ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ci sono persone che non vanno mai in pensione. Le schiene dritte, quelle dritte davvero, così rimangono sempre, che abbiano o meno la toga sulle spalle. Armando la toga non la toglierà mai, perché è davvero un tutt’uno col suo essere più profondo: la tutela dei diritti, l’indipendenza e l’autonomia, il rispetto vero per le istituzioni.
Le passioni non vanno mai in pensione. Non è un augurio, ma una certezza, che Armando sarà sempre in prima fila nel difendere le ragioni degli altri, nel parlare con competenza e con l’esempio di diritti e principi, nel ricordare a tutti che non si deve mai smettere di parlarne.
Certo, tanti gli vogliono bene e tanti con lui hanno litigato, e le due categorie si sovrappongono: Armando non litiga con le persone di cui non condivide il modo di essere, queste si limita a colpirle con una frase tagliente, con un commento preciso.
Ha litigato e litiga con quelli come lui, quelli a cui vuole bene e che gli vogliono bene, perché a volte la si può pensare diversamente su strategie politiche, su passaggi correntizi, ma avendo la coscienza di essere dalla stessa parte.
Conosciamo la sua grande passione per la musica, il suo amore viscerale per Bob Dylan. Ci sembra bello dedicargli una strofa di una delle canzoni più belle, per quanto poco conosciute, di Francesco De Gregori, “Sempre e per sempre”:
Pioggia e sole
cambiano la faccia alle persone,
fanno il diavolo a quattro nel cuore
e passano
e tornano
e non la smettono mai.
Sempre e per sempre tu:
ricordati
dovunque sei
se mi cercherai
sempre e per sempre
dalla stessa parte mi troverai.
Caro Armando, dalla stessa parte, sempre e per sempre.
Il Direttivo del Movimento per la Giustizia
Andrea, Angelo, Daniela, Dino, Gianni, Giovanni, Giuseppe, Maria Teresa, Mino, Pier Luigi, Stefano
POLITICA E MAGISTRATURA: FERMATE L’ANDIRIVIENI
(Criticità di una contaminazione da superare)
Se il rispetto della politica per la magistratura può considerarsi un affidabile termometro della salute democratica di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerare le inchieste giudiziarie “sacrosante” o “persecutorie” a seconda che riguardino, rispettivamente, gli avversari o i militanti del proprio schieramento. È una tentazione questa, cui pochi nostri rappresentanti hanno saputo resistere. Preoccupante è il manifesto proposito di delegittimare la magistratura: irridendone l’azione, disconoscendole l’autorità di pronunciarsi in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparzialità per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionando sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinderne.
Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritarismo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudini del Pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinamentali predisponenti. Risulta assai difficile non rispondere affermativamente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanziale impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettabile pendolarismo dall’ufficio giudiziario ad attività di natura politico-amministrativa, che non può non ripercuotersi sulla credibilità della funzione giurisdizionale svolta.
Sul primo versante. La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione. Si è pensato di sostituirla con un sindacato della Camera di appartenenza dell’indagato sulla esperibilità di determinati atti investigativi: «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto» a perquisizione personale o domiciliare, ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni, a sequestro di corrispondenza (art. 68 Cost.). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilità di una fonte così autorevole come la Costituzione. L’autorità giudiziaria, prima di procedere al compimento di atti investigativi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire –oltre all’indagato- più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivamente a fini investigativi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercettare le conversazioni di un parlamentare dovrebbe ottenere prima il disco verde alla Camera di appartenenza; dopodiché, verosimilmente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controproducenti potrebbe sortire una intercettazione con preavviso.
Ma anche là dove la guarentigia costituzionale è in sé ineccepibile, la prassi si è incaricata di trasfigurarla in insopportabile privilegio. La Costituzione giustamente pretende che l’autorità giudiziaria, per poter privare della libertà personale un parlamentare, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenenza esclude l’esistenza di un intento persecutorio vòlto ad alterare il fisiologico atteggiarsi degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativa negli eccezionalissimi casi in cui l’iniziativa giudiziaria avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzare l’arresto come insuperabile riparo ordinario del parlamentare contro l’azione giudiziaria, strumentalmente adducendo – tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste – l’asserita presenza del fumus persecutionis. Insomma: tanto fumus, poco arresto.
Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare ad indossare i panni di sindaco o di assessore in un comune viciniore rispetto alla circoscrizione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometrica consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzioni politiche che lo hanno indotto ad assumere determinate decisioni amministrative e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialmente le funzioni di magistrato. E’ ancor più improbabile che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazione, specie se la loro attività o la res iudicanda abbia collegamenti più o meno diretti con la politica.
Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità, come di solito si sottolinea. Politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire ad un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato ed opera secondo lo schema «se è accaduto questo… allora…». Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della propria decisione. Ebbene. il magistrato che “torna” ad esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi estremamente opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizionali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamentare o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri).
In sintesi: la promiscuità di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparzialità dell’azione giudiziaria; più spesso incrina la fiducia della collettività nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziaria ad attacchi ed insinuazioni strumentali. Impedire tali contaminazioni tra magistratura e politica forse può frustrare qualche comprensibile aspirazione dei magistrati, ma fa bene all’autorevolezza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati ad un tal punto di analfabetismo democratico che un ministro ritiene di poter contestare ad un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccabile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferimento condiviso, senza il quale si schiuderebbero orizzonti poco rassicuranti. Screditata ed esautorata la giurisdizione, i cittadini cercherebbero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgerebbero ad altri poteri (politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazione delle loro rivendicazioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenza.
(da “La lettura”, supplemento del “Corriere della Sera” del 16.12.2018)
Il caso Tobagi, le Brigate Rosse, il sequestro di Abu Omar, la 'ndrangheta al Nord: alcune delle inchieste più scottanti raccontate da un magistrato che le ha dirette in prima persona. È il momento di ripercorrere gli ultimi trent'anni di storia giudiziaria italiana e descrivere la tempesta che, tra ambiguità e silenzi, si sta abbattendo sulla nostra giustizia. «Come è potuto accadere che a due pubblici ministeri, sino a quel momento oggetto di denunce sporte solo da mafiosi e terroristi da loro inquisiti, siano state attribuite condotte costituenti gravi reati dal presidente di un governo di centro-sinistra il cui programma elettorale prevedeva la strenua difesa della legalità? E, soprattutto, come è potuto accadere che due governi di diverso orientamento politico abbiano uno dopo l'altro apposto il segreto di Stato su notizie già universalmente note perché da tempo circolanti sul web? I fatti possono essere finalmente raccontati, in modo rispettoso tanto dei limiti di questo anomalo segreto di Stato, quanto dei diritti degli imputati». Parliamo della vicenda Abu Omar che, grazie all'indipendenza della magistratura italiana e all'obbligatorietà dell'azione penale, volute dai Costituenti e oggi seriamente a rischio, ha portato sul banco degli imputati, caso unico al mondo, appartenenti ai servizi segreti americani e italiani. Armando Spataro, che è stato protagonista dell'inchiesta insieme a Ferdinando Pomarici, la racconta in dettaglio. Come le altre importanti indagini svolte lungo 34 anni di attività professionale, da quelle sui brigatisti rossi e Prima Linea a quelle sulla 'ndrangheta trapiantata in Lombardia, per finire con il terrorismo internazionale. Una storia popolata di ricordi dolorosi e di facce ambigue, ma anche di passione civile e di persone amate.
Vincitore del premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e istituzioni
Vincitore del premio Cesare Pavese 2011 per la sezione Saggistica
L'emendamento "allunga processi" di Michele Cerminara
All’indomani della presentazione del famigerato emendamento al ddl anticorruzione sulla prescrizione si sono levate, bipartisan, da parte di tutti (o quasi tutti) gli operatori e tecnici del diritto o addetti ai lavori che dir si voglia -comunque sia da parte di tutti coloro che, per onestà intellettuale, indipendentemente dal ruolo, non accettano che temi di così alta incidenza sociale possano essere affrontati sull’onda della faciloneria animata da slogan propagandistici del momento-, moltissime critiche, per un tentativo di riforma generalizzata dell’istituto della prescrizione, che giunge ad appena quasi due anni dall’approvazione della c.d. riforma Orlando, che ha già introdotto la sospensione del decorso della prescrizione per complessivi tre anni successivamente alla pronuncia di primo grado.
Il rischio è quello di continuare a sacrificare diritti di rilevanza costituzionale[1], frutto di fondamentali conquiste della civiltà giuridica, per non affrontare concretamente le reali disfunzioni del sistema Giustizia e rimediare alle storture del sistema processuale.
Lo sbalordimento è enorme, il legislatore manifesta scarsa conoscenza delle aule dei Tribunale e degli apparti amministrativi e, ancora una volta, per scongiurare la piena, si ostina illogicamente a porre l’argine a valle ancorché a monte.
Il fatto che nessun valido cambio di rotta sia stato posto in essere per individuare e migliorare i meccanismi di funzionamento dell’apparato Giustizia e che a brevissima distanza si voglia intervenire nuovamente sull’istituto dimostra un completo disinteresse rispetto ai veri temi e alle problematiche del processo penale italiano.
Solo ponendo in essere interventi specifici e mai generalizzanti è pensabile pensare di poter ridurre i “tempi della Giustizia”. Una riforma della Giustizia non può infatti passare attraverso provvedimenti demagogici, ma deve muovere, a monte, da investimenti in strutture e interventi su base culturale, iniziando ad interrogarsi, in una prospettiva realistica e con gli approfondimenti indispensabili del caso, sull’opportunità di mantenere o meno l’obbligatorietà dell’azione penale.
Mentre non si riesce a cogliere il risultato positivo che con la riforma si vorrebbe raggiungere, prima facie, appaino invece chiare le conseguenze disastrose che una simile riforma potrebbe arrecare.
La riforma, acché ne dicano gli ideatori, non è certo un antidoto alla lunghezza dei processi, né può assolutamente servire quale presidio di salvaguardia alla certezza della pena.
Non è possibile avere piena contezza, in concreto, dell’impatto negativo che, a vari livelli, una riforma generalizzata dell’art. 157 c.p. è in grado di procurare, laddove non si tenga ben presente la duplice ratio sottesa a detta causa estintiva del reato, ovverosia: da un lato il progressivo affievolirsi nel tempo dell’allarme sociale destato dall’illecito; dall’altro, nella prospettiva del reo, il maturare in capo a costui di un diritto all’oblio per il fatto commesso.
Ove si tenga conto di queste essenziali fondamenta, dovendosi muovere necessariamente in una prospettiva costituzionalmente orientata, risulta palese la necessità di dover rifuggire da semplicistiche generalizzazioni. Bisogna andarci cauti! Solo limitatamente ad alcuni tipi o classi di reati, da vagliarsi con circospezione e dovizia, può infatti ipotizzarsi un allungamento dei termini di prescrizione e ciò solo laddove l’analisi venga condotta in ossequio all’ineludibile principio di “ragionevolezza” che la Carta costituzionale esige e che non può che rispondere a due insopprimibili parametri ordinatori: la sussistenza di un allarme sociale così intenso da determinare una “resistenza all’oblio” più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria; la complessità delle attività probatorie necessarie, in sede di indagini preliminari o in giudizio, per accertare il reato nelle sue componenti oggettiva e soggettiva.
La riforma che si propone è, drammaticamente, ben altra cosa, non considera che la maggior parte delle prescrizioni matura già in fase di indagini preliminari, dove il PM è dominus indiscusso. Per come è ideata, essa è suscettibile di comportare solo un inevitabile allungamento dei tempi del processo, finendo così per rappresentare una contraddizione in termini, giacché viene meno alla stessa finalità che essa proclama di voler realizzare.
L’imputato, a rigore, potrebbe vedersi sottoposto a processo penale pressoché a vita.
Una volta messo al riparo il problema della prescrizione al momento della pronuncia di primo grado, tutte le parti in causa (ed anche le Cancellerie si potrebbe pensare!) non avrebbero più alcuno stimolo e/o necessità a dover accorciare i tempi di conclusione del procedimento, potendo infatti “utilizzare” tutto il tempo necessario a prescrivere (meno un giorno) prima di addivenire alla sentenza.
Si pensi al caso di un delitto “semplice” (in relazione al quale il legislatore non ha modificato in maniera specifica i termini di prescrizione), la cui pena massima è stabilita in dieci anni di reclusione. Il Giudice potrebbe impiegare, senza alcun rischio per la prescrizione, ben dodici anni e mezzo (viste le “classiche” interruzioni) per pronunciare sentenza. A sua volta la Corte di Appello, con la prescrizione ormai sospesa (nell’emendamento si parla di sospensione ma, considerati i termini, sarebbe più onesto parlare di interruzione definitiva), non avrebbe limiti di tempo per decidere.
L’imputato, in sostanza, potrebbe essere sottoposto a processo per tutta la sua vita e un processo senza fine sarebbe l’equivalente di un ergastolo a vita, in barba alla presunzione d’innocenza!
Lo dicono buon senso e logica. Il processo è già pena, specialmente ai nostri giorni, allorquando viene accompagnato da gogne mediatiche e facili movimenti di piazza.
Bloccare o sospendere la prescrizione è incostituzionale ed è contrario a principi internazionali, rappresentando una grave violazione dei più basilari diritti umani.
Al diavolo tutti i preziosi insegnamenti e i principi che i padri del pensiero giuridico, Cesare Beccaria e Pietro Verri per dirne alcuni, hanno donato al mondo intero e alla civiltà giuridica d’ogni dove!
La prescrizione dei delitti è argomento centrale e delicatissimo. Se è vero che per alcuni delitti essa non deve trovare applicazione e che deve necessariamente essere modulata in base alla gravità del reato, è al contempo, inequivocabilmente, principio irrinunciabile di civiltà giuridica cui non è possibile abdicare, figura indispensabile ai fini dell’amministrazione della Giustizia (diceva Beccaria: “Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un Giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero?”[2]).
Un processo celere e la certezza della pena, anzitutto in termini di immediatezza della stessa dopo la commissione di un reato, sono i veri principi cui occorre senza indugio dare ossequio, solo attraverso essi, non certo annichilendo tout court un istituto che, a ben vedere, si pone quale ultimo baluardo di garanzia degli stessi contro la deriva nascente dalle storture del sistema, è possibile auspicare alla realizzazione del tanto sbandierato “giusto processo”.
Per non parlare poi di tutte quelle conseguenze negative che l’allungamento del processo comporterebbe per le persone offese dal reato costituitesi parte civile successivamente all’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile. In questi casi, la causa civile, a rigore di codice, verrebbe ad essere sospesa fino alla definitività della sentenza penale, con la conseguenza che la persona offesa potrebbe non ottenere un ristoro del danno per tempi lunghissimi[3].
Si pensi poi all’imputato assolto in primo grado. Questi, ove il PM interponesse impugnazione avverso la sentenza assolutoria emessa dal Giudice di prime cure, potrebbe rimanere comunque “imputato a vita”. E’ allora evidente come, quella di voler “sospendere” la prescrizione in maniera definitiva dopo la sentenza di primo grado, rappresenti una scelta che viene a porsi in acceso contrasto con il principio della ragionevole durata del processo a cui proprio i fautori dell’emendamento dicono ipocritamente di tendere.
Il problema delle lungaggini processuali non è una problematica risolvibile con un intervento teso ad elidere l’istituto della prescrizione; basterebbe modificare e, dove occorra, correttamente applicare alcune norme del codice di procedura penale già esistenti, soprattutto laddove si consideri che relativamente a molti reati risulta ad oggi già prevista una dilatazione del tempo necessario a prescrivere.
Le norme processualistiche che avrebbero dovuto, già prima della riforma Orlando, porsi a garanzia e scongiurare il problema del tempo “sul processo”, sono sempre state disapplicate, interpretate così tanto in favore della garanzia di difesa dell’indagato-imputato da risultare distorte, consentendo al difensore di poter mettere in atto una serie di mezzi per non far giudicare il proprio assistito.
L’omesso avviso 415 bis c.p.p. al secondo difensore nominato, l’omesso avviso al secondo difensore delle udienze, per dirne alcune, a voler essere seri, non comportano alcuna violazione effettiva del diritto di difesa.
Nessuno, sia l’indagato (poi imputato) che uno dei due difensori ha ricevuto un avviso; beh non si capisce la ratio della nullità sottesa a tali inutile formalismi: l’omesso avviso, qualunque esso sia, al secondo difensore, non pare affatto suscettibile di ledere il diritto di difesa.
Attendiamo ancora (le non più recentissime modifiche che hanno abolito l’istituto della contumacia hanno senz’altro comportato un grave peggioramento) una decisa modifica delle notificazioni, successive alla prima, all’imputato libero. Sul punto è logico e necessario responsabilizzare il difensore coinvolgendolo concretamente (puntando a realizzare il tentativo posto in essere dal legislatore del 2005, con l’introduzione del comma 8 bis all’art 157 c.p.p., scarsamente recepito finanche dalla Corte Suprema secondo cui, in caso di dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, la notifica al difensore, invece che all’imputato, è da ritenersi nulla[4]. Si potrebbe, d’altro canto, sospendere la prescrizione per tutto il tempo del rinvio per concomitante impegno professionale del difensore, cosi da scongiurare inutili rinvii spesso strumentalizzati. Ancora, si potrebbero introdurre alcune delle proposte dell’A.N.M.[5], quale, ad esempio, la cristallizzazione dell’effetto interruttivo della prescrizione dell’art. 415 bis c.p.p., o ancora, prevedere la non rinnovazione degli atti a seguito del cambio del giudicante persona fisica, quantomeno relativamente alla c.d. “prova generica” assunta da altro Giudice, se non allorquando il nuovo Giudice lo ritenga, motivatamente, necessario. Ma di più, si dovrebbe “svecchiare” la fase dibattimentale del processo penale italiano allineandolo alle innovazioni tecnologiche, consentendo l’escussione dei testi a distanza. Se è consentita (in determinate condizioni e per gravi reati) la partecipazione a distanza dell’imputato, non è dato capire perché anche i testimoni non possano essere sentiti a distanza.
Si tratterebbe di porre in essere misure o interpretazioni di norme capaci, più efficacemente, di incidere sui tempi del processo rispetto ad una mera, sconsiderata, modifica dell’istituto della prescrizione. È necessario introdurre una cadenza processuale serrata, magari prendendo come spunto (coi dovuti accorgimenti) le cadenze dei termini di fase ex art. 303 c.p.p., ponendo in rapporto di stretta e diretta proporzionalità il tempo entro cui dovrà svolgersi il processo rispetto alla gravità ed al numero dei reati contestati.
Modifiche che, anche prima della riforma Orlando, avrebbero certo scongiurato il pericolo della prescrizione del reato e, nel contempo, avrebbero anche impedito alla politica di racimolare il consenso di non addetti ai lavori con patinati emendamenti propagandistici, disorganici, controproducenti e di estrema pericolosità[6].
[1] Stefano Ceccanti, Intervento sulla pregiudiziale relativa alla prescrizione, pubblicato in www.libertàeguale.it, “Prescrizione: non facciamo un buco nella rete del diritto”
[2] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene – Prontezza della pena – Capitolo 19
[3] Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione in www.questionegiustizia.it
[4] Il riferimento è a Cass. Pen. SS.UU n. 58120/2017
[5] Proposte di riforma dell’Associazione Nazionale Magistrati in materia di diritto e processo penale (approvate dal Comitato Direttivo Centrale nella riunione del 10 novembre 2018)
[6] Gaetano Insolera, LA RIFORMA GIALLO-VERDE DEL DIRITTO PENALE: ADESSO TOCCA ALLA PRESCRIZIONE, in www.penalecontemporaneo.it
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