Lavoro e Diritti sociali
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Le diverse stagioni dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: dal paradigma della reintegrazione al disincanto della tutela economica. Quasi un racconto

Le diverse stagioni dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: dal paradigma della reintegrazione al disincanto della tutela economica. Quasi un racconto

Recensione di Vincenzo Antonio Poso a Giovanni Amoroso 

1. Il libro di Giovanni Amoroso (ARTICOLO 18 STATUTO DEI LARORATORI. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci Editore, Bari, 2022), pubblicato nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, ci consente di ripercorrere le tappe fondamentali, anche delle politiche sociali ed economiche del nostro paese, della norma più amata e più contestata del nostro diritto del lavoro, guidati, come in un inedito viaggio sentimentale, da un osservatore non fazioso, studioso e magistrato rigoroso, ora giudice costituzionale.

Ma parlare, con riferimento al libro recensito,  solo di articolo 18 è riduttivo, perché l’Autore, con la filigrana di questa norma, ha scritto un piccolo “trattato” sulle tutele dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, diverse nel tempo, un tempo lungo oltre cinquant’anni,   e nelle situazioni date, che il nostro legislatore ha costruito, talvolta con evidenti compromessi e sbavature, non sempre nel rispetto della grammatica costituzionale ( artt. 3, 4 e 35) ed europea ( art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 24 della Carta sociale europea).

Mai come in questo caso, torna molto utile leggere il libro dalla fine, dalla « Nota conclusiva » ( pagg. 299 e ss.), dove l’Autore individua tra i punti fermi, oltre al principio della «necessaria causalità del licenziamento che, salvo le residuali ipotesi di libera recedibilità  ad nutum, deve essere assistito da giusta causa o giustificato motivo, soggettivo o oggettivo» ( da cui consegue la giustiziabilità delle ragioni del licenziamento), la « “reintegrazione” nel posto di lavoro  del dipendente illegittimamente licenziato quale fattispecie tipica e paradigma speciale delle conseguenze dell’inefficacia o dell’invalidità dell’atto datoriale di recesso», nonostante la ridotta area di applicazione della c.d. tutela reale e la differenziazione, per presupposti e caratteristiche, delle tutele.

Mentre molti studiosi si attardano a individuare il “peccato originale” dell’articolo 18, Giovanni Amoroso, senza enfasi, ma con una chiara opzione interpretativa, che si percepisce sin dalla ricostruzione del contesto storico e politico-sociale in cui è nato lo Statuto dei Lavoratori ( cap. I, pagg. 19 e ss.), riconosce nell’articolo 18 degli anni ’70 e nella tutela reale dallo stesso delineata l’archetipo iniziale dal quale non si può prescindere, nonostante il ridimensionamento della sua applicazione  dopo la c.d. riforma Fornero e il Jobs Act, in una linea di continuità della legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo che ha sostanzialmente retto negli anni,  dichiarando ( come del resto ha fatto in più occasioni la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022), in chiusura del volume (pag. 304) « che  c’è ormai una ( non più procrastinabile) esigenza  di coerenza intrinseca, che chiama il legislatore a rivedere la disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi, in termini globali per assicurare organicità e sistematicità della regolamentazione».

Corsi e ricorsi storici.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 27 gennaio 1958, n. 7, dichiarando non fondata la q. l. c. di una legge della regione siciliana che, in contrasto con la norma statale dell’art. 2118 cod. civ., aveva previsto la stabilità dell’impiego in caso di licenziamento illegittimo  dei dipendenti delle esattorie comunali, aveva affermato, con un monito al legislatore rimasto senza risposta per molti anni,  la tendenziale estensione del principio della stabilità del rapporto di pubblico impiego anche ai dipendenti privati il cui  licenziamento doveva essere giustificato e non arbitrario.

Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza  9 giugno 1965, n. 45 ( sempre richiamata dalla giurisprudenza costituzionale, anche recente),pur dichiarando non fondata la q. l .c. dell’art. 2118 cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 4, Cost, riconobbe   il diritto al lavoro come «  fondamentale diritto di libertà della persona umana », invocando l’intervento del legislatore per tutelare i lavoratori incisi da illegittimi licenziamenti, così aprendo la strada alla l. 15 luglio 1966, n. 604.                       

Con la sentenza 20 novembre 1969, n. 143 ( specificamente richiamata dalla  sentenza della Corte di Cassazione 6 settembre 2022, n. 26246 – confermata dalla recente pronuncia 20 ottobre 2022, n. 30957 -   che, a seguito delle riforme in materia di licenziamento del 2012 e del 2015,  ha affermato il principio della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi solo a far data dalla cessazione del rapporto), la Corte Costituzionale ha evocato la  «particolare forza di resistenza » del  pubblico impiego, che assicura normalmente la continuità del rapporto di lavoro.

Sono, queste, solo alcune delle pronunce della Consulta, che l’Autore prende in considerazione, per descrivere, insieme alle leggi precedenti, il contesto in cui nasce, nell’epoca delle grandi riforme - quelle possibili – nel periodo che va dalla seconda metà degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70  (che vide in Gino Giugni la mano ferma dello scultore, in una stagione politica favorevole), la l. 20 maggio 1970 e l’art. 18 che disciplinava la reintegrazione nel posto di lavoro e l’integrale risarcimento del danno in conseguenza di un illegittimo licenziamento (cap. I, pagg. 33 e ss.).

Particolarmente significative sono le pagine (cap. I, pagg. 36 e ss.)  che Giovanni Amoroso dedica alla portata innovativa dell’art. 18, st. lav., che fa «sistema» con la disciplina introdotta dalla l. n. 604/1966 (lo dice anche la Corte Costituzionale nella sentenza 12 dicembre 1972, n. 174, che riconobbe alla stabilità reale dello statuto dei lavoratori la forza di resistenza  tipica del regime di pubblico impiego, tale da consentire la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei dipendenti privati in costanza di rapporto), alla natura dell’ordine di reintegrazione ma anche alla garanzia del diritto al lavoro e alla non indefettibilità, sul piano costituzionale, del regime della reintegrazione, in base agli apporti della giurisprudenza costituzionale ( v., tra le tante, le sentenze n. 46 del 7 febbraio 2000; n. 303 dell’11 novembre 2011; n. 194 dell’8 novembre 2018; n. 125 del 19 maggio 2022).

Con riferimento specifico a quest’ultimo profilo, l’Autore certamente riconosce che la reintegrazione non costituisce l’unico paradigma attuativo dei principi e dei valori costituzionali, ma per un corretto bilanciamento degli stessi deve essere realizzato un equilibrato sistema che assicuri tutele adeguate ai lavoratori illegittimamente licenziati e dissuasive della commissione di atti illeciti o comunque illegittimi da parte dei datori di lavoro. 

2. La prima fase di applicazione dell’art. 18, sino alla fine degli anni ’80, viene analizzata (cap. II, pagg. 45 e ss.) sulla base dei significativi arresti delle Sezioni Unite che hanno disegnato il perimetro della tutela reintegratoria, in chiave estensiva,  con riferimento al limite dimensionale dell’azienda ( prevalenza del criterio dimensionale dell’unità produttiva, senza dare rilievo anche al concorrente criterio dell’organico complessivo oltre i 35 dipendenti: interpretazione non conforme al dato testuale delle norme, che però anche l’Autore condivide per l’impatto sociale della tutela); e, soprattutto  per gli apporti della giurisprudenza costituzionale,  sempre in chiave estensiva ( con interpretazione adeguatrice al canone costituzionale dell’eguaglianza ), con riferimento all’applicazione della tutela reintegratoria in ogni caso di licenziamento illegittimo ( pur nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi).

La specialità del vizio del licenziamento arretra di fronte al regime delle tutele, generalizzate; mentre è la differenziazione delle tutele la cifra identificativa delle riforme del 2012 e del 2015.

Non mancano approfonditi riferimenti alle problematiche riguardanti l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione (che rappresentava il banco di prova della effettività della tutela apprestata dalla norma statutaria); l’autonomia della tutela risarcitoria (che si affianca, senza sostituirla, alla tutela reintegratoria); la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto (ma solo in ragione della sua stabilità reale). 

3. Le cinque iniziative referendarie, dal 1981 al 2017, che dimostrano l’interesse suscitato dall’art. 18 - sia per l’estensione della sua applicazione, che per la sua abrogazione - sono rimaste tutte senza esito, tranne quella del 1989 che porterà il legislatore a recepire le modifiche proposte con i quesiti referendari adottando, con una forte accelerazione dei lavori parlamentari, la l.   11 maggio 1990, n. 108, così impedendo la consultazione popolare.

L’Autore, che  affronta tutti questi temi nel cap. III, pagg. 71 e ss. ( esaminando anche alcuni aspetti tecnici del referendum e delle sentenze in punto di ammissibilità pronunciate dalla Corte Costituzionale), mette bene in evidenza che la tutela reintegratoria fu ampliata in maniera significativa dalla l. n. 108/1990, con una impronta di complessiva razionalizzazione del sistema – coniugando il limite dimensionale complessivo dell’azienda con le minime unità produttive – anche se l’obiettivo del Comitato promotore era molto più ambizioso, perché mirava ad imporre una generalizzazione della tutela statutaria ( in questa stessa direzione, peraltro, si era mossa la precedente iniziativa referendaria del 1981, relativa a  tre diverse norme – art. 28, comma primo; art. 35, comma primo; art. 37  – che però fu bocciata dalla Corte Costituzionale non essendo omogeneo il quesito proposto).

Le vicende che contrapposero il Comitato promotore del referendum all’Ufficio Centrale per il  referendum presso la Corte di Cassazione ( che videro, anche, dopo la seconda decisione negativa, un inedito conflitto di attribuzione  tra poteri dello Stato, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale)  dimostrano quanto fosse rilevante la questione che avrebbe potuto portare – e l’Autore (pagg. 81-82)  sembra propendere per questa soluzione  – l’organo centrale per il referendum a spostare sulle nuove disposizioni normative il quesito referendario, in applicazione dell’art. 39, l. 25 maggio 1970, n. 352.

In un mutato contesto politico - e in controtendenza rispetto al passato -, si inserisce l’iniziativa referendaria del 1999 per l’abrogazione tout court dell’art. 18, disattesa dall’elettorato l’anno successivo. In questo caso Giovanni Amoroso (pagg. 83 e ss.) si dilunga sulla sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 46, che affermò con nettezza che la garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione può essere attuata anche con strumenti diversi dalla reintegrazione, secondo una scelta affidata alla discrezionalità del legislatore.

Resta indefettibile, quindi, anche per l’Autore (pagg. 84-85) il controllo giurisdizionale delle ragioni del licenziamento e la tutela indennitaria od obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, quale «nucleo costituzionalmente irrinunciabile» della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato.

Tralasciando, qui, l’esame del referendum del 2002, diretto, nuovamente, ad ampliare l’area di applicazione dell’art. 18, Giovanni Amoroso prende più diffusamente in considerazione l’iniziativa referendaria del 2016 per contrastare gli effetti della riforma c.d. Fornero, con riferimento all’art. 18 novellato, utilizzando la tecnica del ritaglio e dell’intero Jobs Act (pagg. 87 e ss.), entrando nel merito della sentenza 27 gennaio 2017, n. 26 ( condivisa dall’Autore, pagg. 87 e ss.) che si era pronunciata per l’inammissibilità del quesito referendario che da una parte manifestava un carattere parzialmente propositivo ( con riferimento alla riforma del 2012), che contraddiceva la funzione meramente abrogativa affidata dal legislatore all’istituto di democrazia diretta; e dall’altra difettava dei necessari requisiti di univocità e omogeneità.

In buona sostanza, come scrive Giovanni Amoroso (pag. 91): «La saldatura in un unico quesito ha comportato l’inammissibilità della complessiva richiesta referendaria».  

4. Nella trattazione della seconda fase, dal 1990 al 2012 (cap. IV, pagg. 93 e ss.) l’Autore descrive puntualmente le novità introdotte dalla l. n. 108/1990, che, con la riscrittura dell’art. 18, ha comportato una più ampia applicabilità della tutela reale, ma ha anche riformulato il testo dell’art. 8, l. n. 604/1966, nei termini che conosciamo.

Come abbiamo già detto, l’intervento del legislatore ha evitato lo svolgimento dell’iniziativa referendaria del 1989.

Gli aspetti rilevanti in questa fase, secondo l’Autore, sono tre.

Innanzitutto, una chiara affermazione, a partire dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 12 aprile 1976, n. 1268, degli oneri probatori delle parti con riferimento al requisito dimensionale del datore di lavoro, rilevante anche ai fini della sospensione della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro caratterizzati dalla stabilità reale, nei termini descritti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972; con una  successiva presa di posizione  sempre delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 4 marzo 1988, n. 2249, che ha posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale  per l’applicazione del regime di tutela reale che consentiva la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, comunque restando a carico del lavoratore l’onere della prova dello stesso requisito ai fini della invocata tutela reintegratoria ( o dello stesso datore di lavoro, per escluderla).

Sta di fatto, però, che con le modifiche apportate dalla l. n. 108/1990, che avevano comportato anche una generalizzata tutela obbligatoria, sganciata dai requisiti dimensionali, il problema della ripartizione dell’onere della prova, che sembra sopito, si ripropone, con contrastanti opzioni interpretative assunte dalla Sezione Lavoro della Cassazione, che, con la pronuncia a Sezioni Unite 10 gennaio 2006, n. 141, ha riportato l’onere della prova del requisito dimensionale in capo al datore di lavoro - richiamando anche il principio della c.d. vicinanza della prova – affermando un principio di civiltà giuridica ribadito anche in successive pronunce.

L’Autore spiega bene il cambio di passo della giurisprudenza di legittimità (pag. 102): «Il risultato complessivo è stato quello di costruire la tutela reale come fattispecie generale, seppur condizionata alla ricorrenza del requisito dimensionale, e invece la tutela obbligatoria, come fattispecie speciale, applicabile come eccezione alla regola».

Il secondo profilo rilevante della riforma è l’unificazione, in chiave risarcitoria, del regime delle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, dall’intimazione del licenziamento alla effettiva reintegrazione.

Il terzo profilo rilevante è rappresentato dalla indennità sostitutiva della reintegrazione., che giustamente l’Autore considera una novità assoluta, che ha trovato, peraltro, il giudizio positivo del legislatore anche dopo le riforme del 2012 e del 2015 (con piccole differenze, relative, essenzialmente, alla base di calcolo), che viene a qualificarsi come istituto di natura sostanziale e processuale.

Questa previsione, però, dimostra, ad avviso di chi scrive, lo scivolamento della tutela reale verso quella meramente indennitaria, compensativa e risarcitoria, con la previsione di un “prezzo”, uniforme, della reintegrazione.

Nel perimetro disegnato, dopo  la sentenza della Corte Costituzionale  4 marzo 1992, n. 81, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 27 agosto 2014, n. 18353, l’Autore si dimostra favorevole alla monetizzazione della reintegrazione, risultando, comunque, del tutto evidente l’incoerenza del regime delineato dal legislatore con la costruzione dell’indennità sostitutiva, da parte della Corte Costituzionale, come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, venendosi così a creare incertezza nella posizione del datore di lavoro, condizionato dalla scelta del lavoratore. È la richiesta della indennità sostitutiva che determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

L’Autore individua, anche, un problema, che potrebbe essere affrontato e risolto (in termini di ragionevolezza intrinseca ma anche di violazione del principio di eguaglianza) dalla Corte Costituzionale, perché, dopo la sua pronuncia n. 194 dell’8 novembre 2018, l’indennità compensativa del licenziamento ingiustificato in regime di Jobs Act è di importo pari, nella misura massima di 36 mensilità, ad oltre il doppio dell’indennità sostitutiva della reintegrazione. 

5. Nella trattazione dei licenziamenti è la terza fase relativa alla c.d. riforma Fornero, introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che assume importanza fondamentale, anche per l’attualità della norma rivisitata (cap. V, pagg. 113 e ss.), ormai applicata da un decennio.

La considerazione iniziale dell’Autore (pagg. 114 e ss.), che pone l’esordio di questa nuova fase nella l. 4 novembre 2010, n. 183, c.d. collegato lavoro (art. 30: limitazione della discrezionalità del giudice nella valutazione delle motivazioni dei licenziamenti: art. 31: agevolazione delle soluzioni conciliative e di arbitrato; art. 32: restrizione dei tempi di impugnazione dei licenziamenti) è del tutto lineare e condivisibile.

È una riforma, quella del 2012, che nasce prima – nelle intenzioni dei riformatori, dentro e fuori il Parlamento – del Governo Monti.

Meno condivisibile è la tesi dell’Autore che, seppure non espressamente così esplicitata, considera le due riforme del 2012 e del 2015 facce della stessa medaglia (pagg. 116 e ss.), perché esse, ad avviso di chi scrive, sono ispirate da diverse e non convergenti intenzioni del legislatore: non foss’altro perché con il Jobs Act si mette fine all’applicazione dell’art. 18 per come lo abbiamo conosciuto (anche se qualcosa della vecchia norma resta).

L’archetipo dell’art. 18 abbandona il suo ruolo (anche se non è del tutto rinnegato) di istituto normativo storicamente posto a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati e lascia il posto ad una diversa disciplina, che rompe con il passato, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. È il tempo che marca due tutele differenti.

Certamente, come scrive Giovanni Amoroso, resta confermato il principio del recesso causale, che marginalizza la libera recedibilità ad nutum, in base a quanto stabilito dalla l. n. 604/1966, che pone i presupposti del licenziamento giustificato e non arbitrario, rafforzati dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 24 della Carta sociale europea.

Con la c.d. riforma Fornero l’unitaria previsione della reintegrazione ( termine che scompare anche nella rubrica del novellato art. 18 a favore della  «Tutela  del lavoratore in caso di licenziamento»,  con una scelta lessicale che è la   dimostrazione plastica della rilevante modifica sostanziale apportata) lascia il posto alla frammentazione delle tutele ( pagg. 120  e ss.); quattro distinti regimi – due di tutela reintegratoria e due di tutela indennitaria –  senza una netta linea di demarcazione tra di loro, che secondo l’Autore rappresenta il vizio di origine di questa disciplina, tanto complessa, quanto ( inutilmente) complicata, perseguendo il legislatore della riforma il fine, nemmeno tanto celato, di rendere meno stabile il rapporto di lavoro in alcuni casi di licenziamento illegittimo, per rendere definitive ( ma non insindacabili)  le scelte datoriali di risoluzione del rapporto di lavoro.

In controtendenza con quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze  n. 26246/2022 e n. 30957/2022, più sopra citate,  l’Autore ( riprendendo un discorso svolto anche nelle pagine precedenti) propende per la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto, anche in caso di applicazione dell’art. 18 novellato, che, seppure nella forma attenuata, prevede in alcune ipotesi ( ma non in tutte) la reintegrazione, restando relegata la diversa soluzione solo all’area della tutela obbligatoria e della  libera recedibilità ( pagg. 129-130).

Tralasciando, in questa sede, l’esame della questione ( con i tanti problemi, non tutti risolti) del rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, messo da parte prima dal legislatore del Jobs Act e poi dalla recente riforma del processo civile, si passa alle specifiche tutele sostanziali, che l’Autore analizza puntualmente secondo lo schema differenziato e frammentato che prima abbiamo messo in evidenza: «tutela piena reintegratoria» ( pagg. 132 e ss.), «tutela reintegratoria attenuata» ( pagg. 139 e ss.), «tutela indennitaria attenuata» ( pagg. 146 e ss.), «tutela indennitaria ridotta» ( pagg. 149 e ss.).

Su questi temi, solo alcune  brevi osservazioni di lettura.

Per quanto riguarda le tutele reintegratorie, l’Autore, mentre vede una netta linea di demarcazione tra il licenziamento nullo o inefficace  per difetto di forma scritta nella sua comunicazione e licenziamento ingiustificato, individua ( pag. 135)  «un punto di  criticità essenzialmente nella contiguità tra il licenziamento nullo perché discriminatorio e il licenziamento ( disciplinare) annullabile per insussistenza del fatto  contestato o per tipizzata non proporzionalità dell’addebito»  con la conseguenza che: «Quando è radicalmente insussistente la ragione posta dal datore  di lavoro a fondamento del licenziamento disciplinare , o per colpa, il recesso datoriale si avvicina, come fattispecie, a quello qualificabile come discriminatorio».

Nella  «tutela reintegratoria attenuata» di cui al quarto comma dell’art. 18, secondo l’Autore, lo scostamento dalla tutela reintegratoria piena è segnato dal fatto che l’indennità risarcitoria  consegue non più all’ “ordine di reintegrazione” ( come nel primo comma), ma alla “condanna alla reintegrazione” ( pag. 139); mentre la limitazione dell’indennità risarcitoria per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale si pone in controtendenza rispetto al precetto dell’art. 614- bis cod. proc. civ., che prevede misure di coercizione indiretta in caso di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro (pag. 141): rappresentando, comunque, questo limite una criticità perché «non dà rilevanza al protrarsi dell’inottemperanza del datore di lavoro alla condanna alla reintegrazione e, prima ancora, alla durata del giudizio, che potrebbe, esso solo, superare i dodici mesi» (sempre pag. 141).

È nelle ipotesi della tutela indennitaria ordinaria di cui al quinto comma dell’art. 18 (pagg. 146 e ss.) e della tutela indennitaria ridotta di cui al successivo sesto comma (pagg. 149 e ss.) che si riscontra il vero cambio di passo del legislatore della riforma del 2012  che riporta, nei confini della vecchia norma novellata, la tutela obbligatoria, sebbene con presupposti e limiti diversi rispetto a quella disciplinata dall’art. 8, l. n. 604/1966.

Sull’indennità risarcitoria, ma omnicomprensiva (quindi compensativa di ogni danno?)  traspare l’opinione dell’Autore favorevole alla  limitazione solo al danno patrimoniale, potendo non essere ricompresi anche i danni ulteriori di natura non patrimoniale (biologico, morale, all’immagine), che resterebbero risarcibili secondo i criteri ordinari, dando comunque conto dell’orientamento interpretativo restrittivo, anche recente, della Corte di Cassazione (pag. 148).

L’insussistenza del fatto contestato nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo (pagg. 152 e ss.) si deve misurare con l’osservazione, non di poco conto, dell’Autore secondo la quale «l’inadempimento – e con esso l’illiceità – sussiste sia se di “scarsa importanza” (art. 1455 c.c.), sia se, superata questa soglia, sia “notevole” (art. 3 legge n. 604/66)» (pag. 156).

Non meno problematica è l’ipotesi dell’insussistenza del fatto ( non più manifesta, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59)  posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ( pagg. 157 e s..), che l’Autore correttamente riferisce, nei presupposti non solo materiali, ma anche giuridici,  alla previsione dell’art. 3, l. n. 604/1966, considerando, comunque,  la mancanza  di un nesso causale tra recesso datoriale e   motivo addotto a suo fondamento  sussumibile nella nozione di insussistenza del fatto.

Degna di segnalazione è l’osservazione ( da chi scrive condivisa) secondo la quale, dopo che l’insussistenza del fatto è stata depurata dalla sua natura manifesta, nella cui nozione si faceva rientrare anche il mancato assolvimento dell’onere del repêchage, questo orientamento interpretativo deve essere ripensato:  «In realtà – scrive l’Autore –  il repêchage  viene in rilievo solo dopo che si sia esclusa la fattispecie dell’insussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; quindi sembra essere esterno alla fattispecie stessa. Conseguentemente, una volta verificata la sussistenza di un fatto idoneo nel senso sopra specificato, il mancato assolvimento dell’onere probatorio del repêchage rende applicabile la tutela indennitaria e non già quella reintegratoria» (pagg.158-159).

Su questo punto l’Autore ritorna anche successivamente, a pag. 274, quando prende in esame, specificamente, la giurisprudenza costituzionale.

Acquisita come autonoma (per gli approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) la fattispecie del licenziamento disciplinare, Giovanni Amoroso passa ad esaminarla (pagg. 161 e ss.), con dovizia di particolari (anche con riferimento al preventivo procedimento disciplinare), differenziandosi le tutele nei diversi casi di vizi sostanziali e vizi formali o procedurali.

L’Autore non sembra esprimere riserve sulla coerenza sistematica delle fattispecie che si riferiscono ai vizi sostanziali del licenziamento disciplinare (insussistenza del fatto contestato e previsione di condotte punibili per contratto collettivo o codice disciplinare con una sanzione conservativa), ritenuto, peraltro, positivamente recuperato il canone di proporzionalità tra inadempimento e sanzione.

 Viene, in proposito, espressa, seppure indirettamente, adesione al recente orientamento interpretativo dei giudici di legittimità (Cass. n. 11 aprile 2022, n. 11665), che, proprio sul versante della proporzionalità, hanno affermato, in controtendenza rispetto a precedenti decisioni, che il giudice può procedere alla sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale della punizione con sanzione conservativa, anche nel caso di clausole elastiche o generali (pag. 170).

Una decisione, quella della Cassazione, discutibile, a parere di chi scrive, perché ci riporta al passato, senza tenere in debito conto la norma espressa e le intenzioni del legislatore che hanno valorizzato il perimetro di applicazione delle sanzioni conservative; e comunque impone alle parti sociali di procedere con maggiore accortezza e consapevolezza alla tipizzazione delle fattispecie disciplinari.

La frammentazione delle tutele si ripercuote anche sui licenziamenti collettivi illegittimi (pagg.183-184), che in questa sede non posiamo specificamente analizzare. 

6. Alla riforma introdotta dal Jobs Act del 2015 (d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), modificato, in parte, dal c.d. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv., con mod., dalla l. 9 agosto 2018, n. 96) è dedicato il capitolo VI (pagg. 185 e ss.).

Qui Giovanni Amoroso conferma la sua tesi, esposta anche nelle pagine precedenti, secondo cui, nonostante la disciplina derogatoria introdotta dal legislatore del 2015, non c’è una effettiva fuga dall’art. 18, anche se la nuova disciplina si affianca a quella precedente, dell’art. 18 novellato dalla c.d. riforma Fornero, applicandosi solo ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.

Apprezzabile è la ricostruzione da parte dell’Autore del complessivo contesto riformatore in diretta applicazione delle deleghe poste con la l. 10 dicembre 2014, n. 183 (pagg. 188 e ss.).

Resta confermata la tutela differenziata nei quattro regimi, due reintegratori e due indennitari, secondo lo schema legislativo precedente, ma con alcune differenze che l’Autore mette bene in evidenza (pagg. 199 e ss.).

Solo alcune osservazioni.

Il riferimento all’art. 15, st. lav. (e non anche all’art. 3, l. n. 108/1990), caratterizza il licenziamento discriminatorio, per il quale vale la tutela reintegratoria piena. 

In controtendenza con la precedente disciplina, che prevede la reintegrazione attenuata, è piena la tutela reintegratoria del lavoratore licenziato senza giustificazione per motivo di disabilità.

Nel perimetro della tutela solo indennitaria rientrano i licenziamenti economici, individuali o collettivi; mentre all’insussistenza del fatto materiale del licenziamento disciplinare consegue la reintegrazione attenuata (v., sul punto, pagg. 207 e ss.).

Per la tutela indennitaria è assorbente il richiamo delle c.d. tutele crescenti, con l’intervento demolitorio della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 e l’incremento della soglia minima e massima, da sei a trentasei mensilità, introdotto dal c.d. decreto dignità. 

7. Degno di interesse è il Cap. VII che affronta il delicato tema della reintegrazione nell’impiego pubblico privatizzato (pagg. 217 e ss.), da ultimo prevista dalla c.d. riforma Madia del 2017 (pagg. 224 e ss.), a superamento della incerta applicazione dell’art. 18, st. lav., nel testo precedente alla c.d. riforma Fornero.

La disciplina speciale per i dipendenti pubblici, che assicura maggiore certezza per le conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, accentua, secondo l’Autore, la sensibile divaricazione rispetto al regime applicabile ai dipendenti privati (pagg. 228 e 229), essendo applicabile solo ai primi la stabilità reale assicurata dall’art. 18 anteriforma, sebbene mediante la previsione di una specifica norma che riprende il contenuto di quella statutaria ( art. 63, comma 2, d. lgs 30 marzo 2001, n. 165, così come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), d. lgs. n. 75 del 25 maggio 2017).

A fondamento di questa differenziazione di trattamento, che l’Autore condivide (anche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che da ultimo ha affrontato queste tematiche: v., ad es.,  le sentenze 30 luglio 2021, n. 180 e 3 ottobre 2019, n. 218), c’è il principio del buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97, comma 2, Cost., che,  finalizzando ad esso l’attività del pubblico dipendente, lo tutela maggiormente in caso di licenziamento illegittimo.

Ma è sufficiente, il suddetto principio, a giustificare questa disparità di trattamento, che sembra contraddire anche le finalità perseguite dal legislatore che ha posto le basi della privatizzazione del lavoro pubblico, in aderenza alle norme che regolano il lavoro dei dipendenti privati espressamente richiamate?

È un punto di domanda che forse la Corte Costituzionale, se chiamata a decidere, potrebbe sciogliere, se non il legislatore. 

8. Nel cap. VIII (pagg. 231 e ss.), l’Autore, da par suo, propone ai lettori un completo quadro della più recente giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata sui licenziamenti dal 2018 al 2022, che, con alcune sentenze storiche, conseguenti alla c.d. riforma Fornero e al Jobs Act, hanno aumentato le tutele dei lavoratori licenziati senza giustificazione, entrando anche nel merito della ragionevolezza, in termini di coerenza del legislatore degli ultimi dieci anni.

Il problema non riguarda solo l’alternativa tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria (significativamente valorizzata (soprattutto) dal d. lgs. n. 23/2015, ma anche come il legislatore è intervenuto sulla tutela indennitaria.

È il caso della sentenza 8 novembre 2018, n. 194 ( pagg. 233 e ss.), che ha severamente criticato, dichiarandolo illegittimo, il rigido criterio automatico, basato sull’anzianità di servizio, di determinazione della indennità risarcitoria previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 ( anche nel testo migliorativo, per i limiti minimo e massimo, introdotto dal c. d. decreto dignità del 2018 a partire però, dalla data del 14 luglio 2018),  posto a fondamento delle c. d. tutele crescenti, che comportava l’applicazione di una misura inadeguata e non dissuasiva del licenziamento illegittimo.

 Si riespande, quindi, nella sua massima discrezionalità, il potere di valutazione della fattispecie del licenziamento e di determinazione dell’indennità compensativa da parte del giudice, privo di limiti quantitativi, fermi restando quello minimo e quello massimo (anche con riferimento ai lavoratori di considerevole anzianità di servizio).

Come è noto sono stati disattesi altri profili di illegittimità costituzionale per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, che in questa sede non possiamo prendere in considerazione.

L’Autore dimostra condivisione rispetto alla pronuncia costituzionale (con il richiamo  dei criteri di cui agli articoli: 8, l. n. 604/1966, testo vigente e precedente; 30, comma 3, l. n. 183/2010; 18, c.5, st. lav., testo vigente), evocando il principio della personalizzazione del danno, ed esprimendo questo principio che , in sintesi, rappresenta bene la sua opinione : «L’incidenza multifattoriale  sull’indennità risarcitoria  costituisce, del resto, una costante della normativa di settore, avendo il legislatore sempre valorizzato la molteplicità dei parametri che rilevano al fine della determinazione dell’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente della misura del risarcimento».

Tra i parametri della normativa sovranazionale interposti trova rilievo solo l’art. 24 della Carta sociale europea (che, al primo comma, lettera b), prevede una tutela in termini di congruo indennizzo o altra adeguata riparazione), nel testo riveduto nel 1996 regolarmente ratificato dall’Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30, non essendo, comunque, configurabile, secondo l’Autore, una “fattispecie europea” del licenziamento individuale ingiustificato.

Con riferimento allo ius superveniens del 2018, la Corte avrebbe potuto emettere una pronuncia di illegittimità costituzionale conseguenziale; cosa che non ha fatto, accomunando, invece, nello stesso dispositivo, sia la norma direttamente applicabile nel giudizio a quo, sia quella sopravvenuta ad esso non applicabile, ritenendo rilevante il criterio di determinazione dell’indennità compensativa e non la sua diversa quantificazione nei limiti minimo e massimo.

A questa sentenza è conseguente la simmetrica  sentenza n. 150 del 16 luglio 2020 relativa alle conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo per vizi formali e procedurali ( pagg. 247 e ss.) con riferimento all’art. 4, d.lgs. n. 23/2015, venendo meno, anche in questo caso, il rigido criterio dell’anzianità di servizio nella determinazione dell’indennità risarcitoria, che, tra il limite minimo di due mensilità e quello massimo di dodici mensilità, sarà quantificata dal giudice con ampia discrezionalità.

L’analisi di questa sentenza è l’occasione per Giovanni Amoroso di esaminare, in maniera approfondita, il perimetro dei vizi formali e procedurali incisi dalle riforme del 2012 e del 2015, optando per la costruzione di una fattispecie di licenziamento inefficace solo con riferimento alla mancanza di forma scritta nella sua comunicazione.

Mette bene in luce, l’Autore, il cambio di passo della legislazione delle ultime riforme che fa arretrare  la rilevanza della violazione delle regole formali e procedurali rispetto ai vizi di sostanza, che comportano, comunque la risoluzione del rapporto di lavoro e chiarisce che la Corte, nel rispetto della q. l. c. sollevata dai giudici rimettenti, si è limitata a dichiara incostituzionale il criterio automatico dell’anzianità di servizio, senza potersi pronunciare sulle disparità del trattamento sanzionatorio  conseguente ai vizi di forma e di sostanza.

Resta il carattere meramente residuale dell’indennità compensativa stabilita dal legislatore delle due riforme in questi casi.

Emerge, già in questa sentenza, il monito “ordinario” al legislatore a ricomporre, in maniera sistematica, le discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari, che troviamo ripetuto – con maggiore forza, in forma “pressante” - nella recente sentenza n. 183 del  22 luglio 2022 ( pagg. 257 e ss.), che abbiamo già richiamato nelle pagine precedenti,  analizzata anche con una precisa ricostruzione della tutela, meramente indennitaria, a fronte dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.

Oggetto di critica da parte del giudice rimettente è il limite massimo di sei mensilità dell’indennità risarcitoria, che riduce in maniera sensibile l’efficacia dissuasiva della sanzione, rendendo la tutela del tutto inadeguata, anche alla luce delle due precedenti pronunce della Corte Costituzionale che ha rimesso al legislatore la regolamentazione sistematica della materia, preannunciando, in difetto, un intervento additivo ( ma senza dettare, come in altre occasioni è stato fatto, un tempo per poter legiferare).

Con riferimento alla tutela reintegratoria, la prima sentenza costituzionale è la n. 59 del 1° aprile 2021 (pagg. 263 e ss., e, più specificamente, pagg. 268 e ss.) che ha reso dovuta e non discrezionale la reintegrazione in caso di accertata “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 18, comma 7, st. lav.), con un dispositivo additivo di tipo sostitutivo.

Dei diversi profili di illegittimità rilevati dalla Corte Costituzionale, l’Autore individua, correttamente, l’intrinseca irragionevolezza della disposizione normativa censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, che, richiamando il criterio dell’eccessiva onerosità, di fatto ha comportato l’arretramento della tutela da reintegratoria attenuata a indennitaria, come tale inferiore e non certo equivalente rispetto alla prima. Scrive l’Autore (pag. 270): «La predicata riduzione di tutela del lavoratore non può dipendere da fattori contingenti o comunque determinati da scelte del datore di lavoro, responsabile dell’illecito, ossia di un licenziamento pretestuoso per essere (manifestamente) insussistente il fatto su cui si fonda».

L’Autore non fa velo che la discrezionalità di valutazione  attribuita al giudice del caso concreto da questa sentenza contraddice con il pronunciato delle due precedenti sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020; e tuttavia si tratta di una contraddizione solo apparente perché nei due precedenti casi  «si trattava di riequilibrare il quantum dell’indennità al diverso e mai uniforme disvalore del licenziamento», mentre nel caso del licenziamento economico «la discrezionalità del giudice è priva di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento e guarda invece a scelte dello stesso datore di lavoro, autore dell’illecito, o a fattori contingenti» (pag. 271).

Conseguente a questa sentenza è la successiva pronuncia n. 125 del 19 maggio 2022 (derivata da una seconda, successiva, q. l. c. sollevata dal medesimo giudice rimettente, con una singolarità del caso, bene stigmatizzata dall’Autore), che ha eliminato anche il riferimento alla natura “manifesta” dell’insussistenza (pagg. 271 e ss.).

L’osservazione dell’Autore, su questo specifico punto, è tranchant, perché: «… il fatto, nella sua positiva esistenza, è tale in ogni caso in una logica inevitabilmente binaria: o sussiste o non sussiste; certo che il carattere manifesto tende ad indentificarsi con la prova e con l’apprezzamento che ne fa il giudice» (pagg. 272-273), in base al canone tradizionale dell’art. 116 cod. proc. civ.

Con questa sentenza, la Corte Costituzionale crea un parallelismo tra le tutele previste in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento disciplinare e del licenziamento economico, in un quadro di coerenza sistematica, che secondo l’Autore prescinde dal considerare o no la tutela reintegratoria come extrema ratio rispetto a quella indennitaria ritenuta “normale” (pag. 274).

Non del tutto convincente è invece l’opzione interpretativa dell’Autore che, in ossequio alle pronunce della Corte Costituzionale, considera legittimo il “doppio binario” in caso di licenziamento ingiustificato che differenzia i lavoratori in base alla data di assunzione,  7 marzo 2015, in regime di Jobs Act ( pagg. 275 e ss.), sul crinale del tempo, il cui fluire, ad avviso di chi scrive, non può giustificare uno spartiacque, denso di conseguenze ( sino ad oggi ritenuto legittimo), se si considera il sostanziale fallimento dello scopo perseguito dal legislatore del 2015 di  «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione ».

Tralasciando, qui, per evidenti ragioni, la trattazione delle due pronunce costituzionali in materia processuale ( n. 86 del 23 aprile 2018, sulle conseguenze dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione nel corso del giudizio, e n. 212 del 14 ottobre 2020, sulla rilevanza della tutela d’urgenza al fine di evitare la decadenza dall’azione giudiziaria), la disciplina differenziata, in ragione del tempo di assunzione riferito alla data del 7 marzo 2015 (reintegrazione e tutela indennitaria limitata nel massimo a dodici mensilità, per i “lavoratori anziani”; tutela meramente indennitaria, secondo i criteri dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, come riformulata dalla sentenza costituzionale n. 194/2018, per i “lavoratori giovani”),   dei licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta viene esaminata con riferimento alla sentenza n. 254 del 26 novembre 2020 (pagg. 283 e ss.).

La Corte Costituzionale, in perfetto parallelismo con la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea , 4 giugno 2020, causa C-32/20 (che aveva dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte con rinvio pregiudiziale dalla Corte di Appello di Napoli, essendo la materia dei licenziamenti collettivi estranea alla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998; in assenza, peraltro, di un collegamento tra un atto di diritto eurounitario e la disciplina nazionale, così da poter richiamare i principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ha dichiarato inammissibile la q. l. c. sollevata non avendo il giudice rimettente individuato i vizi del licenziamento collettivo, per il quale si denunciava, in via principale, l’inosservanza dei criteri di scelta, e in via subordinata  il mancato rispetto delle procedure.

A fronte di una corretta formulazione del quesito sarebbe stato interessante verificare, nel merito, la decisione della Consulta sulla differenziazione delle tutele in ragione del tempo di assunzione.

9. Completa la rassegna la trattazione della sospensione e del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo nel periodo dell’emergenza del Covid-19 (Cap. IX, pagg. 287 e ss.), tema particolarmente delicato e discusso nella giurisprudenza, che si è espressa con decisioni diverse e  non sempre coerenti con i limiti della interpretazione letterale delle norme, anche per il succedersi di tortuosi interventi legislativi, con modifiche e nuove regolamentazioni a fatica sovrapponibili (pagg. 288 e ss.). 

L’Autore, venendo in essere la violazione di una norma imperativa in caso di licenziamenti intimati durante il regime del blocco, non mette in discussione la tutela reintegratoria, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda (per i licenziamenti individuali: art. 18, comma 1, st. lav. e art. 2, d.lgs. n. 23/2015), nemmeno per i licenziamenti collettivi, in questo caso facendo riferimento alla nullità civilistica di diritto comune (pagg. 294 e ss.).

È degna di attenzione (e condivisione da parte di chi scrive) la tesi dell’Autore (pag. 295) che parla di inefficacia temporanea, piuttosto che di nullità, del licenziamento, «… perché il blocco dei licenziamenti è una circostanza esterna all’atto giuridico negoziale – il recesso datoriale – che condiziona l’efficacia dell’atto stesso in un determinato e limitato periodo di tempo». Siamo di fronte, pertanto, ad una  «circostanza che opererebbe come condizione sospensiva del potere datoriale di recesso unilaterale».

Non viene affrontato, invece, il tema che ha molto diviso i giudici di merito, e anche la dottrina, sul campo di applicazione del divieto che, essendo ancorato testualmente alle ipotesi previste dall’art. 3, l. n. 604/1966, lascerebbe fuori i lavoratori esclusi dal perimetro di operatività di detta legge, come, ad es., i dirigenti.

10. Alla fine  della (non facile) recensione del libro di Giovanni Amoroso, condotta, forse, con una esposizione lunga e particolareggiata (ma, ci auguriamo, non piatta), chi scrive, come capita ad ogni lettore d’occasione, ritorna padrone della materia trattata, quella dei licenziamenti, che (come spesso capita per i temi di notevole impatto sociale ed economico, che, per questo motivo, scontano anche una marcata caratterizzazione ideologica) resta assai controversa e soggetta a contrastanti interpretazioni, non sempre coerenti con i materiali delle leggi che la disciplinano e le intenzioni del legislatore delle riforme.

Il pregio di opere come quella recensita è l’occasione che viene offerta al lettore di rimeditare il tema dei licenziamenti, anche alla luce dei felici approdi (o derive, secondo alcuni) della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, per come si è sviluppato in un tempo lungo oltre cinquant’anni.

Ulteriori considerazioni personali (oltre a quelle, essenziali, espresse nelle pagine precedenti) risulterebbero del tutto avulse dall’opera recensita, con il rischio di sovrapporre alle tesi dell’Autore, meritevoli di analisi e segnalazione, le opzioni interpretative di chi scrive.

L’unica osservazione, conclusiva, che sembra opportuno svolgere, va nella direzione di quanto espresso, anche da ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale: è avvertita l’esigenza, concreta, che il legislatore provveda ad una generale rivisitazione della materia dei licenziamenti, portando a sistema le riforme, nel rispetto delle tutele differenziate – se questo è il definitivo intendimento da perseguire e realizzare  – che devono, però, essere rese coerenti non solo tra di loro ma anche con riferimento  alle diverse fattispecie di licenziamento e ai diversi tipi di rapporto di lavoro.

Il vento fa il suo giro ed ogni cosa, prima o poi, ritorna; ma la stagione dell’articolo 18, per come lo abbiamo conosciuto ed è stato applicato per oltre quarant’anni, sembra definitivamente tramontata. È una norma che non ha più l’attrazione fatale di una volta, anche se in molte occasioni viene rievocata.

Resta, comunque, la necessità di garantire, per tutti i licenziamenti illegittimi, una tutela adeguata e dissuasiva, secondo i principi ribaditi, a più riprese, anche dalla Corte Costituzionale.

Riuscirà la politica dei fatti ad imporre al legislatore nuove scelte di politica del diritto coerenti con questi principi?

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