che il pregiudizio patito dal ricorrente conseguiva al decorso dei termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla persona offesa; ed era parimenti incontroverso che allo spirare dei termini prescrizionali non si era accompagnata alcuna attività d’indagine che consentisse di ritenere giustificato l’atteggiamento di inerzia assunto dall’ufficio requirente procedente.

    Da tali dati, come detto, incontroversi, doveva farsi discendere l’ulteriore conseguenza dell’imputabilità dell’inerzia giurisdizionale all’autorità giudiziaria italiana, che aveva vanificato la denuncia presentata da Vincenzo Petrella. Infatti, in conseguenza dell’atteggiamento inerte dell’ufficio requirente correttamente attivato, al ricorrente era stata preclusa la possibilità di richiedere al giudice penale il risarcimento dei danni civili patiti per effetto delle, presunte, condotte diffamatorie di cui si doleva.

    Si ribadiva, pertanto, che il comportamento illegittimo da parte dell’autorità giudiziaria italiana aveva concretizzato una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, producendo l’effetto di privare la persona offesa del diritto di soddisfare le sue pretese risarcitorie, a garanzia delle quali aveva attivato rimedi processuali legittimamente previsti dall’ordinamento interno.

    Né si riteneva possibile giustificare l’inerzia dell’autorità giudiziaria nazionale richiamando la possibilità di attivare un percorso parallelo di tutela davanti al giudice civile dopo la declaratoria di prescrizione. Infatti, l’instaurazione del procedimento civile, inevitabilmente, implicava la necessità di acquisire nuove prove, della cui produzione era onerato il ricorrente, comportando l’aggravamento delle condizioni di tutela della sua posizione, rese ulteriormente problematiche dal lasso di tempo trascorso dalla verificazione degli accadimenti.

    Veniva, in questo modo, definitivamente ribadita la giurisprudenza sovranazionale consolidata in tema di tutela delle pretese risarcitorie della persona offesa nel processo penale, come conseguenza diretta del riconoscimento a tale soggetto dei diritti riconosciuti alle parti processuali dall’art. 6, par. 1, CEDU[14].

    5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89  

    Occorre, infine, evidenziare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rilevava che i pregiudizi subiti da Vincenzo Petrella, in conseguenza dell’inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, erano aggravati dall’inapplicabilità dei parametri normativi della legge 24 marzo 2001, n. 89, recante «Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile», ritenuti inutilizzabili nei confronti della persona offesa che non ha assunto la qualità di parte civile in un procedimento penale.

    Secondo la Corte di Strasburgo, l’inapplicabilità delle previsioni della legge 24 marzo 2001, n. 89 – definita «loi Pinto» – finiva per determinare l’esistenza di un vuoto di tutela normativa della persona offesa, censurata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ex art. 13 CEDU, non sussistendo nell’ordinamento giuridico italiano – nelle ipotesi di procedimenti penali instaurati da un soggetto passivo del reato – uno strumento idoneo a sollecitare l’intervento del giudice italiano “entro un termine ragionevole”, compatibile con la previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU.  

    6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek  

    Restano da considerare, per una completa disamina della sentenza relativa all’affaire “Petrella contro Italia”, le ragioni che inducevano i giudici Krzysztof Wojtyczek e Raffaele Sabato a esprimere opinioni parzialmente dissenzienti rispetto alla maggioranza dei componenti del collegio.

    Di queste opinioni parzialmente dissenzienti occorre occuparsi separatamente.

    Quanto, in particolare, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Krzysztof Wojtyczek, le ragioni del suo dissenso si fondavano su due ordini di argomenti, che venivano esposti con esemplare chiarezza.

    Si evidenziava, innanzitutto, che non era condivisibile l’assunto ermeneutico della decisione in esame secondo cui costituiva una limitazione alle prerogative processuali della persona offesa, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, la possibilità di ricorrere al solo giudice civile nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato.

    Si evidenziava, al contempo, che la decisione adottata, coinvolgendo contestualmente le esigenze di tutela della reputazione del soggetto passivo del reato e la libertà di espressione dei giornalisti, finiva per incentivare, quantomeno implicitamente, l’accesso alla giurisdizione penale per tutelare le vittime di condotte diffamatorie, esprimendo un approccio ermeneutico problematico, sotto il profilo delle conseguenze ipertrofiche che ne potevano derivare.

    Quanto, invece, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Raffaele Sabato, il suo dissenso si fondava sulla ritenuta sovrapposizione dei due piani valutativi esaminati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tra loro, non del tutto armonici: il primo era quello della violazione del diritto di accesso all’autorità giudiziaria, rilevante ex art. 13 CEDU, che postulava una questione di esistenza della giurisdizione, alla quale la vittima poteva ricorrere; il secondo era quello del diritto a una durata ragionevole del procedimento penale, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, che postulava una questione, differente, di efficienza della giurisdizione.

    Secondo il giudice dissenziente, questa sovrapposizione dei piani valutativi, relativi all’esistenza e all’efficienza della giurisdizione penale, nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato, se consentiva di assicurare alla vittima una protezione dei diritti umani più ampia ed efficace di quella attuale, non soddisfaceva le esigenze di chiarificazione ermeneutica proprie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, determinando un problematico overruling giurisprudenziale.

    Tale eterogeneità, al contempo, finiva per attenuare l’efficienza complessiva dei sistemi di compensazione nazionale relativi alla durata eccessiva dei procedimenti penali, atteso che richiedeva ai ricorrenti verifiche particolarmente complesse – afferenti ai due piani valutativi sopra richiamati – prima di attivare gli strumenti di tutela giurisdizionale riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.  

    7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12  

    Nell’avviarci a concludere queste brevi riflessioni sulla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia”, non ci si può esimere dal rilevare come tale pronuncia comporti la necessità di rielaborare la linea ermeneutica prefigurata in tema di tutela della persona offesa dalla giurisprudenza costituzionale nostrana, soprattutto rappresentata dalla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 2016, n. 12.

    Com’è noto, con tale sentenza veniva dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 538 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.

    Con questa pronunzia costituzionale, in particolare, si ribadiva che la violazione del principio di ragionevole durata del processo consacrato nell’art. 111, comma secondo, Cost., si concretizzava in quelle sole ipotesi in cui si determinava un pregiudizio nei confronti delle parti processuali per effetto di «una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza»[15].

    La Corte costituzionale, dunque, si occupava della tutela della persona offesa nelle ipotesi di durata del processo penale incompatibile con i tempi ragionevoli prefigurati dall’art. 6, par. 1, CEDU e dell’art. 111, comma secondo, Cost., evidenziando che non poteva ipotizzarsi un pregiudizio nei suoi confronti quando la tutela degli interessi civili veniva procrastinata per l’introduzione di legittime varianti procedimentali. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, la «preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa […] se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione, come già rimarcato, nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico […] alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti […]»[16].

    Né potrebbe essere diversamente, costituendo espressione di un orientamento ermeneutico consolidato il principio secondo cui non assume rilievo, in quanto tale, l’omesso vaglio delle pretese risarcitorie della parte civile, laddove il procedimento penale si chiude con un provvedimento diverso dalla condanna dell’imputato, quanto, piuttosto, il mancato soddisfacimento di tali istanze, dovuto all’inerzia dell’autorità giudiziaria. La mancata soddisfazione delle pretese della persona offesa, quindi, di per sé stessa, non è contrastante con le garanzie convenzionali, assumendo rilievo solo quando la vittima del reato non fruisca di altri rimedi, accessibili ed efficaci, per fare valere le sue pretese e quando – analogamente a quanto riscontrabile per la posizione di Vincenzo Petrella – il concreto «funzionamento del meccanismo frustri indebitamente le legittime aspettative del danneggiato, come nel caso in cui la prescrizione della responsabilità penale dell’autore del reato, impeditiva dell’esame della domanda civile, sia imputabile a ingiustificati ritardi delle autorità giudiziarie nella conduzione del procedimento penale»[17].

    Tale approdo ermeneutico, del resto, appare confermato dalla successiva sentenza della Corte costituzionale 4 novembre 2020, n. 249[18], in cui si evidenziava che il sistema processuale, nelle ipotesi in cui il procedimento penale segua un percorso fisiologico, prevede che le prerogative della persona offesa vengano garantite da una pluralità di strumenti processuali, tra cui la facoltà di proporre querela; la possibilità di indicare elementi di prova a sostegno delle sue accuse; il potere di interloquire sulla proroga delle indagini o sulla richiesta di archiviazione[19].

    A differenti conclusioni, invece, deve giungersi nelle ipotesi in cui la frustrazione delle pretese risarcitorie della persona offesa discenda dall’inerzia dell’autorità giudiziaria, che costituisce un’anomalia del processo penale – ancorché riferita dalla Corte costituzionale a un’area estranea all’alveo applicativo dell’art. 6, par. 1, CEDU, a differenza di quanto affermato nella decisione nel caso “Petrella contro Italia” –, che trova «appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi, i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti»[20].

    In questa cornice, resta aperta la questione della violazione dell’art. 13 CEDU, relativamente alla preclusione applicativa prefigurata dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, su cui non sono possibili previsioni ragionevoli sugli sviluppi ermeneutici imposti dalla decisione della Corte di Strasburgo, che sancisce l’esistenza di un vuoto normativo, che sembra colmabile solo con un intervento legislativo, peraltro di non facile realizzazione.

    Né è agevole esprimersi sulle possibili soluzioni ermeneutiche di tale questione, attese il non del tutto esaustivo passaggio dedicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al tema dell’applicazione dell’art. 13 CEDU alla legge 24 marzo 2001, n. 89, nonostante la notevole rilevanza di tale passaggio della decisione per il nostro ordinamento giuridico.


    [1] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia.  

    [2] Il riferimento all’espressione “entro un termine ragionevole, utilizzata nel testo e in alcune parti di questo intervento, è espressamente prevista dall’art. 6, par. 1, CEDU, che stabilisce: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».  

    [3] Si veda Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2004, Perez contro Francia.  

    [4] Vedi supra, nota 2.  

    [5] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit., che non lascia spazio per dubitare della responsabilità dell’autorità giudiziaria italiana, tra l’altro, affermata nel passaggio decisionale in cui si afferma «c’est exclusivement en raison du retard des autorités de poursuite […]».

    [6] Su questo punto, si veda anche, infra, il paragrafo 6.  

    [7] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “délai raisonnable”.  

    [8] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.  

    [9] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.  

    [10] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “spécialement complexe”.  

    [11] Occorre precisare che il riferimento all’inerzia del Governo italiano viene espressamente menzionato nella pronuncia in esame, che così riporta l’atteggiamento dei rappresentanti istituzionali del nostro Paese: «Le Gouvernement n’a pas fourni d’arguments pour justifier la nécessité d’une telle durée pour des investigations préliminaires».  

    [12] Si veda Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2004, Perez contro Francia, cit.  

    [13] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.  

    [14] Si muovono in questa direzione, tra le altre, le pronunzie Corte EDU, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema e altri contro Romania; Corte EDU, Grande Camera, 20 marzo 2009, Gorou contro Grecia.  

    [15] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12.  

    [16] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit., dove, in linea con quanto affermato nel testo, si affermava ulteriormente che «l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile […]».   

    [17] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit.   

    [18] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249.  

    [19]Si veda Grande Camera, 2 ottobre 2008, Atanasova contro Bulgaria. 

    [20] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.  

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