Per la chiarezza di idee in tema di creazione giudiziale di diritto e ruolo della giurisprudenza nel tempo presente (Riflessioni al confine tra filosofia del diritto, diritto comparato e diritto processuale civile)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario: 1. Introduzione. Il ruolo crescente della giurisprudenza come “tendenza fondamentale del nostro tempo” – 2. Centralità del giudizio – 3. Lo sguardo giusrealista sul diritto (un punto in comune tra positivismo giuridico e neocostituzionalismo?) - 4. Qualche esercizio dell’ars distinguendi – 5. Creare o interpretare? (Creazione in senso forte e in senso debole) – 5.1. Sull’esistenza delle lacune nell’ordinamento - 5.2. (Segue) Il giudice di fronte al diritto ingiusto. Ingiustizia soggettiva… - 5.3. … E ingiustizia oggettiva. – 5.3.1. Due esempi processualcivilistici - 6. Creare o “inventare”? Il giudice come “bocca della legge” o come “oracolo del diritto” - 7. Creazione di diritto e giurisprudenza. Gli orientamenti consolidati come fonte del diritto – 8. Conclusioni (con una meditazione di Piero Calamandrei).
1. Introduzione. Il ruolo crescente della giurisprudenza come “tendenza fondamentale del nostro tempo”
Discorrere di creazione giudiziale di diritto e, più in generale, del ruolo crescente della giurisprudenza nell’epoca attuale significa porre il problema fondamentale del rapporto tra il giudice e la legge; un terreno sconfinato, oggetto di reazioni e valutazioni (normative, politico-ideologiche, a volte anche viziate da qualche pregiudizio) quanto più divergenti si possa immaginare.
Detrattori e fautori pari in autorevolezza si contendono l’insidioso campo con argomentazioni che, da entrambi i lati, hanno del buono. Per un verso, l’esigenza di garantire la piena effettività della tutela dei diritti, la quale, per definizione, non può non coinvolgere l’interprete a tutto tondo; per l’altro, quella di rispettare la separazione dei poteri, caposaldo della rule of law nelle democrazie liberali, e il principio di legalità, incarnato nella formula della “soggezione del giudice soltanto alla legge”, come afferma il nostro art. 101 della Costituzione. Da un lato, la necessità di giudicare, di ius dicere, in un mondo che è plurale e disomogeneo, il che richiede che si tenga conto delle infinite sfaccettature, dei connotati specifici, delle unicità irripetibili delle vicende concrete; dall’altro il bisogno di proteggere la certezza del diritto (composto da regole tendenzialmente universali, generali e astratte), di garantire il trattamento uguale di situazioni uguali e di allontanare, in definitiva, i pericoli di arbitrio[1].
Insomma, in gioco si agitano i principi cardine del nostro vivere giuridico, i quali - com’è d’altro canto nella natura stessa dei principi - si pongono spesso in contrasto, in conflitto, in opposizione tra di loro.
Innanzitutto, partiamo dalla realtà.
Oggi è sotto gli occhi di tutti che in quasi tutti i paesi del mondo il rapporto tra giudice e legge vede, in forma radicale, la preponderanza del primo rispetto alla seconda. Questo è innanzitutto un fatto sociale indiscusso, incontrovertibile, che non può essere negato. Il «formante giurisprudenziale» – per usare la fortunata categoria coniata da Rodolfo Sacco[2] – siede incontrastato sul trono, a tutto discapito sia del «formante legale», che versa oramai da tempo in una crisi profonda e pressoché irreversibile, sia, direi, anche del «formate dottrinale», sempre più remissivo, sempre più costretto a “inseguire” le più importanti decisioni delle corti[3]. Molto banalmente: non c’è settore dell’ordinamento che si possa dire di conoscere, nemmeno superficialmente, se non se ne conoscono anche le pronunce più significative che ne caratterizzano il divenire.
Si dice quindi che la preminenza spetta allo ius in fieri (ossia al diritto interpretato e applicato, nel divenire, nella sua puntualizzazione e concretizzazione materiale sempre differente) e non più allo ius positum (cioè al diritto nel suo aspetto di comando statico, astratto, cartaceo)[4]. Contrapposizione, peraltro, che se presa nel senso letterale, risulta fuorviante, dato che anche il diritto che promana dai giudici è pienamente diritto positivo, essendo pur sempre “posto” (o meglio, “fatto”) da chi è dotato di autorità per porlo. In ogni caso, questa dualità veicola bene l’idea per la quale tutto con-verge sull’attività dinamica degli interpreti, e specialmente degli interpreti per eccellenza, ossia le corti. È la “tendenza fondamentale” che caratterizza il nostro tempo.
2. Centralità del giudizio
Un grandissimo processualista, Nicola Picardi, ha parlato di «vocazione» del nostro tempo per la giurisdizione, a indicare che l’attività dei giudici si situa al centro della nostra esperienza[5]. E come non essere d’accordo. Il giudizio è chiamato costantemente a mediare tra termini di antinomie, di opposizioni: astratto e concreto, universale e particolare, giustizia e certezza, diritto e giustizia.
Nell’epoca attuale il giudice è al centro di un reticolo. La rete, d’altronde - secondo la fortunata immagine del filosofo del diritto belga François Ost - è la metafora più accreditata per descrivere ora l’attuale assetto delle fonti del diritto[6]. Non più un modello ordinato gerarchicamente, a gradini, ma una pluralità di nodi a intensità variabili. Eccone alcuni, in rassegna velocissima e insufficiente, che meriterebbero ciascuno un’ampia considerazione. In primo luogo i principi, quelli generali, quelli supremi, quelli impliciti o implicati, quelli non detti oppure positivizzati nelle carte sovranazionali e nella Costituzione, quelli da sempre immanenti nel sistema e quelli nuovi, in ogni caso «molteplici, confliggenti, incommensurabili, indeterminati»[7]. Poi il diritto internazionale, quello europeo, quello transnazionale, con le sue proprie categorie, le sue proprie nozioni, i suoi concetti indipendenti dalle secolari elaborazioni nazionali. Poi la legge, sempre più alluvionale e quindi incoerente, opaca, settoriale, temporanea, dettata dai momenti[8]. Poi le decisioni e la giurisprudenza delle Corti sovranazionali (in questa parte di mondo: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), quella della Corte costituzionale, gli orientamenti consolidati delle Corti supreme e persino quelli di certe corti di merito, tutte in “dialogo discorde” tra di loro[9]. Ancora, le prassi degli operatori economici, la lex mercatoria, le convenzioni e gli usi propri di certi settori. Infine le consolidazioni di soft law, i tentativi più o meno ufficiali di armonizzazione e di uniformizzazione delle regole di certi contesti. E non va dimenticato infine il peso della dottrina, il Juristenrecht, l’auctoritas dei professori di diritto, in grado – talvolta - di condizionare il dibattito su pronunce importantissime[10].
Il panorama è così complesso da far tremare i polsi. Davanti a un tale disordine è facile abbandonarsi allo smarrimento, e ci si domanda come sia ancora possibile giudicare.
A chi giudica si chiede – giustamente – di “tenere insieme” tutto. Ma in che modo orientarsi? Quale atteggiamento possibile?
Giuseppe Zaccaria ha utilizzato a questo proposito l’espressione « obbedienza pensante » (denkender Gehorsam) del giudice[11]. Questa, lungi dal rappresentare un ossimoro, indica in modo volutamente paradossale quella compenetrazione arricchente e reciproca influenza, bilanciata e ragionata, tra fedeltà alla legge e alle fonti (che non può certo essere cieca, testarda, ottusa, indifferente) e umana sensibilità per le conseguenze, desiderio di giustizia, attaccamento ai valori dell’ordinamento, coscienziosa ragionevolezza, partecipata consapevolezza delle ricadute pratiche delle decisioni. Vi è un mutuo potenziamento dei due termini, che solo così, in questa dialettica circolare, sono in grado di sprigionare la loro forza giuspoietica: l’obbedienza non può che essere pensante e il pensiero non può che essere obbediente.
3. Lo sguardo giusrealista sul diritto (un terreno in comune tra positivismo e neocostituzionalismo?)
In questa tendenza fondamentale di cui ho parlato si vedono chiarissimi alcuni tratti di quella che è stata chiamata la “postmodernità giuridica”[12].
Jean-François Lyotard, che ha introdotto il concetto di “postmoderno”, descriveva al termine degli anni Settanta la fine dei grands récits, delle grandi narrazioni sociali, quelle scritte con la lettera maiuscola: la Storia, il Progresso, la Verità[13]. Il Postmoderno indicava il brusco risveglio da una beata ingenuità, la fredda disillusione e presa di distacco da una realtà che pareva piena di certezze, e che invece non lo era (o comunque che non lo sarebbe più stata). Similmente, la postmodernità giuridica è quella condizione nella quale si sono dissolti i grandi miti del diritto, anch’essi scritti con la lettera maiuscola: l’Onnipotenza della Legge, (il “Legicentrismo”), la Statualità del diritto, la sacralità del Codice, la figura del Giudice-bouche-de-la-loi, il Sillogismo Giudiziale, l’Interpretazione come attività cognitiva, e via dicendo[14]. Sgretolati, o meglio, decostruiti (nel senso di smascherati, demistificati) i pilastri portanti di quel paradigma, non resterebbe ora che prenderne atto e “aggrapparsi” alla funzione ordinante, unificante del giudice e del giudizio. Sepolto il diritto come pura logica, non resta che guardare ad esso in termini di esperienza vissuta, con la sua inesauribile ricchezza allergica al formalismo. Nulla di nuovo, sembra: proprio questo era il messaggio dell’antico e attualissimo motto che ha letteralmente dato vita al movimento del Realismo Giuridico Americano: «the life of the law has not been logic: it has been experience»[15].
Ora, non c’è dubbio che il postmodernismo giuridico sia legato, di certo storicamente, al (neo)costituzionalismo[16]. A prescindere dai giudizi, la proliferazione dei principi etico-costituzionali e il loro ruolo pervasivo nei ragionamenti dei giudici, sia costituzionali sia comuni, ha fatto sì che le corti fossero chiamate a essere, o si percepissero come, le artefici della promozione e dell’avanzamento dei diritti.
Ma il discorso che tento qui di fare è più ampio e - se vogliamo - meno preciso. Esso non vuole parteggiare con una dottrina, con una visione del diritto, ma si richiama a un atteggiamento più generale, una forma di concepire e di conoscere il diritto, un clima potremmo dire, che è condiviso e attuale nel nostro tempo. Ecco perché non credo di sbagliarmi se affermo, con la dovuta cautela e un briciolo di circospezione, che sia possibile scorgere un terreno in comune, un punto di convergenza tra il neocostituzionalismo e il positivismo giuridico (o meglio, certe sue correnti odierne)[17].
Non è questa la sede per entrare nell’acceso e polemico dibattito. Queste due visioni del mondo sono in effetti in disaccordo su moltissime questioni (una su tutte: il cognitivismo dei valori); ma credo che condividano, in generale, uno sguardo realista sul diritto. Con questa espressione intendo, in modo generico, l’assunto (ontologico) che il diritto è ciò che succede, innanzitutto nelle corti (ma non solo, anche nella università) e l’assunto (epistemologico) che conoscere il diritto significa conoscere il congiunto di significati che esso assume per opera di chi lo interpreta (e di nuovo, non solo i giudici, ma anche la dottrina)[18].
Entrambi gli schieramenti – almeno in certe loro versioni – attribuiscono infatti centralità allo studio e alla conoscenza del “diritto vivente”. L’espressione “diritto vivente” reca in sé, per contrapposizione, l’idea che vi sia quindi un diritto non vivo, inerte. Essa ha quindi una indubbia, anche se sottile, connotazione valoriale; una nascosta, ma pur sempre presente, valenza positiva: e cioè che la vita del diritto sta nel suo essere continuamente interpretato, creato, o trovato dai giudici certo, ma anche più in generale dalla comunità dei giuristi tutta insieme[19].
Questo lo sguardo: il diritto non è uno stato, ma un’opera in perenne formazione; è azione, è qualcosa di costruito man mano, è ogni giorno differente, si forma e si tras-forma continuamente. Questo perché prima delle regole ci sono i fatti della vita; e la parola (cioè il concetto che imprigiona, recinta, regola) è sempre un dopo, mai un prima. Di nuovo riecheggia un’altra celebre formula del Realismo Giuridico Americano: « Before rules, were facts; in the beginning was not a Word but a Doing »[20]. Sono gli eventi degli uomini che hanno la priorità, che producono il diritto, e di ciò è essenziale tenerne conto. In questo orizzonte condiviso il diritto è esso stesso un fatto (o meglio, un farsi); anzi è un arte-fatto, cioè non è né un dato né un dono – ed è solo in questo che si misura la vera differenza con il giusnaturalismo propriamente detto.
4. Qualche esercizio dell’ars distinguendi
Quali caratteri precisi abbia questa tendenza fondamentale non è sempre chiaro; e difatti fino ad ora ho usato volutamente le espressioni a-tecniche e generali di “accresciuto ruolo delle corti”, di “supremazia del formante giurisprudenziale”, “centralità del giudizio”, “importanza del diritto vivente” per raggruppare sotto un medesimo ombrello differenti manifestazioni che vedono tutte la primauté del momento applicativo del diritto su quello statico-letterale.
Poiché però il primo compito, l’unico imperativo categorico dello studioso è quello di provare a “verderci chiaro” sempre, sarà utile distinguere analiticamente differenti fenomenologie. L’analisi verrà quindi condotta considerando tre coppie di concetti in contiguità/opposizione tra di loro: (a) creazione e interpretazione (con i problemi collegati della costruzione delle lacune e l’atteggiamento di fronte al diritto ingiusto); (b) creazione e invenzione (e le due grandi immagini del giudice della Tradizione Giuridica Occidentale, contrapposte tra loro, come bouche de la loi o come oracle of the law); e (c) creazione e giurisprudenza come vera e propria fonte del diritto.
Due specificazioni: la prima è che tratterò del fenomeno con esclusivo riferimento ai giudici comuni. Mi sembra difatti essenziale distinguere tra l’attività creatrice delle corti costituzionali, o esercenti anche funzioni costituzionali (come nel caso della US Supreme Court) e quella dei giudici comuni, non solo appartenenti alle corti di vertice ma anche, con sempre maggior peso ed efficacia, a quelle di merito. Nonostante dal punto di vista strettamente concettuale le due attività di per sé non siano poi così diverse - l’interpretazione è un fenomeno che può e deve essere studiato nella sua unitarietà - lo sono dal punto di vista politico-istituzionale. Per le Corti costituzionali, infatti, creare di diritto appare, per così dire, più fisiologico e naturale, stante la loro particolarissima posizione all’interno dell’architettura, in delicato bilico tra diritto e politica. La Corte costituzionale non appartiene all’ordine giudiziario, né la sua attività è qualificabile come giurisdizionale. Per le corti comuni, invece, il rapporto con la legge si pone in termini radicalmente differenti.
La seconda è che le brevi considerazioni che seguono si riferiranno (quando non generali) al solo diritto civile, ben consapevole però che analoghe traiettorie si sono verificate anche nell’ambito della legalità penale, con effetti ancora più rivoluzionari[21].
5. Creare o interpretare? (Creazione in senso forte e in senso debole)
Nei dibattiti di teoria generale dell’interpretazione si afferma – rigorosamente - che il giudice crea diritto ogni qual volta il contenuto della norma (intesa quest’ultima, altrettanto rigorosamente, come il prodotto finale dell’interpretazione) che egli applica (a) non sia identico a quello di altra appartenente allo stesso ordinamento, (b) né ne sia conseguenza logica[22]. La norma insomma è nuova quando non riproduce il contenuto, né espresso né implicito, di nessun’altra. Il giudice – se vogliamo, con altro linguaggio – crea una “norma inespressa”, quando questa non è “ragionevolmente riconducibile” a nessun significato di un altro enunciato normativo[23].
Queste definizioni, che in fondo, coincidono, aprono una miriade di problemi definitori. Cosa debba intendersi per “conseguenza logica”, o quale possa essere il “contenuto implicito” di una norma, o quali siano i significati “ragionevolmente riconducibili” a un enunciato sono tutte questioni che è difficile riuscir a specificare ulteriormente.
In ogni caso, il giudice può creare una nuova norma attraverso due percorsi differenti. Può farlo direttamente, cioè introducendola ex novo, per es., in via analogica o ricavandola da uno o più princìpi (creazione in senso forte) oppure indirettamente, cioè interpretando - o potremmo dire estendendo o restringendo - così tanto (i significati di) una disposizione già esistente da rendere la norma finale diversa da quelle che il testo iniziale poteva esprimere[24]. Cioè interpretando troppo, il giudice finisce per creare (creazione in senso debole). In entrambi i casi diremo però che quella norma, prima dell’intervento del giudice, non c’era.
Molti filosofi del diritto in effetti distinguono tra creazione di nuovo diritto e mera interpretazione (o “estensione”) di concetti che sono già presenti in enunciati normativi: e sono perfettamente d’accordo che questo confine è importante che ci sia[25]. Ma dove si situa la linea di demarcazione? Dov’è che lo ius dicere diventa ius facere?[26] L’avvertenza è che il discrimine è assai sottile, e forse si tratta solo di una questione di grado.
Questa ambiguità succede per una ragione molto semplice e, se vogliamo, banale; e cioè che le parole del linguaggio giuridico sono connotate da vaghezza, nozione studiatissima tra i filosofi del diritto di indirizzo analitico, specialmente in area anglosassone[27]. Vaghezza significa, tecnicamente, che vi sono casi limite, borderline, cioè non si sa con precisione dove il concetto termina, finisce. E si badi bene che questa è una caratteristica del linguaggio naturale, del quale quello giuridico è nient’altro che una sottocategoria, e quindi intrinsecamente ineliminabile, anche qualora si volesse ridurre al minimo l’uso di clausole generali (ma ciò, probabilmente, aprirebbe altri problemi[28]).
Non riporto qui il già notissimo esempio di H.L.A. Hart, apparso per la prima volta nel suo saggio Positivism and the Separation of Law and Morals, circa il cartello recante il divieto di ingresso di “veicoli” nel parco[29]; e mi chiedo solo: se un giudice condannasse il guidatore di un’auto per essere entrato nel parco, nessuno dubiterebbe che egli, così facendo, non ha creato diritto. Ma che dire se egli condannasse chi è entrato con uno skateboard? Diremmo semplicemente che è stato esteso il concetto di “veicolo” o piuttosto che è stata creata (illegittimamente?) una nuova norma che prima non esisteva (e che vieta l’ingresso degli skateboard nel parco)?
5.1. (Segue). Sull’esistenza delle lacune nell’ordinamento
È appena il caso di notare che vi è almeno un caso in cui l’attività creatrice di nuovo diritto da parte del giudice non solo è del tutto legittima, ma anzi è logicamente e concettualmente necessaria, obbligata: ogniqualvolta la fattispecie concreta portata all’attenzione della corte non sia disciplinata da nessuna norma, e cioè in caso di lacuna (normativa)[30]. Siccome in tutti gli ordinamenti contemporanei vige il divieto di non liquet, cioè il dovere per il giudice di decidere, ecco che egli sarà obbligato a creare (o inventare che dir si voglia, v. infra) la regola iuris generale da applicare, seppur con efficacia circoscritta al caso di specie. Naturalmente – e va detto con forza - il giudice non è affatto libero nella creazione di questa norma. Egli non è mai libero (v. infra, par. seg.) e quindi non lo è nemmeno in questa ipotesi; dal punto di vista pragmatico, ogni ordinamento risolve questo problema nel modo che ritiene più opportuno[31].
Ma è così semplice affermare che un caso non è disciplinato da nessuna norma?
Kelsen, per es., negava che una simile ipotesi potesse darsi, affermando la esaustività dei sistemi normativi. Egli postulava l’esistenza di una norma generale esclusiva, di chiusura, un “principio generale di libertà” per il quale “tutto ciò che non è vietato è permesso”. Così facendo, nessun caso della vita sarebbe sfuggito alle maglie del diritto. Il sistema fornirebbe sempre (almeno) una risposta per ogni caso: se un fatto non è disciplinato, esso significa che è permesso: ed è appunto in questo che risiederebbe la sua disciplina, seppur soltanto in negativo[32].
Ma le cose – almeno nell’ambito civile - non stanno affatto così: nei fatti, la pressione delle istanze sociali costringe il giudice a dover esercitare la propria discrezionalità per dare giustizia attraverso il diritto, qualora il legislatore non abbia provveduto - per sprovvedutezza, incapacità, mancanza di volontà, o altro – a disciplinare una certa ipotesi che sia percepita come rilevante, cioè giuridicamente significativa. Si pensi, solo per fare un esempio conosciutissimo nel dibattito italiano, alla vicenda “Englaro” e in particolare alla decisione della Corte di Cassazione 21748 del 4 ottobre 2007 sui presupposti per la sospensione delle cure vitali, intervenuta in una situazione di silenzio legislativo sul delicato punto, e ritenuta «il paradigma di un modo di argomentare del giudice che guarda al diritto […] e che riempie le lacune attraverso la centralizzazione dei principi»[33].
In questi casi, il giudizio su cosa sia rilevante socialmente, e cosa no, e quindi cosa meriti di essere disciplinato con precisione da una norma astratta, è questione ulteriore sulla quale si esercita la discrezionalità del giudice, e la conclusione può ben essere controvertibile.
Ciò ci porta a capire come l’esistenza di una lacuna normativa è quasi sempre (non mi spingo a sostenere sempre) anche una questione valutativa, e non puramente descrittiva. Quello che voglio dire è che è assai raro che il giudice si trovi a prendere semplicemente atto di un vuoto normativo, e a riempirlo, ma sarà piuttosto egli stesso che, prima di tutto, lo costruisce, interpretando, valutando in una certa maniera le disposizioni che sarebbero applicabili. Il giudice raramente dirà che un caso manca obiettivamente di una soluzione astratta, ma bensì che il legislatore non ha tenuto conto di una distinzione che – se avesse invece considerato – lo avrebbe portato a legiferare diversamente[34]. Quello che manca, insomma, non è una norma, ma una norma giusta.
Intendiamoci; non immaginiamo che il giudice faccia questo per capriccio o arbitrio, o gratuito protagonismo, ma che la sua opzione valutativa sia fondata alla luce di considerazioni valoriali più generali. Ecco perché si dice, in questo caso, che la lacuna è assiologica, perché si fonda su opzioni di valore, comunque le si intenda[35].
Si pensi, solo per fare un esempio, alle varie, molteplici e proliferanti categorie di abuso del diritto (ora anche abuso del processo) che non trovano, o non trovavano, precisi corrispettivi legislativi. Esse si radicano in un’argomentazione di questa tipo: le norme che prevedono un dato comportamento come lecito “mancano” di regolarne l’abuso; poiché questo è percepito come giuridicamente rilevante perché assiologicamente negativo, il giudice deve integrarle; non può accettare passivamente che di un diritto si possa abusare[36].
Questo esercizio di creazione giudiziale è lungi dall’essere qualcosa di negativo, come pure sono portati a credere coloro che vedono in questa prassi una ferita al principio di legalità formalisticamente inteso. I valori, infatti, non possono esser considerati estranei all’attività giurisdizionale, né materia di esclusiva competenza del solo legislatore o della sola Corte costituzionale; essi informano l’intero ordinamento, e quindi anche l’operato del singolo giudice. Non vi è un monopolio di chi sia chiamato a prendersi cura dei valori, ma tutti gli attori devono partecipare alla loro concretizzazione, seppur in forme differenti.
5.2. (Segue). Il giudice di fronte al diritto ingiusto. Ingiustizia “soggettiva”…
Rimaniamo ancora per un attimo al piano delle valutazioni, al piano cioè non di ciò che è, ma a quello di ciò che è bene che sia, e chiediamoci: è sempre, oppure mai, legittima quest’ultima attività di creazione di una lacuna? Che cosa la muove? Abbiamo detto il pensiero, la credenza, che il diritto non sia soddisfacente o giusto nel caso di specie. Ma il giudice fino a che punto è autorizzato a porsi questa domanda?
Questo ultimo interrogativo ci porta a chiedere quale possa essere più in generale l’atteggiamento interpretativo del giudice (comune) di fronte al diritto ingiusto. Quesito tra i più filosoficamente ed eticamente problematici che nella sua essenza è di ordine valoriale e quindi, in ultima analisi, politico.
Bisogna ovviamente intendersi sull’aggettivo “ingiusto”. Anche qui distinguiamo.
Il quesito rimane interessantissimo anche nel caso in cui si intendesse ingiusto con “contrario alla propria coscienza” o “contrario al proprio senso di giustizia”: sarebbe troppo semplicistico predicarne l’assoluta irrilevanza. Possiamo affermare che in questo caso il giudice – finché rimane entro il recinto dell’attività interpretativa, senza sconfinare in una «violazione manifesta» del testo - potrebbe (legittimamente) interpretare la disposizione in maniera correttiva, di modo che la norma corrisponda, una volta applicata, al proprio desideratum, cioè al dettato della propria coscienza. Ma che dire se tale tipo di interpretazione non fosse possibile?
Guido Calabresi, giudice federale statunitense, nel suo libro sul Mestiere di giudice si chiede appunto come egli reagirebbe se fosse costretto dalla legge a condannare a morte un colpevole, e non ci fosse modo di evitarlo[37]. Si noti che la pena capitale è perfettamente costituzionale negli Stati Uniti; essa non si pone in contrasto con qualche principio supremo, espresso, inespresso o implicito che dir si voglia, e anzi è persino contemplata[38]; semplicemente è una pratica che non si allinea con la coscienza del giudice Calabresi, con la sua propria sensibilità morale personale. Questo è il punto drammatico di questa ipotesi: qui il richiamo ai “valori” dell’ordinamento, al “contenuto etico” della Costituzione, etc. non è di nessun aiuto. Mutatis mutandis, un problema simile si è posto anche in Italia, con riferimento alla possibilità per il giudice tutelare di negare l’autorizzazione all’aborto della minorenne, qualora non vi sia il consenso dei genitori; problema per il quale è seguito il rinvio alla Corte costituzionale circa la questione di costituzionalità della mancata previsione dell’obiezione di coscienza (poi dichiarata manifestamente inammissibile)[39]. Volgere lo sguardo alla Costituzione o ai valori immanenti non è di aiuto perché è la Costituzione, sono quei valori, che in ipotesi sono considerati ingiusti.
Innanzitutto Guido Calabresi prende atto – giusrealisticamente - della propria responsabilità personale come giudice e come persona. Non vale nascondersi dietro lo schermo del testo: è la sentenza che uccide, non la legge[40]. Risuonano le parole di Salvatore Satta, il processualista che ha pensato più a fondo il dramma del giudicare: «la legge è indubbiamente un dato che si impone al giudice, e del quale egli non può non tenere conto: ma non è più che un elemento […]. La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo, ma il provvedimento giurisdizionale »[41]. E, altrove, aggiunge: « Oggi noi sappiamo che il giudice condanna ed assolve, non la legge »[42]. Se il giudice è potente, nel nostro mondo, e lo è, significa allora anche che è responsabile. Potenza e responsabilità non possono andar disgiunte. Guido Calabresi sembra lasciare la domanda aperta; egli valuta tutte le opzioni, compresa quella delle dimissioni, per poi però alla fine escluderle, dato che, se tutti facessero così, non rimarrebbe più nessuno “dentro al sistema” a sollevare voci critiche[43].
Più drastica sembra invece l’opzione del compianto filosofo del diritto di Oxford John Gardner. Egli – nel saggio The Virtue of Justice and the Character of the Law, contenuto in quel libro che è una miniera di intuizioni potentissime, Law as a Leap of Faith - afferma che nel caso in cui l’applicazione della legge risulti immorale («immoral») o ingiusta («unjust»), le corti in quanto organi di giustizia non possono arrendersi («surrender»). Esse devono o tentare di cambiare la norma, facendo quanto in loro potere (mediante le ben note tecniche del distinguishing o dell’overruling) o, ove ciò non fosse possibile, devono abbandonare questa via e decidere senza indugi per una conclusione che sia giusta per meriti suoi propri («just on its raw unruly merits»): o facendo ricorso all’Equity o, proprio al limite, anche alla disobbedienza civile[44]. Egli sembra quindi immaginarsi una attività che non sia né soffertamente “accettante” (qual è quella di prendere atto di ciò che la legge vuole, e sottomettervisi in nome del proprio compito) né puramente negativa (qual è quella delle dimissioni) ma bensì creativa, sostitutiva, reattiva. Con tutti i problemi, naturalmente, che possono sorgere. Egli infatti ammette che quest’ultima strada possa andare contro la «judicial obligation of fidelity to law», cioè all’obbligo di fedeltà al diritto; ma questo non deve stupire se si considera che, per John Gardner, compito del giudice è to dispense justice according to law, dove l’enfasi è messa sulla prima parte della frase (doing justice) più che sulla seconda (according to law)[45].
5.3. … e ingiustizia “oggettiva”
Se invece per “ingiusto” si intende “contrario ai principi etico-morali incorporati (positivizzati, quindi) a livello costituzionale o sovranazionale”, il problema appare meno drammatico. Il giudice - in Italia - deve per prima cosa chiedersi se quella disposizione può dar luogo a una, anche una sola, interpretazione giusta, nel senso di conforme al dettato costituzionale o sovranazionale. Egli ha in pratica un iniziale dovere di offrire una interpretazione “adeguatrice”, dovere a sua volta creato per via giurisprudenziale, cioè da orientamento consolidato della Corte costituzionale[46] (in deroga, o meglio, in aggiunta ai criteri interpretativi di cui all’art. 12 delle preleggi al c.c.). Non sono sconosciute, anzi, sentenze della Corte costituzionale che dichiarano inammissibile la questione di costituzionalità per “insufficiente sforzo interpretativo” del giudice a quo[47].
Solo in caso contrario egli deve sollevare la questione di costituzionalità davanti alla Corte costituzionale, quest’ultima sì dotata di un genuino e istituzionale potere di creare il diritto, al limite espellendo la disposizione di cui non è possibile fornire nemmeno una interpretazione costituzionale dall’ordinamento. Distruggere - a ben vedere – non è altro che un’altra forma del creare.
Ma il quesito essenziale (insolubile?) rimane e ritorna: fino a che punto una interpretazione costituzionalmente orientata del giudice comune può discostarsi dal significato convenzionale delle parole? Fino a dove deve spingersi questo “sforzo interpretativo”? Fino a che punto l’interpretazione del giudice deve, e quindi può, manipolare il testo?[48]
5.3.1. Due esempi processualcivilistici
I cultori del diritto processuale civile ricorderanno bene l’interpretazione eufemisticamente “costituzionalmente orientata”, ma di fatto contra legem, dell’art. 37 c.p.c. ad opera delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che ha limitato la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione al solo primo grado, con un elegante argomento, ma in evidente contrasto con il testo dell’articolo che afferma, senza ulteriori specificazioni, che detto difetto è rilevabile «in qualunque stato e grado del processo»[49]. Decisione che è poi divenuta orientamento[50], e che ha visto il legislatore conformarvisi, in sede di disciplina dell’analogo tema nel contesto del processo amministrativo (cfr. l’art. 9 D. Lgs. 104/2010) a conferma del potere “normativo” anche indiretto del formante giurisprudenziale[51].
O ancora, si ricorderà la rilettura, anch’essa abrogante, sempre da parte delle Sezioni Unite, dell’art. 269 c.p.c., laddove è stato stabilito che, se il convenuto chiede, pur nei termini, di chiamare in causa un terzo (che non sia litisconsorte necessario), la fissazione da parte del giudice dell’udienza per consentirne la costituzione è facoltativa, e non obbligatoria (anche qui nonostante il testo dica, perentoriamente, che il giudice istruttore “provvede […] a fissare la data”)[52]. Anche questa decisione è divenuta, poi, orientamento[53].
È indicativo il fatto che entrambe queste sentenze, due tra le più creative in assoluto nel contesto del diritto processuale civile, siano state motivate a partire dal principio “grimaldello”, dal principio passe-partout, del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata”, ex art. 111 Cost[54]. Tanto grande è la forza di questo principio da poter limitare, anche contro le parole del testo, le regole[55].
Di nuovo, con insistenza: fino a che punto l’interpretazione “adeguatrice” rimane interpretazione e non sconfina in attività creatrice di nuovo diritto?
6. Creare o “inventare”? Il giudice come “bocca della legge” o come “oracolo del diritto”
Occorre ora precisare che l’attività creativa giudiziale è sui generis, nel senso che è del tutto differente dalla creazione del diritto del legislatore. Entrambi creano diritto, ma lo fanno in un modo, e con risultati, totalmente diversi.
Mentre infatti il legislatore è legittimato a valutare l’opportunità della disposizione che introduce da qualsiasi punto di vista (politico, morale, economico, etc.) e anzi, in caso limite, è persino libero di non valutare affatto, il giudice può creare norme solo e soltanto mediante ragionamenti giudiziali o tecniche interpretative, e cioè sempre e unicamente a partire da altro diritto. In astratto, il legislatore non deve motivare le proprie scelte, e quando le motiva, la motivazione non entra a far parte del testo della legge. La ragione della legge non ha essa stessa valore di legge. Il giudice, tutto al contrario, è sempre chiamato ad argomentare, a giustificare la propria decisione, a darle fondamento giuridico e solo e soltanto giuridico. La motivazione è parte essenziale della sentenza. Anzi, in questo tempo di preminenza del diritto giurisprudenziale, vediamo, almeno in Italia, il moltiplicarsi del numero di pagine dedicate, nelle motivazioni delle sentenze civili, ai ragionamenti in punto di diritto, specialmente nelle decisioni più risolutive della Corte di Cassazione, le quali assumono con sempre maggior frequenza le vesti quasi di un trattato, di un lungo saggio di dottrina, proprio a segnalare la loro ambizione a porsi come guida autorevole e convincente nel dire quale sia veramente il diritto. Qui possiamo davvero dire che non solo il “formante giurisprudenziale” ha scavalcato quello legislativo, ma anche quello dottrinale[56].
Se intendiamo quindi la parola “creare” come “creare ex nihilo”, dobbiamo concludere che il giudice non può mai creare diritto, mai, nemmeno negli ordinamenti di common law, dove il judge made law rappresenta il tratto distintivo. Anzi, là più che altrove si fa riferimento alla metafora, usata per es. da Ronald Dworkin, secondo la quale il diritto (e il diritto civile, segnatamente) è come un libro, scritto pagina dopo pagina da una molteplicità di autori differenti nello spazio e nel tempo, ma in continuità l’uno con l’altro[57]. Le pagine del libro, pur provenendo da diverse voci, devono parlare la stessa lingua, sviluppare la stessa storia, porsi in coerenza con il medesimo filo narrativo, essere in armonia con i principi che informano l’ordinamento; la pagina successiva deve continuare la pagina precedente, basarsi su di essa, fondarsi su essa. E così il diritto: una innovazione creatrice deve sempre riferirsi al percorso precedente, magari anche discostandosene, magari anche ponendosi in forte rottura con esso, ma sempre argomentando, ragionando con un vincolo verso il passato.
Il creare del giudice è quindi sempre – e non può non essere – anche un ricavare, e quindi un rinvenire, ed è precisamente l’enfasi su questa caratteristica che fa dire che il giudice non crea, bensì “inventa” il diritto, nel senso etimologico del verbo latino invenio, che significa “trovare” a partire da materiale dato[58].
Ma attenzione: la parola “inventare” (sempre nel senso di “trovare”) ha una forte connotazione non decisionistica e rischia di mettere in secondo piano, se non proprio di farci dimenticare del tutto, il ruolo, invero fortissimo, della volontà del giudice. Il vocabolo “trovare” pone fortemente l’accento su un qualcosa che era già lì, e bastava solo cercare meglio per vederlo, assente ogni coinvolgimento, ogni scelta del soggetto quanto a cosa trovare. Infatti, nel linguaggio corrente, trovare una bicicletta è diverso da creare una bicicletta. Le due azioni indicano cose ben distinte.
L’immagine del giudice che, cercando bene, trova il diritto, non è peraltro nuova; conobbe grande fortuna nel Settecento in Inghilterra e fu fatta propria da William Blackstone nei suoi Commentaries on the Laws of England per spiegare il funzionamento del common law[59]. È la declaratory theory of the Common law, la “teoria dichiarativa del common law” – questo il nome - secondo la quale il giudice non crea affatto il diritto, ma semplicemente egli va in cerca di un diritto che è a lui preesistente, è immemore, e lo dichiara. Dove egli avrebbe dovuto cercarlo è presto detto: scrutando la Ragione, attività che gli competeva, avendo lui solo le capacità e le competenze adatte per farlo, per poi tradurla e comunicarla al pubblico fatto di “non iniziati”.
Ecco perché il giudice, nella cultura anglosassone, non è mai stato tradizionalmente descritto, nemmeno dal punto di vista simbolico, come bocca della legge, seguendo Montesquieu, ma bensì come oracle of the law, oracolo del diritto, secondo l’immagine diametralmente opposta di Dawson; il giudice è un profeta in grado di dare le risposte leggendo là ove altri non possono attingere[60]. Ognuno vede la debolezza di questa teoria, seppur così grossolanamente qui descritta: essa non aveva altro scopo se non quello di legittimare politicamente il giudice. Il Realismo Giuridico ha poi sferrato a quella visione (che nessuno più né oltremanica né oltreoceano oggi sostiene seriamente) un colpo micidiale, da renderla un arnese del passato.
Mediando quindi tra le due parole, che portano con sé un diverso potere evocativo, potremo dire nella maniera seguente: così come bisogna tener presente che in ogni creazione del diritto vi è anche un trovare il diritto, allo stesso modo bisogna riconoscere che in ogni trovare, inventare, il diritto vi è un forte elemento di scelta, di decisione, di volontà soggettiva dell’interprete.
7. Creazione di diritto e giurisprudenza. Gli orientamenti consolidati come fonti del diritto
Se la creazione di diritto non si trasforma in prassi, in consuetudine, essa rimane istantanea, fulminea, ed esaurisce gli effetti nel caso di specie. Diritto è stato creato, eccome, perché la sentenza disciplinerà quel caso specifico; su di essa cadrà il giudicato e avrà la forza di regolare concretamente, effettivamente il rapporto dedotto. Può ben essere che il giudice non intendesse fare nulla di più; può essere che egli non aspirasse a che la sua creazione divenisse fonte, ma soltanto che risolvesse in maniera giusta il caso di specie che gli si è posto innanzi. Egli ha creato diritto non per contribuire allo sviluppo e all’evoluzione dell’ordinamento giuridico, ma mosso piuttosto da quella “preeminenza del caso”, dalle ragioni del concreto[61]. Il caso parla, e il giudice non può non rispondere. La creazione, diremo, è servita solo da giustificazione di una decisione particolare, fondata nell’esigenza di rendere giustizia nell’ipotesi davanti al magistrato.
Talvolta, invece, l’attività congiunta dei giudici rende una certe decisione (meramente interpretativa o genuinamente creativa che sia) una vera e propria fonte del diritto. Perché una sentenza possa qualificarsi tale è però necessario che venga stabilmente applicata, che venga costantemente seguita - non importa se per forza sua propria o per capacità persuasiva - nel tempo, da altri giudici. La sua deve essere una forza “aggregante”; deve universalizzarsi. In questo caso solo una lettura estremamente formalistica della realtà impedirebbe di affermare che quella certa interpretazione o creazione è divenuta parte stabile e “ufficiale” dell’ordinamento giuridico: si parlerà, in questo caso, di “diritto giurisprudenziale” in senso proprio[62].
Nei sistemi di common law la differenza appena accennata è pensata in forma più precisa. John Gardner, lucidamente, ricollega questa opposizione a due tipologie diverse di diritto che tendono spesso a essere confuse: da un lato il case law e dall’altro il common law propriamente detto. Il case law è quel diritto che i giudici creano senza che vi sia una convergenza nel comportamento ufficiale degli operatori («no convergence of official behaviour»), e quindi senza che ciò si traduca nell’essere parte del diritto. Il common law invece è tale perché su di esso si è formata una consuetudine giudiziaria («judicial customary law») a partire da singole decisioni che sono state recepite e utilizzate nel tempo («reception and use of case law»)[63]. Dove termina uno e inizia l’altro? Ancora una volta è una questione di grado.
Con qualche adattamento, questa contrapposizione può funzionare anche per descrivere la realtà dei nostri sistemi, e di quello italiano in particolare, a riprova del fatto che la differenza quanto all’efficacia del precedente nel diritto comparato è più sfumata di quello che si pensi: nel common law il precedente è meno vincolante di quanto si voglia credere, mentre qui lo è di più[64].
Gli orientamenti consolidati, stabili e seguiti nel tempo, sono quindi fonti del diritto (e perché mai non dovrebbe essere così?). Si pensi ai grandi leading case, ai grand arrêt in materia di responsabilità civile in Italia: dalla risarcibilità delle posizioni giuridiche relative (il “caso Meroni”[65]) alla risarcibilità degli interessi legittimi[66], dall’ampliamento dei confini della risarcibilità del danno biologico[67], alla recente ufficializzazione delle cd. Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione dei danni non patrimoniali, per garantire uniformità su tutto il territorio nazionale[68], e via dicendo. La storia del diritto della responsabilità civile - in Italia, e in moltissimi altri Paesi - è, nella sua essenza, storia di sentenze[69].
Anzi, le parole “giurisprudenza” e “orientamento” sono orami da tempo categorie fatte proprie dal legislatore processuale italiano. Quando l’art. 360 bis del Codice di procedura civile stabilisce che il ricorso per cassazione è inammissibile (rectius: infondato) oltre che nelle consuete ipotesi, anche «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa», esso non fa che recepire ufficialmente - forse fino al punto massimo in cui poteva farlo - la nozione di giurisprudenza come fonte del diritto. Questo articolo ci dice infatti che, a meno che non vi siano delle ottime ragioni per mutare orientamento (o – con una frase sibillina – anche per confermarlo, nel senso di offrire ai giudici supremi una nuova, inesplorata occasione per rinforzarlo argomentativamente), esso è qualcosa di molto simile al diritto. L’orientamento è vigente (perché sarà verosimilmente applicato di fatto nei casi futuri dalle corti) ed efficace (perché i consociati ne terranno conto nell’indirizzare le proprie condotte), ma non è obbligatorio, nel senso che i giudici non sono giuridicamente obbligati ad applicarlo. O quasi. Dico “quasi” perché si è giunti, in tempi recentissimo, fino al punto di discorrere di responsabilità civile del giudice per l’inosservanza di un orientamento consolidato della giurisprudenza, comunque esclusa in ogni caso poi da una importante decisione delle Sezioni Unite[70].
È – per così dire – qualcosa di meno del diritto, un “diritto minore”, un “diritto temporaneo”; è in attesa che qualcuno presenti buone argomentazioni per cambiarlo; è aperto alla critica, insomma, ma, fino a quel momento, sicuramente per le parti e i loro avvocati è qualcosa di molto simile a diritto[71].
8. Conclusioni (con una meditazione di Piero Calamandrei)
Vi sarebbe da toccare, ancora, il maggiore problema pratico che la qualifica degli orientamenti giurisprudenziali come fonte del diritto inevitabilmente porta con sé: ossia la tutela dell’affidamento in caso di loro mutamento[72]. E infine vi sarebbe da ragionare sulla questione (politica, più ampia) del ruolo nomofilattico delle Corti di vertice e - prima ancora – chiedersi se la nomofilachia, nel senso originale, “calamandreiano” del termine, sia anzi possibile nell’epoca attuale, o non vada piuttosto intesa soltanto in senso dinamico e tendenziale[73]. Aspetti certo cruciali per un discorso completo, ma che ci porterebbero forse troppo lontano dal nocciolo di queste brevi riflessioni, rappresentato dal ruolo creativo del giudice.
A conclusione vorrei riportare, a mo’ di riassunto, alcune parole di Piero Calamandrei, tanto profonde quanto attuali, sui “valori umani” del giudizio, rimedio a una cieca obbedienza al principio di legalità formalisticamente inteso e alla dittatura della logica del sillogismo: temi ricorrenti nelle meditazioni dello studioso fiorentino, e che sento a me molto cari.
Egli, dopo aver accuratamente descritto un caso di ingiustizia dovuta a un’applicazione formale della legge, così argomenta:
«La logica giuridica, quando sia adoprata con discrezione, è uno strumento prezioso per vedere gli aspetti giuridici della realtà sociale; assomiglia a quello strumento […] con cui gli antichi ritrattisti […] si aiutavano per essere più fedeli al modello: una intelaiatura di legno, sulla quale era fissata una rete di fili di seta incrociati ad angolo retto […]. A questo serve il sillogizzare dei giuristi: ma guai se si aumentano oltre misura i fili della rete, restringendo sempre di più le dimensioni delle aperture attraverso le quali si dovrebbe vedere la giustizia! A un certo momento, quando la rete è diventata troppo fitta, la giustizia, sotto l’intrico della giurisprudenza, non si riesce a vederla più.
Eppure, anche nel sistema della legalità, la stessa legge offre al giudice i mezzi per non perderla mai di vista, per mantenersi sempre in contatto con essa […]: l’interpretazione evolutiva, l’analogia, i principi generali, finestre aperte sul mondo, delle quali, se il giudice sa affacciarsi a tempo, può entrare l’aria ossigenata della società che si rinnova»[74].
La metafora dell’apertura sul mondo, della finestra che getta luce su una stanza chiusa mi sembra la più appropriata per evocare il senso, il fondamento, e al tempo stesso anche la “funzione sociale” del potere creativo del giudice (che è d’altronde, la stessa bella immagine impiegata anche da Paolo Grossi riferendosi, in un saggio recente, all’opera di Santi Romano: «è il pullulare che nel 1909, centodieci anni fa […] Santi Romano osservava dalle finestre del suo studio ben aperte sulla vivace quotidianità cittadina. Osservava e registrava, attentissimo al contesto sociale e nemico di mitizzazioni formalismi dogmatismi; e identificava in esso con ammirevole lucidità la causa prima del palese declino del borghese Stato di diritto, delle sue chiusure e sordità sociali, dei suoi forzosi riduzionismi»[75]).
La finestra aperta come guida, come monito perenne che c’è sempre un al di là della legge.
[1] Per uno sguardo d’insieme su questo dibattito cfr. il numero monografico della rivista Questione giustizia, 4/2016, intitolato Il giudice e la legge (e, per gli argomenti in senso contrario, essenzialmente L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, ivi, 13 e seg.).
[2] R. Sacco, voce “Formante”, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1992, vol. VIII, 439.
[3] Sulla queste caratteristiche della dottrina in Italia, assai criticamente R. Pardolesi, Dottrina e giurisprudenza: conflitti, dialoghi, monologhi, in Diritto & questioni pubbliche, giugno 2019, 53 e seg., http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2019_n19-1/04_mono_03_Pardolesi.pdf
[4] N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2015, 1133 e seg.
[5] N. Picardi, La vocazione per il nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2004, 41 e seg. e anche in Studi in onore di G. Tarzia, Milano, 2005, Vol. I, 179 e seg.; egli contrapponeva questa tendenza alla “vocazione per il nostro tempo per la legislazione e la scienza giuridica” di Von Savigny.
[6] F. Ost, M. Van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2010 (in italiano, F. Ost, Dalla piramide alla rete: un nuovo modello per la scienza giuridica?, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, Giappichelli, 2008, 29 e seg.).
[7] Così B. Celano, Principi, regole, autorità, in Europa e diritto privato, 2006, 1081 e seg.
[8] Avevo tratteggiato brevemente il carattere sempre più effimero della legge in C.V. Giabardo, Tempo e diritto: alcune considerazioni a proposito della tutela civile dei diritti nell’epoca della globalizzazione, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2014, 219 e seg. (ma spec. 227 e seg., par. intitolato La norma mercificata).
[9] R. G. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione Giustizia, 4/2016, cit., 89 e seg.
[10] Di questo tema si sono occupati con particolare profondità due grandi Maestri torinesi: S. Chiarloni, La dottrina; fonte del diritto? in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1993, 439 e seg. e R. Sacco, La dottrina, fonte del diritto, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, Vol. II, Milano, 1990, 456 e seg.
[11] G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Roma-Bari, 2012, 159 (richiamandosi a Philipp Heck, esponente della Interessenjurisprudenz).
[12] P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo postmoderno, Napoli, 2011.
[13] J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, 1979.
[14] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001; Id., A proposito de ‘il diritto giurisprudenziale’, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2020, 1 e seg.
[15] È la celebre frase con la quale si apre il libro di O. W. Holmes, The Common Law, Boston, 1881, 1.
[16] Per questo legame, G. Zaccaria, La giurisprudenza come fonte del diritto. Un'evoluzione storica e teorica, Napoli, 2007; M. Troper, Il concetto di costituzionalismo e la moderna teoria del diritto, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1, 1988, 61.
[17] Mi riferisco, naturalmente, a quelle versioni del positivismo giuridico contemporaneo (come quello della “Scuola genovese”) che sono anche realiste (ossia non normativiste, né imperativistiche, né etico-ideologiche, etc.), i due elementi non essendo niente affatto in contrasto, come taluno, talvolta, crede. Sul punto, cfr. R. Guastini, Sulla validità della costituzione dal punto di vista del positivismo giuridico, in Riv. Int. Fil. Dir., 1989, 424 e seg.
[18] Per considerazioni più ampie, R. Guastini, Il realismo giuridico ridefinito, in Revus (online), 2013, 97 e seg.
[19] N. Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2016, 1153 e seg.
[20] K. Llewellyn, Some Realism About Realism. Responding to Dean Pound, in 44, Harvard Law Review, 1931, 1222.
[21] V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. Pen., 2018, 2222 e seg.; L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giurisprudenziale. Una proposta di revisione dell’approccio ermeneutico alla legalità penale, in Ars Interpretandi, 2016, 23 e seg.
[22] Questa definizione si deve al gran teorico argentino del diritto, Eugenio Bulygin, Sentencia judicial y creación del derecho, in C. Alchourron - C. E. Bulygin, Análisis lógico y Derecho, Madrid, 1991, 355 e seg. (e in italiano con il titolo Sentenza giudiziaria e creazione di diritto, ora in Id., Norme, validità, sistemi normativi, Torino, 1995). Evidentemente qui viene rifiutata tanto la terminologia quanto l’impianto kelseniano, per il quale la decisione giudiziale è sempre creativa nel senso che crea la “norma specifica” che risolve la controversia. Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1959 (ed. or., 1945), parte I, 135: « Una decisione giudiziaria, ad esempio, è un atto mediante cui è applicata una norma generale, una legge formale, ma è al tempo stesso creata come norma individuale che obbliga una o entrambe le parti della controversia ».
[23] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 155.
[24] Per approfondimenti, V. Velluzzi, La distinzione tra analogia giuridica ed interpretazione estensiva, in M. Manzin, P. Sommaggio (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Milano, 2006, 133 e seg.
[25] Ad es., D. Canale, In difesa della distinzione tra interpretazione e creazione giuridica, in P. Chiassoni, P. Comanducci, G. B. Ratti, L'arte della distinzione: scritti per Riccardo Guastini. Vol. II, Parte II, Marcial Pons, 2019.
[26] Criticamente, C. Castronovo, L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Eur. e Dir. Priv., 2016, 981.
[27] Ex multis, T. Endicott, Vagueness in Law, Oxford, 2000; Id., The Value of Vagueness, in A. Marmor, S. Soames (a cura di), Philosophical Foundations of Language in the Law, Oxford, 2011; A. Marmor, Varieties of Vagueness in the Law, in Id., The Language of Law, Oxford, 2014, Cap. IV. In Italia, si veda l’eccellente analisi di C. Luzzati, La vaghezza delle norme, Milano, 1990; più di recente, per la distinzione attenta tra vaghezza e genericità, Id., Prìncipi e princìpi. La genericità nel diritto, Milano, 2012.
[28] Da ultimo, v. i saggi di E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali e di L. Nivarra, Fattispecie e clausola generale: alternativa o binomio? Entrambi in Questione Giustizia, 1/2020, fasc. intitolato Eguaglianza e diritto civile, 60 e seg., e anche online, rispettivamente in https://www.questionegiustizia.it/articolo/ripensare-la-fattispecie-nel-tempo-delle-clausole-generali_04-12-2019.php e in https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/815/qg_2020-1_nivarra.pdf
[29] H.L.A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, in 71 Harvard Law Review, 1958, 593, spec. 606; poi anche Id., The Concept of Law, Oxford, 1961, 125.
[30] Si suppone che il caso, di cui si professa la mancanza di disciplina debba essere in qualche modo “giuridicamente rilevante”. È questo un gran problema, che coinvolge la discrezionalità del giudice sotto il profilo della decisione sulla rilevanza, nel quale in questa sede non è possibile in alcun modo addentrarci (oltre al breve cenno infra nel testo). Sul punto, approfonditamente, G. B. Ratti, Sulle lacune nel diritto (Il dilemma di Atria), in Id., Norme, principi e logica, Roma, 2009, 21 e seg.
[31] Per es., l’ordinamento italiano come noto (art. 12 preleggi c.c.) stabilisce che « se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico ». È evidente che in questo caso i principi devono guidare il giudice nella costruzione della norma nuova: essi quindi sono regole che servono per costruire altre regole.
[32] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino, 2000 (ed. or. 1934, riveduta e ampliata, 1960); un comportamento è regolata “in negativo” quando « quella condotta non è proibita dall’ordinamento e non è positivamente permessa da una norma» (trad. it. dal testo spagnolo, Teoria pura del derecho, México, 1979, 29). Sul tema, recentemente, è tornato P. Navarro, Exclusividad y exhaustividad del derecho. Algunas reflexiones sobre la naturaleza abierta de los sistemas jurídicos (inedito, ma consultato per gentile concessione dell’Autore), 2020.
[33] Così R.G. Conti, Il ruolo del giudice visto dalla dottrina con un occhio alla giurisprudenza (Cap. I), Scelte di vita o di morte? Il giudice è garante della dignità umana?, Roma, 2009, 23.
[34] C. E. Alchourrón, E. Bulygin, Introducción a la metodología de las ciencias jurídicas y sociales, Buenos Aires, 1974, 158 e seg. (trad. it. Sistemi normativi, a cura di P. Chiassoni, G. B. Ratti, Torino, 2006)
[35] Per tutti, R. Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, 2001, 163.
[36] G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2004, 25 e seg.; N. Lipari, L’abuso del diritto e la creatività della giurisprudenza, in Id., Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 193.
[37] G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2014 (spec. la terza lezione, Il giudice e la giustizia: di fronte alla pena di morte).
[38] Il Quinto Emendamento della Costituzione Americana (introdotto nel 1791) dice che «no person […] shall be deprived of life, liberty, or property, without due process of law», assumendo quindi esplicitamente che si possa venir privati della vita dopo un giusto processo.
[39] V. Corte cost., ord. 3 dicembre 1987, n. 445, in Giur. cost., 1987, 2987 e seg., con nota di J. Luther, L’aborto: tema con variazioni per legislatori, giudici e custodi della Costituzione, e Corte cost., 25 maggio 1987, n. 196, in Foro It., 1988, I, p. 758 e seg., con nota di E. Rossi, L’obiezione di coscienza del giudice.
[40] Dico “giusrealisticamente” perché il fatto che il giudice sia (i.e., debba essere) responsabile del risultato delle sue proprie decisioni è una affermazione che si ritrova in certi esponenti del Realismo Giuridico Americano e, in particolare, in Charles Edward Clark (1889 – 1963), giudice e il principale redattore delle Federal Rules of Civil Procedure (sul pensiero del quale mi permetto di rimandare a C.V. Giabardo, American Legal Realism in Dispute Resolution, in Iuris Dictio, 2020, 63 e seg.; anche online, in https://revistas.usfq.edu.ec/index.php/iurisdictio/article/view/1634).
[41] S. Satta, Il mistero del processo (1949), in Il mistero del processo, Milano, 1994, 17. Ho avuto recentemente l’occasione di approfondire parte di questa visione sattiana; si vis, cfr. C.V. Giabardo, Brevi riflessioni sul giudizio (variazioni sul tema a partire da Il mistero del processo di Salvatore Satta e oltre), in Narrazioni del diritto, a cura di P. Chiarella, Napoli, 2020, 149.
[42] S. Satta, La tutela del diritto nel processo, in Il mistero del processo, cit., 69.
[43] Su questo immenso problema, e anche sul dilemma posto da Guido Calabresi, cfr. l’intervista a cura di Roberto Giovanni Conti a Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello e Davide Galliani dal titolo Il giudice disobbediente nel terzo millennio, in Giustizia Insieme (online), 2019, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio, anche in R. G. Conti (a cura di), Il mestiere di giudice, Milano, 2020, 193 e seg.
[44] J. Gardner, The Virtue of Justice and the Character of Law, in Id., Law as a Leap of Faith, Oxford, 212, 258.
[45] J. Gardner, ult. loc. cit., nota 28.
[46] A partire da Corte costituzionale 22 ottobre 1996, n. 356: «In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». Su questa evoluzione, da ultimo, V. Marcenò, Quando il giudice deve (o doveva?) “fare da sé”. Interpretazione adeguatrice, interpretazione conforme, disapplicazione della norma di legge.
[47] Ancora V. Marcenò, Le ordinanze di manifesta inammissibilità per «insufficiente sforzo interpretativo»: una tecnica che può coesistere con le decisioni manipolative (di norme) e con la dottrina del diritto vivente?, in Giur. Cost., 2005, 785.
[48] Non a caso Federico Carpi parla di “sentenze additive” non della Corte costituzionale (species del genus delle sentenze manipolative), come è normale, ma della Corte di cassazione; cfr. F. Carpi, Osservazioni sulle sentenze “additive” delle sezioni unite della Corte di cassazione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2010, 587.
[49] Cfr. Cass. Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883 (sulla base della formazione di un giudicato implicito sulla questione di giurisdizione ogniqualvolta il giudice di primo grado abbia semplicemente deciso nel merito). I processualisti reagirono assai criticamente: v. E. Ricci, Le sezioni unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, in Riv. Dir. Proc., 2009, 1085 e seg.; V. Colesanti, Giurisprudenza «creativa» in tema di difetto di giurisdizione, ivi, 2009, 1125; C. Consolo, Travagli «costituzionalmente orientati» delle sezioni unite sull’art. 37 c.p.c., ordine delle questioni, giudicato di rito implicito, ricorso incidentale condizionato (su questioni di rito o, diversamente operante, su questioni di merito), ivi, 2009, 1141.
[50] Cfr., ad es., Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2008, n. 26019.
[51] S. Menchini, Eccezione di giurisdizione, regolamento preventivo e translatio: il codice di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, in Giur. It., 2011, 217 e seg. Nella giurisprudenza successiva, cfr. Cons. Stato 7 febbraio 2012, n. 656 (in Giur. It., 2012, 510).
[52] Cass. Sez. Un. 23 febbraio 2010, n. 4309. Anche in questo caso i commenti furono molto duri: cfr., a commento, E.F. Ricci, Nooo! (La tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Cassazione: da garanzia bisognosa di attuazione a killer di garanzie), in Riv. Dir. Proc., 2010, 976 e seg.; R. Caponi, D. Dalfino, A. Proto Pisani e G. Scarselli, In difesa delle norme processuali, in Foro It., 2010, I, 1794.
[53] Trib. Bari, 21 luglio 2010, in Giur. It., 2010, 2381 (con nota critica di V. Amendolagine, La chiamata in causa del terzo formulata dal convenuto ai sensi dell’art. 269, comma 2, c.p.c.: il giudice può rigettarla nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo?).
[54] G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. Dir. Proc., 2011, 505 e seg.
[55] Così, sempre criticamente, R. Caponi, Quando un principio limita una regola (Ragionevole durata del processo e rilevabilità del difetto di giurisdizione), in Corr. Giuridico, 2009, 372.
[56] Si veda, tra le tante di questo genere, Cass. Sez. Un. 12 dicembre 2014, n. 26242, sul problema della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale, che conta più di ottanta pagine di dialogo serrato con la dottrina più autorevole. Sul fenomeno della “dottrina delle corti”, in generale, G. M. Berruti, La dottrina delle corti, in Foro It., V, 2013, 181 ss.; R. Pardolesi – B. Sassani, Motivazione, autorevolezza interpretativa e «trattato giudiziario», in Foro It. 2016, V, 299 ss.
[57] R. Dworkin, Law as Interpretation, in 60, Texas Law Journal, 1982, 527.
[58] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari–Roma, 2017; Id., La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 869; Id., Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2015: « Nessuna potestà al mondo è in grado di creare il diritto […]. Il diritto va – questo sì – inventato, nel senso del latino, invenire, ossia trovare; va cercato e trovato nelle trame dell’esperienza, sia quando la regola manca, sia quando la regola troppo vecchia o troppo generica non si presta a ordinare i fatti […]. Rechtsfindung insegnava una risalente dottrina tedesca […] ». Sul binomio, cfr. anche E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/scoprire-o-creare-il-diritto_a-proposito-di-un-recente-libro_07-11-2017.php
[59] Sir W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, Oxford, (1765 – 1790).
[60] J. P. Dawson, The Oracles of the Law, Ann Arbor, 1968.
[61] G. Zaccaria, Crisi della fattispecie, crucialità del caso, concetto di legalità, in Ars Interpretandi, 2019, 7 e seg., in continuità con il dibattito aperto da N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc., 2014, 41 e seg.
[62] Così S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2002, 5; R. Pardolesi – G. Pino, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività del legislatore, in Foro It., 2017, V, 113 distinguono, a proposito di quanto detto nel testo, tra “creatività in senso semantico” o “interpretativo” (cioè istantanea) e “in senso pragmatico” (come fonte del diritto).
[63] J. Gardner, Some Types of Law, in Id., Law as a Leap of Faith, cit., 74.
[64] S. Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giudiziale, in Riv. Dir. Proc., 2001, 614 e seg.
[65] Cass. Sez. Un., 26 gennaio 1971, n. 174.
[66] Cass. Sez. Un, 22 luglio 1999 n° 500.
[67] Cass., 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827.
[68] Cass. 7 giugno 2011, n. 12408.
[69] Ed è questa constatazione che mi porta a dire che il giudice è bene che abbia occasioni di pronunciarsi, e che quindi le tendenze contemporanee verso la “privatizzazione” della giustizia civile rappresentino qualcosa di assai problematico; sul punto mi permetto di rinviare a C.V. Giabardo, Private Law in the Age of the Vanishing Trial, in K. Barker, K. Fairweather, R. Gratham, Private Law in the 21st Century, Oxford (Hart), 2017, 547 e seg.; più di recente, Id., Private Justice: The Privatisation of Dispute Resolution and the Crisis of Law, in Wolverhampton Law Journal, 2020, 14 e seg.
[70] Cass. Sez. Un. 6 maggio 2019, n. 11747; v. E. Scoditti, Responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato?, in Questione Giustizia, 2018, https://www.questionegiustizia.it/articolo/responsabilita-civile-del-magistrato-per-inosservanza-di-orientamento-giurisprudenziale-consolidato-_10-12-2018.php
[71] C. Consolo, Dal filtro in Cassazione ad un temperato «stare decisis»: la prima ordinanza sull’art. 360-bis, in Corr. giuridico, 2010, 1045.
[72] Si vedano, per tutti, le considerazioni di G. Verde, Mutamento di giurisprudenza e affidamento incolpevole (considerazioni sul difficile rapporto fra giudice e legge), in Riv. Dir. Proc., 2009, 6 e seg.
[73] V. le considerazioni, anche sulle diverse ideologie che ispirano (fisiologicamente?) la magistratura e l’avvocatura, di S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza, cit., spec. 8 e seg.
[74] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, già in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1955, 252 e seg., ora ristampato in Id., Opere giuridiche, Vol. I, Problemi generali del diritto e del processo, Roma Tre, 2019, 598, 610.
[75] P. Grossi, A proposito de ‘il diritto giurisprudenziale’, cit., 4.