Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit. 2. La questione del letto singolo. 3.Le conseguenze della decisione delle SU. 4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale 5. Sui fattori compensativi.
1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit.[1]
Le Sezioni Unite penali hanno depositato negli scorsi giorni le motivazioni della sentenza 24 settembre 2020 n. 6551/2021, anticipata da notizia di decisione che aveva già determinato dibattito ed una certa attesa, ora ripagata da ventotto pagine di dense argomentazioni, che sono tra l’altro l’occasione per un inquadramento sistematico dell’istituto del rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti del soggetto detenuto, per come introdotto nel nostro ordinamento con d.l. 92 del 26 giugno 2014, poi conv. con modificazioni in L. 117 dell’11 agosto 2014, nell’art. 35- ter della legge penitenziaria.
Come noto, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani ed altri v. Italia, avvenuta in relazione alle condizioni detentive patite dai ricorrenti, la CEDU stigmatizzò l’assenza nel nostro ordinamento di un sistema di rimedi interni di tipo preventivo e compensativo in favore delle persone detenute che subissero violazioni dei propri diritti fondamentali in connessione con la propria condizione di restrizione carceraria. Con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, poi convertito con modificazioni in L. 21 febbraio 2014 n. 10, si intervenne sull’ordinamento penitenziario con una rimodulazione dell’art. 69 co. 6 e l’introduzione dell’art. 35-bis, apprestando lo strumento inibitorio e rispondendo così, per altro, ad un monito della Corte Costituzionale che era rimasto inascoltato dalla sent. 26/1999. Con il provvedimento già citato, dell’estate 2014, l’operazione fu completata con il rimedio risarcitorio, che si volle modellare in aderenza ostentata alle richieste della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questo obbiettivo fu perseguito introducendo un “risarcimento del danno”, poi più attentamente descritto in giurisprudenza nei termini del mero indennizzo, in favore del detenuto o dell’internato che avesse subito un grave pregiudizio dalle condizioni detentive patite, che dovevano essere vagliate avendo come parametro di riferimento l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo “come interpretato dalla Corte europea”. Da subito si disse come ciò configurasse un unicum nel nostro panorama normativo, attraverso un richiamo mobile alla giurisprudenza di Strasburgo, che andava a definire il perimetro della valutazione del giudice, in qualche modo agganciandola più fortemente rispetto all’obbligo che comunque grava sul giudice comune di informare le proprie decisioni all’insegnamento della CEDU.
Ove a richiedere il ristoro sia un detenuto, la competenza spetta al magistrato di sorveglianza, che commina una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci in cui si è patita una condizione inumana e degradante, mentre ove il reclamo provenga da un soggetto ormai libero, perché già è terminata l’espiazione della pena o della custodia cautelare in carcere, l’azione deve essere proposta dinanzi al giudice civile individuato in relazione al capoluogo del distretto nel quale la persona ha la residenza. In tal caso il ristoro è però di tipo meramente pecuniario, definito in euro 8,00 per ogni giorno di violazione subita. Ancora pecuniario è il rimedio comminato dal magistrato di sorveglianza laddove la pena residua non consenta l’intera decurtazione di pena che sarebbe dovuta, oppure quando la violazione sia durata meno di quindici giorni.
La natura atipica del rimedio, la competenza ripartita lasciando sul tavolo molte situazioni non definite in modo chiaro (persone in misura alternativa? richieste relative a detenzioni pregresse non riferibili al titolo in esecuzione), un richiamo incerto alla attualità del pregiudizio (tuttavia evidentemente escluso da un rimedio di tipo risarcitorio/indennitario), hanno condotto a un profluvio di questioni che il giudice di legittimità è stato chiamato pazientemente a dirimere. Si tratta di questioni complesse che non è obbiettivo di questa prima lettura richiamare.
E’ forse utile, però, ripercorrere, pur senza approfondimento, l’accidentato percorso giurisprudenziale che si è dipanato sino ad oggi, almeno attraverso due questioni di costituzionalità, in entrambi i casi rigettate con complesse precisazioni dalla Consulta (sent. 204/2016 sul rimedio adoperabile nel caso del condannato alla pena dell’ergastolo, sostanzialmente di tipo patrimoniale, se ha già raggiunto soglie espiali utili all’eventuale concessione di benefici penitenziari, e sent. 83/2017 sull’applicabilità dello strumento della riduzione di pena all’internato, con detrazione dalla durata massima della misura di sicurezza detentiva che gli si può comminare) e poi con due interventi delle SU, che hanno preceduto quello di cui qui si parla, circa la sussistenza e la decorrenza di un termine prescrizionale, riconosciuto a partire dall’entrata in vigore della legge anche per l’ipotesi di detenzioni già cessate (cfr. SU penali 21 dicembre 2017, n. 3775), nonché in ordine alla natura (indennitaria) del rimedio e alla durata del predetto termine, ricostruito in dieci anni decorrenti dal compimento di ciascun giorno vissuto in condizioni inumane e degradanti, e salvo sempre il riferimento per le detenzioni esaurite alla data di entrata in vigore della legge (cfr. SU civili 30 gennaio 2018 n. 11018). In tutti i casi il filo rosso seguito dalle decisioni sembra essere quello, di diretta matrice convenzionale, di prescegliere la soluzione più idonea a garantire la massima effettività al rimedio, ed in particolare alla sua forma più compiuta, di riduzione della pena.
La tecnica normativa adoperata dal legislatore del 2014 non ha dunque giovato al lavoro degli interpreti che, per altro, hanno dovuto confrontarsi con una messe soverchiante di richieste. Dalle pronunce in conseguenza emesse dalla magistratura di sorveglianza viene restituita l’immagine di condizioni detentive preoccupanti in molti stabilimenti penitenziari, in particolare per quanto concerne i periodi più risalenti, relativi agli anni del massimo sovraffollamento carcerario, gli stessi che erano già stati non a caso oggetto delle condanne della CEDU nei confronti dell’Italia prima nel caso Sulejmanovic (luglio 2009) e poi Torreggiani ed altri (gennaio 2013).
In concreto, infatti, la maggior parte delle doglianze mosse dai reclamanti ha riguardato proprio il profilo, già preso in considerazione dalle predette pronunce di Strasburgo, della insufficienza degli spazi nei quali la propria esperienza detentiva si era dovuta dipanare. Come si è detto, sotto questo profilo il rinvio mobile contenuto nella disposizione alla giurisprudenza della CEDU richiede al giudice un impegno di approfondimento e aggiornamento costante circa i criteri interpretativi seguiti dai giudici alsaziani. Si tratta di una ricerca resa più complessa dalla natura marcatamente casistica delle decisioni della Corte Europea e dalla diversità delle situazioni nazionali dei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, sulle quali la stessa si pronuncia.
Dopo la sentenza Torreggiani, il più significativo approdo della CEDU in materia di condizioni detentive si rinviene ancora oggi nella sentenza 20 ottobre 2016, Grande Chambre Mursic v. Croazia, sulla cui base si è poi costruita la successiva giurisprudenza nazionale.
In quella pronuncia si fissa il criterio per il quale uno spazio procapite di non oltre 3 mq all’interno di una camera detentiva multipla integra una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, vincibile ove lo Stato dimostri la sussistenza di condizioni che attenuino la portata di tale grave condizione e cioè che i periodi scontati in spazi individuali inferiori ai 3 mq siano stati brevi od occasionali, che l’interessato abbia avuto a disposizione sufficiente libertà di movimento fuori stanza e si sia giovato di una offerta trattamentale sufficiente ed ancora che il contesto detentivo che l’ha ospitato sia stato complessivamente adeguato. Questi tre profili, decisivi, debbono essere tuttavia compresenti e dunque, ove manchi il requisito della sola brevità, nel caso della Mursic considerato carente già a fronte di una detenzione durata poco più di venti giorni, deve riscontrarsi la violazione.
La sentenza Mursic, però, non affronta in modo altrettanto netto e facilmente comprensibile la disamina dei criteri di calcolo con i quali si perviene alla definizione dello spazio minimo da garantirsi al detenuto in cella multipla. Al par. 114 di quella pronuncia si richiama infatti il criterio seguito dal CPT, che esclude dal computo lo spazio occupato dai servizi igienici, ma non scomputa quello occupato dagli arredi. Contemporaneamente, però, la CEDU richiama il c.d. Ananyev test, elaborato nell’omonima pronuncia, alla luce del quale per non configurarsi una detenzione contraria all’art. 3 CEDU occorre che sia garantito uno spazio procapite non inferiore ai 3mq, un letto proprio e non da condividere con altri e la possibilità di muoversi normalmente all’interno della stanza.
Il dibattito che ne è derivato, nella giurisprudenza nazionale, può apparire di poco momento, concernendo di fatto calcoli che sembrano più naturalmente rimessi ad architetti, geometri e capicantiere, ma che in buona sostanza finiscono per riempire (o svuotare) di senso quel minimo di vivibilità che la Corte europea, pur mai dando per assodato che l’umanità e la dignità della detenzione si consumi in metri quadrati, ha voluto comunque assicurare.
Le questioni, cui la S.C. ha dato risposte ormai in larga parte consolidatesi, pur con alcune sensibili fibrillazioni, oggetto ora della assegnazione del ricorso nel caso che ci occupa alle SU, si ricollegano in buona sostanza al odo circa i criteri di calcolo per verificare la sussistenza dei 3 mq, dato per scontato che gli stessi debbano ritenersi al netto dello spazio occupato dal bagno che acceda alla camera detentiva (lo stesso art. 7 d.P.R. 30.06.2000, n. 230 lo considera vano annesso), e cioè se al lordo o al netto degli arredi e poi, ove si accolga questa seconda opzione, di quali arredi.
2.La questione del letto singolo. Le SU esaminano ampiamente la giurisprudenza di legittimità accumulatasi in questi anni, che ha naturalmente guardato all’insegnamento di Strasburgo con peculiare attenzione, costituendo lo stesso una vera e propria fonte integrativa del precetto normativo ma che, quanto alle modalità concrete del computo, in assenza di una indicazione chiara, ha dovuto adattare quel dictum alla giurisprudenza che, medio tempore, si era già formata grazie alle pronunce della magistratura di sorveglianza e che, di fatto, interpretava il riferimento contenuto nell’Ananyev test al dovere di verificare la possibilità di muoversi liberamente nella stanza detentiva come realizzabile scomputando dalla dimensione lorda della stessa lo spazio occupato da arredi fissi, che come tali certamente riducono la facoltà di circolare dentro la stanza. Una posizione a lungo avversata da chi, invece, deduceva dalle motivazioni della Mursic un calcolo al lordo degli arredi, con una successiva ed eventuale verifica (molto difficile però da effettuarsi in concreto attraverso la documentazione a disposizione del giudice) circa il libero movimento in stanza.
Ciò su cui il contrasto restava più marcato era il concreto catalogo delle strutture da considerarsi scomputabili. Data per certa la necessità di scomputare i mobili fissi come gli armadi o i termosifoni, si riscontravano fibrillazioni in particolare in relazione allo spazio occupato dal letto. In alcune pronunce da sottrarsi ove a castello, come normalmente in uso nelle stanze multiple, in altre anche quando singolo, in altre ancora citato senza precisazioni o da eliminarsi poiché amovibile, a differenza di quelli a castello, costituiti da pesanti strutture incompatibili con un loro facile spostamento. Sempre esclusi dallo scomputo, invece, gli arredi mobili quali sgabelli e tavoli.
Con la pronuncia in commento le SU giungono sul punto ad affermare il principio di diritto per il quale: “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. Nelle motivazioni si comprende come la scelta oggi fatta propria dalle SU discenda ancora una volta dall’applicazione dell’Ananyev test , nel senso in grado di valorizzarne la ratio, attribuendo rilievo agli spazi liberi nella cella una volta scomputate le strutture che ne ingombrano pavimento e pareti. Il discrimen è dunque tra arredi fissi (come l’armadio) e mobili (come lo sgabello) e l’esclusione del letto singolo deriva dalla maggior probabilità che quest’ultimo sia facilmente amovibile. Occorre ricordare che in passato la giurisprudenza di merito aveva a lungo sostenuto che non dovesse tenersi conto dello spazio occupato dal letto singolo ai fini della valutazione sui mq a disposizione, poiché lo stesso avrebbe costituito comunque una struttura utilizzabile anche per lo svolgimento di molteplici attività giornaliere, oltre che per dormire, ed in definitiva valorizzabile, ove si fosse acceduto ad una nozione di spazio utile alla quotidianità detentiva, piuttosto che di spazio calpestabile o destinato al movimento.
La posizione assunta dalla SU richiama invece, con rigore, la nozione di spazio evincibile dalla giurisprudenza europea e, abbracciando il metodo di calcolo già fatto proprio dalla cassazione, che prevede la valutazione della possibilità di muoversi liberamente tra gli arredi come realizzabile mediante il calcolo dello spazio libero calpestabile all’interno della cella, richiede di scomputare dal lordo lo spazio occupato dagli arredi fissi o tendenzialmente fissi. Si tratta di un arresto di grande rilievo, perché porrà termine ai dubbi interpretativi rimasti nel tempo non risolti in una parte almeno della giurisprudenza. In concreto non può però non segnalarsi come ben difficilmente i letti singoli presenti all’interno dei nostri istituti penitenziari possano rispondere alla nozione di arredo amovibile nella quale le SU li includono. Si tratta di strutture normalmente in ferro, che vengono ancorate ai pavimenti per ragioni di sicurezza, e che perciò sono non meno fisse delle strutture a castello, di cui per altro costituiscono spesso il primo piano, cui viene aggiunto il secondo (e a volte un terzo), ove necessario. Quand’anche amovibili, poi, a differenza di uno sgabello o di un tavolino, che possono essere impilati nel bagno durante le ore della giornata, ben difficilmente tali letti possono davvero essere spostati dai detenuti in modo da non ingombrare considerevolmente l’esiguo spazio della camera detentiva.
Deve dedursi, quindi, che il giudice chiamato a valutare il reclamo ai sensi dell’art. 35-ter ord. penit. dovrà verificare, attraverso apposita istruttoria sul punto, che il letto singolo eventualmente in uso all’interessato abbia caratteristiche di facile amovibilità, non in astratto e ad opera di addetti alla manutenzione dell’amministrazione, ma da parte del detenuto, che in conseguenza potrebbe facilmente circolare nella stanza.
3.Le conseguenze della decisione delle SU
Il chiarimento fornito sembra idoneo a produrre sicuri effetti nomofilattici, ma potrebbe avere rilevanti conseguenze anche in termini di deflazione del cospicuo contenzioso sussistente in materia. Seguendo lo schema delle SU infatti l’amministrazione penitenziaria potrebbe diramare opportune direttive volte ad uniformare gli schemi di risposta alle richieste istruttorie dell’a.g. in ordine alle dimensioni delle camere detentive e degli arredi che le ingombrano, essendo ormai ben definito il perimetro di interesse ai fini della decisione, mentre certamente potrà limitarsi il ricorso ad impugnazioni circa il metodo adoperato dal giudice nel calcolo degli spazi detentivi che, appunto, non sembra più sotto questo profilo controverso.
Le SU si dimostrano per altro consapevoli di un possibile effetto negativo che l’adozione di questo criterio di calcolo rigoroso potrebbe comportare e cioè la tentazione dell’amministrazione di recuperare spazio per evitare di incorrere nella violazione, mediante lo svuotamento delle stanze e magari il posizionamento di armadi all’esterno delle stesse. La risposta è che, evidentemente, una simile opzione non potrebbe sottrarsi al vaglio che la magistratura di sorveglianza sarebbe poi certamente chiamata a fare circa la compatibilità di questa scelta con la tutela dei diritti della persona ristretta, ex art. 35-bis e 69 co. 6 lett. b) ord. penit.
D’altra parte, in questa sede può aggiungersi che i plurimi richiami contenuti nella legge penitenziaria e nel regolamento di esecuzione agli arredi delle stanze detentive ed al corredo che deve garantirsi ad ogni persona privata della libertà personale, perché la detenzione sia conforme a legge e al rispetto della dignità, difficilmente appare compatibile con ogni eventuale svuotamento delle camere.
Di non facile soluzione si rivela invece il quesito relativo alla riesaminabilità delle decisioni già assunte prima dei chiarimenti oggi forniti agli interpreti dalle Sezioni Unite. Ci si domanda, in sostanza, se il detenuto che si sia visto rigettare nel merito una propria richiesta di riduzione pena ex art. 35- ter in relazione a condizioni detentive patite in un certo periodo di tempo in un dato istituto penitenziario, possa oggi riproporre la sua istanza, ove la decisione in precedenza assunta sia stata il frutto dell’applicazione di criteri di calcolo oggi sconfessati dalle SU.
Il tema era già stato oggetto di riflessioni della cassazione, seppur a fronte di chiarimenti via via consolidatasi nella giurisprudenza della sua prima sezione. In questi casi si era affermato come la mera preclusione, debole, che opera nella fase dell’esecuzione e della sorveglianza (per tutti i procedimenti per i quali opera il rinvio all’art. 666 cod. proc. pen.), inibisca soltanto la reiterazione di una richiesta basata sui "medesimi elementi" di altra già rigettata e dunque, a fronte dell’allegazione di elementi nuovi, di fatto o di diritto, consenta una rivalutazione. Nei casi tuttavia posti all’attenzione della S.C. non era mai stata riscontrata la sussistenza di tale condizione, trattandosi di ipotesi in cui, appunto, a venire in rilievo erano stati differenti criteri di calcolo dello spazio individuale minimo, che avrebbero potuto formare oggetto di rivalutazione attraverso una rituale impugnazione e che, consumata quella, dovevano ritenersi intangibili (cfr. cass. 14.12.2017 n. 41155/2018 e 13.07.2018 n. 1531/2019, non massimate).
In questa sede, però, viene in rilievo un mutamento giurisprudenziale cristallizzato in principi di diritto espressi dalla Sezioni Unite, il massimo organo della nomofilachia. Ed in alcuni casi, all’evidenza comunque diversi da quello odierno, si è statuito come lo stesso, considerato alla stregua di ius novum, possa essere incluso nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p. (cfr., attingendo alla sola materia penale, SU 21.01.2010 n. 18288; cass. n. 1.04.2014 n. 27702 e 2.10.2017 n. 4679). Se da un lato deve evidenziarsi, per la soluzione negativa, la peculiarità del rimedio dell’art. 35-ter, concernente il diritto all’indennizzo per aver subito una detenzione in condizioni ritenute inumane e degradanti, e dunque al di fuori dell’ambito ordinario della c.d. giurisdizione rieducativa, che naturalmente prevede un vaglio diacronicamente rinnovato delle evoluzioni personologiche dell’istante, dall’altro milita in favore della ripresentabilità proprio il principio di massima effettività del rimedio richiesta dalla fonte sovranazionale.
4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale
Le conclusioni cui giungono le SU sono però poste a valle di una complessa ricostruzione circa le conseguenze della scelta operata dal legislatore italiano, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani v. Italia, di elevare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, mediante il rinvio formale operato nell’art. 35-ter ord. penit., a fonte integrativa del precetto, e dunque, per come già detto, qualcosa di più di un pur autorevole orientamento interpretativo della norma, cui sempre è tenuto il giudice nazionale ex art. 117 Cost.
Le SU chiariscono innanzitutto come il rinvio operi sincronicamente, consentendo di scegliere tra uno dei possibili significati, ma anche diacronicamente, facendo rientrare nella nozione rilevante di cui all’art. 3 diritti e garanzie progressivamente riconosciuti.
Oneroso è dunque il compito attribuito al giudice interno, che tuttavia deve far riferimento alla sola giurisprudenza della CEDU che sia espressione di un suo orientamento consolidato, come tale valorizzato nello stesso art. 28 della Convenzione. Sotto questo profilo le SU richiamano soprattutto l’insegnamento della sent. Corte Cost. 49/2015 che, approfondendo i suoi precedenti fondamentali arresti nelle sent. 348 e 349/2007, tentava di delineare un identikit efficace di questa giurisprudenza convenzionale, mediante indici rappresentativi dell’avvenuto consolidamento: il suo porsi nel solco di precedenti, l’assenza o limitatezza dei dissent, l’aver ottenuto l’avallo della Grande Camera, il non riferirsi in modo peculiare ad ordinamenti giuridici diversi da quello nazionale e poco conferenti alla situazione italiana.
Secondo le S.U., però, una volta che si è individuato l’insegnamento della CEDU rilevante nel caso che il giudice nazionale deve decidere, non soltanto nel campo del sovraffollamento, ma più in generale rispetto all’ampio spettro di possibili violazioni dell’art. 3 CEDU nel campo delle condizioni detentive, non residua al giudice interno uno spazio interpretativo che se ne discosti, e ciò non soltanto nel caso pacifico in cui ciò determini effetti deteriori per il reclamante, ma pure quando invece si vagli un’opzione interpretativa che risulterebbe ampliare la sfera di tutela del diritto rispetto a quanto affermato dalla Corte europea, perché “ciò violerebbe sia il principio dell’obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relazionem più colte ricordato.”
E ciò fatta salva soltanto l’astratta possibilità di sollevare su tale interpretazione una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità ex art. 27 co. 3 Cost.
A questo proposito si cita l’importante precedente costituito, in tema di mandato di arresto europeo, dalla sentenza Corte di Giustizia Unione Europea 15.10.2019 Dumitru-Tudor Dorobantu, nella quale la Corte di Lussemburgo ha inibito ad un giudice nazionale di adottare uno standard di tutela più elevato rispetto a quelli garantiti dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (speculare all’art. 3 Conv. EDU) poiché, pur ribadita la possibilità per gli Stati membri di prevedere standard detentivi minimi più elevati di quelli individuati dalla Carta, gli Stati membri non possono subordinare la consegna di una persona per MAE al rispetto di questi standard più elevati senza con ciò pregiudicare i principi di fiducia e riconoscimento reciproco che la decisione quadro 2002/584 tutelano. Principi che, sia detto per inciso, non sembrerebbero però venire in rilievo in rapporto al reclamo ex art. 35-ter ord. penit., che ha una portata tutta nazionale.
L’unico spazio interpretativo residuo sarebbe dunque quello, in effetti poi esercitato dal giudice di legittimità, lasciato scoperto da un significato non del tutto chiaro delle parole di Strasburgo, dovendo provvedersi invece a sanzionare per violazione di legge l’interpretazione, eventualmente anche più favorevole, del giudice di merito che si basi però su un criterio difforme rispetto a quello indicato dalla CEDU.
L’insegnamento offerto sul punto dalle SU si pone sotto questo profilo al cuore di un dibattito, denso e ancora vivissimo, circa i rapporti tra giurisprudenza convenzionale, costituzionale e ruolo del giudice comune[2]. Una valutazione circa l’efficacia della soluzione prospettata non può però che misurarsi proprio con le conseguenze che nel caso di specie il giudice della nomofilachia ne ha fatto derivare. Se la dottrina ha da tempo evidenziato ad esempio la difficoltà di discernere concretamente cosa costituisca caso per caso giurisprudenza consolidata, in presenza di indici che spesso non conducono univocamente in una direzione (si pensi in materia carceraria agli slittamenti rilevabili tra Torreggiani v. Italia e Mursic v. Croazia), è proprio nel giungere a definire i corretti criteri di computo degli spazi minimi in cella multipla che si apprezza un risultato interpretativo che è frutto del fecondarsi reciproco di posizioni emerse nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, tenute insieme dal principio di garanzia della massima effettività del rimedio riparatorio.
Il ruolo difficile e nello stesso tempo insostituibile del giudice nazionale, interprete diffuso della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sembra domandare comunque uno spazio significativo che, rispetto ad un sistema convenzionale che focalizza la sua attenzione sugli standard minimi, come necessario a fronte di una pluralità di sistemi nazionali sui quali dispiega la sua opera, li adatti alle peculiarità del contesto domestico in cui deve applicarli, innervando la sua giurisprudenza anche dei risultati di un confronto, nel caso del giudice italiano con la Costituzione (in materia di condizioni detentive trovando nell’art. 27 co. 3 Cost. un moltiplicatore, non necessariamente del tutto sovrapponibile all’art. 3 CEDU), confronto che non può che portare verso un consentito, poiché frutto di tale specifica interpretazione, innalzamento degli standard di tutela.
5. Sui fattori compensativi
Le SU pervengono, infine, a definire un ulteriore principio di diritto che, nelle stesse parole del giudice della nomofilachia, non risultava poi così dibattuto nella giurisprudenza di legittimità, ma richiedeva comunque di essere ribadito, rispetto all’opacità di talune ricostruzioni che potevano trarsi più che altro da pronunce emesse in relazione a procedure per la consegna ad altri Stati di persone in forza di MAE.
Si chiarisce così che “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”.
Sul punto la giurisprudenza convenzionale aveva davvero speso parole di grande chiarezza, che ora semplificano la definizione del principio da parte delle SU. Come già si accennava, brevemente commentando i contenuti della sentenza Mursic v. Croazia, soltanto la compresenza dei tre impegnativi fattori migliorativi di una condizione assai deteriore come quella della restrizione carceraria in uno spazio inferiore ai 3 mq procapite, primo fra tutti la brevità ed occasionalità della stessa, può consentire di superare la forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU.
Quando invece il detenuto abbia avuto a disposizione spazi comunque esigui, tra i 3 ed i 4 mq procapite, prevale una “valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale”. Spetterà all’interessato l’allegazione di eventuali carenze nell’accesso alle aree esterne, o nell’areazione o illuminazione della stanza, o nella riservatezza dei servizi igienici, o nelle cattive condizioni sanitarie o igieniche complessive e l’amministrazione potrà invece evidenziare, al contrario, la rilevanza dei fattori positivi eventualmente sussistenti.
Particolarmente significativo è il richiamo delle SU alla necessità che il giudice valuti il complesso di tali elementi, facendo riferimento alle concrete opportunità trattamentali poste a disposizione del condannato e non all’offerta trattamentale che astrattamente un certo istituto penitenziario può offrire e dunque non al fatto che in un carcere fosse previsto l’accesso al lavoro o alla scuola per alcuni detenuti, ma che abbia potuto fruire di questa opportunità, e con quali modalità e in che tempi, il reclamante.
[1] Per approfondite analisi sull’istituto si vedano, tra gli altri, F. Fiorentin a cura di, La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, 2019 e G. Giostra – M. Ruaro, Art. 35-ter commento in F. DElla Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato.