Un nuovo allestimento per uno spettacolo capace di restare lo stesso.
Si è detto molto, si è scritto moltissimo, su questo nuovo aspetto. Ho cercato di leggere i numerosi commenti che hanno preceduto e accompagnato il nuovo Portnoy senza costruirmi condizionamenti. Sono riuscita – almeno – a non appassionarmi più di tanto al dibattito sul titolo, in un clima in cui togliendo quel “lamento” pareva che ad alcuni avessero sottratto un organo vitale.
Non so dire, ora, dopo averlo letto in questa nuova traduzione quanto ci sia di innovativo e quanto invece si riduca a una mera trovata editoriale, dunque commerciale, un po’ ammiccante. Certo è che se si è riusciti a far rivivere ciò che già di per sé era vivissimo, ma forse non per tutti, potrebbe essere sufficiente.
A libro chiuso alle mie spalle (ma così non è stato veramente mai, con nessun libro di Roth e con questo pure meno) rubo spazio alla platea di amanti e detrattori del grande e rimasto unico Philip Roth per dire che l’opera di lifting è consistita anche in un piccolo restauro. Niente di paragonabile a chi qualche anno fa ha recuperato l’autenticità del capolavoro di Steinbeck, Furore, stravolto da una censura azzoppante nonostante la quale tutto il mondo era riuscito ad amarlo, ma qui le premesse erano profondamente diverse. E su queste, almeno, mi pare si sia riusciti a far calare il lettore nella mentalità di quel figlio represso e rincorso da ipertrofici sensi di colpa di quella famiglia ebrea (“mamma, noi crediamo nell’inverno?”), donando alla sua confessione torrenziale un gusto di oralità, colorato dal balbettante pigolio, che – quasi mi duole dirlo – nella mia mente è scolpito proprio come un lamento. Ottimo l’intento, a mio parere riuscito, di restituire all’opera il suono che probabilmente aveva in origine, ossia quello del testo narrativo non altrimenti classificabile, nato per essere letto ad alta voce, forse addirittura recitato in uno spettacolino tra amici. Un set, dunque, nel quale il lettore che già aveva amato il testo si è ritrovato alle prese con una sensazione familiare, quella di chi a suo tempo era entrato come guardone, finendo per sentirsi a proprio agio già dalla “diagnosi” iniziale. Dal basso della mia inettitudine sul punto non sono in grado di esprimermi compiutamente su alcune scelte stilistiche: è corretto un restauro che fa dire ad Alex “sticazzi” e “tanta roba”, ma gli sostituisce dai denti “negro” con “nero”? Forse si è rischiato di snaturare lo spaziotempo che ha generato il soliloquio del caro Portnoy, ma è anche vero che così, se una ragazzina di quindici anni oggi lo prendesse in mano, magari soffiandolo dal mio comodino – come spero che presto qualcuno faccia – si aggirerebbe assai comodamente tra queste pagine che proprio non ne vogliono sapere di invecchiare (forse al lettore adolescente stonerebbe più legger “negro” che non “sono il Raskolnikov delle pugnette”). È e resta un libro profondamente ironico, e l’ironia, come scrisse Natalia Ginzburg in risposta a Cassola, commentando questo libro nel lontano (in tutti i sensi) 1970, è “una cosa meravigliosa, penso che Dio, se esiste, sia molto ironico”. Non so dire quanto lo sia in maniera più convinta, ora, nella traduzione di Codignola, certo non lo è di meno.
Sulla polisemia del complaint non credo proprio abbia senso esprimersi, come dicevo (questo, sì, che suonerebbe lagnoso), ma mi limito a sottolineare che, alla fine, anche chi ha tirato un segno di penna su quel termine, ha voluto recuperarlo – parola del traduttore – nella grafica della copertina del libro meno “copertinabile” del mondo. E questo un significato deve pur averlo. E penso che tale sia il senso restituito da una delle visioni più atrocemente divertenti offerte dai sensi di colpa di Alex: non quella del pene rinsecchito e perduto ai piedi della sedia causa sifilide; non il cane guida per ciechi con cui arriva a casa dopo aver perso la vista per lo sperma finito nell’occhio; bensì la sentenza pronunciata dalla personificazione del suo diavolo personale, l’“ingombrante e pomposo padre spirituale, il rabbino Ciccio-bomba Warshaw”, regista di un contrappasso capace di far arrossire la nostra memoria dantesca, che, dopo avergli detto che esisteva una sola parte del corpo di Portnoy in grado di emozionarsi, gli sputa addosso: “un chiagnefotti, ecco cosa sei. E per di più bilioso” (il “chiagnefotti” calza alla perfezione, ben più del previo “brutto piagnucolone! Brutto fagotto pieno di risentimenti, ecco quello che sei!”).
Philip Roth, Portnoy, traduzione di Matteo Codignola, Adelphi, 2025.