GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il Consiglio di Stato nega la legittimazione del promissario acquirente all’impugnazione dei titoli edilizi (nota a Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768)

    Il Consiglio di Stato nega la legittimazione del promissario acquirente all’impugnazione dei titoli edilizi (nota a Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768)

    di Marco Magri 

    Sommario: 1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”. – 2. Il predicato territoriale della vicinitas. – 3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”). – 4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente. – 5. Conclusioni.

    1. Una vicenda particolare: il promissario acquirente come “terzo”.

    Questa sentenza va probabilmente esaminata oltre i confini dell’orientamento giurisprudenziale riguardante la posizione del promissario acquirente rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative in materia edilizia[1].

    Bisogna infatti attribuire il giusto rilievo alle particolarità della vicenda che aveva dato origine al contenzioso: il promissario acquirente, venuto a conoscenza di abusi edilizi ulteriori a quelli dichiarati dal promittente venditore, si era rifiutato di stipulare il contratto definitivo e aveva incardinato un giudizio civile nel quale chiedeva l’accertamento della risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, oltre al rimborso del doppio della caparra confirmatoria.

    Con il successivo ricorso al TAR il promissario acquirente aveva domandato l’annullamento del permesso in sanatoria che disponeva il condono dell’immobile, ritenendo che l’accertamento dell’illegittimità dei titoli edilizi impugnati gli avrebbe consentito di «dimostrare, nel corso del giudizio civile, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo». Ciò avrebbe confermato «l’inadempienza degli obblighi di venditore (…) e il riconoscimento a suo favore del diritto ad ottenere il doppio della caparra versata».

    Si tratta quindi di un caso in cui il promissario acquirente non vantava una relazione qualificata con l’immobile; anzi, sul piano giuridico era a tutti gli effetti un “terzo”, rispetto al rapporto giuridico tra il promittente venditore e l’amministrazione che gli aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria[2].

    Inevitabile, inoltre, riconoscere nell’interesse vantato dell’acquirente la più classica ipotesi di interesse “strumentale”, dato che il “bene della vita” a cui tendeva l’impugnazione del permesso non consisteva nel recupero delle facoltà di godimento del bene, ma nella chance di vedere accolta dal giudice ordinario una pretesa di natura risarcitoria[3] consequenziale alla risoluzione del contratto.

    La degradazione di questo interesse a mero interesse di fatto, da parte del Consiglio di Stato – che in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato il difetto di legittimazione ad agire – sollecita interrogativi processuali più ampi: suggerisce di utilizzare questo caso per riflettere direttamente sul criterio utilizzato dal giudice per accertare la titolarità dell’interesse legittimo del “terzo” (e, ancor più complessivamente, dell’interesse legittimo come figura giuridica soggettiva).

    2. Il predicato territoriale della vicinitas.

    Il permesso di costruire rappresenta da sempre un settore privilegiato per l’emersione di problematiche attorno all’interesse legittimo, specie per la rilevanza della specifica e ormai tradizionale discussione sui limiti dell’interesse del “terzo” a che il Comune eserciti correttamente i propri poteri (autorizzativi, di vigilanza e controllo) nei confronti del titolare dell’attività edificatoria[4].

    La prassi giurisprudenziale, ribadita anche di recente[5], è quella di valutare la titolarità della situazione di interesse legittimo del terzo (dunque la sua legittimazione alla proposizione del ricorso) in termini di stabile collegamento tra la sua proprietà e l’area oggetto dell’intervento edilizio. Alla base di questo criterio, cd. vicinitas territoriale, regge ancora la vecchia nozione di «insediamento abitativo», «stabile ubicazione» o «radicazione in loco» dei propri «interessi di vita», familiari, economici o relativi ad altri «qualificati e consolidati rapporti sociali»[6].

    La legittimazione del terzo a impugnare il permesso di costruire dipende dunque dal riscontro caso per caso di questi requisiti e, in fin dei conti, da un apprezzamento largamente discrezionale del giudice. Dovrebbe tuttavia reputarsi fuori discussione, almeno, che lo stabile collegamento tra la proprietà del terzo e l’area oggetto dell’intervento edilizio non equivalga necessariamente alla situazione legittimante l’azione civile a difesa della proprietà contro la turbativa provocata dall’attività edificatoria, ma possa essere oggetto di un’indagine dai parametri più ampi, elastici ed “inclusivi”.

    Sempre si ricorda infatti che il teorema della vicinitas risale alla celebre sentenza del Consiglio di Stato “correttiva” del significato fatto palese dall’art. 10 comma 9 della legge-ponte[7], che consentiva a chiunque l’impugnazione delle licenze[8]. Il legislatore, «per colpire il fenomeno dell’abusivismo (…) chiamava propriamente a collaborare e vigilare i membri della comunità»[9]. Ma il Consiglio di Stato non vi riconobbe i caratteri dell’azione popolare e ne trasse piuttosto l’idea di una legittimazione allargata, per la quale «è sufficiente che ci sia un collegamento giuridico del soggetto con una non effimera situazione sulla quale incidono gli effetti dell’atto»[10].

    Rielaborato nella formula della vicinitas, il criterio ha ricevuto conferme sempre più numerose e può ritenersi oggi un meccanismo consolidato di individuazione dell’interesse legittimo del terzo. La sua funzione regolativa dell’accesso al merito del giudizio amministrativo fa sì che le norme di edilizia risultino più stabilmente amalgamate agli interessi pubblici e, almeno in parte, sollevate dal compito suppletivo che sembrava loro affidato dalle disposizioni del Codice civile del 1942.

    Comunque sia, in termini di allargamento dell’area degli interessi tutelabili in sede giurisdizionale, i passi in avanti sono stati enormi rispetto alla situazione di un tempo: quando l’impugnazione al Consiglio di Stato della licenza era un semplice predicato della “doppia tutela” del proprietario contro la violazione di regolamenti edilizi integrativi del codice civile[11]. D’altra parte le Sezioni Unite sottolineavano che il potere di reprimere degli abusi era ampiamente discrezionale, arrivando su queste basi a negare che il terzo – fermo il suo diritto di chiedere in sede civile il risarcimento del danno e la riduzione in pristino (art. 872 c.c.) – potesse vantare interessi legittimi di tipo “pretensivo” davanti al Consiglio di Stato, ad esempio l’interesse a che il Sindaco emanasse un’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva (art. 32 legge 17 agosto 1942, n. 1150). La riprova ne è, in un caso alquanto dibattuto, l’annullamento per difetto di giurisdizione di una sentenza del Consiglio di Stato che aveva accolto il ricorso avverso il silenzio-rifiuto del Comune di demolire costruzioni realizzate da altri in difformità dai regolamenti edilizi[12].

    Ora queste asimmetrie non hanno più ragione di essere e concordemente si ammette che il “terzo” sia legittimato a chiedere la tutela del proprio interesse legittimo, dinanzi al giudice amministrativo, contro una pluralità di situazioni patologiche, tramite azioni anche diverse da quella di annullamento: il rilascio di un permesso illegittimo, l’omissione dell’obbligo di vigilanza sugli abusi edilizi, l’inadempimento del dovere di controllo e di eventuale interdizione della SCIA; nonché – come nel caso che ci occupa – l’illegittimo esercizio del potere di sanatoria[13].

    Resta da dire che la vicinitas soddisfa il solo requisito della legittimazione; è condizione necessaria, ma non sufficiente all’ammissibilità del ricorso. Occorre anche l’interesse ad agire: lo specifico pregiudizio allegato dal ricorrente, che può riferirsi al godimento dell’immobile o al suo deprezzamento, ma anche – come ha precisato la Plenaria – alla compromissione della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata[14].

    3. La soggettivazione non dominicale dell’interesse al vaglio della teoria della “norma di protezione” (o della “qualificazione normativa”).

    Fatta questa lunga premessa (col rischio, anzi la certezza di aver detto cose fin troppo note) rimane il dubbio su cosa debba fare il giudice amministrativo quando il ricorrente allega una vicinitas “non territoriale”, si afferma cioè titolare di un interesse legittimo basato non su relazioni di prossimità tra fondi o tra luoghi, ma su un altro tipo di situazione soggettiva “collegata” all’atto impugnato.

    Sappiamo che una famosa variabile della vicinitas edilizia è la “vicinitas commerciale”: il “bacino di utenza” corrispondente a uno spazio fisico più ampio di quello del permesso edilizio, entro il quale si consuma il confronto tra il ricorrente e il titolare dell’attività concorrente, autorizzata con l’atto impugnato[15].

    A ben vedere, peraltro, nel ragionare di “vicinitas commerciale” si rimane pur sempre nell’ambito di una relazione determinata dalla distanza fisica o geografica, dunque di un criterio il cui contenuto non è troppo dissimile dall’altro. Inoltre, specie se si considera la concorrenza come un naturale attributo della libertà di iniziativa economica privata, è perfettamente accettabile l’idea che le norme regolatrici delle autorizzazioni, rilasciate al concorrente, “prendano in considerazione” e in qualche misura “investano” e perciò “qualifichino” la posizione del terzo. 

    Il vero salto di qualità lo si compie quando si assumono a termini di confronto le situazioni dei terzi in difesa del cui interessenon è stata scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata[16]; i “non destinatari” dell’investitura, i soggetti che invocano, contro l’amministrazione, una norma non “pensata” per loro, che non ha “voluto” farli entrare in rapporto con l’amministrazione e che perciò, ovviamente, non sono stati “presi in considerazione” nemmeno dall’amministrazione stessa[17].

    Al giudice amministrativo si aprono allora due strade: 1) escludere la legittimazione di tali soggetti; 2) ammettere, se non altro come possibilità, che interessi legittimi possano sorgere anche dall’interessamento del singolo a norme che non lo hanno previsto come destinatario dell’atto amministrativo. Come per la vicinitas territoriale, una volta esclusa l’azione popolare – e confermato che un interesse è giuridicamente rilevante quando è basato sull’ordinamento – l’idoneità di una norma (singola) a dar vita a interessi legittimi può, a volte, presumersi cristallizzata nella sua “volontà protettiva”; ma può benissimo accadere che la norma invocata dal ricorrente contro l’atto amministrativo protegga, magari per caso fortuito, un interesse che su di essa non si fonda e che neppure si concretizza in un rapporto con l’amministrazione. Il caso da cui nasce la sentenza in esame ne è un tipico esempio: l’interesse del promissario acquirente si basa sul Codice civile ed ha come controparte del rapporto il promissario venditore, non l’amministrazione. L’interesse del promissario venditore al condono dell’immobile si basa sulle leggi di sanatoria e, inoltrata l’istanza di condono, ha come controparte del rapporto l’amministrazione, non il promissario acquirente. Ciò significa forse che l’amministrazione, nell’esercizio del potere conferitole dalle leggi sul condono, non può ledere l’interesse del promissario acquirente? Certamente no. Tutto dipende da cosa è concretamente successo, dall’esposizione sommaria dei fatti (art. 40 c.p.a.): dalla persuasività dell’affermazione, che è opera del ricorrente ed è svolta, per così dire, a suo rischio e pericolo. Ora si potrebbe discutere a lungo, se nel processo amministrativo l’affermazione del ricorrente contribuisca alla formazione dell’oggetto del processo[18] o se debba restarne rigorosamente estranea, onde evitare che l’oggetto del processo finisca per coincidere con una situazione soggettiva «creata dal giudice per il tramite dell’ammissibilità dell’azione»[19]. Sta di fatto, per quanto ora interessa, che il rischio di “creatività” è insito anche nell’ipotesi inversa: quando il giudice dichiara l’inammissibilità del ricorso, constatando che l’amministrazione non aveva il dovere di applicare la legge nei confronti del ricorrente, il quale viene di conseguenza assimilato al quivis de populo.[20]

    La prospettiva adottata dal giudice amministrativo è generalmente la prima, in misura crescente da quando l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha precisato che tra le condizioni dell’azione di annullamento rientra il “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” [21]; ma non pare che da essa si desuma una convincente ricostruzione della legittimazione: più che altro, l’impressione è che la giurisdizione amministrativa si alimenti impropriamente dei princìpi sull’attività amministrativa discrezionale[22], che – questa sì – non può volgere alla soddisfazione di interessi diversi da quelli che la legge ha voluto mettere in rapporto con l’amministrazione. 

    Non stiamo parlando degli interessi diffusi, per i quali vale un altro genere di considerazioni[23]. Troviamo nella giurisprudenza amministrativa interessi che si direbbero, più semplicemente, “squalificati” dal giudice, perché non rispondenti alla teoria della “norma di protezione”, automaticamente assegnati all’area dei cosiddetti interessi dipendenti (utili solo a un eventuale intervento nel giudizio).[24]

    Solo in tempi recenti – la qual cosa è spesso sottovalutata – l’individuazione dell’interesse legittimo per mezzo della “teoria della qualificazione normativa” è stata sostenuta in chiave prescrittiva, allo scopo di offrire un’immagine razionalizzata della presenza del “terzo” nel processo[25], senza darsi carico della «grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa»[26] e, in ultima analisi, dell’esaltazione della “creatività” del giudice amministrativo: altra conseguenza, non sempre sottolineata, alla quale conduce il dogma della “qualificazione”.

    Ora il discorso dovrebbe essere portato a una dimensione più ampia, certamente inadeguata ai fini di queste brevi annotazioni. Una cosa però va detta chiara: un’assiduità esasperata, da parte giurisprudenza amministrativa, nell’affidare il vaglio di ammissibilità del ricorso al teorema della norma di protezione può avere esiti appaganti, quanto portare, se praticata con eccessivo rigore, a conseguenze contrarie al più comune buon senso. Lo dimostrano alcuni esempi di interesse legittimo “squalificato”: quello del datore di lavoro a impugnare il rigetto del visto d’ingresso adottato dal consolato italiano all’estero, nei confronti del lavoratore, cittadino straniero, che il datore di lavoro ha già regolarmente assunto dall’Italia (autorizzato dal Prefetto)[27]; quello dell’ex amministratore di società di capitali a impugnare l’interdittiva antimafia emessa nei confronti della società, nella quale si indica l’ex amministratore come soggetto sospettato di collegamento con la criminalità organizzata[28]; quello dell’operatore economico partecipante a una gara d’appalto, legittimamente, ma non «definitivamente» escluso (art. 2-bis Direttiva 89/665/CE del 21 dicembre 1989), a impugnare l’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante[29].

    In tutti questi casi – esattamente come, nella vicenda di specie, è accaduto al promissario acquirente – l’interesse è stato declassato dal giudice amministrativo a interesse strumentale, non giuridicamente “protetto”, equiparato a quello del quivis de populo, la cui ammissione alla tutela di merito implicherebbe la violazione del divieto di sostituzione processuale; quindi considerabile tutt’al più come titolo idoneo a un intervento ad adiuvandum nel giudizio di annullamento (ipotetico, quanto improbabile, per non dire impossibile) promosso dal “vero” legittimato.

    L’aspetto in discussione – sia chiaro – non è la possibilità che la teoria della norma di protezione sia applicata nel processo amministrativo; è l’idea che essa debba sempre essere seguita, non essendovi criteri alternativi di individuazione dell’interesse legittimo e di accertamento della legittimazione ad agire: in questo senso si risolve in una esclusione standardizzata, senza alcuna possibilità di bilanciamento (verrebbe da osservare, polemicamente, una “teoria della delegittimazione ad agire”). 

    4. Conseguenze: il capovolgimento dell’esito di primo grado e la “delegittimazione” del promissario acquirente.

    Nell’economia di questo breve commento ci si può solo chiedere, alla luce di quanto detto fin qui, se l’interesse del promissario acquirente fosse davvero un interesse di mero fatto e fino a che punto sia condivisibile la soluzione adottata dal Consiglio di Stato. Sia consentito riprendere brevemente la vicenda.

    La pronuncia di primo grado[30] aveva annullato due permessi di costruire in sanatoria rilasciati, in applicazione delle leggi sul condono edilizio (28 febbraio 1985, n. 47 e 23 dicembre 1994, n. 724), alla società proprietaria di un immobile ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico. Si trattava per la precisione di un ristorante, costruito lungo sponde di un lago, sul quale erano stati eseguiti a più riprese lavori di ampliamento abusivo che avevano portato a una modifica complessiva di entità piuttosto rilevante (nel processo era stata documentata la parziale colmatura delle acque lacustri e realizzazione di una terrazza di 285 mq. su palafitte).

    La sanatoria[31] era stata giudicata, dal TAR, non conforme a legge per una serie di motivi: la parziale realizzazione degli interventi abusivi su area appartenente al demanio dello Stato; l’esecuzione di lavori di ampiamento in epoca successiva al termine stabilito dalla legge n. 47/1985 per la proposizione dell’istanza di condono; la contrarietà dell’atto di sanatoria al parere negativo della Soprintendenza; la realizzazione di una cubatura complessiva (oltre 2200 mc.) non condonabile perché superiore al limite di 750 mc. stabilito dalla legge n. 724/1994.

    Gli argomenti che hanno portato alla riforma della sentenza sono, come si accennava, legati al profilo delle condizioni dell’azione.

    Il TAR aveva accolto due ricorsi riuniti (per connessione oggettiva): il primo era stato proposto della promissaria acquirente, l’altro da una persona «qualificatasi come proprietaria confinante», la quale aveva sostenuto di avere “interesse a ricorrere” per «i per danni alla sua proprietà, provocati anche da diminuzione di panoramicità, visibilità, visualità e godibilità, conseguenti all’edificazione dell’immobile di cui è causa». Questo ricorso era stato ammesso dal Giudice di primo grado «in ragione della sussistenza del requisito della vicinitas che, per giurisprudenza consolidata, legittima il proprietario confinante ad impugnare i titoli edilizi rilasciati a favore del vicino controinteressato (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 24 dicembre 2020, n. 8313)».

    Anche qui il Consiglio di Stato è andato di diverso avviso, cogliendo l’occasione per ribadire l’indirizzo, espresso dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 22 del 2021, secondo il quale la legittimazione dei terzi all’impugnazione di titoli edilizi non è soddisfatta dall’allegazione della vicinitas, ma richiede l’allegazione e, se necessario, l’autonoma dimostrazione di un concreto ed effettivo “pregiudizio”. Nel caso di specie la ricorrente si era limitata a generiche allegazioni in merito al deterioramento della qualità della vita (valori storici, culturali, ambientali), che per i giudici d’appello si ancorava a una «percezione personale del tipo di luogo in cui si vorrebbe vivere e non a parametri oggettivi che sono, invece, gli unici dai quali partire per fissare l’aumento o la diminuzione di valore di un bene immobile».

    Quanto alla legittimazione del promissario acquirente, il TAR aveva trattato i profili d’inadempimento del contratto preliminare in modo per così dire pragmatico: come «questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile, ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento».

    Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che la promissaria acquirente fosse estranea «alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare» e che soltanto «in sede civile», semmai, essa avrebbe potuto «far valere quelle vicende al mero fine di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti».

    «Lasciando da parte ogni considerazione sviluppata dagli appellanti circa l’effettiva sussistenza di detto ruolo (ad esempio: il fatto che al momento della proposizione del ricorso il contratto aveva cessato di produrre effetti) occorre rilevare che la posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere. Già da tempo il Consiglio di Stato (sez. IV, 12/04/2011, n. 2275) ha affermato il principio secondo il quale non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell'area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell'immobile. Nella specie, [la promissaria acquirente] non ha mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, per cui non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto. Più di recente, il Consiglio di Stato ha chiarito in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente in un passaggio della motivazione della sentenza n. 6961 del 14 ottobre 2019 che di seguito si riporta: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe infatti in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere. Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, l’odierno appellante […] è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicarne la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (nella specie del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) non l’esercizio di un potere”».

    La sostanza della motivazione è molto chiara: per il Consiglio di Stato la difesa del diritto di credito è un affare di esclusiva pertinenza del giudice civile e non può convertirsi nella potestà di proporre ricorso agli organi di giustizia amministrativa; il che, si può soggiungere, sarebbe invece normale se ad agire in giudizio nei panni del “terzo”, per far valere l’illegittimità del permesso di costruire, fosse il titolare del diritto di proprietà di un immobile vicino. Non per nulla, l’eccezione è la consegna anticipata dell’immobile al promissario acquirente, che dà vita a una situazione di fatto (materiale disponibilità) somigliante a un diritto dominicale; ulteriore riprova che il diritto relativo non ha la forza bastevole alla individuazione di un interesse legittimo tutelabile dinanzi alla giurisdizione amministrativa.

    Probabilmente sulle considerazioni del Consiglio di Stato ha esercitato una certa influenza l’idea che il giudizio d’inadempimento del preliminare contratto abbia, in sé, l’autonomia necessaria alla tutela del promissario acquirente.

    Il recesso dal contratto preliminare per abusi edilizi è tuttavia una fattispecie che merita una particolare attenzione. Stando alla giurisprudenza civile, la nullità di cui all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 trova applicazione ai soli contratti con effetti traslativi e non anche a quelli con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita[32]. Non è data quindi al promissario acquirente azione di nullità, ma solo di adempimento o, come nella vicenda di specie, di risoluzione del contratto per inadempimento (con restituzione del doppio cella caparra).

    La validità del contratto preliminare avente ad oggetto un immobile abusivo ha però una seconda conseguenza, anch’essa desumibile dalla giurisprudenza civile, proprio nel caso di condono dell’immobile successivo al recesso dell’acquirente. In questo frangente, infatti, il rilascio del permesso in sanatoria, regolarizzando la condizione giuridica dell’immobile, realizza la condizione che rende possibile per il venditore, interessato alla stipula del contratto definitivo, l’azione costitutiva di trasferimento di cui all’art. 2932 c.c. contro il compratore[33]. Non è questo – o meglio non è dato sapere se sia questo – il caso di specie. Se però il condono determina automaticamente l’illegittimità del recesso dell’acquirente, esercitato a causa dell’abuso (tanto da permettere al venditore di agire per l’esecuzione dell’obbligo di contrarre), a maggior ragione impone una valutazione d’infondatezza della domanda di risoluzione per inadempimento proposta dall’acquirente stesso.

    Questi meccanismi sono rimasti sfuocati agli occhi del giudice. La legittimazione ad agire, secondo la giurisprudenza, implica l’irrilevanza dell’affermazione e la necessità di ricercare l’effettiva titolarità dell’interesse legittimo[34]. Se il giudice avesse voluto procedere in questo modo, gli sarebbe stato più facile seguire la strada di un’analisi approfondita del diritto del promissario acquirente, che avrebbe restituito la reale consistenza dell’interesse vantato dal ricorrente. Affidandosi invece ai dogmi della “teoria generale”, il giudice ha finito per mettere, tra sé e i fatti di causa, uno schermo protettivo che gli ha impedito di vedere l’interesse così come protetto dall’ordinamento (a tutto vantaggio, evidentemente, dell’amministrazione).

    Con ogni probabilità, la chiave di lettura della sentenza sta nella fiducia del Consiglio di Stato verso l’unico strumento di tutela rimasto all’acquirente, vale a dire il potere del giudice civile di disapplicare il permesso di costruire in sanatoria[35].

    Non è un esito nuovo né sorprendente, se si pensa che, com’è stato da tempo osservato, anche nei casi più “classici” – nei quali cioè il permesso di costruire in sanatoria viola le norme sulle distanze tra le costruzioni, quindi la proprietà del terzo (art. 873 c.c.) – il carattere peculiare dell’istituto del condono, che impedisce alla pubblica amministrazione di sindacare il rispetto delle distanze, ostacola l’individuazione dell’interesse legittimo e lascia a disposizione del terzo la sola tutela civile, previa disapplicazione del permesso di costruire in sanatoria; nel che si sono ravvisate alcune “crepe” nel concetto stesso di “doppia tutela”[36].

    Il restare affidato al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile mette però alquanto in sott’ordine il promissario acquirente rispetto al promissario venditore, «interlocutore esclusivo della dinamica del potere», che fruisce invece della tutela giurisdizionale di annullamento, in caso di scorretto esercizio del medesimo potere (es. in caso di diniego di permesso in sanatoria).

    Già qui ci si potrebbe soffermare, per cercare di comprendere se questo differente trattamento sia ragionevole o non, piuttosto, «sconveniente»[37]; considerato anche  l’interesse pubblico a che gli abusi, se insanabili, non siano condonati, il che avrebbe potuto introdurre nel discorso del giudice un fattore di “bilanciamento” e rendere, se non altro, più elastico il giudizio di ammissibilità del ricorso.

    5. Conclusioni.

    L’aspetto che più induce a dubitare della correttezza della soluzione adottata dal Consiglio di Stato rimane però l’esasperato formalismo della ricostruzione operata dal giudice in merito alla «dinamica del potere», che è il vero momento di partenza del diniego di legittimazione ad agire del promissario acquirente.

    Dal punto di vista dell’amministrazione e dei suoi doveri di esecuzione, è plausibile che il «potere conformativo e autorizzativo» si consumi nella «relazione pubblicistica» con il promissario venditore e non incida, se non indirettamente – appunto, in via di mero fatto – nella «relazione contrattuale» tra privati.

    Questo non è però, a ben vedere, se non il metro di valutazione delle ricadute soggettive del potere amministrativo; là dove l’accertamento della legittimazione del ricorrente mette in gioco i confini del potere giudiziario.

    Gli articoli 103 e 113 Cost. destinano la giurisdizione amministrativa non alla protezione dell’efficacia dell’atto, ma alla tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. Non pare quindi corretto che il giudice rinunci a decidere solo perché l’interesse che sta alla base del ricorso poggia su regole di diritto diverse da quelle dalla cui violazione derivano i vizi dell’atto impugnato.

    Non è ora il caso di approfondire; né di prendere una posizione argomentata sulla soluzione data dal Consiglio di Stato al problema della legittimazione del promissario acquirente. Tanto meno è il momento di proclamare princìpi o massime generali sulla tutela del promissario acquirente nel giudizio amministrativo.

    Ci si può domandare, tuttavia, se nella sentenza in esame non vi fosse spazio per un ragionamento più spregiudicato di quello che il giudice ha sviluppato, muovendo dagli schemi teorico-generali del potere e del rapporto giuridico.

    Non era in discussione che la ricorrente fosse stata promissaria acquirente e che vantasse un diritto di obbligazione verso la venditrice.

    L’interesse all’esatto adempimento di un preliminare e, in caso d’inadempimento, alla restituzione del doppio della caparra data non è un diritto assoluto; non dà titolo per vantare prerogative dominicali sull’immobile. E’ un diritto di obbligazione che si fonda sull’art. 1385 comma 2 c.c. Questo significa che non è “protetto dall’ordinamento”? Certamente no. Non meno di quanto lo sia il diritto dominicale sull’immobile garantito al proprietario dal Codice civile.

    Si dirà che le norme sul condono edilizio non hanno considerato l’interesse dell’acquirente tra quelli che entrano in rapporto con l’amministrazione.

    Poiché però la protezione di un interesse è o non è accordata dall’ordinamento – che è il tutto, il complesso generale di regole e principi – non si avverte alcuna stortura nel pensare che una disposizione di legge possa essere invocata, contro un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, sia a tutela di interessi che essa qualifica, sia a tutela di interessi che essa non qualifica e che, a differenza dei primi, non entrano in una “relazione pubblicistica” con l’amministrazione.

    Non si vede d’altra parte perché non debba valere, anche per il giudizio amministrativo di annullamento – se si vuol proprio parlare di una legittimazione ad agire concepita sulla “falsariga del processo civile”[38] – la regola per cui l’idoneità della norma a dar vita a situazioni soggettive dipende, più che dalla “qualificazione”, dal principio generale del neminem laedere, che potrebbe benissimo fungere, anche qui, da criterio di selezione degli interessi protetti (senza con questo incorrere, sempre e necessariamente, in violazioni del divieto di sostituzione processuale). 

    Ma forse basterebbe riconoscere che l’art. 24 «ci si presenta (…) come una sorta di norma in bianco la quale aderisce a tutte le norme sostanziali, che attribuiscono diritti o interessi legittimi: queste norme, anche se nulla dispongono (e il più delle volte non dispongono) sulla tutela giurisdizionale, funzionano, per così dire, come fattispecie rispetto al primo comma dell’art. 24, che mettono automaticamente in moto»[39], per dubitare che qualche principio sul processo amministrativo avrebbe patito, se il ricorso della promissaria acquirente fosse stato giudicato nel merito, anziché dichiarato inammissibile perché non “qualificato”. 

    Di qui una chiave di lettura conclusiva; non tanto della sentenza, quanto del problema ad essa sottostante. Ovviamente le leggi sul rilascio dei titoli edilizi sono scritte “volendo” che i poteri dell’amministrazione incidano sul regime della proprietà immobiliare; che si rivolgano al proprietario o a chi da esso acquisti la disponibilità dell’immobile o il diritto di costruire. Aggiungiamo pure i titolari di altri diritti assoluti, investiti dagli effetti di quei poteri amministrativi attraverso la vicinitas “territoriale”: sono questi i “terzi”, legittimati a “reagire”, anch’essi perché dotati di poteri giuridici di disposizione, magari solo materiale, di un immobile.

    L’idea che fuori da questo schema, diciamo “più in là” sul territorio, o dove proprio non è la terra il mezzo di collegamento – dove insomma la norma non ha voluto che arrivassero gli effetti del potere – esista solo l’interesse di fatto, del quivis de populo (espressione forse troppo diffusa in giurisprudenza), fa parte di una cultura giuridica senza mezzi termini tipica dell’Italia tardo ottocentesca[40].

    Una sentenza come quella in esame, che ad ogni passaggio cerca nel “potere di volere della norma” la ragione dell’interesse, può far riscoprire il gusto della modernità della giustizia amministrativa e, con riferimento al problema della impugnazione dei titoli edilizi, sollecitare l’interrogativo se la vicinitas non meriti un approccio diverso da quello del giurista e amministrativista «di terra»[41].

    Sarebbe bello se le leggi sul rilascio dei titoli edilizi, che nulla dispongono sulla tutela giurisdizionale, permettessero l’accesso al giudice amministrativo non solo agli interessi che vogliono proteggere, ma anche, prima di tutto, agli interessi che ledono ingiustamente. Tutte le norme dell’ordinamento che attribuiscono diritti potrebbero così combinarsi con quelle sul potere e svolgere, attraverso il processo amministrativo, il loro fondamentale ruolo di qualificazione e di protezione.

    Il giudice amministrativo sarebbe – se non altro, nel frangente in cui occupa della legittimazione ad agire – quello che tutti vogliamo: giudice speciale, ma pur sempre giudice o, per meglio dire, un po’ più giudice, e meno amministratore.

     

    [1] Sull’illegittimità dell’ordine di demolizione emesso dal Comune nei confronti del promissario acquirente, TAR Lazio, 18 maggio 2022, n. 6286; per la legittimazione a impugnare un diniego di autorizzazione da parte del promissario acquirente che abbia la materiale disponibilità dell’immobile, Cons. St., sez. IV, 19 aprile 2022, n. 2017 (che in motivazione richiama la pronuncia qui in esame). In merito alla possibilità del promissario acquirente di chiedere il permesso di costruire, quando ad esito della consegna anticipata abbia acquisito la materiale disponibilità dell’immobile, la giurisprudenza non è univoca (a favore TAR Campania, Salerno, 10 giugno 2022, n. 1639; TAR Emilia Romagna, 3 giugno 2022, n. 470; TAR Campania, 18 marzo 2021, n. 1809; contra, con richiami a contrastanti indirizzi giurisprudenziali, TAR Liguria, 26 aprile 2022, n. 320; TAR Campania, 24 giugno 2021, n. 4328; TAR Calabria, 10 dicembre 2021, n. 2264; TAR Emilia Romagna, 16 novembre 2021, n. 936). In dottrina, sul tema dei rapporti tra normativa urbanistico-edilizia e circolazione dei diritti immobiliari, M.C. D’Arienzo, Trasmissibilità dell’interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Dir. e proc. amm, 2016, 965 ss.; Id., Trasferibilità dell’interesse legittimo, Napoli, 2017; F. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 468 ss.).

    [2] Di qui anche l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse al ricorso, sollevata dal promittente venditore appunto con riferimento alla impossibilità dell’acquirente di vantare alcun titolo giuridico sull’immobile.

    [3] Si allude qui al carattere risarcitorio che la caparra confirmatoria acquista quando è oggetto dell’obbligo di restituzione a carico della parte inadempiente, essendo, in questo caso, da interpretare come somma di denaro stabilita in funzione di preventiva forfettaria liquidazione del danno subito dalla parte che ha legittimamente receduto (giurisprudenza pacifica; v. per tutte Cass. civ., sez. II, ord. 12 luglio 2021, n. 19801; sent. 1 agosto 2013, n. 18423)

    [4] Sempre fondamentali al riguardo i contributi di A.M. Sandulli ora in Scritti giuridici, vol. VI, Napoli 1990, tra i quali si possono ricordare, per attinenza al tema qui trattato (e ovviamente senza alcuna pretesa di completezza), Giurisdizione e amministrazione in materia di edilizia urbanistica, 3 ss.; Sui mezzi di tutela giurisdizionale del terzo danneggiato d auna licenza edilizia illegittima, 229 ss.; Sui mezzi di tutela dei terzi lesi da costruzioni «contra legem», 263 ss.; Costruzioni «contra ius» e provvedimenti di sanatoria, 269 ss.; Ancora sulla qualificazione giuridica dell’interesse di terzi alla demolizione ad opera dell’autorità comunale di costruzioni «contra ius», 303 ss.; Repressione di abusi edilizi e interesse dei terzi, 321 ss.; L’azione popolare contro le licenze edilizie, 371 ss.

    [5] Cons. St., ad. plen., 9 dicembre 2021, n. 22; tra i primi commenti, F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare… mai nata, in Riv. giur. edil., 2021, 239 ss.; S. Tanquilli, Sull'incerto rapporto tra vicinitas e “vicinanza della prova” dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22/2021, in Il processo, 2022, 201 ss.; M. Ceruti, La vicinitas non basta a dimostrare l’interesse al ricorso per l’annullamento dei titoli edilizi. E nella materia ambientale?, in RGA online, 1 maggio 2022.

    [6] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro it., III, 201 ss. «È dunque questo», proseguiva il Consiglio di Stato, «l’elemento che qualifica l’interesse del singolo e, correlativamente, lo legittima alla tutela giurisdizionale, sempreché, beninteso, egli abbia un interesse concreto, attuale e personale a dolersi dell’illegittimità dell'atto per il pregiudizio effettivo che questo gli ha arrecato e che l’impugnativa tende a rimuovere». Per un’importante trattazione dell’argomento, E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193 ss.

    [7] Articolo 10 legge 6 agosto 1967, n. 765 (sostituzione dell’art. 31 legge 17 agosto 1942, n. 1150): «Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di

    piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione». 

    [8] A.M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Scritti, cit., loc. cit.; V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella legge-ponte per l’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1967, II, 387 ss.

    [9] Cons. St., n. 523 del 1970, cit.

    [10] Cons. St., sent. cit.; in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in www.lexitalia.it, n. 7-8/2007; Id., C’era un volta un’azione popolare, cit.

    [11] G. Sciullo, Concessione edilizia e tutela civilistica fra privati, in Riv. giur. urb., 1988, 17 e ss.

    [12] Cass. civ., ss.uu., sentenza 18 luglio 1961, n. 1746, in Foro it., 1961, I, 1672 ss., con commenti critici di M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica e l’individuazione degli interessi legittimiivi, 1962, I, 83 ss. e di A.M. Sandulli, Ancora sulla qualificazione giuridica, in Scritti, cit. loc. cit., malgrado le tesi di questo Autore conducessero, con altra impostazione, a negare l’esistenza di un interesse protetto del terzo. Su quest’ultimo punto, la tesi di Sandulli si opponeva a quella, da cui la Cassazione sembrava aver tratto qualche argomento, di F. Benvenuti, Violazione delle norme edilizie e poteri di sanatoria del Sindaco, in Riv. amm., 1958, 1 ss.; cfr. anche G. Vignocchi, Sui regolamenti edilizi e sulle conseguenze giur. della loro violazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 346.

    [13] D’altra parte un analogo allargamento della sfera degli interessi tutelabili contro il permesso di costruire illegittimo si dovrebbe registrare sul versante del destinatario, nel caso in cui il permesso illegittimo, dopo essere stato rilasciato, sia annullato d’ufficio dalla stessa amministrazione comunale o su ricorso giurisdizionale del “terzo”: eventualità che, per giurisprudenza oramai pacifica, permette al destinatario proporre l’azione di risarcimento del danno contro il Comune. Che si tratti di un allargamento dell’area degli interessi tutelabili, naturalmente, si può condividere solo se si continua a vedere nel permesso di costruire illegittimo la causa di una lesione originaria dell’interesse legittimo del destinatario, distinta dalla possibile (ma non necessaria) lesione del diritto soggettivo derivante dalla violazione del principio di buona fede, che attrae la controversia nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Nulla impedirebbe, cioè, di affermare l’ingiustizia ex sé (anche dove concretamente non vi sia violazione del canone di buona fede) e quindi l’autonoma risarcibilità, dinanzi al giudice amministrativo, del danno che il permesso non conforme a legge arreca direttamente all’interesse legittimo del destinatario; costituendo, l’annullamento, il fatto che rende attuale l’interesse ad agire per il risarcimento (si permetta, per più precisi ragguagli, di rimandare a M. Magri, Il Consiglio di Stato sul danno da provvedimento illegittimo favorevole, in Giorn. dir. amm., 2014, 704 ss.).

    [14] Cons. St., ad. plen., n. 22 del 2021, cit. e dottrina citata retro, nota n. 5.

    [15] Per questa distinzione, Cons. St., sez. V, 19 novembre 2018, n. 6527. Con riferimento ad altri criteri di collegamento degli interessi legittimi ad atti autorizzativi di insediamenti non residenziali, A. Romano, Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale amministrativa, in Foro It., 1972, III, 261 ss.

    [16] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione (…). L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile». L’opinione di Orlando, pur essendo formulata con riferimento all’attività della IV Sezione del Consiglio di Stato (che non per tutti, com’è noto, era una giurisdizione «vera e propria») rimane una delle più significative enunciazioni del nesso che collega l’interesse legittimo all’ampiezza delle situazioni soggettive tutelate; nel che si è riconosciuto «uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa» (M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022).

    [17] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 113.

    [18] Per questa tesi, G. Berti, Connessione e giudizio amministrativo, Padova, 1970.

    [19] Le parole sono di L. Ferrara, Conclusioni, in C. Cudia (a cura di), L’oggetto del processo amministrativo visto dal basso, Torino, 2020, 328.

    [20] La misura della creatività del giudice è data dalla difficoltà di distinguere l’interesse legittimo dall’interesse di fatto, che non si attenua affatto, anzi, nel momento in cui si tratta di decidere se e in che limiti, le norme su cui si fonda il ricorso qualifichino interessi (M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.). Anni addietro lo stesso Nigro, com’è noto, mostrò maggiori perplessità in merito alla teoria della “qualificazione normativa”, obiettando a chi la sosteneva che il meccanismo di «soggettivazione di una norma di azione, giuridica o di buona amministrazione — sub specie di collegamento alla norma di un interesse legittimo — si muove su di un piano diverso da quello che attiene ai vincoli che gravano sul potere disciplinato dalla norma» (M. Nigro, L’art. 32 della legge urbanistica, cit., 85).

    [21]  Cioè «la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero (…) la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo (Cons. St., ad. plen, 25 febbraio 2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429 ss.).

    [22] Questa perdita di autonomia degli schemi del giudice rispetto a quelli dell’amministrazione era molto visibile nella vecchia tesi della Cassazione, che (con larghi omaggi alla figura dell’eccesso di potere per “sviamento”), ravvisava l’eccesso di potere giurisdizionale nelle sentenze del Consiglio di Stato che annullavano atti amministrativi – secondo le Sezioni Unite – vincolati al solo interesse pubblico, accogliendo il ricorso di interessati non presi in considerazione dalla legge (Cass. civ., ss.uu., n. 1746 del 1971, cit.; 8 maggio 1978, n. 2207, in Foro it., 1978, I, 1090). Per un approccio critico a questo modo di decidere le questioni di giurisdizione, M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss. (delle cui conclusioni bisognerebbe far tesoro anche adesso, che i ruolo si sono quasi “invertiti”, per mettere nel giusto rilievo la circostanza che nell’economia di alcune sentenze di rito del giudice amministrativo in tema di difetto di legittimazione, come quella che qui commentiamo, si avverte qualcosa di vagamente simile al «pastrocchio» del «giudice amministrativo che applica il diritto civile»; Id., op. cit., 1714).

    [23] Esattamente M. Ceruti, op. cit., dubita che il criterio della vicinitas possa essere applicato al di fuori della materia urbanistico-edilizia e, segnatamente, al campo del contenzioso amministrativo ambientale.

    [24] Per approfondimenti sul tema, ancora attuale M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381 ss.

    [25] G. Mannucci, I terzi nel processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2016; cfr. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005.

    [26] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., loc. cit.

    [27] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.

    [28] Cons. St., ad. plen., 28 gennaio 2022, n. 3; sulla quale si vedano R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022. 

    [29] Cons. St., sez. III, 7 agosto 2019, n. 5606, origine del noto e molto dibattuto “caso Randstad” (dopo l’impugnazione alle Sezioni Unite); ci si permette di rinviare, per tutti, agli scritti di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in federalismi.it, 16 dicembre 2020; Id.  Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022.

    [30] Tar Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721

    [31] Si parlerà d’ora in poi del provvedimento impugnato al singolare, data la connessione tra i due permessi di costruire controversi ma sostanzialmente unificati dalla circostanza di vertere sullo stesso immobile e di aver prodotto, dal punto di vista dei ricorrenti, un unico effetto lesivo degli interessi legittimi di cui si chiedeva la tutela (per questa impostazione generale, G. Berti, Connessione e processo amministrativo, cit.).

    [32] Per un esempio recente tra i tanti che potrebbero essere richiamati, Cass. civ., sez. II, 8 marzo 2022, 7521.

    [33] Ciò si ricava, a contrario, dalla giurisprudenza che individua nel mancato perfezionamento della sanatoria una causa ostativa all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre Cass. civ., ss.uu., sent. 11 novembre 2009, n. 23825 e Cass. civ., sez. II, sent. 18 settembre 2009, n. 20258, entrambe in Foro it., 2009, I, 2148 ss. Ove però si tratti di difformità solo parziale, la Cassazione sembra ammettere l’applicabilità dell’art. 2932 c.c. anche all’immobile abusivo (Cass. civ. sez. II, 23 novembre 2020, n. 26558; in dottrina, su quest’ultimo aspetto, M.A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in federalismi.it, 2 ottobre 2019, 34).

    [34] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 201; per approfondimenti F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?,  in C. Cudia (a cura di), op. cit., 45 ss.

    [35] Che è appunto il meccanismo civilistico operante nel sistema della doppia tutela edilizia (cfr. tra le tante, Cass. civ., sez. II, 4 settembre 2020, n. 18499). Un consistente numero di casi di disapplicazione del permesso in sanatoria si registra anche nella giurisprudenza penale, avendo la Cassazione stabilito e ripetutamente confermato (talvolta senza neppure citare l’art. 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo) che il permesso in sanatoria illegittimo non estingue il reato edilizio (Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2019, n. 10799).

    [36] L. Viola, La doppia tutela in ambito edilizio dopo il nuovo Codice del processo amministrativo, in giustizia-amministrativa.it, 7 ottobre 2021.

    [37] Essendo la disapplicazione conseguenza di un accertamento senza efficacia di giudicato, dovrebbero valere a maggior ragione le osservazioni di V. Scialoja, a margine di Cass. Roma, sez. un., 24 giugno 1891, Laurens, in Foro it., 1891, I, 1120, che (con riferimento all’art. 4 dell’allegato E) riteneva «cosa affatto sconveniente l’immaginare che il legislatore abbia accordato più pronta e in certo modo anche più larga protezione amministrativa al semplice interesse, il quale non costituisca un vero e proprio diritto, che a quell’interesse certamente più grave ed elevato, il quale forma contenuto di un diritto; per modo che, mentre il primo potrebbe produrre l’annullamento dell’atto amministrativo (…) il secondo invece potrebbe portare soltanto ad una semplice modificazione dell’atto amministrativo, ristretta a quanto riguarda il caso deciso, dopo avere ottenuta una favorevole sentenza dell’autorità giudiziaria».

    [38] Cons. St., ad. plen. n. 9 del 2014, cit.

    [39] V. Andrioli, La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione della Repubblica italiana, ora in Scritti giuridici, I, Milano, Giuffrè 2007, 7. Sul dibattito in merito al rapporto tra norma e giurisdizione amministrativa, qui troppo esteso per essere anche solo richiamato, si permetta di rinviare a F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.

    [40] «Nella prospettiva oggettiva, e ancor più nell'ambiente ideologico nel quale si è iscritta l'istituzione della quarta Sezione del Consiglio di Stato, probabilmente non esistevano troppe vie di mezzo: l’interesse era sentito come individuale, nel senso di proprio a pochi singoli, e quindi tutelabile, oppure diffuso, nel senso di proprio a molti, e quindi non tutelabili» (A. Romano, op. cit., 271). E’ d’obbligo a questo proposito il rinvio a E. Cannada Bartoli, Il diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, 334 ss., specialmente al richiamo dell’Autore a ciò che «dovrebbe essere chiaro: che al fondo dell’interesse legittimo o, per lo meno, al fondo del comportamento del singolo per la tutela di tale interesse, vi è la utilità privata del cittadino stesso; che il problema dev’essere impostato in maniera formale; e che esso consiste nel giustificare la giuridicità e l’individualità di siffatto interesse. Sembra che tali esigenze sistematiche, epperò positive, siano compiutamente soddisfatte ove si riconosca che l’interesse legittimo ha natura esclusivamente formale, siccome concernente la legittimità degli atti amministrativi e che esso ha come presupposto di qualificazione una situazione di diritto soggettivo» (Id., op. cit., 348).

    [41] Usiamo qui liberamente un’espressione formulata, in tutt’altro contesto (ma con impostazione che sarebbe utile anche per il tema qui trattato), da V. Angiolini, Sulla rotta dei diritti, Torino 2016, 132.


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