L’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 e l’interpretazione degli atti sottoposti al registro: The End!
di Giuseppe Melis
Sommario. – 1. Le origini del dibattito. – 2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – 3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – 4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – 5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine.
La tormentata vicenda dell’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 (e dei suoi antecedenti storici, prima l’art. 19, d.p.r. n. 634/1972 e prima ancora l’art. 8, R.D. n. 3269/1923), giunge finalmente, a quasi un secolo dall’avvio del dibattito, ad una conclusione grazie alla precisa sentenza n. 158/2020 della Consulta, la quale ha negato che la modifica normativa recata dalla L. n. 205/2017, in specie consistente nella sostituzione del termine “atti” con “atto”, nell’esclusione della possibilità di riferirsi nell’interpretazione dell’atto ad elementi extratestuali e a negozi collegati (oltreché nel richiamo all’art. 10-bis, L. n. 212/2000), possa ritenersi in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.. Si tratta, infatti, di modifiche che conformano l’imposta di registro alla sua tradizionale natura di imposta d’atto, senza che la diversa soluzione proposta dalla Cassazione possa considerarsi costituzionalmente necessitata. Grazie poi all’assist involontario – rivelatosi un boomerang – della suadente ipotesi di inammissibilità “interpretativa” prospettata dall’Avvocatura dello Stato, la Consulta preclude ulteriori fantasiose interpretazioni della modifica normativa, bollandole come interpretatio abrogans, consentendo così di ritenere attuale testo dell’art. 20 ormai assestato nel suo significato squisitamente letterale. Si ripercorrono, di seguito, i passaggi storici della vicenda, evidenziando, da un lato, come la soluzione normativa adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali, anche alla luce del coordinamento con il più generale istituto dell’abuso del diritto; e, dall’altro, come la certamente non impeccabile (ma efficace) formulazione finale sia dovuta a scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito, scelte peraltro rivelatesi, anche alla luce delle modalità con cui si è articolato l’ultimo round dinanzi alla Consulta, del tutto azzeccate.
1. Le origini del dibattito. – Con la sentenza n. 158 del 2020 la Corte costituzionale mette la parola fine ad una tra le più tormentate e risalenti querelles interpretative che mai abbiano interessato il diritto tributario italiano, avviatasi già negli anni ‘30 dello scorso secolo con riferimento all’art. 8, co. 1, della abrogata legge del registro (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269) e giunta, finalmente, all’epilogo.
La pubblicazione avvenuta nel 1937 del brillante lavoro del giovanissimo Jarach sui “Principii per l’applicazione delle tasse di registro”, aprì infatti un ampio dibattito, dai toni non raramente accesi, sul problema se l’interpretazione degli atti sottoposti all’imposta di registro dovesse avvenire secondo principi e concetti giuridici ovvero economici, proprio in considerazione di quanto affermato dall’art. 8 sull’applicazione della tassa di registro “secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti e dei trasferimenti se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
L’analisi del problema fu strettamente intrecciata con la questione del rapporto tra diritto tributario e diritto civile, quando il primo operava riferimento a concetti già elaborati dal secondo. L’utilizzo di tali termini si reputava avvenire per motivi di ordine pratico, al fine di designare non l’istituto civilistico, bensì un determinato fenomeno della vita economica. La portata dell’istituto richiamato non era quella assunta nell’ordinamento civilistico di provenienza, ma quella rappresentata dalla sua funzione economica normale.
Secondo Jarach, l’art. 8 avrebbe previsto “l’ipotesi che l’atto compiuto dalle parti non abbia ricevuto la forma giuridica normale, che è pure quella che la tariffa contempla come oggetto del tributo, e dispone, in analogia al criterio contenuto nella legislazione germanica, affermato dalla giurisprudenza svizzera e conforme ai principi fondamentali del diritto tributario, che in tale ipotesi si deve aver riguardo, nell’applicazione delle tasse proporzionali, progressive e graduali, alla portata economica degli atti compiuti e non al loro aspetto giuridico”. Due atti sostanzialmente identici, anche se con forme giuridiche civilistiche diverse, dovevano essere sottoposti per il principio di eguaglianza ad identico tributo, in quanto ciascuna imposta “ha un oggetto che costituisce l’indizio che il legislatore prende in considerazione per stabilire l’esistenza di una capacità contributiva”: per il principio di capacità contributiva “a parità di capacità contributiva deve corrispondere uguale imposta”.
Tale fu anche la posizione di Griziotti che ritenne rilevante il contenuto economico dell’atto, dal momento che il tributo del registro non era una tassa, ma un’imposta, e come tale colpiva fatti economici. Facendo leva sulla rilevanza della natura di imposta di un determinato tributo ai fini dell’indagine sul contenuto economico della fattispecie, Egli estendeva il ragionamento anche all’imposta di ricchezza mobile.
A tale costruzione A. Berliri oppose che l’idoneità di un fatto a manifestare la capacità contributiva, cioè la capacità di pagare le imposte, costituiva un giudizio riservato al legislatore e non demandato all’interprete. È il legislatore che sceglie se e quale capacità contributiva sia desumibile da un atto piuttosto che da un altro atto: conseguentemente, se il legislatore erra in un simile giudizio, il suo errore non può essere corretto dall’interprete.
La prevalenza del contenuto giuridico su quello economico e, quindi, il diritto delle parti di scegliere la forma di un contratto anziché un altro per regolare i loro rapporti, fu sostenuta anche da A. Uckmar. È vero sì che il fisco può tassare il contratto che le parti hanno realmente posto in essere indipendentemente dall’intenzione delle parti stesse, ma ciò “non deve portare all’estrema conseguenza di dover applicare un’aliquota più elevata di quella dovuta su un determinato atto, per il solo motivo che le parti hanno raggiunto uno stesso scopo che avrebbero potuto ottenere stipulando un altro contratto soggetto ad aliquota maggiore”. Due negozi giuridici diversi, anche se producono sostanzialmente identici effetti economici, possono scontare aliquote diverse. Le tabelle del registro contemplano negozi giuridici e non atti economici e le aliquote variano a seconda del negozio giuridico, indipendentemente dagli effetti economici: basterebbe pensare ai negozi nulli, i quali scontano l’imposta di registro, sebbene non producano alcun effetto economico.
V. Uckmar ebbe infine il merito di evidenziare con forza il tema della certezza del diritto in un suo scritto in cui criticava due pronunzie della Commissione tributaria centrale, le quali avevano ritenuto che “la cessione dell’intero pacchetto azionario di una società, ponendo l’acquirente in condizione di fare proprio il patrimonio sociale, è soggetta all’imposta proporzionale di registro, anche se la società abbia assolto l’imposta di negoziazione”, entrambe basandosi sul duplice argomento secondo cui: i) la cessione metterebbe virtualmente il titolare della totalità delle azioni in condizione di far proprio il patrimonio della società ponendo la stessa in liquidazione; ii) la cessione, nella realtà economica, potrebbe avere la “funzione strumentale” di trasferire il patrimonio sociale.
Si trattava, va evidenziato, di una giurisprudenza di merito che si discostava da quella di legittimità che, al contrario, accoglieva allora la tesi secondo cui gli atti andavano tassati per gli effetti giuridici da essi prodotti, rilevando che “la Finanza non ha nessun obbligo di compiere indagini su fatti e circostanze che non risultano dall’atto, ma deve basarsi esclusivamente sull’atto così qual è, obiettivamente, nella sua impostazione giuridica”, e che “una ricerca dell’Ufficio sul fine ultimo economico giuridico che le parti hanno voluto raggiungere con l’atto, al fine di determinare la tassa in relazione a questo fine, mentre da nessuna disposizione di legge è prescritta, è contraria a quel criterio di certezza, che deve presiedere alla identificazione del contenuto giuridico degli atti, dovendosi l’imposta applicare in base alle pattuizioni emergenti da detti atti” (Cass., 19 agosto 1947).
A proposito della certezza, così scriveva V. Uckmar: “l’applicazione delle imposte non può essere rimessa alla discrezione, se non addirittura all’arbitrio, dell’Amministrazione; è canone fondamentale della scienza delle finanze, insegnatoci dallo SMITH, che l’imposta che ciascun individuo è obbligato a pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Mi sembra che tale certezza verrebbe meno qualora si rimettesse all’Ufficio del registro la potestà di sindacare se un determinato atto, che giuridicamente non produce trasferimento di beni, sia tassabile in quanto “nella realtà economica” potrebbe essere traslativo di ricchezze”. Il riferimento alla realtà economica “porrebbe nel nulla, come ha rilevato anche la Cassazione, una delle necessità fondamentali dell’imposizione, e cioè la certezza”.
2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – La modifica attuata dal legislatore con il nuovo art. 19, d.p.r. n. 634/1972, poi trasfuso nell’art. 20, n. 131/1986, consistente nell’inserimento nell’enunciato normativo dell’aggettivo “giuridici” – “l’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” – avrebbe dovuto definitivamente eliminare ogni appiglio per affermare la possibilità di ricorrere a giudizi di equiparazione basati sul risultato economico perseguito con l’operazione complessivamente posta in essere, riconducendo l’interpretazione della disposizione interessata al suo significato di consentire all’Amministrazione finanziaria un’indagine sulla natura giuridica dell’atto posto alla registrazione al fine di verificarne la sua rispondenza ad un tipo normativo piuttosto che ad un altro e così determinarne gli effetti rilevanti in termini di imposizione di registro: in altri termini, una ricerca sulla “sostanza giuridica”.
Diverse erano poi le implicazioni che se ne ritraevano.
In primo luogo, di autorizzare un’interpretazione del contratto sottoposto a registrazione differenziata e autonoma da quella civilistica, con la conseguenza che, da un lato, sarebbe stato possibile colpire il negozio al di là degli effetti voluti dalle parti e quindi con riferimento sic et simpliciter agli effetti giuridici che la legge ricollegava al mero schema negoziale adottato dalle parti medesime, anche se non voluti; e, dall’altro, che talune disposizioni in punto di interpretazione non avrebbero trovato applicazione, come ad esempio quelle in ordine al comportamento complessivo delle parti.
In secondo luogo, di escludere non solo la rilevanza degli effetti economici dell’attività negoziale posta in essere, ma anche la possibilità che gli effetti giuridici connessi alle ipotesi di collegamento negoziale potessero essere apprezzati alla luce della “causa concreta”.
In terzo luogo, che non potesse essere assegnata all’art. 20 d.p.r. n. 131/86 la stessa funzione dell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/73, trattandosi di disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già di norma antielusiva: il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non avrebbe quindi potuto essere disconosciuto anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
In sintesi, essendo interpretazione e qualificazione operazioni oggettive, poiché tale è l’interpretazione, che mira alla ricostruzione della volontà delle parti così come oggettivata nel contratto, e tale è altresì – in quanto mera individuazione degli elementi qualificanti la fattispecie – l’inquadramento nel tipo corrispondente della fattispecie stessa, l’Amministrazione deve sicuramente ricostruire la volontà delle parti, ponendosi la rilevanza della regola in esame essenzialmente sul diverso profilo dell’efficacia giuridica potenziale del negozio, la cui tassazione dovrà tenere conto non solo degli effetti voluti dalle parti, ma anche di quelli che esso è idoneo a produrre in forza della fattispecie normativa in cui si inquadra.
Infine, non poteva essere escluso che, sia pur in via eccezionale, alcuni elementi interpretativi di natura “extratestuale” (comportamento successivo delle parti, in particolare quello esecutivo) potessero valere a definire in concreto la portata di un atto altrimenti indefinibile nel suo significato oggettivo e testuale.
3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – La giurisprudenza di legittimità, a partire dai primi anni 2000, ha iniziato tuttavia a fare un uso – oggetto di critiche costanti ed unanimi della dottrina tributaria – dell’art. 20 prima quale norma “antielusiva”, poi quale norma “speciale” sull’interpretazione applicabile al solo settore dell’imposizione del registro (che darebbe rilevanza alla c.d. “causa in concreto”).
Questa seconda variante è temporalmente collocabile dopo l’avvenuta introduzione del nuovo art. 10-bis nella L. n. 212/2000, che, estendendo l’abuso del diritto/elusione fiscale a tutti i tributi, rendeva la tesi antielusiva evidentemente non più persuasiva. L’auspicio della dottrina che l’introduzione dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000, in quanto applicabile a tutti i tributi, avrebbe definitivamente risolto la questione e ricondotto l’interpretazione dell’art. 20 nel suo alveo originario, si era dimostrato vano. La giurisprudenza – con l’unica eccezione di una sentenza che ha disconosciuto la possibilità di legittimare una lettura “sostanzialistica” degli atti sottoposti al registro mediante l’art. 20 (Cass., n. 2054/2017; sul necessario rispetto dello “schema negoziale tipico”, salva esistenza di un disegno elusivo, v. anche Cass. n. 722/2019 e n. 6790/2020) – ha infatti insistito sulla propria linea “sostanzialistica”, ritenendo irrilevante l’intervento legislativo in materia antiabuso ed aggiustando, come detto, il tiro. Da ciò conseguendone: i) che l’art. 10-bis, pur applicabile a tutti i tributi, risultava di fatto privato di qualsiasi portata applicativa nel solo settore dell’imposizione del registro, assolvendo “di fatto” a tale funzione l’art. 20 anche nella nuova versione “interpretativa”, ma in assenza delle garanzie previste dall’art. 10-bis; ii) che il settore del registro fosse l’unico ad essere regolato da norme interpretative “speciali” (sia pure “ordinarie” nella prospettiva civilistica), rompendo così “l’unità” del sistema impositivo.
L’elaborazione “compiuta” di tale secondo indirizzo meramente “interpretativo” è ben compendiata da Cass., 2007/2018, secondo cui:
- l’art. 20, quale regola interpretativa, “non si sovrappone all’autonomia privata dei contribuenti, ma si limita a definirne l’esercizio insieme agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale, tra i quali naturalmente non può trascurarsi la comune intensione delle parti prevista dall’art. 1362 c.c. Quest’ultimo elemento però rileva come elemento di qualificazione della complessa operazione dal punto di vista civilistico, mentre le conseguenze fiscali di quella qualificazione discendono direttamente dalla legge, prescindendo dunque, lo si ribadisce, dalle intenzioni delle parti, quand’anche fossero tutte d’accordo per ottenere un certo risultato dal punto di vista fiscale”;
- “la qualificazione interpretativa prescritta dal citato art. 20, ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva; quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti così come emerge obiettivamente dai negozi posti in essere, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali”;
- “in effetti i criteri indicati dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non si discostano da quelli generali in tema di interpretazione dei contratti che impongono una interpretazione oggettiva dell’atto alla luce della comune intenzione delle parti come prescritto dall’art. 1362 c.c. (…)”;
- “l’imposta di registro va dunque correlata alla causa concreta dell’operazione, in ossequio al principio costituzionale di eguaglianza e di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., dal momento che sarebbe irragionevole trattare in maniera fiscalmente diversa situazioni del tutto assimilabili dal punto di vista socio-economico, quali una compravendita e l’operazione oggetto di attenzione nel caso di specie, visto che entrambe sono dirette a trasferire un bene in cambio di un corrispettivo di denaro. Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non sarebbe dunque in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela nella sua effettività soltanto nella dimensione complessiva dell’affare. In questa prospettiva, il giudice può e deve verificare la qualificazione negoziale operata dall’Ufficio finanziario circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione, i quali vanno riferiti alle circostanze concrete della sequenza degli atti”.
In questa versione, che può ritenersi quella definitiva, non si tratterebbe dunque più – come nella originaria prospettiva “antielusiva” – di una regola di interpretazione giuridica “speciale” rispetto al diritto civile, bensì della mera applicazione delle regole civilistiche sull’interpretazione dei negozi alla luce dell’operazione complessiva. Anche qui, tuttavia, conseguendone effetti “singolari”, poiché l’interpretazione della legge del registro diverrebbe a questo punto “speciale” rispetto a tutte le altre branche dell’ordinamento tributario, in cui, a contrario, non varrebbero le “ordinarie” regole interpretative civilistiche sulla rilevanza dell’intenzione delle parti e del loro comportamento complessivo. Non manca, naturalmente, la benedizione dell’art. 53 Cost., cui già in passato – si pensi alle notissime sentenze delle Sezioni Unite sull’abuso del diritto del 2008 – la Cassazione ha riconosciuto una vera e propria funzione normogenetica, vale a dire l’idoneità a disciplinare direttamente le fattispecie, incompatibile con il principio di riserva di legge.
Le assonanze con l’apparato concettuale proprio delle tesi della Scuola di Pavia sono all’evidenza fortissime, sia pure presentate, nella versione finale, quale mera applicazione delle ordinarie regole interpretative civilistiche: l’autonomia dei criteri di qualificazione tributari rispetto alle ordinarie ipotesi interpretative civilistiche, la preminenza assoluta della causa reale o della causa in concreto sull’assetto cartolare, la necessità di assicurare per tale via il rispetto del principio di eguaglianza di trattamento tra le forme giuridiche scelte dal contribuente per raggiungere un determinato risultato economico, la prevalenza della sostanza sulla forma, il rispetto del principio di capacità contributiva.
Naturalmente, negli anni ’30 il concetto di causa “in concreto” neanche era stato concepito – e si è peraltro affacciato in giurisprudenza ben dopo anche il 1972 e il 1986, risalendo la prima enunciazione giurisprudenziale agli anni ‘2000, con esiti peraltro considerati non sempre felici (V. ROPPO, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. Dir. civ., 2013, p. 963) – imponendosi all’epoca il concetto oggettivo di “causa” utilizzato dal legislatore del 1942 con la coincidenza tra causa e tipo.
Tale concetto ha come noto subito un ripensamento in dottrina – arrivato, come detto, molto più tardi in giurisprudenza e comunque mai nella forma così radicale in cui è stato applicato in materia tributaria (è sufficiente pensare alla mancanza di causa originariamente sostenuta in presenza di operazioni aventi esclusiva finalità fiscale: Cass., nn. 20398 e 22932/2005) – nella direzione di un concetto di “causa” come intento pratico-individuale, teso a far risaltare le esigenze e gli interessi di uno o più contraenti. La tipicità individuerebbe, in una operazione negoziale rientrante in un tipo legale, la disciplina applicabile per la realizzazione degli interessi perseguiti dalle parti. La causa diviene dunque l’interesse stesso, desumibile da tutto il quadro dell’operazione economica realizzata col negozio, delineando così una ragione concreta del contratto che spinge alla ricerca del significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che, sia pure tacitamente, sono entrate nel contratto.
Le conseguenze di siffatta impostazione sono molteplici.
In primis, laddove il contratto non risponda ad un tipo legale si pone un problema di controllo della causa che non è diverso rispetto a quello dei contratti nominati, non essendo la semplice coincidenza del contratto con uno schema legale sufficiente a verificare la meritevolezza dell’interesse perseguito e dovendosi pertanto in ogni caso ricercare la causa concreta del contratto.
In secondo luogo, emerge la contestazione della causa come elemento avente virtù individuative del tipo, sia che la si identifichi con la funzione del negozio, sia che la si identifichi come “sintesi degli effetti essenziali”.
In terzo luogo, si opera il recupero dei “motivi”, poiché dalla descrizione della causa come momento attraverso il quale la regolamentazione negoziale palesa nella sua interezza l’assetto di interessi in essa divisato, emerge la possibilità di attribuire rilevanza alle posizioni soggettive delle parti, insuscettibili di essere ridotte sul piano delle mere rappresentazioni psicologiche dei contraenti.
In quarto luogo, la rilevanza emerge con riferimento alle operazioni complesse risultanti da una pluralità di negozi tra loro collegati in vista della realizzazione di un risultato unitario diverso da quello prodotto da ciascuno dei singoli negozi utilizzati. In tal caso, infatti, il giudizio di liceità viene ritenuto dover essere condotto non tanto con riferimento alla meritevolezza dei singoli negozi, quanto alla meritevolezza dell’operazione complessa risultante dal collegamento, riassumendo in una valutazione unitaria tutti gli atti e i comportamenti nei quali in concreto si svolge il potere di autonomia dei privati in vista di un risultato pratico unitario, senza che tuttavia ciò implichi l’irrilevanza giuridica dei singoli passaggi dell’operazione.
Infine, la causa “in concreto” esplica i suoi effetti sul profilo dell’interpretazione e della qualificazione del contratto, dovendo il significato dell’accordo essere determinato in relazione all’interesse pratico e unitario perseguito (c.d. “interpretazione funzionale”) e il contratto essere inquadrato nell’ambito degli schemi qualificatori in base al medesimo interesse, venendo i motivi leciti rilevanti selezionati mediante l’interpretazione del contratto e in particolare mediante il criterio ermeneutico del comportamento complessivo delle parti.
Non è ovviamente nostra intenzione ascendere le vette della teoria generale della “causa”, peraltro lontana dall’essere approdata a risultati univoci in dottrina e in giurisprudenza.
Due osservazioni in tema di autonomia negoziale devono tuttavia essere fatte.
In primo luogo, la causa “concreta”, nel suo riferirsi al disegno economico complessivo, si presta a difformi valutazioni in termini di “autonomia negoziale”. Se infatti essa costituisce un superamento dell’impostazione del rapporto tra autonomia negoziale ed ordinamento statuale in termini di autorizzazione della prima da parte del secondo, e quindi di conformità delle iniziative private alle direttive politiche, economiche e sociali dell’ordinamento – apparendo il negozio lo strumento per la realizzazione di interessi non più solo privati, ma anche di finalità generali – essa comporta comunque la considerazione del negozio quale oggetto (e non più strumento) di controllo sulla compatibilità dei valori espressi dal negozio e quelli espressi dall’ordinamento.
In secondo luogo, l’autonomia negoziale ha un contenuto articolato, potendo le parti non solo pervenire alla definizione di un assetto di interessi che arricchisca o restringa la portata del tipo contrattuale, ma anche giungere alla definizione di un assetto di interessi del tutto atipico e quindi ad uno schema non previsto dal legislatore. L’autonomia contrattuale implica quindi non soltanto la libertà di contrarre, nel senso che le parti si vincolano unicamente se (e con chi) vogliono, ma anche la libertà contrattuale, di dare cioè agli accordi il contenuto che le parti preferiscono, decidendo anche in quale “tipo” contrattuale calare l’operazione che si persegue, privilegiando l’uno oppure l’altro dei tipi legali codificati, ovvero anche concludendo contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Esse potranno infine ricorrere a negozi “indiretti” – per mezzo dei quali, secondo la tesi della causa “tipica”, le parti utilizzano un determinato schema contrattuale per realizzare un scopo che corrisponde non alla sua causa, ma alla causa di un diverso contratto – leciti in linea di principio, a meno che non costituiscano il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa di legge o a realizzare motivi illeciti comuni ad entrambe le parti; oppure al collegamento negoziale, la cui operatività congiunta è necessaria per realizzare l’operazione programmata dalle parti, anch’esso pratica del tutto lecita – perseguendo i vari rapporti negoziali un interesse immediato che è strumentale rispetto all’interesse finale dell’operazione – purché non utilizzata per eludere divieti di legge.
Così stando le cose, anche a voler dare ingresso nella materia tributaria, in una prospettiva moderna ed evolutiva, alla nozione di “causa in concreto”, ne emergono con evidenza i relativi limiti: la più qualificata dottrina italiana (A. FEDELE, La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in Riv. Dir. Trib., 2020, II, p. 14 ss) ha osservato, a proposito della notissima (ri)qualificazione in una “vendita diretta” dell’abbinamento contrattuale conferimento di azienda-cessione delle partecipazione, che la vendita, “lungi dal costituire una necessaria conseguenza dell’individuazione della causa concreta dell’operazione, comporta una “equiparazione” di fattispecie che supera e forza proprio il “concreto” assetto di interessi realizzato con l’operazione (id est, la titolarità delle partecipazioni e non del bene) e tale equiparazione si giustifica solo in ragione del disconoscimento, nel singolo caso, di vantaggi fiscali indebiti secondo lo schema tipico dell’intervento antielusivo”. Per raggiungere tale risultato di “sostituzione”, non è sufficiente dunque un mero giudizio di “non meritevolezza fiscale” dell’operazione nel suo complesso, ma occorre la presenza di un espresso “divieto” di conseguire risparmi fiscali indebiti, che, consentendo di superare le forme negoziali in cui i singoli passaggi si esprimono a favore di una loro considerazione unitaria, legittimi la “ri-qualificazione” dell’operazione nel suo complesso e l’applicazione della corrispondente tassazione.
Nell’imposta di registro – ma così avviene per ogni altra imposta, non potendosi riconoscere all’art. 20 alcuna “specialità” rispetto ad altri sottosistemi impositivi e certamente non più alla luce della richiamata modifica normativa del 1972 – il “collegamento” eventualmente esistente tra i più negozi non autorizza pertanto a “riqualificare” (giuridicamente) i negozi medesimi se economicamente equivalenti, ma solo a determinarne i corretti effetti giuridici eventualmente alla luce del collegamento – ma solo se questo formi oggetto di una previsione ad hoc – ovvero del comportamento successivo delle parti – ma solo ove esso valga a definire il contenuto dell’atto precedente; nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a contestare la simulazione, potendo invece la “equivalenza degli effetti economici raggiunti” essere contrastata soltanto con un meccanismo di “inefficacia” fiscale qual era quello originariamente contemplato dall’art. 37-bis d.p.r. 600/73 e ora previsto dall’art. 10-bis, L. n. 212/2000, idoneo a ricondurre i negozi posti in essere nell’ambito di una diversa configurazione – pur sempre giuridica – conforme alla “operazione economica” complessivamente realizzata.
L’applicazione dell’art. 20 per “riqualificare” i singoli negozi nell’ambito di una operazione economica complessiva – modulando l’imposizione su effetti non riconducibili ad alcun contratto voluto e concluso dalle parti – appare dunque priva di fondamento. Ma essa è anche inutile – oltreché dannosa per via della confusione tra le categorie generali del diritto tributario e del diritto civile che essa genera – se rapportata al risultato che la Cassazione intendeva perseguire: meglio sarebbe stato fare anche qui applicazione (non condivisibile ma coerente) del principio dell’abuso del diritto sic et simpliciter, senza stravolgere i principi generali della materia. E del resto, a ben guardare, le fattispecie in cui la Suprema Corte ha fatto applicazione dell’art. 20 in funzione “antielusiva” consistevano, quasi sempre, proprio in una “speciale” ed anomala concatenazione negoziale preordinata al risparmio dell’imposta di registro (salvo valutare se tale risparmio potesse considerarsi “indebito” alla luce dei principi generali dell’imposizione di registro).
L’art. 20 d.p.r. n. 131/86 è dunque disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già norma interpretativa “speciale” del registro (con o senza funzioni antielusive): il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non potrà quindi essere disconosciuto con l’art. 20 anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – Al di là del merito della questione, è noto che l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 20 ha comunque determinato rilevanti incertezze nei traffici giuridici, accadendo tra l’altro che: cessioni del 100% delle quote di una società fossero tassate ai fini del registro come se si trattasse di una cessione dell’azienda, nonostante l’evidente diversità dei relativi effetti giuridici; cessioni di fabbricato poi demoliti per essere ricostruiti, venissero tassati quali cessioni di terreno edificabile, attribuendo rilevanza a comportamenti delle parti e finanche a provvedimenti amministrativi esterni all’atto, all’opposto di quanto concluso ai fini delle imposte sui redditi, dove la giurisprudenza ha costantemente disconosciuto la possibilità di tassare la relativa plusvalenza a titolo di cessione di terreno edificabile, senza ricorrere a “cause in concreto”; i conferimenti di azienda seguiti dalla cessione delle relative quote, venissero tassati quali cessioni di azienda, quando ai fini delle imposte dirette si tratta di operazione che viene addirittura esclusa espressamente dal legislatore da qualsiasi sindacato di ordine “sostanziale” ed antielusivo essendo le due operazioni alternative considerate come poste su un piano di parità (art. 176, co. 3, TUIR).
In una simile situazione di urgenza indifferibile, due erano le possibilità a disposizione del legislatore: abrogare tout court l’art. 20 oppure riformarlo.
Chi scrive aveva sostenuto, in un breve intervento del 2017 (Patrimonio sociale: per la cessione, tasse da rivedere, in Il Sole 24 ore, 17 settembre 2017, p. 17), l’opportunità di procedere all’abrogazione espressa dell’art. 20.
Mancando a quel punto una specifica norma di supporto, agli atti sottoposti al registro avrebbero trovato applicazione le ordinarie regole di interpretazione civilistiche, alla stregua di qualsiasi altro tributo, senza spazio per collegamenti negoziali al di fuori di quello rilevante per le norme antielusive (o per le specifiche norme del registro). Se, pertanto, anche per il diritto civile, l’atto sottoposto al registro poteva essere “qualificato” diversamente da come le parti hanno fatto, inquadrando la fattispecie in un diverso e corrispondente schema legale, allora anche ai fini del registro a tale atto avrebbe potuto essere attribuita una diversa qualificazione, applicando la tassazione per essa prevista. Si tratta di una conseguenza che non richiede una previsione normativa, essendo pacifico il potere dell’Amministrazione finanziaria prima, e del giudice poi, di qualificare correttamente un atto indipendentemente dalla sua forma o dal nomen juris, purché ciò avvenga in ossequio alle ordinarie regole civilistiche. Col senno di poi, non è tuttavia certo che questo risultato si sarebbe raggiunto, poiché i giudici avrebbero potuto sostenere l’applicabilità dell’art. 1362, co. 2, c.c., quale norma generale civilistica, anche in mancanza dell’art. 20: così facendo, tuttavia, venendo a mancare la ipotetica disposizione “speciale” del registro, la “causa concreta” si sarebbe dovuta applicare a tutti i tributi, con effetti talmente dirompenti sul sistema da imporre una desistenza generale.
Laddove poi le parti fossero ricorse ad una concatenazione anomala di atti finalizzata ad eludere l’imposta di registro e a conseguire un risparmio di imposta che potesse qualificarsi come “indebito”, ben avrebbe potuto trovare applicazione la norma antielusiva contenuta nel nuovo art. 10-bis, L. n. 212/2000, poiché applicabile a tutti i tributi.
In presenza, infine, di atti separati finalizzati a mascherare sotto la veste di più atti documentali un unico negozio (ad es., la cessione “spezzatino”), il Fisco avrebbe potuto accertare gli effettivi termini delle operazioni fiscalmente rilevanti (oltreché applicare la qualificazione ai fini Iva, poiché presupposto della relazione di alternatività Iva-registro).
Il risultato sarebbe stato di allineare l’imposta di registro a tutti gli altri settori del diritto tributario, aggiungendo un tassello fondamentale alla costruzione di un sistema tributario equo, certo ed unitario.
Il legislatore non è rimasto sordo alle esigenze del mondo produttivo, ma non se la è sentita di giungere al rimedio estremo dell’abrogazione, preferendo intervenire chirurgicamente sulla disposizione con una serie di rilevanti modifiche chiaramente finalizzate a spuntare le armi alla tesi sostanzialista.
Ciò è avvenuto mediante la sostituzione, con L. n. 205/2017, del riferimento agli “atti” con quello al singolo “atto” sottoposto al registro; escludendo la possibilità di fare riferimento sia ad elementi extratestuali che a negozi collegati; infine, ribadendo l’applicabilità dell’art. 10-bis anche all’imposizione di registro. In altri termini, si è proceduto all’eliminazione di ogni appiglio per continuare a sostenere l’interpretazione avversata.
Una soluzione, dunque, che si avvicina per effetti molto all’abrogazione, anche se con qualche perplessità, come l’eliminazione tout court della possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali che, come detto, potevano occorrere in casi eccezionali a definire il contenuto dell’atto, con conseguente esclusione dell’art. 1362, co. 2, c.c., o ancora il riferimento all’art. 10-bis, la cui portata generale non è stata mai in discussione.
Si tratta, tuttavia, di scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito. Da un lato, infatti, ha evidentemente prevalso il timore che attraverso gli elementi extratestuali dell’art. 1362, co. 2, c.c. potesse rientrare dalla finestra la rilevanza dell’operazione complessiva uscita dalla porta; dall’altro, si è voluto ricordare che esiste anche l’art. 10-bis, con tutti i suoi corollari procedimentali, poiché, in questo Paese di santi, poeti, navigatori, allenatori ed … interpreti, la chiarezza non è mai abbastanza. Basta pensare a quanto a suo tempo accaduto con il comma 12 dello stesso art. 10-bis, che dispone che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione … di specifiche disposizioni tributarie: disposizione sicuramente ovvia, ma non se si pone mente all’applicazione “catch-all” che Amministrazione finanziaria e giurisprudenza avevano fatto dell’abuso del diritto, includendovi una serie di fattispecie del tutto estranee – quali antieconomicità, transfer pricing, simulazione, evasione, interposizione reale, ecc. – al punto da indurre la più acuta (e sarcastica) dottrina italiana (Falsitta) a coniare l’espressione di “concetto onnivoro”.
Del resto, a noi pare che la soluzione adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali. Ai sensi dell’art. 10-bis le operazioni devono infatti realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, intendendosi tali “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (co. 2, lett. b): la “finalità” essenziale deve, dunque, essere quella di eludere l’imposizione ponendosi in contrasto con la ratio delle disposizioni o dei principi dell’ordinamento tributario (in questo caso, riferiti al registro). Sotto questo profilo, è stata mantenuta la logica della “frode alla legge” tributaria già alla base dell’art. 37-bis, ma meglio esplicitando la circostanza che il vantaggio fiscale deve essere “indebito”. Ebbene, come osserva un importante civilista italiano, “per valutare se un’opportuna combinazione di negozi fra loro collegati (…) integra frode alla legge, che cosa fanno i giudici se non ricostruire – attraverso la rilevazione di specifici elementi del contratto o della combinazione di contratti – la relativa causa concreta? Non c’è bisogno che lo enuncino: in un’indagine come quella imposta al giudice dall’art. 1344 c.c., l’identificazione della causa come causa concreta è per così dire in re ipsa” (V. ROPPO, op. ult. cit., p. 963).
Fatta la norma, si è tuttavia subito posto il problema della sua “retroattività”, esclusa all’unanimità dalla Cassazione ed ammessa solo “parzialmente”, con una soluzione più politica che giuridica, dall’Amministrazione finanziaria per gli atti sottoposti a registrazione prima dell’entrata in vigore della modifica ma non ancora oggetto di atti di liquidazione. Ciò che ha comunque indotto il legislatore ad intervenire nuovamente con L. n. 145/2018 affermando la natura di interpretazione autentica delle modifiche normative del 2017.
Immediata è stata la reazione della Cassazione, cui, a sommesso avviso di chi scrive, deve tuttavia muoversi un duplice “rimprovero”.
Il primo, di diritto. Di aver cioè ritenuto che la propria interpretazione dell’art. 20 fosse l’unica costituzionalmente legittima e possibile e che la tassazione del singolo atto sottoposto al registro non esprimesse capacità contributiva tout court. A tutta la dottrina tributaria è invece apparso subito evidente l’esatto contrario: sicché, in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui notoriamente gode il legislatore in materia di definizione del presupposto del tributo, è stato dato per scontato che la ricostruzione della Corte di Cassazione non integrasse una soluzione costituzionalmente necessitata, con conseguente infondatezza della questione sollevata.
Il secondo, di politica del diritto. Di non avere cioè avuto la sensibilità di comprendere che l’intervento del legislatore era a favore del “Paese Italia”, non dei contribuenti – tutti ricordiamo la ben diversa vicenda che aveva originato la stizzita ordinanza di remissione della Cassazione alla Corte di giustizia relativamente alla definizione agevolata delle controversie pendenti in Cassazione da oltre dieci anni con doppia conforme favorevole (Cass., n. 18055/2010) – nell’ottica esclusiva di restituire quella certezza all’ordinamento tributario la cui assenza scoraggia gli investimenti stranieri in Italia. Intervento, peraltro, neanche “episodico”, poiché posto in piena continuità con la più generale politica di “certezza” perseguita in quegli anni dal Ministero Padoan con interventi quali: la riforma degli interpelli, con la generalizzazione della sanzione di nullità degli atti impositivi adottati in difformità della risposta; l’interpello “rafforzato” per i nuovi investimenti, che preclude sin anche il revirement dell’Agenzia; la riforma delle sanzioni penali, che sottrae al regime sanzionatorio penale fattispecie connotate da ampi margini di indeterminatezza o dall’assenza di danni erariali (ad es., l’abuso del diritto, le valutazioni, gli errori sulla competenza); la “codificazione” e l’unificazione con l’elusione fiscale, del principio dell’abuso del diritto; l’individuazione e soluzione di serie di problematiche specifiche relative alla determinazione del reddito di impresa (perdite su crediti, prezzi di trasferimento tra imprese residenti, ecc.); da ultimo, appunto, l’art. 20 della legge sul registro.
5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine. – Se ai danni reputazionali non v’è stato rimedio – gli investitori esteri hanno ritenuto incomprensibile questa “resistenza” giurisprudenziale rispetto ad un intervento legislativo che risolveva una querelle che durava da quasi 90 anni – ad eliminare, invece, i residui dubbi giuridici ci ha pensato, con una sentenza asciutta ed esemplare, la Consulta.
Ciò è avvenuto anche grazie all’aiuto involontario dell’Avvocatura dello Stato che, probabilmente imbrigliata dal suo ruolo anche di assistenza all’Erario in sede di legittimità sulle vicende interessate, ha proposto, sotto l’ammiccante prospettazione della “inammissibilità” della questione, una a dir poco curiosa ricostruzione interpretativa secondo cui il divieto di far ricorso ad elementi extratestuali o desumibili da atti collegati contenuto nell’art. 20 avrebbe avuto il solo e limitato significato di escludere la rilevanza degli elementi “fuori contesto” od “extra-vaganti” (cioè privi di riferimenti all’atto da registrare o con effetti non incidenti su questi). In sostanza, secondo l’Avvocatura, la Cassazione ben avrebbe potuto continuare a tassare il conferimento dell’azienda seguito alla cessione della partecipazione alla stregua di una cessione dell’azienda, non essendo ciò impedito dal nuovo art. 20!
Sul punto, la Consulta, con inconsueta (e in questo caso meritatissima) durezza, osserva che la lettera della disposizione non pone tale distinzione, e che così interpretandola, si giungerebbe ad “un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans delle disposizioni censurate”. Questa vicenda, che evoca quella dei pifferi di montagna, conferma che le precauzioni del legislatore – nella specie, di escludere espressamente la possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali e di richiamare espressamente l’art. 10-bis – non sono mai abbastanza dinanzi alla fantasia degli interpreti di turno, e che è meglio una parola in più che una in meno. I contribuenti devono tuttavia ringraziare l’Avvocatura, per aver consentito alla Consulta di sancire subito l’inconsistenza di una tesi che sarebbe altrimenti sicuramente emersa dopo la sentenza, con esiti imprevedibili.
Venendo al merito della vicenda nei (più lineari) termini prospettati dalla Cassazione, la tesi della Consulta è che la modifica normativa ha legittimamente “conformato” l’art. 20 alla natura dell’imposta di registro quale imposta sull’atto – come del resto sostenuto dalla giurisprudenza più risalente sopra richiamata (anche Cass., 28 luglio 1972, n. 2577) – e che questa rappresenta una legittima opzione legislativa, trattandosi di una (magari non moderna ma sicuramente) tipica espressione di capacità contributiva e sussistendo ampia discrezionalità in materia. Anzi, la Consulta lascia chiaramente intendere che la vicenda si sarebbe dovuta chiudere già una cinquantina di anni fa con l’introduzione dell’aggettivo “giuridici” nell’art. 19, d.p.r. n. 634/1972.
Interessante è peraltro il richiamo alle pronunce di indirizzo contrario (le già richiamante sentenze n. 2054/2017, n. 722/2019 e n. 6790/2020), per rilevare che il legislatore è intervenuto “anche in conseguenza di tale contrasto”. Precisazione, quest’ultima, che, nel porre il contrasto interpretativo quale occasio legis, anticipa quella che sarà la verosimile risposta all’inopinata nuova remissione sollevata dalla CTP di Bologna con ordinanza del 13.11.2019, che, oltre a reiterare le questioni appena dichiarate infondate, prospetta anche una violazione dei principi di retroattività, richiamando addirittura a favore dello Stato le disposizioni della CEDU rivolte per loro natura a tutelare i diritti del soggetto privato contro il potere dello Stato medesimo!
Dalla piena legittimità dell’indice di contribuzione prescelto dal legislatore, consegue, ovviamente, l’esclusione di qualsiasi violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.. Come è infatti stato evidenziato (G. FRANSONI, La “riforma” dell’art. 20 TUR supera l’esame di costituzionalità. Commento a Corte Costituzionale, sent. 21 luglio 2020, n. 158, https://fransoni.it/argomenti/la-riforma-dellart-20-tur-supera-lesame-di-costituzionalita/), l’eguaglianza va rapportata al presupposto concretamente scelto dal legislatore e non già rispetto ad altri ipotetici presupposti parimenti idonei. Pertanto, il modulo argomentativo spesso utilizzato dalla Corte a giustificazione della propria interpretazione “sostanzialistica”, secondo cui la medesima si imporrebbe per eliminare ogni discriminazione tra chi realizza il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale e chi con più atti collegati, perde completamente di significato laddove il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli è riservata, abbia scelto di conformare l’imposizione di registro come imposta sul singolo atto anziché sull’operazione economica complessiva.
Assai apprezzabile è, infine, il completamento dell’argomentazione svolto dalla Consulta con riferimento all’art. 10-bis, laddove ha rilevato che i) il ricorso alla “causa reale”, tassando un negozio diverso da quello posto in essere, si sostanzierebbe in una applicazione “antielusiva” dell’art. 20, senza tuttavia riconoscere le garanzie proprie dell’art. 10-bis; ii) le preoccupazioni dell’ottenimento di vantaggi indebiti vengano meno proprio per effetto della possibilità di applicare tale disposizione generale antielusiva. Profilo, quest’ultimo, sul quale va apprezzata l’immediata presa di posizione dall’Amministrazione finanziaria nel ritenere che la cessione indiretta d’azienda, attuata mediante il conferimento seguito della cessione della partecipazione, poiché si sostanzia in una legittima alternativa alla cessione diretta di azienda, posta su un piano di parità, non realizza alcun vantaggio indebito (Risposte Interpello n. 196 del 18 giugno 2019; n. 13 del 19 gennaio 2019; n. 138 del 13 maggio 2019).
A distanza di quasi un secolo dall’avvio delle “scaramucce”, e salvo l’ulteriore fastidio di respingere anche la velleitaria ordinanza di remissione bolognese, siamo finalmente giunti ai titoli di coda.