GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    ​G. Canzio - F. Fiecconi, GIUSTIZIA per una riforma che guarda all'Europa, Milano, 2021. Recensione di R. Conti

    G. Canzio - F. Fiecconi, GIUSTIZIA per una riforma che guarda all'Europa, Vita e pensiero, Milano, 2021.

    Recensione di R. Conti

    Qual è il contesto nel quale Gianni Canzio e Francesca Fiecconi hanno messo mano al libro “Giustizia per una riforma che guarda all’Europa” edito da Vita e Pensiero?

    Il mondo della giustizia appare sempre più popolato da una pluralità di conflitti e problemi, interni alla magistratura ed esterni.

    Fra i primi emergono, nemmeno sotto traccia, le diversità di accenti ed i distinguishing fra giudici di merito e giudice di legittimità, quest’ultimo spesso accusato dai primi di svolgere una funzione notarile e legalistica, lontana dalla carnalità delle vicende esaminate nel merito.

    Conflitti che coinvolgono, per altro verso, la  Cassazione, la Corte costituzionale e le Corti sovranazionali - di Giustizia dell’Unione europea e dei diritti dell’uomo - i rapporti fra Costituzione e Carte dei diritti fondamentali a tratti protagonisti di vere e proprie “guerre” che hanno dato l’impressione di superare la normale dialettica fra diversi plessi giurisdizionali per mostrarsi come meno commendevoli tentativi di accaparramento  del ruolo di “guida” e di primato nell’interpretazione della Costituzione e delle Carte dei diritti sovranazionali.

    Conflitti, ancora, ormai storicamente pervadono i rapporti  fra magistratura e legislatore e sempre di più il mondo della giustizia e quello della comunicazione, ponendo in quest’ultimo ambito l’interrogativo sul modo con il quale la giustizia comunica sé stessa, sulla tendenza dei mezzi di informazione, cani da guardia della democrazie, a surrogarsi alla giustizia con processi mediatici che, privi delle garanzie tipiche dei processi, mettono in crisi l’apparato giudiziario, a volte condizionandone l’azione, la credibilità e l’autonomia.

    Insomma, è questo un tempo nel quale la rappresentazione della giustizia si associa all’idea dei “problemi” che attorno ad essa ruotano.

    Problemi di certezza e prevedibilità del diritto in ragione dalla pluralità dei centri decisionali e dei differenti livelli di protezione di sistemi tra loro concorrenti e non sempre omogeneamente interpretati.

    Problemi di legittimazione democratica che si assume mancare in capo alla magistratura – comune e costituzionale -tutte le volte in cui essa si arrogherebbe compiti riservati alla discrezionalità del legislatore ed all’investitura popolare che non ha il giudice, disancorando la sua azione dal rispetto dalla separazione dei poteri.

     Ecco, riassunto per sommi capi ed a tratti forse in modo approssimativo,  il tempo attuale del mondo della giustizia.

    L’idea dei due Autori del libro qui recensito di dedicare tempo e meningi al tema della giustizia si potrebbe subito dire che non sia originale e che, anzi, molti magistrati, in servizio o freschi della pensione, siano propensi a dedicare parte del loro tempo a ragionare su ciò che è stata la compagna di vita per anni.

    Un’unione al femminile con la “compagna giustizia” che accompagna le giornate delle magistrate e dei magistrati in un modo che spesso (non sempre, sia ben chiaro) entra nell’epidermide e si innerva  fino a far generare e pensare allo stereotipo che la toga il magistrato non può dismetterla mai, anche a volerlo.

    È però vero  che questo cappello iniziale forse sarebbe andato bene per un libro sulla giustizia scritto prima delle vicende che nell’ultimo periodo hanno scosso il sistema giudiziario.  Al punto che quello stereotipo oggi rischia seriamente di diventare un boomerang difficile da gestire.

    Ecco che l’impresa di Canzio e Fiecconi è davvero coraggiosa e per certi aspetti titanica, perché giunge quando l’indice di credibilità e affidabilità della magistratura si attesta su livelli estremamente bassi.

    Del resto,  le mani che hanno contribuito a tessere la trama di questo saggio sulla giustizia non si nascondono affatto il contesto nel quale prende luce il libro.

    Anzi, è proprio da quel contesto che Giustizia prende le mosse proponendosi, senza tentennamenti, come libro modello, nel quale l’analisi delle inefficienze e del degrado etico e deontologico dell’essere magistrato non è fine a sé stessa, ma diventa scommessa per il riscatto, proposta operativa sul come uscire dal guado, fissazione di coordinate capaci di rendere la giustizia adeguata alla società che cambia.

    E non serve certo ricordare l’ormai celebre saggio del beato Rosario Livatino sul ruolo del giudice nella società che cambia per focalizzare l’idea che, oggi, il problema della Giustizia è non solo collegato al rapporto del giudice con la società ma, a monte, alla sua stessa funzione, al modo con il quale essa è esercitata e svolta.

    La prima cosa che colpisce è il fatto che i due autori non abbiano deciso di occuparsi individualmente di alcuni dei temi ai quali sono dedicati i nove paragrafi.

    Una scelta di campo precisa che mostra comunità di intenti e di obiettivi e, anche, piena e reciproca fiducia fra Canzio e Fiecconi.

    Elemento sul quale occorre soffermarsi, essendo il primo  già stato ai vertici della magistratura di legittimità e della Corte di appello di Milano e la seconda impegnata come consigliera addetta tanto presso la Corte di appello di Milano che in Cassazione. Due percorsi solo in parte paralleli che  trovano, peraltro, una diversità strutturale nel fatto che Canzio è stato uno dei “penalisti” più autorevoli delle Corti – di legittimità e di merito oltre ad avere presieduto la Cassazione e la Corte di appello di Milano - mentre  Fiecconi incarna la figura della “civilista”  di lungo corso, impegnata negli osservatori della giustizia civile, con un’esperienza profonda maturata all’interno della rete europea  e riversata  sui temi dell’Innovazione e del multiculturalismo.

    Insomma, esperienze professionali diverse che in Giustizia si fondono reciprocamente, evidentemente  in ragione di una visione di insieme dei “mali” e dei “beni” della giustizia.

    Ecco dunque che Giustizia  propone una serie di ricette.

    L’idea che sembra prevalere è che il malato possa essere curato solo attraverso uno sforzo congiunto di tutti i protagonisti che gravitano nel mondo giudiziario.

    Inserire il ruolo e la funzione dell’Avvocato in Costituzione che il volume auspica e guarda con non celato favore assume un valore particolare e significativo - provenendo da due appartenenti all'ordine giudiziario –,  sia in relazione al ruolo di vero e proprio garante della legalità e del giusto processo-pag.29- sia alla consapevolezza espressa sul fatto che l’avvocato, in quanto attore della giustizia, ha a suo carico responsabilità non secondarie per la corretta ed equa gestione del contenzioso, anche attraverso  funzioni di ausilio all’apparato amministrativo degli uffici giudiziari. In questa prospettiva, si coglie l’auspicio che siano proprio gli avvocati a partecipare a processi virtuosi volti al contenimento equilibrato di cause innanzi alla Corte di Cassazione (pag.181) ed a  alla semplificazione ed accelerazione del flusso dei ricorsi, manifestando scetticismo per l’idea di un ampliamento del numero dei consiglieri, da solo inidoneo a ridurre in maniera stabile i tempi di definizione dei ricorsi se questi numeri non deflettono.

    Già questa prospettiva fa emergere il filo rosso che tiene uniti  due autori, concordi nel ritenere che i tempi ed i modi di giustizia non sono soltanto quelli dei magistrati, ma anche di chi con quelli coopera.

    Certo, nella visione di Canzio e Fiecconi è il giudice che deve mettersi completamente in gioco.

     Un giudice in movimento che è tale a causa del movimento vorticoso in cui vive, per  rispondere al quale egli è chiamato ad un protagonismo parzialmente creativo (pag.35) che lo pone in sinergica cooperazione con altri giudici con i quali egli è naturalmente chiamato ad operare.

    Ma non basta essere dinamici, pronti a raccogliere le sfide che giungono dall’intelligenza artificiale e dalla digitalizzazione.

    Gli aspetti robotici e telematici hanno, agli occhi dei due autori, un ruolo importante, ma la sostanza che viene richiesta al giudice per invertire la rotta, la vera riforma  è ben diversa, potremmo dire “culturale”.

    Dietro a questa accezione, in sé anodina, Giustizia non nasconde l’idea, per certi aspetti al contempo  rivoluzionaria ed elitaria, di un giudice che sa essere interprete del diritto, valutatore del fatto ma anche  “uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica”-pag.39-, ancora “abile nell’esercizio dell’arte del giudicare, esperto nella logica inferenziale e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici, come pure nelle tecniche della scrittura argomentativa”.

    Segmentando quest’affermazione si coglie già un primo aspetto fortemente innovativo.

    L’europeismo dei due autori ha radici e percorsi diversi, ma giunge a risultati omogenei.

    Il giudice nazionale non può non essere europeo e, per essere tale, deve maneggiare bene la materia e deve sapere confrontarsi e dialogare eticamente con altri giudici, altre giurisprudenze, altri diritti, districandosi, per dirla con Manes che pure i due autori ricordano,  nel “labirinto” delle fonti e delle giurisprudenze. E ciò non per mero arricchimento o appagamento personale, ma perché nel nuovo modello professionale disegnato da Giustizia il magistrato o è europeo, o non è magistrato.

    Per questo, secondo Giustizia, la fondamentalità delle forme di dialogo fra giudice nazionale e Corti sovranazionali rappresenta un valore da perseguire, a tutti i costi, anche rispetto al tema controverso della mancata ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che introduce lo strumento della richiesta di parere preventivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo da parte delle Alte giurisdizioni nazionali recentemente entrato in vigore, ma non per l’Italia, in ragione dello stallo parlamentare nel quale in atto giace il ddl di ratifica dopo l’approvazione del Protocollo n.15.Stallo che Giustizia stigmatizza, opportunamente, definendolo incomprensibile -63-.

    Ed è qui che si completa il paradigma del buon giudice riformato, non solo capace di conoscere il diritto nella multiforme dimensione che oggi esso assume, ma anche di esserne artefice attivo, al punto da mettere in discussione il “primato assoluto della legge statuale… a favore del primato dei diritti fondamentali e della persona”.

     Un giudice dunque, intimamente “costituzionale”, nutrito dalla giurisprudenza delle Corti europee che spesso colma le lacune del diritto interno-pag.51- purché il giudice sappia dialogare con quelle giurisdizioni, senza perdere il senso del proprio ruolo ma senza nemmeno depotenziarne la forza. Un giudice che, in questo contesto, si troverà a confrontarsi con  la babele dei linguaggi di ciascuna giurisdizione, alla quale dovrà far fronte con una chiarezza espositiva da modulare all’interno di percorsi motivazionali improntati al canone del “minimo costituzionale”, forgiato dalle Sezioni Unite civili nelle ormai storiche sentenze gemelle n.8053 e 8054 del 2014.

    Il che varrà, soprattutto per il giudice di legittimità, quotidianamente a confronto con quella nozione di nomofilachia dinamica, circolare e aperta tanto cara a Gianni Canzio- qui richiamata a pag.174- che costituisce l’antidoto all’incertezza anche sul versante della c.d. tutela multilivello.

    Tutto quello che si è qui scritto rappresenta una faccia della cultura richiesta al giudice che in Giustizia si  arricchisce ulteriormente rispetto dell’altro verso della medaglia che il buon giudice deve possedere per essere autorevole e, con le parole di Livatino, soprattutto credibile.

    Giustizia ci dice che  il magistrato non è solo cultura giuridica, ma  deve essere anche altro, molto altro. Un giudice capace  di comprendere tanto il ruolo ed il peso della responsabilità che sullo stesso ricade  quanto la centralità degli aspetti etici della funzione e delle limitazioni  che da ciò conseguono rispetto all’esercizio di altre professioni.

    Certo, a prendere alla lettera le affermazioni dei due autori, verrebbe da pensare che l’accesso al concorso in magistratura debba essere totalmente riformato e non solo per le prove di concorso, ancora impregnate di nozionismo ma anche, a monte, per la formazione universitaria. Basta volgere lo sguardo ai piani di studio di giurisprudenza per accorgersi quanto poco essi siano pronti alla prospettiva che appare per questo tanto avveniristica  quanto ineludibile.

    Anche l’esperienza  di stampo pratico sulla quale il legislatore ha investito parecchio con le figure dei tirocinanti negli uffici giudiziari non sembra rispondere appieno a quel modello europeo al quale si rifanno i due autori, forse entrambi immaginando che una certa dose di qualità del buon giudice debbano comunque essere sviluppate e praticate singolarmente, in assenza di “formazione” generalizzata.  

    Un decisore di qualità non può che essere un intellettuale, un uomo di cultura a tutto tondo(184) capace al contempo di valutare in modo responsabile il fatto e di interpretare il diritto in modo da rendere decisioni di qualità.

    Il tema è di estrema delicatezza e non potrà che costituire oggetto di ulteriore riflessione, anche per valutare quanto i tempi – id est, la crisi dei tempi - del sistema giustizia possano oggi in concreto consentire la realizzazione di questo progetto culturale ambizioso.

    Resta l’attenzione di Giustizia al processo e all’audace stagione riformatrice, alla quale Giustizia intende partecipare, non solo elencando possibili modifiche ordinamentali tanto sul versante civile - riduzione dei tempi del contenzioso previa selezione da parte del giudice di primo grado dei riti e strumenti esistenti ( ordinario e sommario, ordinanze anticipatorie) a seconda delle singole materie, apertura degli Uffici alle esigenze del cittadino, aumento organici, ufficio del processo a supporto di ciascun giudice, ampliamento delle ADR, impronta efficientistica all’organizzazione degli Uffici, oculato utilizzo dell’intelligenza artificiale nello studio del caso e nell’udienza telematica - che su quello penale, nel quale spicca l’idea di una giurisdizione sempre più attenta alle garanzie delle parti, soprattutto nella fase delle indagini, attraverso un più stretto raccordo fra P.M. e polizia giudiziaria e l’apertura di “finestre di giurisdizione”-.

    Il tratto comune delle riforme dovrebbe tendere alla riacquisita “cultura della giurisdizione”, vero antidoto al populismo giudiziario ed al rito mediatico.

    Ed in questo recupero della cultura della giurisdizione  dovrebbe trovare posto, secondo Giustizia, anche il divieto di dichiarare la prescrizione del reato nel corso del processo se non decorsa  anteriormente alla condanna  in primo grado, a patto di garantire tempi celeri alle varie fasi del processo. Insomma una revisione complessiva del sistema che non potrebbe nemmeno tralasciare il settore delle misure cautelari, sul quale  si incentra patologicamente l’attenzione mediatica ed a quelle carcerarie, per le quali il volume sembra volere aprire alla possibilitòà di rivedere i meccanismi premiali rispetto a figure delele  quali molto si è parlato in questo periodo- art.4 bis ord.penitenziario-.

    Insomma, nel cantiere delle plurime riforme che il Parlamento si avvia a varare in materia di Giustizia, Giustizia intende ritagliarsi uno spazio "culturale", offrendo  ai suoi lettori  - giuristi, operatori del diritto, Governo legislatore, società civile -  idee, suggerimenti, prospettive.

    Viene certo da chiedersi, a questo punto, chi siano i veri destinatari delle riflessioni e proposte di Canzio e Fiecconi.

    Il messaggio sembra essere di estrema chiarezza. Gli interlocutori privilegiati sembrano essere quei, pochi o tanti che siano, che guardano  alla Giustizia come servizio e sono pronti a mettersi in discussione, a ragionare, a dialogare soprattutto con i “non giudici” ai quali pure appartiene la Giustizia, condividendo  una base etica e professionale comune che riconosce l’altro perché sa che senza quell’altro la giustizia è e sarà “mezza”.

    Un’affermazione forte quale può sembrar quella che i veri signori del processo restano i difensori delle parti che in esso si affrontano e si confrontano-pag.76- è, invece, se intesa nel senso corretto,  il segnale dell’idea di fondo che sembra stare dietro a Giustizia: quella della cooperazione e collaborazione fra tutti i protagonisti del processo.

    Un’idea solo apparentemente scontata e banale, dietro alla quale c’è il recupero della funzione giudiziaria, povera e serva rispetto alle istanze di chi ad essa si rivolge.

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