Viaggio in Italia. Il Viaggio della Corte Costituzionale nelle Carceri
Recensione al Film di Donatella Salari
Ispirandosi al viaggio felice di Guido Piovene di “Viaggio in Italia”, secondo lo schema del tour d’iniziazione, già di stampo ottocentesco, libero e profondo al tempo stesso, la Corte Costituzionale si cimenta in un viaggio che non è ideologico né retorico, ma solo veridico.
Si dice che la parola autorità nella radice indo- europea aug indichi forza, ma contemporaneamente, suggerisce anche augere, ossia promuovere, prendere l’iniziativa dando forma, così, ad un progetto che, quasi in una dimensione sacra, già esiste e che attraverso l’autorità prende una forma presidiandone la crescita ed il destino.
L’autorità trasmette, anche una sua, come dire...? “verità” che dovrebbe esprimersi attraverso la politica e, nello stesso tempo, quella stessa autorità diviene anche relazione perché si prende cura di far esistere il singolo nella sua libertà o, diremmo più liricamente, nella sua individualità irripetibile, attraverso un adeguamento il più spontaneo possibile ad un progetto esistenziale e politico che è anche valore collettivo tanto quanto simbolico.
Se questa possibilità non si realizza, non s’invera, ovvero si rompe questa relazione, l’autorità deve potere recuperare il suo significato simbolico o, se vogliamo, sacrale perché è in questo scambio di simboli che si diventa persona ed è questa la differenza cruciale tra potere ed autorità, come tutti possiamo intuire.
Il potere è, perciò, la reificazione nel presente ed è qualcosa di risolto in se stesso senza alcuna trascendenza che assicuri lo scambio simbolico e la sua dimensione collettiva di riconoscimento in un progetto condiviso che nello Sato democratico moderno vede nella libertà e nell’uguaglianza gli attributi fondamentali.
Credo, allora, di potere sostenere che il viaggio della Corte nelle carceri italiane non nasca tanto o solo da un’esigenza di comunicazione – assolutamente utile - della Corte ma dall’acquisita consapevolezza di trasmettere quella che potremmo chiamare una propria identità che è soprattutto simbolica, ossia in grado di trasmettere quei valori di integrazione e di dignità dell’individui, tra i tanti principi che stanno tutti nella Costituzione e di trasmettere la loro immanenza, al di là delle torsioni e delle contraddizioni del gioco politico e dei suoi tatticismi su valori costituzionali non negoziabili.
Il carcere è, in questo senso, uno dei luoghi più carichi di significati perché proprio lì, attraverso la Costituzione la democrazia offre la scena dello scambio simbolico tra Stato e comunità, rinnovando le intuizioni più profonde sui valori sociali dell’uguaglianza e della funzione rieducativa della pena nel rispetto della persona umana e della sua dignità.
Il viaggio della Corte, di tappa in tappa nelle carceri italiane, da Rebibbia a San Vittore e Sollicciano è il viaggio stesso di ciascuno di noi all’interno della Costituzione e si snoda attraverso le strutture di Terni e di Genova, passando da Lecce fino a Nisida , toccando altri luoghi ,accompagnato dalle parole della Carta e dalle immagini degli istituti penitenziari inquietanti e umane al contempo.
Le parole della Costituzione, nella limpidezza del testo fondamentale fanno da collante sociale a quelle immagini e ci parlano con gli stessi interpreti non come rappresentazioni di concetti, ma enunciazione capaci di divenire “discorsi” nel quale inscrivere la forma stessa della Costituzione nella sua intersoggettività, il che è quanto dire che Costituzione è di tutti, anzi, meglio, è di tutte le persone in quanto tali e, perciò, anche di chi quelle regole ha violato.
Il linguaggio della legalità diviene, così, diegesi del racconto filmico e accompagna un viaggio che cambierà molti dei nostri pensieri sulle carceri, specialmente laddove le informazioni e le nostre strutture conoscitive su questo tema sono divenute preda di stereotipi e di preconcetti.
L’incontro sembra, perciò, rigenerare attraverso un nuovo umanesimo, il linguaggio della Costituzione che non sembra invecchiata a 70 anni dalla sua fondazione, e ci mostra tutta la finitezza e la prevedibilità di un pensiero che vorrebbe velarla d’ombra col “gettare la chiave del carcere” e comprendiamo nell’umanità di chi è ristretto quanto questa immagine diventi affermazione priva di senso o, come si è detto acutamente, getti, semmai, sul carcere un soffocante spirito erinnico che ci spinge indietro di più di mezzo secolo.
L’inedito viaggio prende inizio dal carcere di Rebibbia, presenti 12 giudici e il Presidente Giorgio Lattanzi, davanti a 220 detenuti, in diretta streaming rivolta ad altri undicimila ristretti di altre carceri d’Italia, e si snoda in sette incontri dedicati a singoli istituti penitenziari forte di una sintesi di materiale complesso fatto di incontri, di reportage dei singoli giudici, di fotografie e di interviste.
Non vi è una sceneggiatura, come ha sottolineato il Presidente Lattanzi non vi é una tesi che attraversi il racconto, ma solo l’idea di un incontro tra due mondi diversi che attraverso il linguaggio della legalità e della cura dei diritti riescono a parlarsi e a scambiarsi anche emozioni, ma senza retorica.
La Corte vuole conoscere e farsi conoscere dice il Presidente Lattanzi e, certamente, molti dei frammenti di storia rimarranno nella memoria dei giudici della Corte i quali, come qualcuno ha detto, con questo viaggio hanno potuto scandire una sorta di istruttoria informale che è anche un modo per la Corte di farsi capire, ossia, come una detenuta si è espressa interloquendo con gli eccezionali visitatori, la Costituzione è uno “scudo”.
Insomma, il carcere non è un altrove, ma è quella fiducia e quella speranza che brillano nelle lacrime del Giudice costituzionale Daria De Petris e nella fiduciosa empatia della neo Presidente della Corte Marta Cartabia.