GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

     Responsabilità Medica e Covid 19

     Responsabilità Medica e Covid 19. Nubi all’orizzonte per gli eroi in corsia?

     Intervista  di  Michela Petrini a Cristiano Cupelli e a Giacomo Travaglino

     SOMMARIO: 1 Le domande. 2. La scelta del tema. 3 Le risposte. 4. Le conclusioni

     1. Le domande.

     1) Anche nel quadro della responsabilità dello Stato per le cure mediche adeguate alla generalità della popolazione, ribadita  a più riprese, ma con precisi limiti,  dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo come espressione della tutela sostanziale del diritto alla vita (tra molte, v. Lopes de Sousa c/ Portogallo 19/12/2017), quali problemi e quali rischi può determinare l’odierna emergenza Covid-19 sul piano della responsabilità civile e penale degli operatori sanitari coinvolti in prima linea sul fronte del contrasto al contagio?

    2) Ritiene che l’attuale elaborazione normativa e giurisprudenziale in tema di responsabilità medica sia idonea a fronteggiare questa eccezionale situazione, oppure le difficoltà nel fronteggiare un virus in relazione al quale gli studi scientifici non hanno ancora raggiunto approdi appaganti sono tali da rendere concreto il rischio di una “medicina difensiva dell’emergenza Coronavirus” o anche solo di arginare la spinta solidaristica che, in questi mesi, ha consentito di incrementare l’organico del personale sanitario disponibile ad operare negli ospedali? Quali i possibili costi e quali gli ulteriori eventuali profili di responsabilità per gli operatori sanitari?

    3) Ritiene opportuni interventi normativi espliciti per arginare il pericolo che, una volta terminata l’emergenza, si trasformino i medici da “angeli ed eroi”, che spesso volontariamente si espongono anche al rischio di mettere a repentaglio la propria salute, in veri e propri “capri espiatori”, per esiti avversi legati al problematico contesto nel quale sono stati chiamati ad operare?

     4) L’attuale pandemia ha posto nuovamente all’attenzione dei giuristi la tematica dell’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label. Ritiene che tale specifico aspetto debba essere preso in considerazione da una eventuale modifica normativa che delinei e adeguatamente circoscriva, semmai limitatamente alla fase della emergenza da Covid - 19, le ipotesi di responsabilità dei medici?

     5)Ritiene configurabile una responsabilità in capo alle strutture sanitarie per l’eventuale diffusione intramoenia del contagio da Covid - 19? Quanto potranno influire nella valutazione l’organizzazione e la logistica della struttura e quanto, invece, l’eccezionalità della emergenza?

    2.La scelta del tema.

     La pandemia in corso non solo  ha messo in evidenza alcune criticità del Sistema Sanitario Nazionale (v. in questa Rivista, “Guardare oltre covid – 19 proposte per il rinnovamento del sistema sanitario nazionale”di Paolo De Paoli https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/970-guardare-oltre-covid-19-proposte-per-il-rinnovamento-del-sistema-sanitario-nazionale e “Sull’emergenza (annunciata) del Servizio sanitario nazionale” di Alice Cauduro e Paolo Liberati https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/954-sull-emergenza-annunciata-del-servizio-sanitario-nazionale), ma rende attuale, ancora una volta, il tema della responsabilità medica.

    Note sono le notizie di stampa relative alla promessa, da parte di alcuni studi legali  e associazioni, di  avviare azioni  civili e penali nei confronti di sanitari per possibili casi di  malpratice medica. 

    Si è così  ingenerato un dialogo, a distanza,  tra la Federazione nazionale degli ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri ( FNOMCEO) ed il Consiglio Nazionale Forense che, con un comunicato del  2 aprile, si è visto costretto ad assicurare “l’attenta vigilanza di tutte le istituzioni forensi nell’individuare  e sanzionare i comportamenti di quei pochi avvocato che intendono speculare sul dolore e le difficoltà altrui, nel difficile momento che vive il nostro paese”.

    Giustizia Insieme continua a seguire il relativo dibattito politico e giuridico  e sceglie di dare eco  a due voci: quella del Prof. Cristiano Cupelli, Professore associato di diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata e quella del Cons, Giacomo Travaglino, Presidente della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione. Un confronto tra la dottrina (penale) e la giurisprudenza (civile) in una materia che è stata già oggetto, negli ultimi anni, di interventi normativi (v. legge “ Gelli – Bianco” del  8 marzo 2017, n. 24 e legge “ Balduzzi” del 13. Settembre  212, n. 158).

    Ad entrambi abbiamo chiesto di affrontare alcuni dei molteplici profili che  sono emersi  in questa fase di emergenza: i limiti della  responsabilità individuale,  la responsabilità delle strutture sanitarie per la diffusione del contagio, la sperimentazione clinica, i possibili scenari di una riforma legislativa.

     Michela Petrini

    3. Le risposte.

     1)Anche nel quadro della responsabilità dello Stato per le cure mediche adeguate alla generalità della popolazione, a più riprese ma con precisi limiti ribadito dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo come espressione della tutela sostanziale del diritto alla vita (tra molte, v. Lopes de Sousa c/ Portogallo 19/12/2017), quali problemi e quali rischi può determinare l’odierna emergenza Covid-19 sul piano della responsabilità civile e penale degli operatori sanitari coinvolti in prima linea sul fronte del contrasto al contagio?

    Cristiano Cupelli: tra i numerosi e densi spunti di riflessione che l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo pone all’attenzione del giurista vi è certamente, oltre alla necessità di limitare la diffusione dell’epidemia sanzionando chi viola gli obblighi di quarantena, anche quella, forse meno evidente, di garantire gli operatori sanitari, impegnati in prima linea nella salvaguardia della salute individuale e collettiva.

    Molto si parla, nel dibattito mediatico e politico, dell’esigenza di dotare il personale sanitario, medico e infermieristico, degli indispensabili presidi a garanzia della loro incolumità, in ragione della loro fisiologica e inevitabile esposizione al pericolo di contagio (si contano,  alla data del 2.5.2020, 154  morti  tra i medici in attività  e quelli  pensionati, alcuni dei quali richiamati in attività, come riportato sul sito https.//portale.fnomceo.it  della Federazione Nazionale degli ordini dei Chirurghi e degli Odontoiatri,) e, conseguentemente, di una successiva e massiva diffusione ulteriore, loro tramite, dell’epidemia.

    Ma la diffusione a ritmo esponenziale dell’infezione e l’elevato numero di malati che necessitano di cure e ricovero soprattutto nei reparti di terapia intensiva (con uso di ventilazione assistita) o di pneumologia hanno drammaticamente messo in luce il limite delle risorse disponibili in termini tanto strutturali e organizzativi (numero di posti letto, disponibilità di farmaci e tecnologie) quanto soggettivi (presenza di personale medico ed infermieristico in numero sufficiente e con requisiti di specifica competenza e conseguente effettuazione di turni di lavoro massacranti).

    Come è ormai ben noto, al cospetto di evidenti deficit di organico, nel tentativo di assicurare il più esteso livello di cura ci si è trovati costretti a fare ricorso, su base volontaria, ad altri operatori sanitari disponibili nella struttura, pure se privi del necessario livello di specializzazione in relazione al tipo di attività medica prestata. Da parte loro, in queste evenienze vi è un’assunzione volontaria del rischio; la particolarità della situazione emerge anche solo pensando come questa situazione sarebbe di norma punibile a titolo di colpa perché riconducibile alla violazione di una regola cautelare prudenziale, che dovrebbe condurre all’astenersi dall’attività. Senonché, è evidente l’iniquità di un siffatto esito, dal momento che il coinvolgimento di tali medici, pur in assenza della richiesta qualificazione specialistica, è spinto dalla necessità di prevenire il verificarsi di un evento avverso altrimenti non fronteggiabile per la carenza di soggetti adeguatamente qualificati disponibili in quel momento.

    Oltre a ciò, va considerato come, nonostante gli sforzi organizzativi e finanziari a livello statale e regionale diretti ad aumentare il numero dei posti letto disponibili in terapia intensiva (trasformando e allestendo nuovi reparti, acquistando le tecnologie necessarie, incrementando il personale, ecc.), la potenza diffusiva della pandemia è ben più veloce e adombra l’allarmante scenario che sugli stessi medici possa persino ricadere, in certi casi, la tragica decisione, fra pazienti con diverse speranze e possibilità di sopravvivenza, su chi includere o escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione: in sostanza, la scelta di chi curare prima o addirittura non curare.

    Emblematico, in tal senso, l’ulteriore incertezza determinata dalla contrapposizione tra la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Anelgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e il CNB (Comitato Nazionale per la Bioetica); la prima, infatti, ha pubblicato, lo scorso 6 marzo, le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, nelle quali non si escludeva la possibilità di fare ricorso a “criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”, condizioni che potrebbero anche rendere necessario “porre un limite di età all'ingresso in terapia intensiva”, in una logica che privilegi la “maggiore speranza di vita”.

    Di contro, l’8 aprile, il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere “Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del ‘triage in emergenza pandemica’”, ha invece scelto una strada diversa, fissando il “criterio clinico” come il “più adeguato” per scegliere come allocare le risorse a disposizione in una situazione di emergenza come quella attuale, ritenendo ogni altro criterio “eticamente inaccettabile” e indica altresì tre condizioni che devono soprassedere al triage in emergenza: “la preparedness (predisposizione di strategie di azione nell’ambito della sanità pubblica, in vista di condizioni eccezionali, con una filiera trasparente nelle responsabilità), l’appropriatezza clinica (valutazione medica dell’efficacia del trattamento rispetto al bisogno clinico di ogni singolo paziente, con riferimento alla urgenza e gravità del manifestarsi della patologia e alla possibilità prognostica di guarigione, considerando la proporzionalità del trattamento), l’attualità, che inserisce la valutazione individuale del paziente fisicamente presente nel pronto soccorso nella prospettiva più ampia della comunità dei pazienti, con una revisione periodica delle liste di attesa”.

    In questa situazione, allora, non è irrealistico immaginare, al di là di quello per la loro salute, un ulteriore fronte di rischio per gli operatori sanitari, legato alla possibile responsabilità per eventi avversi che si verifichino nell’ambito dell’emergenza epidemiologica: quante denunce e richieste di risarcimento è ragionevole attendersi nei loro confronti (e nei riguardi delle strutture sanitarie), all’esito del numero, inevitabilmente elevatissimo, di morti per o da coronavirus?

    L’interrogativo, tutt’altro che retorico, trova spazio sugli organi di informazione e pone all’ordine del giorno l'urgenza di impedire che, da un lato, abbiano il sopravvento tendenze dirette a placare l’ansia con la ricerca di capri espiatori e, dall’altro che, profilandosi negli operatori sanitari le preoccupazioni per la propria incolumità giudiziaria, possa nell’immediato prevalere in loro sull’ammirevole spirito solidaristico dimostrato sinora il burnout, un logoramento che consuma l’energia della vocazione e produce stanchezza, frustrazione e rabbia, accompagnato dalla tentazione di atteggiamenti autocautelativi improntati a una sorta di medicina difensiva dell’emergenza (non si interviene più perché non si ha esperienza e competenza specifica o non si tentano cure non del tutto validate).

    Ecco che allora emerge come ineludibile l’esigenza di fronteggiare a tutela degli operatori sanitari anche il c.d rischio penale: il che si concretizza in uno sforzo di personalizzazione della responsabilità, in chiave di necessaria limitazione della stessa, con riferimento agli esercenti le professioni sanitarie, attori fondamentali e insostituibili nella cura dei contagiati e nella tutela della salute collettiva, oggi celebrati come veri e propri “eroi nazionali”, che non possono perciò rimanere, una volta finita la pandemia, sovraesposti al rischio penale.

    Giacomo Travaglino: la responsabilità dello Stato (in ipotesi modellata su quella da trasfusione di sangue infetto) mi sembra difficilmente configurabile, salvo casi di fornitura diretta, da parte del Ministero della Sanità, di materiale non idoneo, che sia stata la causa del danno. Vedrei con favore una legge che preveda una soluzione indennitaria (sulla falsariga della normativa sulle trasfusioni e dell'esperienza francese), ma ho dubbi che, allo stato, sia praticabile e sostenibile per il bilancio dello Stato.

     L'attuale disciplina normativa (legge n. 24 del 2017) ha già notevolmente alleviato la posizione processuale degli operatori sanitari sul piano civilistico (più complessa appare la riforma di cui all'art. 6 della legge Gelli, che, modificando le originarie previsione della legge Balduzzi -più efficaci e di più agevole interpretazione - ha posto non poche questioni quanto alle tre forme di di colpa generica e quanto alla delimitazione della colpa grave per imperizia, su cui le stesse sezioni unite non sembra abbiano fatto definitiva chiarezza).

    2. Ritiene che l’attuale elaborazione normativa e giurisprudenziale in tema di responsabilità medica sia idonea a fronteggiare questa eccezionale situazione, oppure le difficoltà nel fronteggiare un virus in relazione al quale gli studi scientifici non hanno ancora raggiunto approdi appaganti sono tali da rendere concreto il rischio di una “medicina difensiva dell’emergenza Coronavirus” o anche solo di arginare la spinta solidaristica che, in questi mesi, ha consentito di incrementare l’organico del personale sanitario disponibile ad operare negli ospedali? Quali i possibili costi e quali gli ulteriori eventuali profili di responsabilità per gli operatori sanitari?

    Cristiano Cupelli: soffermandoci sul fronte penalistico, occorre preliminarmente interrogarsi sull’adeguatezza dell’attuale disciplina e in particolare dell’art. 590-sexies c.p., introdotto nel codice penale con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) e specificamente dedicato alla responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria.

    L’attuale ‘scudo penale’, che consente all’operatore sanitario di essere esonerato dalla responsabilità per colpa, è allo stato (anche del contributo reso dalle Sezioni unite penali della Cassazione nella sentenza Mariotti del febbraio 2018): a) circoscritto alle sole fattispecie di omicidio e lesioni colposi; b) limitato alle sole ipotesi di imperizia non grave, riferibile al solo atto esecutivo; c) ancorato al rispetto di linee-guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali consolidate; d) in ogni caso subordinato a un vaglio di adeguatezza delle raccomandazioni contenute in siffatte linee-guida certificate alle specificità del caso concreto.

    È sin troppo evidente come questa ristretta area di non punibilità colposa appaia assolutamente inidonea rispetto alle contingenze emergenziali nelle quali il personale sanitario è chiamato a operare nell’odierna fase di contrasto al Covid-19, in quanto:

    i)non vi sono linee guida accreditate o pratiche consolidate a cui legare il giudizio di rimproverabilità o non rimproverabilità (vista la novità della patologia e la sostanziale mancanza, allo stato, di evidenze terapeutiche);

    ii) le ipotesi di colpa (non punibili) da considerare nell’emergenza Covid-19 non possono essere limitate ai soli casi di imperizia non grave realizzati nella fase esecutiva, ma devono essere estese anche agli episodi di negligenza o di imprudenza non gravi (si pensi al difetto di attenzione derivante dal dover lavorare per molte ore consecutive, con ritmi massacranti o con insufficiente personale medico-infermieristico specializzato);

    iii) vi è la necessità di esonerare da responsabilità penale gli operatori sanitari non solo per omicidio e lesioni colposi ma anche per epidemia colposa causata dalla mancanza di mezzi di protezione individuale o da un non adeguato isolamento dei pazienti derivante dalla incessante affluenza di malati al pronto soccorso.

    A ciò, va aggiunto come, sul piano tecnico-giuridico, non si possa nemmeno, in queste ipotesi, fare affidamento sulla sola capacità ‘salvifica’ della c.d. misura soggettiva della colpa. Si tratta di una categoria certamente capace – in linea teorica – di fornire un adeguato strumento di valutazione delle emergenze ‘contestuali’ e personali, legate alle difficoltà contingenti in cui l’operatore sanitario è chiamato a svolgere la propria attività di cura e assistenza.

    Questo tipo di accertamento fa leva sull’applicazione, anche in sede penale, della clausola generale contenuta all’art. 2236 c.c., che, in presenza di “problemi tecnici di speciale difficoltà” della prestazione professionale, limita la responsabilità del prestatore d’opera ai soli casi di dolo e colpa grave. Tuttavia, come è ben noto, la giurisprudenza penale in ben poche occasioni vi ha effettivamente fatto ricorso in ambito sanitario, degradando la disposizione civilistica da canone valutativo a mera clausola di stile.

    Giacomo Travaglino: l'evoluzione giurisprudenziale degli ultimi 3 anni (a far data dalla sentenza 18392/2017 della Cassazione) sembra univocamente indirizzata nel senso di una maggior tutela del personale sanitario e di un maggior rigore imposto sul piano probatorio al paziente (segnatamente in tema di nesso di causalità e di causa ignota). Naturalmente, è difficile azzardare previsioni sul comportamento della giurisprudenza di merito a fronte di una situazione emergenziale che non ha precedenti nel nostro Paese e non solo. Può solo ipotizzarsi che una corretta applicazione della novella legislativa del 2017 e il rispetto dei recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità - cristallizzati nel cd. "progetto sanità", che ha trovato attuazione nelle 10 sentenze-pilota dell'11 novembre 2019 - possa costituire sufficiente garanzia per il personale sanitario (garanzia che non significa, ovviamente, impunità tout court).

    2.Ritiene opportuni interventi normativi espliciti per arginare il pericolo che, una volta terminata l’emergenza, si trasformino i medici da “angeli ed eroi”, che spesso volontariamente si espongono anche al rischio di mettere a repentaglio la propria salute, in veri e propri “capri espiatori”, per esiti avversi legati al problematico contesto nel quale sono stati chiamati ad operare?

    Cristiano Cupelli: preso atto che ci si trova al cospetto di una situazione emergenziale nuova, in cui – per le ragioni sin qui evidenziate, che rendono difficile e complesso anche quel che di regola e in condizioni ordinarie è facile e che abbattono le normali capacità di risposta anche per patologie diverse dal Covid, a fronte dello scompaginamento delle tradizionali modalità e priorità di intervento, cui si vanno ad aggiungere discusse iniziative di associazioni o studi legali che spingono a intraprendere azioni giudiziarie per presunte inadempienze nei confronti della classe medica (come stigmatizzato anche dal Consiglio Nazionale Forense oltre che da molti Consigli degli Ordini degli Avvocati su base territoriale) – non si può pretendere dal medico il rispetto delle cautele ordinariamente esigibili, la via obbligata sembra quella di introdurre un’apposita disciplina volta ad ampliare l’area di esonero da responsabilità colposa, plasmata sulle peculiarità della medicina dell’emergenza pandemica, che prospetti uno statuto penale ad hoc per la gestione clinica e assistenziale di tale rischio.

    Nello stesso senso, la questione è stata di recente affrontata – con parole chiare – dal Comitato Nazionale di Bioetica, che, nel richiamato parere reso lo scorso 8 aprile, al punto 4.2., ha riconosciuto come - al cospetto delle “limitate risorse sanitarie disponibili durante l’emergenza, in termini tanto strutturali che organizzativi, incluso un organico spesso sottodimensionato, sia negli ospedali che nel territorio”; dell’esigenza di “dover lavorare per molte ore consecutive, con ritmi massacranti, a volte anche con dispositivi di protezione inadeguati, con un alto rischio di infettarsi e persino di morire” (corroborato dai numerosissimi decessi degli operatori sanitari); dell’incertezza scientifica che caratterizza la novità dell’attuale emergenza pandemica (nel combattere il contagio da Covid-19 si opera in assenza di linee guida consolidate, di buone pratiche clinico- assistenziali riconosciute come tali dalla comunità scientifica, di evidenze terapeutiche); della preoccupante “proliferazione di contenziosi giudiziari nei confronti dei professionisti della salute nel contesto dell'attuale emergenza pandemica” - “vada presa in considerazione l'idea di limitare eventuali profili di responsabilità professionale degli operatori sanitari in relazione alle attività svolte per fronteggiare l'emergenza Covid-19”.

    Ebbene, dovrebbe trattarsi di un intervento di natura necessariamente sostanziale, volto ad da offrire alla magistratura i necessari strumenti per escludere il rilievo penale di determinate condotte ed operare più agevolmente – dopo – sul piano processuale.

    Si tratterebbe, peraltro, di un intervento in grado di svincolarsi da taluni dubbi ‘tradizionali’ legati a una disciplina di maggiore favore per la classe medica sul piano della compatibilità con i principi costituzionali; non v’è chi non veda, infatti, come, sotto il parametro della ragionevolezza e dell’uguaglianza, la peculiarità di un siffatto regime di responsabilità penale troverebbe giustificazione nella pericolosità/difficoltà dell’attività sanitaria che, in questo momento, non è di certo paragonabile alla pericolosità/difficoltà di altre attività professionali, le quali non possono dirsi dotate di “un comparabile significato sociale” e non implicano, a loro volta, rischi altrettanto gravi per la vita o incolumità delle persone.

    Ritengo che questo auspicato intervento normativo dovrebbe all’interno di un ben definito campo di applicazione funzionalmente connesso alla gestione del rischio CODIV 19 e temporalmente limitato al perdurare dell’emergenza sanitaria tenere conto di alcune direttrici di fondo:

    a) limitare la responsabilità penale degli operatori sanitari alle sole ipotesi di colpa grave, di qualunque matrice colposa: oltre all’imperizia, dunque, anche condotte connotate da negligenza e imprudenza;

    b) introdurre una definizione di colpa grave (sottraendola così all’assoluta discrezionalità giurisprudenziale), nella quale si dia peso rilevante ai fattori ‘contestuali’ ed ‘emergenziali’ (tra i quali, il numero di pazienti contemporaneamente coinvolti, gli standard organizzativi della singola struttura in rapporto alla gestione dello specifico rischio emergenziale, l’eventuale eterogeneità della prestazione rispetto alla specializzazione del singolo operatore);

    c) valutare l’opportunità di allargare l’area di irresponsabilità colposa (sempre dei soli operatori sanitari) anche a fattispecie diverse da lesioni e omicidio (si pensi ad altri eventi avversi e alla possibile contestazione del delitto di epidemia colposa nei riguardi del medico costretto ad operare in assenza di adeguati presidi protettivi);

    d) ragionare sul peso da attribuire, in una situazione di incertezza scientifica, al rispetto di linee-guida anche se non accreditate o di buone pratiche clinico-assistenziali non ancora consolidate.

    In questa direzione sembravano peraltro orientate alcune proposte discusse in sede di conversione in legge del d.l. n. 18 del 2020 (c.d. decreto “Cura Italia”); la mancata convergenza, in sede politica, sull’opportunità di estendere l’esenzione di responsabilità anche al settore della responsabilità civile e soprattutto con riferimenti ai vertici amministrativi e gestionali delle strutture sanitarie ha impedito l’approvazione della proposta, trasformata in un ordine del giorno che ha impegnato il Governo ad avviare, in tempi molto rapidi, un tavolo di lavoro per approfondire il tema della responsabilità nei suoi vari aspetti, coinvolgendo rappresentanti del Governo, dei gruppi parlamentari, delle regioni e delle province autonome, dell’Ordine dei medici e di altre categorie direttamente chiamate in causa. Da ciò che risulta, il lavoro sta andando avanti e non possiamo che augurarci che, almeno sul fronte penalistico, tenga in considerazione le linee guida’ poc’anzi enucleate, che in gran parte erano state recepite nell’emendamento di maggioranza (primo firmatario il sen. Marcucci) presentato in Senato.

    Una volta finita l’emergenza, se ne potrà trarre ulteriore beneficio in termini di più generale ripensamento della responsabilità colposa in ambito sanitario, riflettendo, da un lato, sull’esportabilità di una clausola definitoria generale di colpa grave che tenga esplicitamente conto dei c.d. fattori contestuali e, dall’altro, sui confini applicativi da assegnare alla non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p. oltre gli angusti limiti della sola imperizia lieve nella fase esecutiva.

    Soprattutto, la pandemia improvvisa potrà meglio far comprendere come in sanità pubblica non possa essere trascurato l’obiettivo – ricordatoci da ultimo dal comitato Nazionale per la Bioetica - della preparedness, la capacità di essere pronti e reattivi nel campo delle emergenze, attraverso la valorizzazione delle competenze epidemiologiche, virologiche e di gestione di macro eventi, onde evitare che eventi quali le epidemie debbano essere affannosamente rincorsi, mettendo a repentaglio la salute di medici e cittadini.

    Giacomo Travaglino: eventuali interventi normativi dovrebbero, in premessa, porsi l'interrogativo di fondo circa il risultato che ci ripromette di conseguire, se, cioè, evitare a monte il coinvolgimento dei medici nel processo, ovvero, a valle, garantir loro una più intensa tutela in sede decisionale. Nel primo caso, si potrebbe modellare l'intervento legislativo sulla falsariga dell'attuale normativa sulla responsabilità dei magistrati; nel secondo, potrebbe essere introdotto un articolo 2045 bis nel codice civile, prevedendo, come causa di giustificazione funzionale ad elidere l'antigiuridicità del fatto, la forza maggiore, con connessa inversione dell'onere probatorio (sarebbe il paziente a doverne provare l'a mancanza, nel caso di specie, e non il medico a provarne l'esistenza, secondo le ordinarie regole probatorie);  ancora, si potrebbe introdurre l'art. 1218 bis nel codice civile, prevedendo che costituisca causa non imputabile, ai fini dell'affermazione della responsabilità del sanitario, la sproporzione tra le risorse disponibili e il numero dei pazienti determinatasi a seguito dell'emergenza da Covid 19 (come suggerito da Enrico Scoditti in un suo recente intervento su Questione Giustizia).

    3. L’attuale pandemia ha posto nuovamente all’attenzione dei giuristi la tematica dell’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label. Ritiene che tale specifico aspetto debba essere preso in considerazione da una eventuale modifica normativa che delinei e adeguatamente circoscriva, semmai limitatamente alla fase della emergenza da Covid - 19, le ipotesi di responsabilità dei medici?

    Cristiano Cupelli: nell’attuale condizione di incertezza scientifica e di assenza di terapie di comprovata efficacia, torna inevitabilmente ad assumere rilievo la tematica relativa all’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label (o fuori etichetta o fuori scheda tecnica), fenomeno dilagato negli ultimi anni e disciplinato dalle leggi n. 648 del 1996 e n. 94 del 1998, che riguarda le ipotesi in cui un farmaco venga prescritto per un’indicazione terapeutica diversa da quella contenuta nell’autorizzazione ministeriale di immissione in commercio (indicazione poi trasfusa nel foglietto illustrativo accluso alla confezione) ovvero l’indicazione terapeutica sia stata autorizzata, ma non sia stata autorizzata la via o la modalità di somministrazione in concreto prescelta.

    La nuova e in gran parte sconosciuta patologia viene infatti affrontata, oggi, curando i sintomi attraverso l’impiego di medicinali commercializzati per altre indicazioni, i quali vengono resi disponibili ai pazienti, pur in assenza di indicazione terapeutica specifica per il Covid-19, sulla base di evidenze scientifiche spesso limitate; senza trascurare le ipotesi in cui per fronteggiare l’emergenza stessa si faccia un “uso compassionevole” del presidio farmacologico ricorrendo a prodotti in fase di sperimentazione (è il caso, ad esempio, del “Remdesivir”, molecola sperimentale pensata e testata dall’americana Gilead per combattere il virus Ebola e ora allo studio per il trattamento di Covid-19).

    Va altresì aggiunto che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) attraverso una circolare emanata il 6 aprile ha, da un lato, fornito ai clinici elementi utili ad orientare la prescrizione e a definire, per ciascun farmaco utilizzato, un rapporto fra i benefici e i rischi sul singolo paziente con riferimento all’uso off label di medicinali in commercio in Italia; dall’altro, per quanto concerne l’uso compassionevole, ha adottato procedure straordinarie e semplificate per la presentazione e l’approvazione delle sperimentazioni e per la definizione delle modalità di adesione agli studi e di acquisizione dei dati; tutto ciò, in attuazione di quanto previsto all’art. 17, comma 5 dal decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, abrogato e sostituito dall’art. 40 del decreto-legge n. 23 del 2020, con il quale è stato inoltre istituito un comitato etico unico nazionale – individuato nel comitato etico dell’Istituto Nazionale Spallanzani di Roma – con il compito di provvedere alla valutazione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali per uso umano e dei dispositivi medici per pazienti con COVID-19 e di esprimere il parere nazionale, anche sulla base della preventiva valutazione della Commissione Tecnico Scientifica (CTS) dell’AIFA, sulle sperimentazioni cliniche dei medicinali per uso umano, degli studi osservazionali sui farmaci, dei programmi di uso terapeutico compassionevole per pazienti con Covid-19.

    Ebbene, tornando alla prospettiva penalistica, il regime delle eventuali responsabilità connesse agli effetti avversi derivanti dalla somministrazione di un farmaco off label è chiamato, ancora una volta, a fare i conti con le carenze della disciplina attuale: in questo caso, seppure la procedimentalizzazione attuata nei termini appena segnalati dall’articolo 40 del decreto-legge n. 23 del 2020 (e prima ancora dall’art. 17 del decreto-legge n. 18 del 2020) proprio al fine di fronteggiare l’emergenza può innescare un meccanismo in grado di evocare una buona pratica (come qualificata nella pagina relativa al Corona Virus Desease del sito del Sistema Nazionale delle Linee Guida dell’Istituto Superiore della Sanità), questa sarebbe tuttavia priva di una sufficiente stabilità per i già segnalati deficit di certezza dell’attuale quadro scientifico che ne determinano una continua variabilità, cui si sommerebbero gli altri limiti strutturali che rendono comunque non risolutiva – come si è provato a dimostrare poc’anzi - la causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p.

     Giacomo Travaglino: sui farmaci Off-label - e previa necessaria acquisizione del consenso informato del paziente - è possibile un intervento ampliativo delle regole della Convenzione di Oviedo del 1997 (credo...)

     4. Ritiene configurabile una responsabilità in capo alle strutture sanitarie per l’eventuale diffusione intramoenia del contagio da Covid - 19? Quanto potranno influire nella valutazione l’organizzazione e la logistica della struttura e quanto, invece, l’eccezionalità della emergenza?

    Cristiano Cupelli:  il tema della responsabilità delle strutture sanitarie, su cui si è diviso il fronte politico nella discussione in Senato, è un punto estremamente delicato, che chiama in causa principalmente il profilo civilistico e amministrativistico. Ciò nonostante, la questione non è del tutto svincolata dal rilievo penalistico, dal momento che una volta esclusa in sede penale la responsabilità del singolo operatore occorrerà interrogarsi se e a quale titolo si potrà poi chiamare in causa la struttura. Per ragioni di uniformità, dunque, sarebbe auspicabile – in prospettiva di riforma - un allineamento dei regimi di imputazione della responsabilità; sulla falsariga di quanto prospettato nel corso dell'esame del decreto ‘Cura Italia’, anche in ambito civile ciò comporterebbe il dare rilievo alla sola colpa grave, potendosi altresì richiamare l'art. 651-bis c.p.p. quanto agli effetti, nel giudizio civile o amministrativo, della sentenza penale di proscioglimento pronunciata per mancanza di colpa grave a seguito di dibattimento.

    Si potrebbe al contempo ipotizzare un indennizzo a carico dello Stato, a favore di medici e più in generale di esercenti le professioni sanitarie che si siano deceduti o abbiano subito danni permanenti a seguito di contagio nell’ambito del lavoro svolto in strutture sanitarie; tale soluzione avrebbe un non irrilevante effetto deflattivo del carico giudiziario, evitando la proposizione di azioni da parte di sanitari o loro eredi, dirette proprio a ottenere il risarcimento dei danni subiti nell’esercizio dell’attività lavorativa durante la fase emergenziale. Si potrebbe riflettere altresì sull’opportunità di prevedere forme indennitarie - in chiave di riequilibrio - anche nei confronti di familiari di pazienti deceduti, previo accertamento giudiziario della riconducibilità di tali eventi avversi a condotte dei sanitari connotate da colpa non grave (per le quali si sia previsto il prospettato esonero di responsabilità civili e penali).

    Queste considerazioni, legate alla condizione degli operatori sanitari quali vittime del contagio nell’esercizio delle loro funzioni, ci consente di precisare ulteriormente come le responsabilità penali dei vertici amministrativi e gestionali – tema caldissimo, al centro di scontri politici accesi in merito all’estensione anche nei loro confronti di una clausola di esenzione della responsabilità – vadano necessariamente ancorate all’accertamento di eventuali violazioni da parte di coloro che rivestano posizioni apicali e ruoli decisionali di disposizioni cautelari volte a garantire la sicurezza sul lavoro degli operatori stessi che ne abbiano cagionato la morte o lesioni per colpa. Si tratta, dunque, di un capitolo distinto e svincolato da quello della responsabilità dei medici, a meno che questi ultimi non rivestano ruoli gestionali o che nei loro riguardi non emergano atteggiamenti di connivenza o addirittura complicità.

    Ciò apre peraltro la strada, sempre sul versante penalistico, all’ipotesi anche di una responsabilità della struttura sanitaria ai sensi dell’art. 25 septies del d.lgs. n. 231 del 2001, in caso di omicidio e lesioni colposi nei confronti dei medici in caso di violazione di norme relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, qualora ovviamente ne ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi (vantaggio in termini di risparmio di spesa e colpa di organizzazione).

    Ancora e infine, nel caso in cui dovesse emergere negli stessi operatori la consapevolezza dell’epidemia in atto in una determinata struttura e che gli stessi, per evitare pregiudizi economici e non spaventare i pazienti, non abbiano adottato scientemente le dovute precauzioni, contemplate in precise disposizioni protocollari che siano state macroscopicamente violate, si profila una vera e propria accettazione del rischio e dunque una responsabilità a titolo di dolo eventuale, con il paradossale corollario di escludere tuttavia la responsabilità dell’ente per l’assenza del reato presupposto.

    Giacomo Travaglino: il tema delle infezioni nosocomiali è assai delicato, poiché la giurisprudenza di legittimità largamente maggioritaria è orientata nel senso di una responsabilità sostanzialmente oggettiva, in presenza di alcuni presupposti di fatto (assenza di infezioni pre-ricovero e sviluppo dell'infezione nelle 48 ore successive alle dimissioni). Anche in questo caso, potrebbe risultare utile un intervento normativo, che, peraltro, non mi sembra di facile attuazione

    4. Conclusioni.

    L’emergenza sanitaria ha introdotto  nuovi aspetti che il legislatore (forse) e  i giudici (certamente)  dovranno esaminare per individuare l’eventuale  grado della colpa del sanitario o, addirittura, per esonerare quest’ultimo da qualsivoglia rimprovero: la situazione organizzativa e logistica della struttura ove il paziente è stato ricoverato oppure  ha ricevuto la diagnosi e/o la prestazione sanitaria; l’eccezionalità del contesto emergenziale; la dotazione di attrezzature, dispositivi di protezione e personale anche  in rapporto al numero dei pazienti ricoverati ed alla gravità delle loro condizioni di salute, lo stato del sapere scientifico nel momento storico nel quale è stata effettuata la prestazione; il grado di specializzazione del singolo operatore sanitario.

    La strada  che verrà intrapresa è - allo stato - ancora  incerta e molteplici sono gli scenari che si aprono all’orizzonte di medici che, finita l’emergenza  e sciolto  l’abbraccio  di riconoscenza che oggi li accompagna, potrebbero vedersi costretti a percorrere non più le corsie delle terapie intensive,  ma i corridoi dei tribunali italiani.

    Ciò che sicuramente non è auspicabile,  per il futuro,  è una acutizzazione dei conflitti e delle controversie tra pazienti e medici;  la drammaticità della situazione vissuta dovrebbe essere l’occasione  per rafforzare una  alleanza, che, oggi più mai, deve essere non solo terapeutica, ma  deve esplicarsi in un vincolo solidaristico di comunità che si snodi attraverso la lealtà della comunicazione, l’ascolto e la fiducia reciproca.

    Michela Petrini


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