Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
di Bruno Capponi
Sommario: 1. Le inutili riforme dell’appello portate dal D.L. n. 83/2012 - 2. Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 e le sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014: la segnaletica - 3. Il “veicolo” - 4. Il vizio “specifico” - 5. Verso il cuore del problema - 6. La Corte di cassazione e il controllo di logicità - 7. Ancora precedenti da segnaletica? - 8. I contesti - 9. Qualche telegrafica considerazione finale.
1. Le inutili riforme dell’appello portate dal D.L. n. 83/2012
L’art. 54 del DL 22 giugno 2012, n. 83 – un decreto omnibus recante Misure urgenti per la crescita del Paese, articolato in IV titoli a loro volta articolati in vari capi disciplinanti le materie più disparate – sotto la rubrica “appello” recò modifiche agli artt. 342, comma 1 e 345, comma 3; inserì, dopo l’art. 348, gli artt. 348 bis e ter; nonostante la lettera della rubrica, intervenne anche sul n. 5) dell’art. 360 e poi sull’art. 383, prevedendo una nuova fattispecie di rinvio restitutorio in relazione alle nuove figure di inammissibilità dell’appello (commi 3 e 4 dell’art. 348 ter).
La legge 7 agosto 2012, n. 134 convertì, con modificazioni, il DL 83.
La riforma estiva, inattesa, suscitò, nell’immediatezza, un ampio dibattito.
A distanza di quasi due lustri, possiamo serenamente affermare che le nuove norme sull’appello sono andate incontro a rapida obsolescenza: tutte le discussioni che esse hanno direttamente o indirettamente alimentato – dall’appello “motivato” al progetto alternativo di sentenza, sino al “fiore all’occhiello” dell’inammissibilità per inesistenza di una ragionevole probabilità di accoglimento – si sono rivelate sterili; per comune rilievo, la riforma ha prodotto un inutile aggravio (non soltanto per i commentatori, costretti a misurarsi con norme improvvisate, mal concepite e mal fatte; ma, ciò che più conta, anche) per le Corti d’appello, che si sono dovute confrontare con novità che, nate per semplificare e razionalizzare, hanno finito per inutilmente complicare e duplicare l’esame dei gravami. Le Corti sono state indotte, almeno in sede di prima applicazione, a celebrare udienze ad hoc senza ottenere risultati di deflazione, con l’inevitabile conseguenza di favorire nuovi slittamenti dei contenziosi; a resistere alle sirene di un formalismo stucchevole (tentazione alla quale, dopo una prima reazione di disorientamento, le Corti si sono meritoriamente sottratte) avente lo scoperto obiettivo di far deflettere il giudizio di gravame dall’esame serio del merito della controversia.
La Corte d’appello è rimasta l’ufficio giudiziario in cui la crisi di durata delle procedure e l’incertezza dei giudicati si manifesta nelle forme più acute.
La riforma (mancata) ha contribuito a diffondere, tra gli avvocati, la cattiva abitudine di far precedere, nei gravami, la trattazione del merito da pagine e pagine di involute questioni di ammissibilità, spesso fumose perché quasi sempre relative non a vere questioni di ammissibilità (per come eravamo abituati a conoscerle) bensì a questioni di merito travestite da litis ingressum impedientes.
È rimasta sul terreno la riforma del n. 5) dell’art. 360, che del resto è subito apparsa – parliamo, è ovvio, della giustizia civile – l’intervento più rilevante nel contesto di un provvedimento, dedicato alla crescita economica (in cui, cioè, le ragioni dell’economia dichiaratamente sovrastavano quelle della giustizia), che ha implicitamente denunziato le impugnazioni civili ordinarie come un fattore non di garantismo bensì di crisi, di inceppamento del sistema, di implicita e diffusa violazione del canone di ragionevole durata. La vulgata che ne è emersa – a giustificazione dell’improvvisato intervento estivo – è che gli atti di appello sono generalmente infondati e che i ricorsi per cassazione sono spesso il prolungamento di contenziosi in fatto che non dovrebbero giungere nelle aule del Palazzaccio.
Obiettivo di questo breve scritto è individuare ciò che resta dell’intervento legislativo – pur denunziandone la genesi a sorpresa e il generico intento sanzionatorio – con riferimento al giudizio di legittimità, per i profili interessati dalla riforma del n. 5).
2. Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 e le sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014: la segnaletica
La Corte di cassazione ha consolidato in materia una serie di massime conformi a partire dalle note sentenze gemelle nn. 8053 e 8054 del 2014[1].
La prima massima risolve un problema di segnaletica: chiarisce, cioè, quanto non è più nel n. 5) e va in alternativa ricercato in altri numeri dell’art. 360 [il 4) e, secondo taluni, anche il 3)], perché il n. 5) non parla più di motivazione e dunque occorrerà – per sollecitare quel controllo di legittimità sul giudizio di fatto che la vecchia formulazione del motivo, risalente al 1950, aveva garantito – scrutinare le norme che impongono la motivazione dei provvedimenti decisori (artt. 132, comma 2, n. 4) c.p.c., 118 disp. att.; art. 111, comma 6, Cost.) seguendo il criterio del “minimo costituzionale”, che la stessa Corte di cassazione aveva indicato quando, nel 1992 (sent. n. 5888), aveva deciso di restringere l’accesso al ricorso straordinario ex art. 111, comma 7 fondato sul controllo della motivazione (costringendo il legislatore delegato del 2006, d.lgs. n. 40, a inserire nell’art. 360 l’attuale ultimo comma, che ha condotto il ricorso straordinario nell’alveo dell’ordinario).
Dietro al problema di segnaletica è peraltro un problema contenutistico, perché se è vero che di motivazione parlano (oltre che la Costituzione) altre norme del c.p.c., peraltro ritoccate nel 2009 con l’intento di “semplificare” la redazione dei provvedimenti decisori (v. infra), soltanto il vecchio testo del n. 5) faceva riferimento alla nota triplice – omessa, insufficiente, contraddittoria – che aveva consentito alla Corte, probabilmente ben al di là di quanto programmato dal legislatore del 1950, un controllo penetrante sulla logicità dei giudicati, anche svincolandosi dalla nozione “formale” della motivazione (cioè da un suo mero controllo letterale presupponendone la mera funzione giustificativa). Ma qualcosa si è perso per strada: e del resto l’intenzione deflazionistica del legislatore estivo non poteva essere in tutto contraddetta, riducendola a un semplice “trasloco” di questioni dal n. 5) ai nn. 3) e 4) dell’art. 360[2] o, se si preferisce, risolvendo quella intenzione in un mero cambiamento della tecnica con cui l’avvocato specializzato si rivolge alla Suprema Corte.
Grazie al chiarimento dato dalla segnaletica, sappiamo cosa, secondo la Corte (e nell’immediatezza della riforma), non è più nel n. 5), ma ancora non sappiamo cosa il legislatore attuale – quello del 1942, che aveva utilizzato una formula pressoché corrispondente, era mosso da intenzioni diverse in un contesto diverso – abbia voluto intendere per “omesso esame di un fatto decisivo e controverso”. Anche questa è nozione che va sedimentata; va preso atto che massime ancora del 2020 o del 2021 continuano a risolvere problemi di segnaletica: evidentemente, le abitudini del foro sono talmente inveterate che il richiamo all’art. 5), anche frammisto ad altri numeri dell’art. 360, continua ad andare fuori bersaglio. Ma va anche riconosciuto che, in qualche caso, è la stessa Corte a indurci in errore: ad es., quando afferma che a seguito della riformulazione dell’art. 360, n. 5), c.p.c., il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza è limitato ai casi di omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e di anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante[3]; o che l’art. 360, n. 5), c.p.c., come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, consente soltanto la denuncia dell’omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti; la norma non consente, invece, il sindacato sulle anomalie motivazionali che presenta la sentenza impugnata, salvo che tali anomalie si risolvano in una violazione di legge costituzionalmente rilevante[4]. Massime che rischiano di confonderci, se davvero dobbiamo dare per acquisito che il n. 5) non è più deputato al controllo sulla motivazione e che il detto controllo deve ora avvenire per il tramite di altri numeri dell’art. 360.
La verità è che molte massime presentano, e forse continueranno a presentare ancora a lungo, un contenuto misto: da un lato, indicano ciò che nel n. 5) non è più, e svolgono quasi un ruolo di indicatore per favorire la transizione dal vecchio al nuovo sistema; dall’altro lato, individuano ciò che è nel motivo e che, ripete la Corte, risulta essere non qualcosa di meno rispetto al vecchio testo, bensì qualcosa di nuovo.
Possiamo infatti dare per acquisito che quello di cui parla il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 è un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (così la massima conforme a partire dalle sentenze gemelle), vale a dire un vizio che prima non era in catalogo, e che non si confonde col vizio di motivazione che avevamo conosciuto grazie all’abrogato n. 5).
3. Il “veicolo”
Oltre ai problemi di segnaletica, gli orientamenti di legittimità sul nuovo testo del n. 5) risolvono le possibili questioni di ammissibilità delle censure, calandosi nel contesto di autosufficienza e di specificità che interessa tutti i tramiti mediante i quali si accede alla Corte: anche chi segue correttamente la segnaletica, ha da porsi il problema del veicolo col quale una determinata censura può utilmente pervenire in Cassazione.
Sarà bene chiarire, sotto il primo profilo, che in sede di legittimità, il motivo è inammissibile laddove non soddisfa i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, n. 3, 4 e 6, c.p.c., che devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l'atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza[5].
E anche, sotto il secondo profilo, che, in generale, il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito (e dunque) il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie previste; ne deriva l’inammissibilità delle critiche generiche alla sentenza impugnata.[6]
Anche questi aspetti sono chiariti dalle sentenze gemelle, laddove esplicitano che la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso, da intendersi nel senso che la considerazione di quel fatto avrebbe fatto cambiare di segno la decisione resa (se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Dunque: il vizio specifico, diverso dal difetto di motivazione, deve essere dedotto rispettando il veicolo di queste precise coordinate, in difetto delle quali la censura non potrà superare il vaglio preliminare di ammissibilità.
Ovviamente, vale anche a questo proposito quanto detto retro a proposito dell’appello: chi esercita l’avvocatura sa bene che è ormai impossibile leggere un controricorso in cui non risultino trattate, spesso con generoso svolgimento e maniacale dettaglio, questioni di ammissibilità che non possono non annoiare (il ricorrente e soprattutto) la Corte, costretta (come se ignorasse la sua propria giurisprudenza) a leggere interi compendi di massime sul corretto modo di accedere al giudizio di legittimità.
Gli avvocati, certo, fanno il loro mestiere: ma non è dubbio che la redazione degli atti – in tempi che mostrano attenzione alla chiarezza e sinteticità – viene enormemente appesantita dalle questioni di ammissibilità, purtroppo spesso richiamate non del tutto a proposito, quasi utilizzando un prontuario da adattarsi caso per caso.
4. Il vizio “specifico”
Va chiarito cosa non è omesso esame di un fatto decisivo e controverso.
Fino al 2006 – d.lgs. n. 40 – il difetto di motivazione doveva interessare «un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; il legislatore delegato ha inserito nel n. 5) la diversa lezione: «un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
Da ciò viene generalmente dedotto che il riferimento al “fatto”, di cui è menzione anche nel testo attuale, vale a escludere la possibilità di riferire al n. 5) una censura o un’argomentazione in diritto, una deduzione difensiva[7], e in generale quanto può dedursi col motivo del n. 3) in termini di violazione e falsa applicazione. Sebbene non manchi chi ritiene che una medesima censura potrebbe essere svolta con riferimento congiunto o alternativo a più numeri dell’art. 360, personalmente ritengo che, nel quadro di un’impugnazione limitata, ogni possibile censura debba far capo a un motivo determinato, di modo che l’individuazione di uno dovrebbe automaticamente escludere il richiamo o il concorso con altro; va peraltro considerato che a volte, applicando il principio jura novit curia, la Corte si riconosce la libertà di autonomamente qualificare lo svolgimento argomentativo del motivo[8], prescindendo anche dalla sua rubrica e inquadrando la censura meglio di come abbia fatto il ricorrente[9]. Il che non è senza conseguenze, considerata l’attuale giurisprudenza che impone, per la denunzia degli errores in procedendo, l’allegazione dello “specifico pregiudizio” che alla parte deriva dal mancato rispetto della norma processuale. È bene in ogni caso aver presente che il motivo del n. 5) è sempre stato considerato su un piano diverso rispetto a tutti gli altri, alla cui base c’è sempre la violazione di una norma, e ciò proprio per il tipo di indagine e di conseguenze applicative che gli si riconnettono: altro è il controllo di logicità, altro quello di legittimità. Inoltre, potrebbe avvenire che l’omesso esame di un fatto si tramuti in errore di violazione o falsa applicazione di norme, tutte le volte che l’omessa considerazione dell’elemento di una determinata fattispecie abbia portato il giudice a richiamare una fattispecie giuridica diversa; in casi del genere, il motivo del n. 3) presuppone, in un certo senso, la violazione di cui è menzione nel n. 5).[10] Ne vedremo applicazioni infra, §§ 6 e 7.
Va distinto l’omesso esame dalla omessa pronuncia su domanda o eccezione, che configurano una violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. che transitano in Cassazione per il motivo del n. 4) dell’art. 360[11] che configura una nullità e non un controllo di logicità.
Va distinto l’omesso esame dall’errore revocatorio per omissione, che presuppone il carattere non controverso del fatto oggetto di pronuncia [il n. 4) dell’art. 395 sembra usare promiscuamente “fatto” e “punto”, termini che invece nel n. 5) dell’art. 360 introducono concetti tra loro assai diversi].
In generale, vuole la Corte che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie[12].
Un discorso molto delicato, che qui può essere soltanto accennato, riguarda la concezione “sostanziale” contrapposta a quella “formale” di motivazione, che collega il possibile vizio all’esame del materiale istruttorio: ove si ritenga che la motivazione non debba limitarsi alla giustificazione formale del percorso logico seguito dal giudice, ma che essa debba dar conto dell’utilizzo concreto che il giudice abbia fatto, o non fatto, del materiale probatorio (la dottrina s’è espressa nel senso che la lezione “sostanziale” perde il carattere di semplice giustificazione della pronuncia, per assumere quello di «ragionamento» che il giudice ha effettuato sulla base delle prove raccolte), si aprono possibilità applicative del nuovo n. 5)[13] che certamente entrano in conflitto con l’intento deflazionistico che ha ispirato il legislatore estivo del 2012.
5. Verso il cuore del problema
Ci avviciniamo al cuore del problema.
Dopo le sentenze gemelle, le sezioni semplici hanno avuto modo di chiarire che «l’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. nel suo attuale testo riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Trattasi di una nozione da intendersi riferita a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico»[14]; deve cioè trattarsi di «un vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo»[15]; «un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante»[16]. Mentre il vizio di motivazione, denunziabile con altri motivi, deve risultare dal testo della sentenza, l’omesso esame può rilevare anche dagli atti processuali.[17]
Il punto è se tale fatto appartenga alla fattispecie dedotta, conosciuta e dibattuta nel giudizio – il “fatto” oggetto della pronuncia di merito[18] – ovvero se il riferimento sia a quanto nel processo sia stato ricostruito con gli strumenti a ciò deputati: il che rende inevitabile il riferimento al corredo dei mezzi di prova che il giudice è stato chiamato a valutare e così alla tecnica di quella valutazione. Anche su questo sono rinvenibili orientamenti, almeno in apparenza, chiari. È stato ad esempio affermato che «il “fatto storico” di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.»[19]; «l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Il discrimine tra le distinte ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, è infatti segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa».[20]
Se si accede all’idea di un “fatto storico” contrapposto al “fatto processuale” e si accetta la conseguenza che il “fatto processuale” non sarebbe controllabile col mezzo del n. 5) ma esclusivamente con quello del n. 4), ossia che si tratta di valutare la legittimità e non (o non anche) la logicità del percorso seguito dal giudice di merito, il primo ostacolo che ci si trova davanti è l’inveterato orientamento secondo cui «in cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione»[21].
Rischiamo di ritrovarci in un vicolo cieco. Il fatto è una cosa, il giudizio di fatto un’altra.
6. La Corte di cassazione e il controllo di logicità
Ciò spiega perché la Corte di cassazione, pur continuando a consolidare anche a sezioni semplici le massime delle sentenze gemelle, abbia iniziato a porsi di nuovo il problema del controllo di logicità, in certo senso prescindendo dai limiti rigorosi che la stessa Corte si è data nella segnaletica, ossia nel tentativo di disegnare i confini esatti tra il motivo del n. 5) e gli altri possibili tramiti dell’art. 360. L’operazione è chiarissima nella sentenza della sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892, che, pur dichiarando inammissibili vari motivi fondati sia sul n. 3) che sul n. 5) e che denunziavano da varie prospettive violazione e falsa applicazione delle norme sulla valutazione delle prove, osserva, in obiter, che «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, non essendo incasellabile né nel paradigma del n. 5), né in quello del n. 4) (per il tramite della deduzione della violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4) … non trova di per sé alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione». Ma ciò, continua la Corte, non priva il ricorrente di ogni tutela a fronte dell’illegittimo esercizio del potere di valutazione delle prove, potendosi ipotizzare la possibilità di «svolgere considerazioni sul cattivo esercizio del detto potere non già sub specie di denuncia in sé e per sé di un vizio della sentenza impugnata, bensì solo in funzione e, quindi, come elemento di un’attività di dimostrazione che il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l’abbia indotto in ultima analisi ad applicare erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio. Sicché il motivo di ricorso sia la denuncia di tale erronea applicazione.[22] Si può dunque ipotizzare che dette considerazioni possano e debbano necessariamente incasellarsi solo come elemento di un ben più articolato quadro evidenziatore della deduzione di un error in iudicando ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), circa la norma applicabile ed applicata alla fattispecie». Precisandosi che, «in pratica, potrebbe ipotizzarsi che la critica all’esercizio concreto del potere di cui all’art. 116 c.p.c. si collochi come parte di un ragionamento più ampio che giustifichi innanzitutto in termini di necessarietà logica una ricostruzione della quaestio facti sulla base del materiale probatorio diversa da quella operata dal giudice di merito e per tale ragione evidenzi che egli ha mal sussunto la vicenda sotto la norma che ha applicato, perché tale norma non sarebbe stata applicabile se la ricostruzione fosse stata quella esatta. Una siffatta attività argomentativa sarebbe diretta ad evidenziare un errore di sussunzione della fattispecie concreta e di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, dunque, della motivazione in iure, ma essa supporrebbe, in ossequio ai requisiti di chiarezza necessari in ogni motivo di impugnazione, l’articolazione dell’esposizione di un siffatto motivo in modo puntuale secondo le scansioni progressive appena sopra indicate».
Insomma, la sentenza indica la strada del n. 3), anche se forza il concetto di sussunzione e con esso la configurazione del vizio di violazione e falsa applicazione, che slitta dal diritto al fatto.
Sempre la sez. III, 5 luglio 2017, n. 16502, ha affermato il seguente principio: «pur essendo, dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ridotto al minimo costituzionale il controllo di legittimità sulla motivazione, soprattutto in punto di fatto, nonché restando riservata istituzionalmente al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie, la Corte di cassazione può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie». In motivazione, la Corte precisa che «nel giudizio di fatto – il quale tende alla ricostruzione e cioè alla rappresentazione di una serie di dati empirici esterni al processo al fine di sottoporli alla valutazione del giudicante ed al successivo giudizio di diritto – è necessario che il giudice del merito verifichi l’esistenza di fatti noti acquisiti al processo, appunto provati, per applicarvi massime di esperienza verificate o condivise e giungere, in base ad un procedimento inferenziale, a ritenere provati i fatti ignoti ovvero ancora da ricostruire nella loro struttura obiettiva, applicando il noto canone del prudente apprezzamento. E, se è vero che il controllo di questa Corte di legittimità non può mai spingersi a valutare l’esito del suddetto procedimento logico (Cass. Sez. U., n. 8053 del 2014, cit., punto 14.8.3) e quindi il risultato della concreta modalità di esercizio del prudente apprezzamento del giudice del merito nella valutazione del materiale istruttorio, tuttavia un tale controllo, pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità - o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità - della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente. A mano a mano che la prudenza nell’apprezzamento cessa di essere una regola generale di giudizio e finisce con il qualificare necessariamente gli elementi costitutivi della fattispecie, tanto da inficiarne la concreta sua qualificazione e renderne non corretta la sussunzione proposta, si estende allora – sia pure col persistente, serio ed inviolabile, limite dell’intangibilità del risultato – il controllo sulla congruità della motivazione ancora possibile da parte di questa Corte sulla motivazione in fatto anche dopo la novella del 2012: se violata è solo la regola generale dell’art. 115 c.p.c., rileveranno solo quei vizi talmente macroscopici da rendere evidente che, a dispetto delle apparenze, nessuna effettiva giustificazione della conseguenza può dirsi operata nella specie; ad esempio, quelli nell’individuazione della regola di esperienza (sia essa logica od empirica), ovvero quelli nella costruzione della relativa inferenza, mediante l’avvalimento di una più o meno ampia discrezionalità a seconda dei postulati di quella regola».
Il ricorso viene accolto, riferendo le censure fondate sul n. 5) alla violazione e falsa applicazione oggetto di altro motivo fondato sul n. 3).[23]
7. Ancora precedenti da segnaletica?
Salutati dai commentatori nei termini di un salutare ritorno della Cassazione al controllo del giudizio di fatto, i precedenti del 2016 e 2017[24] possono, in realtà, essere classificati ancora nel contesto della segnaletica: essi ridefiniscono un percorso, che prima del 2012 conduceva al n. 5), e che ora (in questo le decisioni sembrano convergere) potrà condurre al n. 3): il cui ambito applicativo viene slabbrato per la finalità di ricomprendervi un controllo sul giudizio di fatto, di cui prima non si avvertiva la necessità perché era garantito dal vecchio testo del n. 5). Il cui nuovo testo, quindi, non pone soltanto un problema di redistribuzione, ma anche di ridefinizione della portata dei motivi – specie il n. 3), a quanto sembra – che dovranno acconciarsi ad accogliere le censure di logicità.
Resta la difficoltà di inquadrare quel che di nuovo c’è nel n. 5) attuale, che rischia di sfuggirci nonostante tutti gli sforzi classificatori.
Una parte della dottrina ha sottolineato la prossimità di tale vizio “nuovo” all’errore revocatorio, del quale sarebbe quasi un completamento: l’elemento in comune sarebbe che esso potrà risultare dal raffronto anche col fascicolo di causa, e spetterà al ricorrente individuarne il luogo specifico grazie al motivo “autosufficiente”; l’elemento differenziale sarebbe nel suo carattere controverso tra le parti e nel suo essere quindi autentico errore di giudizio; laddove l’errore revocatorio, quale abbaglio dei sensi, è tutt’altro che errore di giudizio e tanto è chiarissimo nella giurisprudenza della Corte sull’art. 391 bis c.p.c.
Si può tentare una verifica al contrario: prima della riforma del 2012, che regime aveva l’omesso esame del fatto decisivo e controverso? La risposta può forse essere nel senso che soccorreva il vizio di motivazione qualora l’omissione di quel fatto fosse stata percepibile dalla motivazione, sul presupposto della sua concezione “formale”; ancora il vecchio n. 5) poteva soccorrere qualora si accedesse alla lezione “sostanziale” della motivazione, in termini di rapporto tra giustificazione della decisione e materiale istruttorio acquisito al giudizio e valutato secondo i dettami dell’art. 116 c.p.c.: un prudente apprezzamento sottoposto a controllo di logicità; altrimenti, il vizio poteva rifluire nel n. 3), secondo quanto deciso ora dalla sent. n. 11892/2016, come error in iudicando di individuazione della fattispecie, di riconduzione del “fatto” alla “norma”: secondo le chiare parole della sentenza, «il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l’abbia indotto in ultima analisi ad applicare erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio».
Ma, certo, una cosa va detta: se si abbandona l’idea più classica del controllo sulla motivazione, quale giustificazione del percorso logico seguito dal giudice e rappresentazione degli elementi probatori su cui è stato fondato il giudizio di fatto, e se quindi si considera l’omissione dell’attuale n. 5) quale vizio che potrà risultare (ma anche non risultare) dalla motivazione che è pur sempre un posterius rispetto alla ricostruzione del “fatto”, la conclusione che si potrà facilmente attingere è che la norma attuale pone il giudice di legittimità direttamente dinanzi all’esame del fatto e dinanzi al materiale istruttorio, senza più la mediazione rappresentata dalla motivazione.
Paradossalmente, così inteso il nuovo n. 5) rende la Cassazione interprete del “fatto storico”, che è quanto di più lontano dalle funzioni di legittimità.
8. I contesti
Se ne sentiva il bisogno?
Torniamo al contesto del decreto-legge: in un provvedimento omnibus dedicato al primato dell’economia, una norma imprecisa sin dalla sua rubrica ha introdotto modifiche al giudizio di appello, di cui s’è detto, e ha modificato il n. 5) dell’art. 360 riportandolo alla stesura del 1942.
L’obiettivo, dichiarato, era quello di ridurre l’accesso alla Cassazione quanto (genericamente) alle “questioni di fatto”, sul fallace presupposto della possibilità d’una netta distinzione tra “fatto” e “diritto” e senza tener conto che nella pratica del giudizio di legittimità era piuttosto rara la proposizione del motivo n. 5) non coordinata con altro motivo, in generale il n. 3). Ciò per i problemi di cui s’è fatta carico, ora, l’elaborata sentenza n. 11892/2016: “fatto” e “diritto” sono spesso un groviglio indistinguibile, perché una certa qualificazione in diritto consente a valle di selezionare certi fatti, e la costruzione coi fatti di una determinata fattispecie richiama l’applicazione di una determinata norma di diritto.
L’intervento sul n. 5) è stato poi realizzato tenendo conto di altri contesti, che sembra opportuno ricordare.
Punto di partenza di una prima ricognizione è l’art. 16, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, in tema di processo societario (abrogato con legge n. 69/2009), che – a proposito della motivazione – prevedeva: La sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi.
La stessa legge n. 69/2009, che ha appunto abrogato l’intero processo societario salvando soltanto le disposizioni speciali sull’arbitrato, ha modificato l’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c.: La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Anche l’art. 132 c.p.c. è stato modificato dalla legge n. 69/2009, con la previsione secondo cui la sentenza deve contenere: 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Un ulteriore tentativo di semplificazione nella redazione della motivazione della sentenza era stato tentato col D.L. n. 69/2013 intervenendo sull’art. 118 disp. att. c.p.c., ma la novellazione non è stata confermata dalla legge di conversione n. 98/2013.[25] Sono seguite proposte, immediatamente abbandonate, che chiamavano gli avvocati indicati dai Consigli dell’Ordine a motivare i dispositivi dei giudici, così trasformando, in sostanza, le sentenze in verdetti privi di qualsiasi “giustificazione” (quella appiccicata a cose già fatte da un terzo estraneo al processo non può essere seriamente considerata una motivazione).
È nel descritto contesto che il decreto-legge del 2012 ha deciso di allentare i controlli sulla motivazione, in ciò favorito dall’attuale tendenza della Cassazione a premiare lo jus constitutionis, ponendosi come giudice più della legge che dei conflitti.
Altro contesto da considerare è quello della selezione dei ricorsi, che ancora la legge n. 69/2009 aveva tentato con l’introduzione dell’art. 360 bis c.p.c.: norma, rapidamente caduta nell’oblio, che la stessa Cassazione non ha potuto interpretare per non aver potuto scioglierne l’ambiguità di fondo: considerare un sommario e preliminare esame del merito alla stregua di una prescrizione di ammissibilità. Per selezionare i ricorsi, la Corte ha dovuto continuare a far uso dei suoi sperimentati cavalli di battaglia pretòri: l’autosufficienza del ricorso e la specificità del motivo. Si tratta di strumenti più che bastevoli per mandare al macero un numero elevatissimo di ricorsi, non fosse che spesso la Corte, dopo averli dichiarati inammissibili o improcedibili, li esamina anche nel merito con dettagliate trattazioni.[26]
In questo ambiente indubbiamente difficile, che la Cassazione, dopo la riforma del 2012, continui a interrogarsi sui limiti del controllo a lei riservato, ossia se esso debba limitarsi alla legittimità ovvero estendersi alla logicità, è un segno confortante di vitalità della Corte.
9. Qualche telegrafica considerazione finale
A distanza di quasi due lustri, che valutazione dare della riforma estiva del 2012?
Il grosso delle nuove norme è caduto nell’oblio.
Del resto, è caduto nello stesso oblio anche l’art. 360 bis c.p.c., a testimonianza della difficoltà che la Corte incontra a selezionare al proprio interno i ricorsi meritevoli di essere definiti con pronunce non di mero rito.
La riforma del n. 5) ha sollevato varie questioni, al termine delle quali ciò che emerge è che la Corte ben difficilmente potrà rinunciare al controllo di logicità dei giudicati, perché tale funzione appartiene alla sua storia e perché i consiglieri, che sono stati giudici di merito, non possono essere insensibili alla giustizia, oltre che alla legittimità, delle decisioni soggette al loro controllo. Ma molte energie sono state inutilmente disperse in segnaletica, identificazione del veicolo, definizione del vizio specifico e in generale per tentare di assorbire in un disegno razionale un intervento legislativo rozzo, inquinato dai contesti che abbiamo indicato.
A nessuno viene in mente che per sgravare la Cassazione dal peso che la sta schiacciando occorrerebbe lavorare sui gradini inferiori della piramide, per aumentare il grado di accettabilità delle decisioni dei giudici di merito.
A nessuno viene in mente che occorre lavorare non sui respingimenti del contenzioso, ma sulla qualità e la giustizia delle sentenze dei giudici di merito.
A nessuno viene in mente che, riconosciuto (dal 1990) ruolo centrale al giudizio di primo grado e carattere provvisoriamente esecutivo alla sentenza che lo definisce, i magistrati migliori e più esperti dovrebbero essere impiegati proprio in quel grado, perché è lì che va migliorata la risposta della giurisdizione.
[1] Riporto di seguito le massime: «a) la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso».
[2] L’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (così, tra le tante, Cass., Sez. VI – 5, Ord., 8 novembre 2018, n. 28623).
[3] Così Cass., Sez. II, Ord. 22 agosto 2019, n. 21572.
[4] SS.UU., Sent. 25 giugno 2019, n. 16983.
[5] Così, ad es., Cass., Sez. V, Ord. 15 dicembre 2020, n. 28588.
[6] Cass., Sez. VI - 5 Ord. 7 ottobre 2019, n. 25005. Ogni censura deve peraltro rispondere a propri canoni di specificità: non certo a caso questo requisito, nella più recente giurisprudenza di legittimità, va sovrastando quello, più discusso anche all’interno della Corte, dell’autosufficienza: così, ad es., l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (così, Cass., Sez. Unite, Sent. 28/10/2020, n. 23745). Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte medesima di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione. Difatti, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicché sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (Cass., Sez. VI – 3, Ord. 7/01/2021, n. 54). Altro esempio: l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, di talché il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass., Sez. VI – 5, Ord. 4/06/2019, n. 15233, ove l’utilizzo ripetuto del termine “specifico” risulta addirittura ossessivo).
[7] Cfr., ad es., Cass. 18 ottobre 2018, n. 26305.
[8] In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto: così Cass., Sez. VI - 3, Sent. 14 febbraio 2014, n. 3437; Cass., Sez. I, Ord. 3 dicembre 2020, n. 27704.
[9] Vedi SS.UU. 24 luglio 2013, n. 17931.
[10] Secondo Cass., Sez. I, 11 agosto 2004, n. 15499, «il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa …; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa».
[11] Cass., Sez. I, 5 luglio 2019, n. 18182.
[12] Così da ultimo Cass., Sez. VI - 3, Ord. 24 giugno 2020, n. 12387.
[13] V., ad es., Cass., Sez. III, 5 luglio 2017, n. 16502.
[14] Cass., Sez. I, 20 gennaio 2021, n. 976.
[15] Cass., Sez. Unite, 12 novembre 2020, n. 25574.
[16] Cass., Sez. I, 5 marzo 2014, n. 5133.
[17] Cass., Sez. lav., Ord. 23 ottobre 2020, n. 23365.
[18] Si consideri, ad es., la seguente massima: è viziata da omesso esame di un fatto decisivo la sentenza di merito che, in caso di evizione totale, reputi il danno risarcibile dal notaio sempre esistente e commisurabile al valore del bene oggetto di evizione a prescindere dalla circostanza, pur indicata in sentenza, che un prezzo di acquisto non sia stato mai corrisposto: così Cass., Sez. I, Ord. 3 luglio 2019, n. 17810.
[19] Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord., 24 giugno 2020, n. 12387.
[20] Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 3 gennaio 2020, n. 29.
[21] Principio del tutto pacifico: da ultimo, Cass., Sez. V, Ord. 27 ottobre 2020, n. 23534.
[22] V. però retro, nota n. 9.
[23] La Corte motiva: «Nonostante la manifesta erroneità del riferimento degli ultimi tre motivi ad una norma processuale non più applicabile, cioè il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), anteriore alla riforma arrecata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modif. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (e tanto in forza della disciplina transitoria, di cui al comma 3 del medesimo art. 54 cit., per essere stata la sentenza pubblicata in data successiva al giorno 11/09/2012), è convinta opinione del Collegio che le doglianze dei ricorrenti, complessivamente considerate per la loro intima connessione siccome rivolte avverso l’intrinseca consequenzialità e coerenza logica del giudizio sulla collocazione temporale dell’exordium praescriptionis, devono qualificarsi fondate: in particolare a tal fine rilevando i fatti resi oggetto dei motivi dal terzo al quinto compresi ai fini della dedotta illegittimità della conclusione sull’applicazione concreta dell’art. 2935 c.c., come operata appunto dalla corte territoriale, resa a sua volta oggetto della prima parte del primo motivo di ricorso». I motivi dal terzo al quinto erano, appunto, fondati sul n. 5).
[24] Ma nella giurisprudenza di legittimità si trova un po’ di tutto: ad es., Cass., Sez. II, Sent. 12 giugno 2018, n. 15321, ha deciso che «la genericità del rinvio alle argomentazioni del c.t.u. ed il ricorso a mere clausole di stile per esprimere la condivisione delle conclusioni peritali (anche con riferimento soprattutto al “quantum” del credito risarcitorio, soprattutto quando sia possibile enucleare diversi titoli di responsabilità, non tutti dedotti in giudizio, ed emerga una corresponsabilità tra più soggetti da percentualizzare, come nel caso di specie) e il dissenso dalle critiche mosse dalle parti, non è compatibile con l’obbligo di adeguata motivazione incombente sul giudice di merito qualora siano espresse, a fronte di dette conclusioni, specifiche censure», e tale difetto di “adeguata motivazione” ha comportato l’accoglimento di un motivo fondato sul n. 5) (ma senza una specifica motivazione sul possibile contenuto delle censure in tesi relative a questo motivo).
[25] Questo il testo dell’art. 118 disp. att. c.p.c., recato dal D.L. e non approvato in sede di conversione: La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa. Nel caso previsto nell’articolo 114 debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione.
[26] Un caso davvero paradigmatico è dato dalla Cass., Sez. III, Sent. 5 giugno 2020, n. 10816, che nei primi 3 punti della motivazione spiega perché il ricorso è improcedibile, e dal 4 in poi («Sebbene il rilievo che precede sia assorbente, ritiene questa Corte di mettere in evidenza che, ove del ricorso si fosse potuto esaminare il merito, esso sarebbe stato comunque infondato») per altri 4 punti spiega perché il ricorso sarebbe stato anche infondato nel merito.