La forza del precedente delle Sezioni Unite alla prova della “revocatoria tra fallimenti”(nota a Cass.S.U. n.12476/2020)
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. La “revocatoria tra fallimenti” - 2. Il primo tentativo: la Sezioni Unite del 2018 - 3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019 - 4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020 - 5. A mo’ di conclusioni.
1. La “revocatoria tra fallimenti”.
Il tema che si intende affrontare in queste brevi note concerne un classico del diritto fallimentare: l’ammissibilità della revocatoria degli atti traslativi, nel caso di fallimento dell’accipiens intervenuto prima della domanda del creditore.
Si tratta di una problematica certo non di grandissimo impatto in termini numerici negli uffici giudiziari italiani e spesso caratterizzata dalla presenza di una curatela fallimentare – quella del cedente – (chè è difficile immaginare un creditore che si muova autonomamente per la revocatoria di un atto traslativo contro una procedura fallimentare), la quale agisce in giudizio contro altra curatela fallimentare, quella del cessionario, al fine di ottenere, previa declaratoria di inefficacia dell’atto traslativo, la restituzione del bene ceduto: da qui nel linguaggio corrente la definizione, forse sbrigativa ma efficace, della tematica come “revocatoria tra fallimenti”.
Ora, durante i primi settant’anni dall’entrata in vigore della legge fallimentare del ’42, la Cassazione assai di rado si era occupata ex professo della revocatoria tra fallimenti; e tuttavia, all’inizio del decennio scorso, in due precedenti l’uno in rapida successione all’altro, la S.C. affermò seccamente che non è ammissibile promuovere l'azione revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento, stante, da un lato, il principio della c.d. “cristallizzazione” del passivo alla data di apertura del concorso e, dall’altro, la natura costitutiva della detta azione revocatoria (Cass. 12 maggio 2011, n. 10486; Cass. 8 marzo 2012, n. 3672).
Questa soluzione, tuttavia, come evidenziato in dottrina (De Santis, in Fall., 2019), lascia nell’interprete la spiacevole sensazione di un vero e proprio vuoto di tutela, perché i creditori del venditore vengono ineluttabilmente a trovarsi privati della garanzia patrimoniale generica costituita dal bene venduto, e ciò solo a causa di un accidente del tutto estraneo alla loro sfera di volontà: la dichiarazione di fallimento del cessionario intervenuta prima della notifica dell’atto di citazione.
Da questa evidente disarmonia del sistema nascono gli sforzi – che definirei pervicaci – messi in atto negli ultimi anni dalla Prima sezione civile della S.C. nel dialogo diretto con le sue Sezioni Unite, tesi ad individuare un rimedio giuridico che, superando la barriera dell’inammissibilità, consentisse di accordare tutela anche alle ragioni dei creditori del cedente.
2. Il primo tentativo: le Sezioni Unite del 2018
Le vicende processuali che andiamo in prosieguo di questo scritto a raccontare, prendono le mosse appunto da una ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile (Cass. 25 gennaio 2018, n. 1894), che nel caso concernente una azione revocatoria ordinaria dell’atto di cessione di azienda in favore di una società – successivamente dichiarata fallita –, avviata dal curatore del cedente dopo l’apertura del concorso del cessionario, dispose la trasmissione degli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, segnalando l’esistenza di un contrasto sull’ammissibilità o meno dell'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento e valutando, comunque, la questione come di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, c.p.c.
Chiamate allora a pronunciarsi per la prima volta sul quesito dell’ammissibilità della revocatoria tra fallimenti, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 23 novembre 2018, n. 30416), anzitutto, chiarirono che non si rinveniva alcun contrasto tra le decisioni delle sezioni semplici, atteso che le pronunce indicate dall'ordinanza interlocutoria, come espressive di un difforme orientamento rispetto a quello più recente (rappresentato dalle citate Cass. n. 10486 del 2011 e Cass. n. 3672 del 2012), avevano deciso su quesiti estranei a quello in esame.
Difettavano dunque i presupposti di un intervento di ricomposizione dell'ipotizzato (ma, in realtà, inesistente) contrasto di giurisprudenza; trattandosi peraltro di questione sottoposta come «di massima di particolare importanza», le Sezioni Unite affrontarono i tre principali argomenti prescelti dall’ordinanza interlocutoria, così riassunti:
a) la ritenuta efficacia retroattiva dell’azione revocatoria, corroborata dalla circostanza che il debito restitutorio è un debito di valore e che gli interessi sulla somma da restituire decorrono dalla data di costituzione in mora, con la conseguente incidenza di tali regole sul c.d. principio di cristallizzazione della massa passiva;
b) l'affermazione che l'azione revocatoria, «secondo una convincente opinione, emersa in dottrina», costituirebbe una «azione di accertamento con effetti costitutivi» diretta a ricostituire la garanzia patrimoniale del debitore che, quindi, non incontrerebbe il divieto dell'art. 51 l.fall., che impone di realizzare il credito con le forme e nell’osservanza del rito fallimentare;
c) la rilevanza, sul piano sistematico, dell’art. 91 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, che disciplina la c.d. revocatoria aggravata infragruppo.
Orbene, a parere delle Sezioni Unite del ‘18, tutti gli argomenti compendiati sub a) e b) non risultavano persuasivi.
Invero, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la S.C. ebbe ad affermare il principio secondo cui l’azione revocatoria fallimentare, spiegata ai sensi dell'art 67 l.fall., dà luogo ad una sentenza con effetti costitutivi.
E le Sezioni Unite, nel 1996, dettarono il principio secondo cui «la sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943, ultimo comma, c.c.)».
Simili affermazioni vennero poi ribadite e argomentate da molte altre decisioni, a proposito della natura del debito da restituirsi e degli interessi da calcolarsi sullo stesso (tra le tante, Cass. 30 luglio 2012, n. 13560).
In forza dei ridetti richiami, le Sezioni Unite del ’18 possono affermare come «pacifico e stabilizzato», l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura costitutiva della sentenza in esame.
Dalla natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda revocatoria, poi, consegue che, poiché gli effetti tipici della stessa sono quelli della creazione di una situazione giuridica nuova, l’inammissibilità dell'azione de qua appare saldamente fondata sulla regola della c.d. “cristallizzazione” della massa passiva alla data del fallimento.
È infatti proprio la regola della cristallizzazione della massa passiva, secondo le Sezioni Unite del ’18, che impedisce di invocare nei confronti del fallimento una pretesa giuridica che si produce soltanto a seguito della sentenza di accoglimento della domanda. L'effetto dell'inefficacia dell'atto revocando, che è propriamente il centro della pronuncia di accoglimento dell'azione revocatoria, si costituisce esclusivamente con la pronuncia giudiziale di revoca, sicché si può parlare di “diritto quesito” alla revoca solo se la causa sia stata promossa prima del fallimento e se la domanda sia stata trascritta anteriormente al fallimento del terzo che subisce l’azione revocatoria ordinaria.
Quanto all’argomento sub c), quello che evocava la previsione dell'art. 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, secondo la sentenza di cui si discorre il richiamo non appariva pertinente, poiché riguardava una procedura “speciale”, ancorata a presupposti specifici – con i connessi problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare –, che non consentivano di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della detta regola anche alle procedure fallimentari, oltre il caso dalla stessa disciplinato (che è quello del compimento di atti tra imprese facenti parte di uno stesso gruppo di imprese).
Alla luce dei ragionamenti sopra esposti, il principio di diritto che conclusivamente intese esprimere Cass. S.U. n. 30416 del 2018 appare netto: «È inammissibile l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, esperita nei confronti di un fallimento, trattandosi di un'azione costitutiva che modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente ed operando il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori».
3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019
Ma ecco che a distanza di pochi mesi dall’arresto delle Sezioni Unite, la Prima sezione civile (Cass. 23 luglio 2019, n. 19881) ci riprova, anche sulla spinta delle reazioni alla decisione della S.C., invero assai tiepide, registratesi nella dottrina (Campione, in Dir. Fall., 2019; Fabiani, in Riv. dir. proc., 2019).
Pure nel nuovo caso all’esame della S.C. si era in presenza di una cessione d’azienda in favore di società poi fallita, oggetto tuttavia di una domanda di rivendica di beni mobili ex art. 103 l.fall., sull’assunto dell’inefficacia dell’atto traslativo, promossa dopo la dichiarazione di fallimento del cessionario; con la citata ordinanza interlocutoria, mostrando di non ritenersi appagata dalle conclusioni cui erano giunte assai di recente le S.U., la Prima sezione civile rimette gli atti al Primo presidente della S.C. per sollecitare una rimeditazione del detto orientamento.
L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, stavolta, enuclea ben quattro argomenti a sostegno del suo secondo tentativo di rimettere in discussione la tesi dell’inammissibilità della revocatoria tra fallimenti.
i) Anzitutto, il provvedimento in esame segnala le novità introdotte dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito breviter c.c.i.), la cui disciplina, sebbene pacificamente non applicabile ratione temporis, avrebbe «fini interpretativi e ricostruttivi, perché, da un lato, la stessa fa ora parte integrante dell'ordinamento positivo (nonostante la lunga vacatio legis prevista) e perché, dall'altro, segna un'evidente incrinatura nelle argomentazioni spese dalle Sezioni Unite nel precedente arresto».
In particolare, il collegio richiama l’art. 290, comma 3, c.c.i. che ha fissato la regola a tenore della quale Il curatore della procedura di liquidazione giudiziaria aperta nei confronti delle altre società del gruppo può esercitare, «nei confronti delle altre società del gruppo», l'azione revocatoria.
ii) Ancora, l’ordinanza interlocutoria sottolinea come la giurisprudenza di legittimità richiamata nella sentenza delle Sezioni Unite del ‘18, si fosse occupata esclusivamente di revocatorie fallimentari aventi a oggetto pagamenti del fallito e, lungi dal confrontarsi con il fallimento dell'accipiens, era stata chiamata a risolvere sempre problemi quali la decorrenza della prescrizione dell’azione e la natura “di valore” o “di valuta” dell'obbligazione restitutoria gravante sul terzo in bonis.
iii) Inoltre, secondo il Collegio della sezione semplice è vero che le Sezioni Unite nella sentenza del ‘18, precisano che la revocatoria è consentita nell'ipotesi in cui la relativa domanda sia stata trascritta anteriormente alla trascrizione della sentenza che ha aperto il fallimento. Tuttavia, non tutte le domande giudiziali sono trascrivibili, laddove tutti gli atti dispositivi (a prescindere dal loro oggetto) sono astrattamente revocabili, ai sensi degli artt. 2901 c.c., 66 e 67 l.fall.; ciò significa, secondo il provvedimento in esame, che per i beni – in relazione ai quali non è prevista la trascrizione della domanda giudiziale in pubblici registri – mancherebbe la possibilità di rendere opponibile al fallimento dell'acquirente una domanda revocatoria.
iv) Infine, dubbi sorgerebbero con riferimento al concetto di “cristallizzazione” del patrimonio adottato dalle S.U. del ’18. Cristallizzazione significa fissazione della massa passiva al momento della dichiarazione, nel senso di irrilevanza di nuove obbligazioni, o di aggravio di preesistenti, in capo al fallito, cioè di sopravvenienze: sopravvenienza non potrebbe, tuttavia, considerarsi la soggezione a revoca di preesistenti acquisti.
Non sarebbe infatti vero – come invece avrebbero l’anno prima sostenuto le Sezioni Unite – che la sentenza d'accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, limiti la sua retroattività alla data della domanda, perché la revoca ha ad oggetto l’atto alla data del suo compimento. Al riguardo, sarebbe sufficiente considerare che la norma dell'art. 2652, n. 5), c.c. – quella che sottrae all'effetto revocatorio l’acquisto dei sub acquirenti di buona fede –, ha un senso solo quale eccezione alla regola per cui il successivo acquirente dall’avente causa acquista cum onere, evenienza quest'ultima che, a sua volta, postula che l'accoglimento della revocatoria retroagisca alla data di acquisto del suo dante causa.
4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020
Dunque, a distanza di meno di due anni dal precedente arresto, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 24 giugno 2020, n. 12476), tornano a pronunciarsi sul tema della “revocatoria tra fallimenti”.
La linea motivazionale della sentenza in commento è chiaramente ispirata dall’esigenza di tenere fermi gli insegnamenti della Cassazione, che erano stati acclarati come consolidati dal recentissimo precedente del 2018.
Anzitutto, non persuade il Collegio la tesi fondata sulle novità in tema di revocatorie infragruppo contenute nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, trattandosi del frutto di una scelta legislativa – completamente nuova e distinta – di disciplinare in modo specifico l’insolvenza del gruppo societario in sé considerato; «scelta nuova e distinta che corrisponde a un inedito dettame della legge delega, e quindi non tale da poter essere utilmente richiamata col fine di incidere sull’esegesi di inesistenti norme anteriori».
Quanto ai dubbi avanzati dall’ordinanza interlocutoria in ordine alla natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, sempre le Sezioni Unite ricordano che essa costituisce espressione di un insegnamento «sedimentato, logico e assolutamente coerente», basato sulla considerazione che la sentenza modifica ex post una situazione giuridica preesistente e che risulta avallato da ben tre sentenze della S.C. a Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5443 del 1996, Cass. S.U. n. 437 del 2000 e, infine, appunto, Cass. S.U. n. 30416 del 2018).
Pure mostrando di volersi muovere in maniera rigorosa lungo il solco tracciato dal precedente del ’18, le Sezioni Unite del ‘20, ambiscono, tuttavia, a superarne le conclusioni in termini di radicale inammissibilità dell’azione revocatoria.
Invero, secondo la sentenza in parola, è anzitutto opportuno chiarire che in tema di revocatoria dell’atto di trasferimento di un bene, la sopravvenienza del fallimento dell’accipiens assume rilevanza a causa del principio di “cristallizzazione” non del passivo – come aveva sostenuto la sentenza del ’18 e, sulla sua scia, pure l’interlocutoria del ’19 –, bensì, esattamente al contrario, per il principio di “cristallizzazione” dell’attivo o del cd. asse fallimentare.
In altre parole, nel sistema della legge fallimentare l’apertura della procedura apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito “per titolo anteriore alla sentenza”; ora, se la domanda revocatoria è successiva al fallimento dell'acquirente, ove potesse essere in thesi accolta, essa finirebbe per recuperare il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell’alienante e quindi, specularmente, per determinare la sottrazione del bene medesimo alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente, sulla base di un titolo giudiziale formatosi dopo la sentenza dichiarativa del fallimento di costui: tutto ciò, chiaramente, non è consentito dall’ordinamento, perché contrasta col complesso di regole desumibili dagli artt. 42, 44, 45, 51 e 52 l.fall.
E allora, secondo la pronuncia in esame, occorre partire da un elemento che può dirsi pacifico nella giurisprudenza della S.C.: oggetto della domanda di revocatoria (sia essa ordinaria che fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità del bene a esecuzione (tra le tante, Cass. 8 novembre 2017, n. 26425).
Dunque, il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all'interesse di quei creditori, soltanto per il suo valore; ciò consente agevolmente di affermare che il fallimento dell’accipiens, dichiarato dopo l’atto di alienazione, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, «non anche di quella restitutoria per equivalente, parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale».
Ne discende, secondo le Sezioni Unite del ‘20, che, in maniera non dissimile da quanto accade quando il bene sottratto ai creditori sia stato già ceduto ad un terzo sub acquirente (purché con atto già trascritto), il fatto storico del fallimento dell’acquirente impedisce al creditore di recuperare il bene onde esercitare su questo l’azione esecutiva, ma non certo di insinuarsi al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore.
Così argomentando, finalmente, il massimo organo della nomofilachia può giungere alla conclusione che l’azione revocatoria di un atto di trasferimento di un bene in favore dell’accipiens poi fallito deve ritenersi ammissibile, alla sola condizione che essa venga esercitata non mediante una ordinaria azione costitutiva tesa alla declaratoria di inefficacia dell’atto di cessione del bene venduto onde recuperarlo in vista della sua liquidazione forzata, bensì con una «domanda restitutoria per equivalente», che stante l’indefettibilità del procedimento di insinuazione al passivo dovrà manifestarsi nella forme della domanda ex art. 93 l.fall.; e sempre che naturalmente il creditore del cedente (ovvero, in caso di fallimento di quest’ultimo, il curatore che ne rappresenta la massa) chieda al giudice delegato del fallimento del cessionario «la delibazione della pregiudiziale costitutiva».
5. A mo' di conclusioni
L’aspetto apparentemente singolare che accumuna entrambe le vicende processuali sin qui narrate è che, sia nel 2018 come nel 2020, le curatele dell’alienante ricorrenti in cassazione – poiché ancora una volta si trattava di casi in cui erano stati dichiarati falliti entrambi i contraenti – rimangono alla fine del lungo iter giudiziario entrambe soccombenti: la prima volta perché la revocatoria ordinaria nei confronti del fallimento del cessionario venne dichiarata tout court inammissibile e la seconda, essendo stata proposta una domanda di rivendica dei beni oggetto dell’azienda ceduta e non quella – l’unica ritenuta ammissibile – di insinuazione al passivo per il loro controvalore.
Credo, tuttavia, che al di là del comune esito infausto per le procedure ricorrenti, possa tranquillamente affermarsi che nella progressione dall’arresto del ’18 a quello del ’20, pure mostrando un formale ossequio alla tesi della natura costitutiva dell’azione revocatoria, le Sezioni Unite – a costo di sottoporre ad una certa torsione il c.d. principio della stabilità del precedente, viuppiù degno di considerazione quando si tratta di rimeditare un arresto delle Sezioni Unite (come si coglie appieno dalla lettura dell’art. 374 c.p.c.) – abbiano inteso manifestare l’apprezzabile tentativo di individuare una strada per assicurare l’effettività della tutela alle ragioni del creditore dell’alienante.
Insomma, se la n. 30416 del 2018 si era fermata di fronte all’ostacolo ritenuto insormontabile della natura costitutiva dell’azione, la n. 12476 del 2020 che qui si commenta, ha certamente il merito di avere sagacemente individuato, sollecitata dalla seconda ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, nell’insinuazione al passivo per il controvalore del bene trasferito, la chiave giuridica che consente di aprire la porta alla massa dei creditori del cedente che invocano la tutela delle loro ragioni.
C’è da sperare, allora, che il descritto revirement delle Sezioni Unite della S.C., consenta finalmente in futuro ai curatori dei falliti che ha posto in essere atti di dismissione del proprio patrimonio nel c.d. periodo sospetto, di imbroccare la strada giusta per la tutela degli interessi della massa, nel giusto bilanciamento con gli interessi dell’altra massa, quella dei creditori dell’accipiens.