GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La Corte costituzionale aperta alla società civile      Intervista a Valerio Onida  e Vladimiro Zagrebelsky

    La Corte costituzionale aperta alla società civile  

      Intervista a Valerio Onida  e Vladimiro Zagrebelsky  

    di Roberto Conti    

     

    Giustizia Insieme ha pensato di propiziare la riflessione di due personalità del mondo giuridico italiano sulle recenti modifiche introdotte nel gennaio 2020 al giudizio costituzionale, salutate a volte con autentico entusiasmo, altre con nemmeno celata preoccupazione.

    L'esperienza maturata all'interno della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo da Valerio Onida e Vladimiro Zagrebelsky fa da collante ai quesiti che intendono non soltanto approfondire in chiave divulgativa e informativa la conoscenza sulle nuove norme integrative, ma altresì favorire un approccio comparativo  rispetto ad istituti già in parte in uso presso la Corte  europea dei diritti dell'uomo, anche al fine di misurare la concreta possibilità ed utilità  di sviluppi ulteriori  rispetto alle ricordate modifiche, fino a  giungere alle questioni che ruotano sul ruolo della Corte costituzionale nell'attuale assetto dei poteri.    

    1.Le recenti integrazioni delle Norme integrative che regolano il processo costituzionale introdotte a pochi giorni di distanza dalla nomina della Professoressa Cartabia a Presidente della Corte costituzionale sono state salutate con favore di una parte consistente degli operatori giudiziari. Qual è il suo avviso in proposito? Ritiene che i vantaggi di un processo costituzionale aperto possano essere oscurati dal pericolo di offrire all’opinione pubblica una visione politicizzata della Corte costituzionale, a detrimento della sua giurisdizionalità?

     

    Valerio Onida

    Le novità più significative introdotte nelle Norme Integrative con la delibera dell’8 gennaio 2010 sono la previsione degli “amici curiae” (nuovo art. 4-ter), cioè la possibilità per “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare “un’opinione scritta” (non più lunga di 25.000 caratteri, spazi inclusi), e la previsione degli “esperti” (nuovo art. 14-bis), cioè della possibilità per la Corte, “ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline” di ascoltare in camera di consiglio “esperti di chiara fama”, cui anche le parti possono, in camera di consiglio, formulare domande. 

    A queste due principali novità si aggiunge la “razionalizzazione” della disciplina degli interventi di terzi (nuovo art. 4-bis), con la previsione di una decisione separata e preventiva della Corte sulla ammissibilità degli interventi e della possibilità per gli intervenienti di accedere agli atti processuali.

    La nuova ”apertura” della Corte alla società civile si manifesta nelle due novità principali, soprattutto nella prima.

    La disciplina degli interventi di terzi, per quanto riguarda i limiti della loro ammissibilità, resta sostanzialmente invariata, come la giurisprudenza finora l’ha intesa, in modo tendenzialmente rigoroso (così per esempio da escludere l’intervento di parti di altro giudizio nel quale si ponga la stessa questione). Il nuovo comma 7 dell’art. 4 delle N.I. in sostanza riprende quella giurisprudenza quando stabilisce che “nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”, non dunque semplicemente inerente alla questione di costituzionalità proposta.

    E’ interessante osservare come tale giurisprudenza sia stata riaffermata anche dopo l’introduzione delle nuove norme: l’ordinanza n. 37 del 2020 la richiama espressamente, anche se poi, nel caso specifico (intervento del Consiglio Nazionale dell’Ordine di giornalisti in un giudizio inerente alla disciplina penale applicabile a tali professionisti), dopo avere escluso sotto altri profili il ricorso di ragioni che rendessero  ammissibile l’intervento, questo viene poi ammesso invocando una specifica circostanza della specie (il nesso fra responsabilità penale dei giornalisti e competenza disciplinare del Consiglio dell’Ordine). La qualità dell’interveniente in quel caso, fra l’altro, rifletteva proprio una delle ipotesi in cui le nuove norme integrative ammettono l’iniziativa di amici curiae (soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi attinenti alla questione).

    La nuova figura degli amici curiae introduce invece una effettiva possibilità di allargamento del contraddittorio, che mi pare molto positiva, tenendo conto del fatto che la Corte si occupa di questioni che per definizione riguardano non solo singoli interessati, ma tutti i destinatari della legge di cui si discute, quindi questioni di interesse generale. La presenza di amici curiae può ampliare e arricchire l’orizzonte delle ragioni e delle motivazioni sulle questioni esaminate, specie tenendo conto che il giudice a quo non ha alcuna possibilità, una volta emessa l’ordinanza di rimessione, di interloquire con le parti e con l’Avvocatura erariale, che di norma “difende” le disposizioni oggetto del dubbio di costituzionalità; e che le parti private del giudizio a quo non sempre hanno la disponibilità e magari talora i mezzi adeguati per intervenire efficacemente nel contraddittorio davanti alla Corte.

    L’intervento degli amici curiae può da questo punto di vista davvero costituire un potenziamento degli strumenti di controllo e di rimedio alle violazioni costituzionali emergenti nella legislazione o nella sua applicazione. Specialmente in un ordinamento come il nostro, in cui l’accesso alla Corte è riservato in linea di principio ai giudici nel corso di un giudizio (con tutti i rischi anche di insufficiente prospettazione delle questioni); in cui gli unici soggetti che possono invece ricorrere direttamente alla Corte nei confronti delle leggi statali sono le Regioni, ma solo per far valere violazioni delle loro competenze o almeno “ridondanti” sulle loro competenze; in cui è esclusa qualsiasi ipotesi di actio popularis (qual era prevista nel progetto di Costituzione), nonché di ricorso diretto individuale alla Corte costituzionale per violazione di diritti fondamentali (come quelli previsti in altri Paesi vicini): in un ordinamento cosiffatto, dunque, riconoscere a soggetti collettivi senza scopo di lucro e a soggetti rappresentativi di interessi collettivi o diffusi la possibilità non già di instaurare nuovi giudizi, ma di interloquire nei giudizi di costituzionalità delle leggi già instaurati, può rivelarsi un utile strumento di arricchimento degli istituti di giustizia costituzionale.

    E’ interessante che l’intervento degli amici curiae possa avvenire anche nei giudizi diversi da quelli incidentali, cioè nei giudizi principali e in quelli per conflitto di attribuzione, come si ricava dal richiamo all’art. 14-ter introdotto negli artt. 23 (giudizi in via principale), 24 (conflitti di attribuzione fra poteri) e 25 (conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni), dunque lungo tutto l’arco delle funzioni della Corte (eccettuata ovviamente quella penale residua).  La novità mi sembra dunque assolutamente positiva, e lo strumento merita di esser utilizzato con larghezza dai soggetti abilitati.

    Quanto alla previsione della audizione di “esperti”, essa in realtà appare, più che una “apertura” alla società civile, uno strumento inteso a facilitare e ad arricchire l’uso dei poteri istruttori di cui la Corte già ampiamente disponeva, consentendole  di udire dal vivo il parere (non consacrato in documenti già acquisibili dalla Corte) di persone qualificate (“di chiara fama”) su argomenti tecnico-scientifici che in qualunque modo si intreccino alle questioni di costituzionalità discusse davanti alla Corte.   L’art. 13 della legge n. 87 del 1953, come è noto, prevede che “La Corte può disporre l’audizione di testimoni e, anche in deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o documenti”; e l’art. 12 delle norme integrative – non modificato – prevede che “La Corte dispone con ordinanza i mezzi di prova che ritiene opportuni e stabilisce i termini e i modi da osservarsi per la loro assunzione”. Dunque la Corte poteva già “acquisire informazioni”: nella nuova norma si precisa il riferimento al fatto che si tratti di informazioni attinenti a “specifiche discipline”, e quindi si allude esplicitamente alla circostanza che talora la risposta ai problemi prospettati può dipendere anche da dati tecnico-scientifici o dalla loro interpretazione.

    Significativa è soprattutto la possibilità prevista per le parti di partecipare alla camera di consiglio all’uopo convocata, e in quella sede, con l’autorizzazione del Presidente, di “formulare domande agli esperti”. Assoluta novità, questa, se si eccettua la prassi introdotta nei giudizi sull’ammissibilità dei referendum abrogativi, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, di consentire ai promotori e al Governo di illustrare in camera di consiglio le rispettive memorie depositate ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 352 del 1970, prassi successivamente estesa, a partire dalla sentenza n. 31 del 2000, ad altri soggetti, senza peraltro che essi assumano la posizione di parti intervenienti.

    Non si dice se, convocando gli esperti, la Corte deve indicare in qualche modo (come è plausibile che faccia) l’oggetto specifico dell’audizione, al di là dell’oggetto del giudizio costituzionale, e se deve formulare precisi quesiti sui quali udirli; né se, oltre alle eventuali domande poste dalle parti, anche i Giudici potranno porre domande agli esperti.

    Il primo caso pratico si è verificato con l’ordinanza depositata in cancelleria, non pubblicata ma del cui contenuto è dato conto in un comunicato stampa del 28 febbraio 2020, emessa  nell’ambito di un giudizio incidentale relativo alla disciplina di posizioni dirigenziali nelle Agenzie fiscali, con la convocazione di due esperti allo scopo di acquisire informazioni “in relazione alle esigenze organizzative delle Agenzie fiscali, alle mansioni assegnate al personale e alle modalità di selezione dello stesso”. L’ordinanza offre già una prima risposta ad alcuni degli interrogativi accennati: la Corte ha detto, sia pure in modo generico, su che cosa intende sentire gli esperti, e ha disposto che la Presidente, il Giudice relatore ma anche gli altri Giudici costituzionali potranno rivolgere agli esperti “domande per valutare presupposti e ricadute organizzative dell’introduzione” nelle Agenzie fiscali delle c.d. posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER). Per la verità in questo caso la Corte sembrerebbe voler acquisire non tanto dati e valutazioni tecnico-scientifiche “attinenti a specifiche discipline”, quanto acquisire informazioni e valutazioni di “tecnici” sulle concrete esperienze, sui problemi e le prassi in atto nelle Agenzie fiscali, e le loro ragioni giustificatrici, in tema di selezione e utilizzo del personale dirigenziale.

    Certamente la convocazione e la presenza di esperti con i quali sia i Giudici che le parti interloquiscono possono favorire un parziale “disvelamento”, in una camera di consiglio aperta alle parti che precede quella decisoria, degli “itinerari” su cui la Corte si avvia per adottare la propria decisione. 

    La questione forse più delicata che si porrà anche in futuro è quella dei criteri di selezione degli “esperti di chiara fama”. Chi e come li indicherà? E le parti avranno voce in capitolo su questa scelta? Potranno a loro volta indicare degli esperti da sentire? Si potrà addirittura dar vita ad un dibattito fra gli esperti, se le rispettive opinioni non coincidessero? Infatti non è impossibile né improbabile che su temi tecnico-scientifici che si intrecciano ai problemi di costituzionalità, anche fra gli esperti possano manifestarsi indicazioni e opinioni diverse: e dunque non potrà non garantirsi un contraddittorio anche su di esse.

    A tutti questi interrogativi sarà la prassi applicativa a dare delle risposte, e dunque allo stato una valutazione ragionata e approfondita sul funzionamento pratico di questo nuovo istituto non può che essere rinviata alla concreta applicazione che se ne farà: anche tenendo conto che finora la Corte ha fatto un uso assai parco dei poteri istruttori che pure la legge (art. 13 della legge n. 87 del 1953) le affida con grande larghezza, inclusa la facoltà di disporre l’audizione di testimoni, eventualità questa finora mai verificatasi, e che potrebbe in certo senso trovare concretizzazione ora nella audizione degli “esperti”.

     

    Vladimiro Zagrebelsky

    Poco prima della recente modifica dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la Corte ha pronunciato l’ordinanza del 22 ottobre 2019 relativa alla procedura conclusasi con la sentenza 253/19. In linea con la precedente giurisprudenza, ha ricordato che l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato dalla norma oggetto di censura. Successivamente è intervenuta la integrazione dell’art. 4/7 della quale, con l’ordinanza n. 37/20, la Corte ha dichiarato che “recepisce la costante giurisprudenza di questa Corte in merito all’ammissibilità dell’intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del giudizio a quo”. Il nuovo art. 4/7 infatti dispone che “Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”.

    Nessuna novità dunque se non la trasformazione del diritto giurisprudenziale in diritto scritto. Non mi pare che da ciò discenda un processo costituzionale più aperto di quanto già non fosse e ancor meno mi sembra giustificato ipotizzare rischi per possibili conseguenze sulla natura del giudizio della Corte.

    Altra cosa è l’ammissione della figura dell’amicus curiae introdotta dal nuovo art. 4 ter. Ove fosse stata già in vigore tale norma avrebbe ad esempio portato la Corte ad ammettere il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale a svolgere un tale ruolo nel già ricordato processo conclusosi con la sentenza n. 253/19. Infatti, con la nuova norma, le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta. Tali opinioni sono ammesse se offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità. I soggetti le cui opinioni sono state ammesse non assumono qualità di parte nel giudizio costituzionale, non possono ottenere copia degli atti e non partecipano all’udienza.

    La nuova figura che viene riconosciuta nel processo davanti alla Corte ha un valore di formale riconoscimento di ciò che nella società si svolge, come fonte di argomenti potenzialmente utili ad arricchire il quadro dei motivi che possono indurre la Corte a adottare l’una o l’altra soluzione. Tuttavia, non mi sembra che nella sostanza l’innovazione sia di grande portata. Quelle opinioni verranno allegate agli atti esaminati dai giudici, senza imporre alla Corte di rispondere agli argomenti che vi sono addotti. Così avviene per analoghi scritti, variamente pubblicati, che la Corte raccoglie nei fascicoli preparati dall’Ufficio Studi o dagli assistenti dei giudici in vista della decisione della causa. Come ogni giudice, anche i giudici costituzionali, leggono anche altro, oltre a ciò che viene prodotto nei fascicoli processuali. Da tempo (e anche recentemente) l’Università di Ferrara organizza e pubblica studi sotto il titolo di “Seminari preventivi”, prima dunque, invece che dopo la sentenza della Corte, nella fiducia che nella preparazione delle sue decisioni la Corte ne prenda conoscenza.

    Conclusivamente l’introduzione dell’amicus curiae, con la rigorosa disciplina che l’accompagna, merita apprezzamento per la legittimazione che ricevono le espressioni della società civile, ma non muta certo il carattere del processo davanti alla Corte.

     

    2. L’esigenza di aprire il giudizio costituzionale alle voci di esperti ha quasi naturalmente orientato lo sguardo verso esperienze simili maturate in contesti diversi e, per quel che qui importa, all’art.36 CEDU. Pensa che la comparazione fra le misure previste nella CEDU e quelle di recente fattura adottate dalla Corte costituzionale possa essere proficua e se sì, in che misura?

     

    Valerio Onida

    La nuova regolamentazione dell’intervento di amici curiae davanti alla Corte costituzionale induce naturalmente al confronto fra questo e analoghi istituti, da tempo sperimentati, previsti in altri ordinamenti, e in particolare presso la Corte EDU (art. 36, par. 2, della Convenzione). Un compiuto confronto potrà farsi solo sulla base dell’esperienza applicativa. A prima vista si può osservare che il nuovo istituto italiano, pur molto simile, appare prevedere qualche maggiore limite quanto alla qualità degli intervenienti, rispetto alla prassi della CEDU. Infatti la nostra norma identifica le categorie di soggetti (formazioni sociali senza scopo di lucro e soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità), mentre la CEDU prevede l’intervento (oltre che degli Stati diversi da quello chiamato in causa), genericamente di “ogni persona interessata diversa dal ricorrente”, e la prassi ha visto l’intervento ad esempio anche di imprese o di gruppi di avvocati. Inoltre la CEDU prevede la possibilità di ammettere gli amici curiae a presentare osservazioni scritte ovvero a partecipare alle udienze, mentre la nostra Corte esclude che gli amici curiae assumano la qualità di parti del giudizio e possano partecipare all’udienza, e prevede altresì che l’opinione scritta abbia una estensione massima prefissata. L’ammissione è disposta in entrambi i casi dal Presidente, da noi “sentito il giudice relatore”, ed è previsto dalle nostre norme che siano ammesse “le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità”.

    Può essere significativo il riferimento al caso concreto (ovviamente attinente essenzialmente ai procedimenti incidentali, oltre che eventualmente ai conflitti di attribuzione) come indice di una positiva tendenza della Corte (peraltro da sempre rilevabile, anche se forse non sempre allo stesso modo) a tener conto, nel valutare la questione di costituzionalità della legge, dei caratteri del caso concreto da cui la questione nasce: aspetto che distingue il controllo c.d. “concreto” sulla legge dal controllo “astratto”, e che invero consente non di rado di cogliere eventuali profili di violazione della Costituzione più nelle conseguenze applicative concrete che nel tenore astratto delle disposizioni legislative .

    Vladimiro Zagrebelsky

    Tra le riforme delle Norme integrative recentemente introdotte, si presenta incisiva ed anche fortemente significativa la nuova disposizione dell’art. 14 bis, che consente alla Corte di acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline. A tale scopo la Corte può disporre che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite. La nuova norma si segnala per la serietà rivelata da giudici che dichiarano di aver necessità di conoscere ciò che naturalmente non conoscono. Essa attiene alla natura del mestiere di giudice. Intendo con ciò riferirmi a ciò che dovrebbe essere ovvio, che cioè nessun giudice dovrebbe sentenziare senza conoscere e senza tener conto della realtà su cui la sua decisione va ad incidere e sulle conseguenze che ne derivano. Le audizioni degli esperti in discipline come l’economia, la sociologia/antropologia, la bioetica e forse anche certe branche del diritto, saranno utili alla Corte. Analogamente utili sono o potrebbero essere le audizioni cui procede il Parlamento nei lavori preparatori delle leggi. E le audizioni disposte dalla Corte saranno svolte con la partecipazione delle parti, così da introdurne formalmente l’esito nel quadro degli elementi da considerare nel giudizio.

    Un simile strumento conoscitivo potrebbe giovare anche alla Corte europea dei diritti umani. Eccezionalmente essa richiede parere alla Commissione di Venezia, organo del Consiglio d’Europa. Gli interventi di parti terze di cui agli artt. 36 Conv. e 44 Regolamento della Corte, sono invece in qualche misura assimilabili alla nuova figura dell’amicus curiae di cui sopra. È spesso utile alla Corte ricevere le osservazioni di soggetti diversi dal ricorrente e dal governo contro cui il ricorso è volto. Un certo ruolo svolge talora il c.d. giudice nazionale. Ma vi è un’importante caratteristica dell’istituto nel processo davanti alla Corte europea, poiché la o le parti terze il cui intervento è ammesso possono essere gli Stati che sono parte del sistema della Convenzione e che non sono convenuti in giudizio. Notevole è l’importanza degli interventi degli Stati che, per un motivo o per l’altro ritengono che la decisione della questione in discussione implichi conseguenze nel proprio ordinamento interno o sull’intero sistema. Essa deriva dagli effetti della c.d. “cosa interpretata” che dichiara il contenuto attuale degli obblighi degli Stati (art. 1 Conv.), come definiti dalla giurisprudenza della Corte (art. 32 Conv.).

     

    3.Una parte della dottrina costituzionale ha di recente parlato di suprematismo del giudice costituzionale, stigmatizzando talune recenti scelte della Corte costituzionale che finirebbero col modificarne la natura voluta dalla Costituzione. Qual è il Suo avviso in proposito?

     

    Valerio Onida

    Che cosa significa “suprematismo del giudice costituzionale”? Se si vuole alludere ad una presunta tendenza della Corte a superare i confini della sua funzione, ad assumere poteri che non le spettano, direi che non mi sembra affatto vero. Sono noti taluni antichi rilievi mossi nei confronti della Corte perché essa non si è limitata, nella sua prassi, a pronunciare sentenze di “accoglimento secco” sulle questioni a lei sottoposte, ma si è dotata di un armamentario vario, come le sentenze “interpretative” (quelle di  rigetto, perché in una sentenza di accoglimento l’eventuale interpretazione data dalla Corte alla norma legislativa si “cristallizza” in un dispositivo “manipolativo”), le sentenze di accoglimento parziale o “manipolativo” (“nella parte in cui” si prevede alcunchè), “additive” (“nella parte in cui” non si prevede alcunché), o “additive di principio”. Queste soluzioni sono necessarie, dal momento che talora la semplice dichiarazione di incostituzionalità di una intera disposizione potrebbe produrre effetti di maggiore incostituzionalità o lacune intollerabili nell’ordinamento, specie se si tiene presente che il legislatore di solito non dà seguito ai “moniti” che la Corte talora formula nelle proprie pronunce per segnalare la necessità costituzionale che una certa disciplina venga modificata.

    Il compito della Corte, cui essa non può venir meno, è quello di “depurare” l’ordinamento dalle norme che si pongono in contrasto, anche solo per una parte o con riguardo a certi casi concreti, con la Costituzione, cioè di impedire che una disciplina incostituzionale venga applicata, o una soluzione incostituzionale di una controversia concreta sia adottata anche in un solo caso: posto che i  giudici comuni  non sono abilitati a “disapplicare” le norme di legge, essendo questo potere riservato  alla Corte, ma hanno il potere-dovere (oltre che di interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione) di sollevare davanti alla Corte i dubbi di costituzionalità non manifestamente infondati.

    A mio giudizio la Corte non adempie invece fino in fondo al suo compito quando rifiuta di dichiarare una incostituzionalità che pur rileva nella norma ad essa sottoposta, sol perché per rimediarvi potrebbero esservi diverse soluzioni alternative, tra le quali il legislatore resta libero di scegliere (cosiddette inammissibilità per “pluralità di soluzioni”). Infatti, restando fermo che il legislatore può scegliere la soluzione che ritiene migliore, nell’ambito della sua discrezionalità, per adeguare la legge alla Costituzione, la Corte, se investita della questione, non può rifiutarsi di accertare il contrasto con la Costituzione, sol perché vi sarebbero diverse soluzioni, costringendo così il giudice ad applicare in concreto, per risolvere la controversia davanti a lui pendente, una norma non conforme alla Costituzione (e quindi a dare una soluzione incostituzionale alla causa davanti a lui pendente). Diverso è il caso in cui la pronuncia di inammissibilità consegua a difetti dell’ordinanza di rimessione, che ovviamente potrebbero in seguito essere corretti, non essendo preclusa la riproposizione, anche da parte dello stesso giudice, di una questione giudicata inammissibile per queste ragioni.

    Nel caso della cosiddetta “pluralità di soluzioni” la Corte dovrà invece volta per volta adottare una pronuncia di accoglimento scegliendo la soluzione minima necessaria per evitare la conservazione in vita della norma incostituzionale, e così quella più conforme al sistema, o anche limitarsi ad una pronuncia che disponga il principio da rispettare (c.d. “additiva di principio”), lasciando poi che la specifica disciplina sostitutiva di quella incostituzionale sia scelta dal legislatore o, in mancanza del suo intervento, dal giudice del caso concreto.

    Tutto questo non significa affatto che la Corte esca dai propri confini o si sostituisca al legislatore. Essa fa ciò che le spetta, e cioè garantire i soggetti dell’ordinamento contro il rischio di applicazione di una disciplina che contrasti con la legge fondamentale.

     

    Vladimiro Zagrebelsky

    Dopo anni e anni in cui il Parlamento lasciava cadere ogni segnalazione (inutilmente chiamata “monito”) che giungeva dalla Corte sulla necessità di intervenire legislativamente per correggere norme incompatibili con la Costituzione o riempire “vuoti” incostituzionali. Si è arrivati al punto che le due Camere, con conflitto di attribuzione nei confronti della magistratura ordinaria (nella vicenda Englaro), hanno rivendicato la loro esclusiva competenza a intervenire legislativamente, per poi omettere per anni di provvedere. Il conflitto è poi stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. È lungo l’elenco di decisioni della Corte costituzionale (accompagnate da “moniti”) nel senso dell’inammissibilità di eccezioni di costituzionalità per questioni che richiedevano scelte rientranti nella competenza del Parlamento. Ciò fino a quando il problema -che cresceva in gravità- si è posto alla Corte in termini che non consentivano più di lasciarlo aperto. Mi riferisco alla vicenda che prende il nome da Marco Cappato e la innovativa soluzione procedurale adottata dalla Corte. Avendo il Parlamento omesso di provvedere, la Corte ha dovuto decidere essa stessa. E ciò dopo avere, nella ordinanza che ha preceduto la sentenza n. 242/19, riconosciuto che la sede propria delle scelte implicate dal tema era quella parlamentare. Non era la prima volta che si apriva la possibilità di adottare lo schema -non privo di contraddizione- del monito al Parlamento, seguito dalla sua inerzia e poi dall’intervento della Corte in sostanziale sostituzione. La vicenda che si è conclusa con la sentenza n. 113/11 ne è esempio. Ma nel caso Cappato, la Corte si era trovata nelle condizioni di non poter usare ancora lo schema della (1) dichiarazione di inammissibilità con monito, (2) attesa (inutile) e poi, solo poi, (3) sentenza. Nel frattempo, infatti, avrebbe trovato applicazione l’art. 580 C.p., che la Corte riteneva incostituzionale proprio in casi come quello della vicenda giudicata dal giudice a quo. Questo il contesto concreto che spiega l’adozione della soluzione procedurale e poi la sentenza della Corte: l’incapacità o non volontà del Parlamento di adempiere ad un preciso dovere costituzionale, come è quello di rimuovere leggi incostituzionali. Non quindi ambizioni suprematiste, ma ricerca di soluzioni che non rendano vana la posizione preminente della Corte tra i poteri dello Stato cui è rimessa la difesa della Costituzione.

    Del non funzionamento del Parlamento ci si dovrebbe innanzitutto preoccupare nel discutere la situazione che è venuta progressivamente a crearsi. Ciò non significa chiudere gli occhi rispetto ai problemi che pone l’intervento della Corte, a partire dal quesito riguardante la forza della sentenza nei confronti del Parlamento, se e quando esso legifererà. Sul merito della sentenza n. 242/19, insieme ad altri commentatori, ho in altra sede svolto motivi di critica e soprattutto posto quesiti che rimangono senza risposta (mi permetto di rinviare al mio Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in Suicidio assistito: le prospettive di fondo e la giurisprudenza costituzionale, in Legislazione penale, 15 marzo 2020). Ma per le questioni che pone in evidenza il modo di procedere della Corte costituzionale, direi di assegnare il massimo di peso alla disfunzione del sistema che deriva dagli inadempimenti del Parlamento. Da essi, a cascata, derivano distorsioni che colpiscono tutti gli altri protagonisti nel disegno dei rapporti tra i Poteri dello Stato.

     

    4.Intravede nell’introduzione delle novellate Norme integrative una conferma o una smentita al fatto che il diritto, nel suo momento attuativo, si mostra sempre più poroso rispetto alle influenze esterne alla sfera pubblica, trovando alimento oltreché dai casi concreti posti al vaglio del giudice – comune e costituzionale – ora anche dalla società civile?  

    Valerio Onida

    Il diritto legislativo non solo può, ma deve essere “poroso” rispetto alle esigenze della società, da valutare in sede politica, ma comunque conformandosi ai principi costituzionali. La “sfera pubblica” – se questo vuol dire gli organi politici, amministrativi e giudiziari – non è un “mondo separato” dalla società, ma ha il compito di soddisfare le domande di “giustizia” (nel senso più ampio) che la società esprime in ogni tempo, scegliendo, certo, ciò che viene ritenuto “giusto” in base a criteri politici (in senso alto), ma comunque assicurando la garanzia di rispetto dei principi che la Costituzione stabilisce (rispetto dei diritti fondamentali dei singoli e delle formazioni sociali,  equità e ragionevolezza delle discipline stabilite, equilibrio fra i poteri).

    Poiché la Corte costituzionale non è chiamata ad amministrare giustizia nei casi concreti (salvo che nei conflitti di attribuzione), ma a controllare le leggi in vista della loro applicazione, vigilando che esse non contrastino con i principi costituzionali, è naturale che il suo sguardo si estenda al di là del caso concreto e degli interessi specifici in esso coinvolti, per adottare pronunce sulle leggi che siano le più adeguate a garantire il rispetto della Costituzione. Le questioni di costituzionalità normalmente coinvolgono interessi più ampi di quelli dei soli soggetti della controversia concreta nell’ambito della quale esse vengono sollevate: nulla di più naturale dunque che la Corte ascolti anche voci esterne rispetto al caso che ha dato occasione alla questione, ma che esprimono interessi e valutazioni comunque inerenti all’ipotizzato contrasto fra legge e Costituzione. Infatti le decisioni della Corte, quando sono di accoglimento, hanno valore erga omnes ed hanno effetto per tutto l’ordinamento.

     

    Vladimiro Zagrebelsky

    Non c’era bisogno di queste norme integrative per scoprirlo. Il diritto interpretato e applicato dai giudici e tanto più dai giudici costituzionali, raramente è automatico, insensibile all’esterno. E il criterio del giusto/sbagliato è raramente applicabile. Le opinioni separate allegate alle sentenze della Corte europea dei diritti umani lo mettono in evidenza (invece di nasconderlo).

     

    5. La dissenting opinion nella giurisprudenza della Corte edu costituisce una misura ben conosciuta dagli operatori del diritto. Sulla base della Sua esperienza, essa potrebbe giovare anche nel processo costituzionale?  

    Valerio Onida

    Il tema della dissenting opinion è da molto tempo all’attenzione della dottrina giuridica e anche della Corte, che talvolta ha discusso al suo interno sulla possibilità di introdurla (con legge o anche con normativa interna).

    L’argomento fondamentale a favore della sua introduzione sta nel fatto che la giurisprudenza della Corte investe per sua natura questioni di interesse generale (che non riguardano solo gli interessi delle parti di una controversia concreta), e, sempre per sua natura, è destinata a svilupparsi nel tempo in maniera tendenzialmente coerente. Il valore del precedente è per la Corte particolarmente significativo, perché essa non giudica di casi concreti (riguardo ai quali l’ordinamento può meglio tollerare l’eventuale succedersi di pronunce concrete diverse e non concordanti fra di loro), ma di questioni di interesse generale; e perché assume importanza non solo la decisione specifica, ma anche il percorso motivazionale seguito dalla Corte. La dissenting opinion (o anche la concurring opinion, cioè una motivazione parzialmente dissenziente che però conduca alla stessa conclusione della maggioranza) mostra un altro possibile percorso motivazionale, che la maggioranza della Corte non ha inteso seguire, ma che può offrire importanti elementi di confronto e di valutazione, insieme alla motivazione della pronuncia adottata, per i casi futuri.

     Può verificarsi infatti che una motivazione dissenziente proposta in un caso, in uno successivo   venga accolta e seguita dalla maggioranza, così contribuendo all’evoluzione della giurisprudenza. Del resto accade che la Corte ritorni in altra occasione su un tema già trattato e adotti una posizione in tutto o in parte divergente da quella precedente: il cosiddetto overruling. Talvolta la Corte lo fa espressamente, motivando il cambiamento di giurisprudenza, talaltra lo fa più tacitamente. La conoscenza non solo delle motivazioni della Corte, ma anche delle eventuali opinioni dissenzienti può dunque arricchire il dibattito e contribuire allo sviluppo della giurisprudenza.

    In ogni caso le opinioni dissenzienti valgono, e servono, non tanto a rendere noto il livello di consenso raggiunto nell’ambito del collegio (nella prassi della nostra Corte il dissenso viene di fatto reso noto quando il giudice relatore di una causa rifiuta di scrivere la decisione che non condivide, e viene sostituito da un diverso giudice “redattore” designato dal Presidente), quanto a rendere espliciti i diversi percorsi motivazionali che conducono alle diverse soluzioni (o talora alla stessa soluzione ma con un diverso percorso: la c.d. concurring opinion). E’ la motivazione, più che la soluzione in sé, che può contribuire allo sviluppo successivo della giurisprudenza.

    La possibilità di formulazione e di pubblicazione di opinioni dissenzienti potrebbe anche contribuire a rendere talora più complete e convincenti le motivazioni delle decisioni, inducendo a non eludere nodi argomentativi importanti che emergono dal dissenso.

    Le obiezioni più forti alla introduzione della opinione dissenziente nella Corte costituzionale sono quelle che si riferiscono al rischio di disincentivare la ricerca di soluzioni ampiamente condivise, e al pericolo di una aumentata esposizione dei singoli giudici al rischio di essere “etichettati” come sostenitori di una parte politica e perciò, da un lato, di ridurre la percezione nel pubblico di una unità nelle risposte date dalla Corte ai quesiti posti, e quindi la “persuasività” delle decisioni (ma già oggi non è infrequente la diffusione di indiscrezioni circa l’entità del dissenso su singole decisioni di maggiore interesse per l’opinione pubblica); dall’altro lato di esporre i giudici ad una “pressione” delle forze politiche  considerate a loro vicine perché manifestino il loro dissenso. Tuttavia penso che la Corte italiana abbia da tempo guadagnato una “immagine” di indipendenza abbastanza forte per contenere questi rischi, e che dunque nel complesso siano più forti le ragioni che potrebbero indurre a prevedere l’introduzione di questo istituto.

         

    Vladimiro Zagrebelsky

    Le opinioni separate (concordanti o dissenzienti) nel sistema della Convenzione europea sono una possibilità che hanno i giudici che non hanno condiviso il tenore della sentenza, per gli argomenti soltanto o anche per il dispositivo. Quella che negli artt. 45 Conv. e 74 Regolamento della Corte è una possibilità, nella prassi è divenuta una regola. La prima conseguenza è che la posizione di ciascuno dei giudici viene rivelata: quella di chi redige un’opinione separata e, per conseguenza, quella di chi ha partecipato a formare la maggioranza. La Corte indica sempre se la sentenza è resa alla unanimità oppure a maggioranza e in questo caso con quanti voti.

    In proposito si può ricordare che nel sistema italiano l’art. 685 C.p. punisce la pubblicazione dei nomi e voti dati nella deliberazione nel processo penale. Ma la Corte costituzionale (sentenza n.18/89) ha affermato che nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e la segretezza vista come mezzo per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione, né impone il segreto sull'esistenza di opinioni dissenzienti all'interno del collegio. D’altra parte, è prevista la figura di giudici monocratici (art. 106, comma secondo), le cui decisioni non possono essere impersonali.

    Nelle opinioni separate i motivi svolti dai giudici che, per i motivi o per il dispositivo, si separano dalla maggioranza sono spesso molto forti. Essi di regola si fondano sulla stessa base normativa su cui ha lavorato la maggioranza: la Convenzione e soprattutto il vasto campo della giurisprudenza già sviluppata dalla Corte (art. 32 Conv.) e cui la Corte dichiara di attenersi. La sentenza, quando non è unanime, mette dunque in chiaro che sono possibili diverse ricostruzioni del diritto applicabile. Ciò avviene attraverso l’identificazione del senso della giurisprudenza relativa alla materia cui si riferisce il ricorso da decidere, l’esercizio del distinguishing e l’applicazione al caso concreto. L’esito o gli esiti di tale esercizio rendono inadeguato il criterio del giusto/sbagliato nell’aderire all’una invece che all’altra soluzione. Le soluzioni e gli argomenti che le sostengono si confrontano sul piano della ragionevolezza e della loro idoneità a risolvere il caso.

    Sono quindi evitati i difetti del sistema italiano, che è grave soprattutto per quanto attiene alle sentenze della Corte costituzionale. Poiché esso unisce la finzione della unanimità (che suggerisce anche l’inevitabilità della soluzione affermata da giudici null’altro che bouches de la loi) alla sistematica fuga di notizie sulle maggioranze (a riprova che altre soluzioni sarebbe state possibili). Aggiungerei anche che la mancanza di indicazioni sulle maggioranze e minoranze, con le loro motivazioni, esprime un atteggiamento autoritario, che impone una sentenza e rifiuta di ammettere che essa è sì legittima, ma non indiscutibile. Una indiscutibilità tra l’altro che male convive con l’evoluzione e ancor più con i contrasti giurisprudenziali e che talora costringe i giudici a contorsioni argomentative per mostrare che le loro nuove affermazioni sono in linea con i precedenti. Aggiungerei anche che il sistema italiano per cui il dispositivo delle sentenze penali è letto in udienza privo della motivazione, che arriverà successivamente e spesso dopo molto tempo, rende anche più evidente la mancata cura di rendere aperto alla discussione l’atto di autorità di cui la sentenza è strumento.

    Nel sistema della Corte europea i motivi svolti nell’opinione separata, concordante o dissenziente, riflettono quelli che l’autore dell’opinione ha svolto nella camera di consiglio e che la maggioranza non ha condiviso. In questo senso, in qualche modo a contrario, gli argomenti sviluppati nelle opinioni separate fanno parte, arricchiscono la motivazione adottata dalla maggioranza. Capita che l’opinione separata redatta per essere allegata alla sentenza sia più approfondita, almeno nelle citazioni giurisprudenziali di supporto, di quanto il giudice ha proposto ai colleghi nella discussione collegiale. Ma sono anomale le opinioni separate che riportano argomenti ulteriori rispetto a ciò che il collegio ha udito e discusso. Esse si apparentano alle note a sentenza.

    Nel delicato ruolo del presidente del collegio giudicante (7 giudici nelle Camere e 17 nella Grande Camera) di cercare, se non l’unanimità, almeno la maggioranza più vasta possibile, le opinioni separate giocano un ruolo importante. Ciò avviene soprattutto per le sentenze della Grande Camera, per la procedura della deliberazione, che passa attraverso un primo voto provvisorio, che orienta il comitato di redazione della sentenza, e, in un secondo momento, il voto definitivo, che segue alla revisione collegiale della motivazione. In quest’ultima fase soprattutto, la ricerca di una vasta maggioranza passa attraverso il tentativo di inglobare nella motivazione quante più possibili proposte dei singoli giudici. Il rischio è di produrre motivazioni in cui non è chiara la ratio decidendi (quella che poi vincola sia la Corte per i casi successivi, sia gli Stati aderenti al sistema della Convenzione). La via di uscita dalla discussione di posizioni non componibili è la presa d’atto delle divergenze, che le opinioni separate metteranno in luce lasciando indenne la motivazione della maggioranza nella sua coerenza. La sentenza andrà a formare la giurisprudenza della Corte. Le opinioni separate indicheranno che un altro diritto giurisprudenziale era possibile (e forse finirà per l’affermarsi).

    ***

    Roberto Conti

    Poco o nulla è o necessario aggiungere alle risposte dei due interlocutori che hanno dimostrato quanto sia fecondo il dialogo alimentato sulla base di conoscenze ed esperienze di alto profilo maturate in contesti giudiziari differenti e distanti, territorialmente e culturalmente, ma in realtà vicini nelle prospettive e nelle finalità, pur ciascuno nell'ambito dei rispettivi ordinamenti.

    Viene dunque spontaneo pensare come proprio il confronto e la condivisione di ideali comuni alle due Corti possa rappresentare una delle possibili  ricette capaci di curare le ferite che i sistemi sovranazionali in cui sono "uniti" molti Paesi dell'Europa mostrano in questo periodo, funestato da vicende che hanno visto appannare l'idea di Europa, a partire dalla Brexit fino all'emersione da più parti di spinte nazionaliste e antagoniste rispetto ad un'idea, quella dell’unità dei popoli  fondata su un ceppo di valori comuni e tuttavia avvertita come incapace di attuare gli ideali sui quali era stato edificato l'edificio europeo.

    Il messaggio che esce, forte, dalle parole di Onida e Zagrebelsky è quello che identifica la Corte costituzionale – ma, forse sarebbe meglio dire entrambe le Corti – come un elemento indispensabile per mantenere unita l'Europa e gli europei, pur nelle loro diversità. Una Corte che si umanizza, soprattutto quando non ha timore di mostrare la sua “non inniscenza”, al punto di giustificare un “confronto” con gli esperti, sulle modalità operative del quale occorre attendere l’esperienza in vivo.

    Un'idea ancora una volta fondata sulla centralità della funzione di garanzia, avvertita come insostituibile presidio di legalità anche nelle sue declinazioni estreme, originate a volte da scelte attendiste provenienti dagli altri poteri dello Stato.

    Il che, in definitiva, spazza via, nell’opinione dei due Giudici, l’idea di un suprematismo giudiziario della Corte costituzionale- di recente confezionata da una parte della dottrina  (A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica, in Quaderni costituzionali, a. XXXIX, n. 2, giugno 2019, 251 ss.) nel quale nemmeno possono inserirsi le novità di cui si è detto, anch’esse frutto di un processo di razionalizzazione di orientamenti della stessa Consulta già consolidati o, per altro verso, commendevolmente rivolti ad implementare i mezzi istruttori già riconosciuti in precedenza alla Corte per affinare e calibrare meglio il giudizio in relazione al caso.

    Particolarmente interessante  è risultata la reciproca consapevolezza degli intervistati sul fatto che il confronto fra gli strumenti di nuova fattura introdotti per rendere il giudizio costituzionale ancora più attento alle conoscenze tecniche possa essere di auspicio per eventuali omologhe aperture nell'ambito del giudizio della Corte edu, come si sa, peraltro, molto parco nel consentire l’intervento di soggetti terzi, al punto da indurre la Corte costituzionale italiana a sollecitare una maggiore apertura sul punto(v.Corte cost.n.123/2017).

    Questo mutuo scambio di esperienze concrete dei rispettivi giudizi è continuato a proposito della c.d. dissenting opinion. Questa volte, è stato Zagrebelsky a mettere al servizio della Corte costituzionale l'esperienza maturata sulle c.d. dissenting opinion, sul ruolo che essa assume rispetto al singolo procedimento e, soprattutto alle vicende che approdano alla grande Camera.

    Onida e Zagrebelsky non sembrano condividere le preoccupazioni pure rappresentate dalla dottrina – per tutti, A. Ruggeri, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi – circa i rischi di strumentalizzazione politica o di condizionamento delle decisioni della Consulta per effetto dell’apertura agli strumenti partecipativi di nuova fattura.

     

    Assai delicata risulta, de iure condendo, la questione relativa alla possibilità di introdurre la dissenting opinion nel giudizio costituzionale.

    Il parametro di riferimento rappresentato dall’esperienza maturata innanzi alla Corte edu sulla quale si è soffermato Zagrebelsky, tratteggiandone i pregi almeno rispetto all’uso fisiologico che di tale strumento può farsi, a volere seguire l’impronta comparatistica qui accarezzata andrebbe completato con quanto accade innanzi alla Corte di Giustizia, ove non vi è spazio alle opinioni dei giudici dissenzienti, rispecchiando la tradizione giuridica del nostro Paese e di altri.

    Certo, non può sfuggire che in quest’ultima esperienza vi è già un fattore propulsivo rispetto agli orientamenti della Corte di giustizia, rappresentato dalla presenza di Avvocati generali i quali, attraverso le Conclusioni depositate, possono non soltanto offrire un’ulteriore garanzia circa la piena efficacia del ruolo svolto dalla Corte di Giustizia, ma anche rappresentare la base dell’evoluzione futura della giurisprudenza della Corte attraverso le pronunzie della Grande Camera. Meccanismo che, al contrario, non esiste all’interno della Corte costituzionale.

    Né vanno sottovalutati i rischi paventati dalla dottrina a proposito delle ricadute in termini di effettiva indipendenza dei giudici costituzionali  e di politicizzazione(Ruggeri, ib.,). Le provocazioni lanciate in qualcuna delle domande non sembrano avere attirato Onida e Zagrebelsky.

    In conclusione, si ha la sensazione che anche in un momento critico qual è l'attuale, l'esigenza di guardare a modelli decisori diversi costituisca per le Corti un dato indispensabile, arricchendosi vicendevolmente di esperienze e conoscenze che non fanno di certo venire meno la necessità di evitare automatiche riproduzioni di meccanismi dell'una Corte sull'altra, ma rendono indispensabile  una visione quanto più possibile comune anche nelle modalità di svolgimento dei diversi giudizi.

    Onida e Zagrebelsky non nutrono dunque preoccupazioni sull'attuale ruolo della Corte e non nascondono, nemmeno, la loro condivisione sull'opportunità di ulteriori passi rispetto a quelli mossi nel gennaio 2020. Passi che la Presidente Cartabia, alla quale Giustizia Insieme è particolarmente vicina in questi momenti, nella sua recente intervista -  La Corte costituzionale non si ferma davanti all'emergenza, questo è il tempo della collaborazione tra istituzioni- non sembra avere escluso ma, anzi auspicato.

     

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