GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Le relazioni industriali «politicamente corrette» e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione preventivi e in corso di procedura, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica

    Le relazioni industriali «politicamente corrette» e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica d’impresa; con uno sguardo alle recenti norme contro la delocalizzazione

    Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Raffaele De Luca Tamajo

    Questa intervista prende spunto dalle recenti vicende che hanno riguardato alcune importanti realtà produttive del nostro paese che hanno avuto un esito giudiziario, per ora sommario, a quanto consta (tranne un caso di cui diremo), con i decreti ex art. 28, st. lav. del Tribunale di Firenze (in data 20 settembre 2021, a definizione del procedimento che ha visto contrapposta la Fiom-Cgil alla Società Gkn Driveline Firenze S.p.A., in liquidazione),che ha riconosciuto la natura antisindacale di vari comportamenti dell’azienda, condannata anche alla revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi per cessazione dell’attività e chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio; del Tribunale di Monza (in data 12 ottobre 2021, a definizione del  procedimento che ha visto contrapposti i sindacati Fiom-Cgil, Uilm-Uil e Fim-Cisl  alla Società Gianetti Fad Wheels S.r.L), che ha rigettato il ricorso riconoscendo la legittimità del comportamento dell’azienda, così consentendo di completare la procedura di intimazione dei licenziamenti collettivi, sempre per cessazione dell’attività  e chiusura dello stabilimento di Ceriano Laghetto; e del Tribunale di Napoli (in data 3 novembre 2021, a definizione del procedimento promosso da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uil-Uilm contro la Società Wirlpool Emea S.p.A.), che ha rigettato il ricorso, avendo ritenuto corrette le informative date dall’azienda al sindacato e superato l’impegno a non procedere ai licenziamenti sino al 2020 (e non anche al 2021), considerando escluso il piano industriale predisposto dall’azienda dal campo degli obblighi sindacabili.

    Da ultimo è stato pronunciato dal Tribunale di Ancona, in data 22 febbraio 2022, il decreto che, in accoglimento del ricorso proposto da Fiom-Cgil contro Caterpillar Hydraulics Italia S.r.L., ha riconosciuto la natura antisindacale del comportamento aziendale, limitando la condanna della società al risarcimento dei danni.

    Per quanto riguarda la controversia di Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, il Tribunale di Monza, con la sentenza n. 56 del 28 gennaio 2022, pronunciata a definizione della fase di opposizione, in parziale riforma del decreto del 12 ottobre 2021, ha confermato la dichiarazione di antisindacalità del comportamento datoriale, solo per alcune delle violazioni denunciate, limitando, però, la condanna della società all’inibitoria per il futuro. 

    V.A. Poso  Una premessa. Il d. lgs 6 febbraio 2007, n. 25 (emanato in attuazione della direttiva 2002/14/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2002, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), al quale fa riferimento l’art. 9 del CCNL dell’industria metalmeccanica prevede diversi obblighi di informazione e consultazione tra azienda e sindacati, a diversi livelli, con procedure e cadenze temporali particolari. Mentre Il d.lgs. 22 giugno 2012, n. 113 (emanato in attuazione della direttiva 2009/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009, riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori  nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria), al quale fa riferimento l’art. 10 del CCNL dell’industria metalmeccanica (aggiungo solo, per completezza, che il d.lgs. n. 113/2012 ha sostituito il precedente d.lgs. n. 74 del 2 aprile 2002, di attuazione della precedente direttiva 94/45/CE, del Consiglio, del 22 settembre 1994), si riferisce, invece, alle imprese di rilevanza comunitaria.

    Una volta che è stato definito il contenuto e il perimetro degli obblighi di informativa e consultazione del sindacato in base ai due decreti legislativi sopra indicati, qual è lo spazio lasciato alla contrattazione collettiva nazionale e agli accordi aziendali per una diversa, non solo in dettaglio, regolamentazione rispetto alla legge?

    R. De Luca Tamajo  Considerato che le Direttive europee e i Decreti legislativi di trasposizione nel nostro Paese in tema di informazione e consultazione dei lavoratori e dei sindacati hanno l’obiettivo di garantire una soglia minimale di interlocuzione e di coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze nelle strategie produttive e di organizzazione del lavoro, ben può  la contrattazione collettiva nazionale prevedere forme diverse e più articolate,  purché più avanzate, di “partecipazione”, oltretutto nel segno parzialmente attuativo di quell’art. 46 Cost. rimasto senza traccia nell’ordinamento positivo.

    Se concordate bilateralmente tali procedure vincoleranno però solo le aziende rientranti nel campo di applicazione dei relativi accordi collettivi.

    V.A. Poso  A questo punto dobbiamo porci il problema delle conseguenze dell’inadempimento di questi obblighi rispetto al ruolo del sindacato. Le fattispecie sono le più diverse. Di sicuro entra in gioco lo strumento del procedimento per la repressione della condotta antisindacale. Ma il mio punto di domanda è: sin dove può arrivare il coinvolgimento del sindacato? Si ferma alla superficie delle informazioni e delle consultazioni, o può lambire la fase decisionale, la formazione della decisione del datore di lavoro di adottare determinate misure organizzative del lavoro o del sistema produttivo?

    Di fatto questo viene rimproverato dal Giudice del Lavoro di Firenze all’azienda che, con diversi comportamenti, alcuni davvero non edificanti, non avrebbe consentito la partecipazione del sindacato alla formazione della decisione finale di disporre la messa in liquidazione e la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio.

    R. De Luca Tamajo  Non mi sembra che allo stato né le Direttive europee né la legislazione e la contrattazione collettiva nazionale abbiano infranto il muro della sostanziale unilateralità delle decisioni relative all’an e al quomodo della impresa per consentire un varco nella discrezionalità dell’imprenditore di modificare la propria organizzazione o addirittura di far cessare l’impresa.

    Quelle norme si sono limitate ad una sia pur impegnativa proceduralizzazione dell’esercizio delle opzioni aziendali volta ad agevolare ogni forma di pressione da parte delle organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori, nella direzione di quella che è stata definitiva “partecipazione conflittuale” dei lavoratori alla gestione della impresa.

    Salvo casi eccezionali in cui l’imprenditore non può procedere senza il previo accordo sindacale, l’intesa bilaterale resta un obiettivo tendenziale ma affatto condizionante le scelte imprenditoriali.

    Se è vero, come sembra, che nel caso del Tribunale di Firenze il processo informativo è risultato turbato da omissioni e informazioni parziali o non veritiere, la conseguente condanna della azienda per condotta antisindacale appare coerente, essendosi così preclusa al sindacato, per effetto di un inadempimento di obblighi espressamente sanciti, una consapevole azione di incidenza sull’agire imprenditoriale; incidenza,  peraltro, praticabile sul piano della azione conflittuale, ma non su quello della codeterminazione in merito alla messa in liquidazione e alla chiusura dello Stabilimento della società GKN.

    Bisogna infatti distinguere i diritti strumentali alla possibilità di condizionare le decisioni aziendali dal vero e proprio diritto a codeterminare le politiche e le scelte aziendali.

    V.A. Poso  Una osservazione e un ulteriore punto di domanda dopo la premessa che segue.

    Le procedure previste dalla l. 23 luglio 1991, n. 223 (sui licenziamenti collettivi), dalla l. 29 dicembre 1990, n. 428 ( sul trasferimento d’azienda), dal d.p.r. 19 giugno 2000, n. 218 (cassa integrazione guadagni straordinaria e integrazione salariale a seguito della stipulazione dei contratti di solidarietà) e dal d. lgs 2 aprile 2002,n.74 (comitato aziendale europeo e imprese di dimensione comunitaria) sono dichiarate come assorbenti quelle previste, nello specifico, dai due decreti legislativi in base a quanto è scritto nell’art. 9 del CCNL dell’industria metalmeccanica. 

    Ciò, mi sembra, in contrasto con la previsione dell’art. 8, d.lgs. n. 25/2007, c. 1, 2 e 3, che fa espressamente salve queste procedure e gli altri diritti riconosciuti dalla normativa vigente e dai contratti collettivi applicati in materia di informazione, consultazione e partecipazione.

    Una disposizione simile è contenuta nell’art. 13, c.4, d.lgs. n. 113/2012, che fa salve le procedure previste dalla l. n. 223/1991, dalla l. n. 428/1990 e i diritti di informazione e consultazione sindacale regolati dalla legge e dai contratti collettivi e degli accordi vigenti, anche in attuazione del d.lgs. n. 25/2007. 

    Le chiedo, allora, con specifico riferimento alla procedura di licenziamento collettivo, che interessa la nostra conversazione: se le due affermazioni “sono fatte salve” e “sono assorbite” sono assimilabili, esse esprimono lo stesso identico concetto, oppure sono cose diverse? E il contratto collettivo ha davvero previsto una disciplina diversa rispetto alla legge? 

    R. De Luca Tamajo L’art. 9 CCNL dell’industria metalmeccanica dichiara che le procedure di matrice collettiva di informazione e consultazione in tema di licenziamento collettivo, trasferimento di azienda e integrazione salariale assorbono e quindi neutralizzano, relativamente a tali materie, le procedure previste dai due d. lgs. n. 113/2012 (CAE e procedure informative per le imprese di dimensione comunitaria) e n. 25/2007, entrambi attuativi delle Direttive UE.

    Tuttavia, l’art. 8 del D. lgs n. 25/2007 in sede di attuazione della Direttiva 2002/14/CE chiarisce che, viceversa, le due diverse procedure - quelle generali in tema di informazione e consultazione e quelle specifiche in materia di licenziamento collettivo e di trasferimento di azienda - non si elidono e anzi coesistono nella loro portata vincolante.

    Dunque, la previsione collettiva dell’art. 9 deve ritenersi cedevole al cospetto della disposizione della fonte legale e deve reputarsi precluso il divisato assorbimento. Le informative datoriali previste dal D. lgs. n. 25/2007 con carattere generale attengono ad una sorta di buona prassi collettiva nelle relazioni industriali; quelle specifiche in tema di licenziamento, trasferimento di azienda e CIG concernono una proceduralizzazione dei relativi poteri datoriali, incapace di scalfire la disposizione della fonte legale. Spetta semmai all’interprete tentare una composizione armonica tra le diverse procedure (quanto a soggetti e contenuti) da ritenere in ogni caso coesistenti.  Incombendo semmai al legislatore il compito di una opportuna migliore armonizzazione tra le diverse procedure.

    Erra pertanto il Tribunale di Monza nel decreto dell’8 ottobre 2021 (caso Gianetti) allorquando sembra accreditare la tesi che la procedura collettiva per i licenziamenti collettivi supera e annulla quella generale in tema di informazione e consultazione.

    Questo punto motivazionale è stato, infatti, superato dalla sentenza che ha definito la fase di opposizione, quando afferma che nell’art. 9 del CCNL di settore i contraenti non hanno voluto ritenere assorbite nella procedura dell’art. 4, l. n. 223/1991 anche le informazioni relative alla chiusura degli stabilimenti. 

    Condivisibile è invece il passaggio motivazionale in cui il Tribunale di Firenze nel decreto del 20 settembre 2021 (caso GKN) sostiene che l’obbligo informativo sulle politiche aziendali integri una sorta di precondizione all’avvio della procedura di licenziamento collettivo e, soprattutto, non possa arrestarsi ad una fotografia statica, ma debba investire anche le prevedibili situazioni produttive e occupazionali in fase dinamica.

    Per quanto sia vero che il D. lgs. n. 25/2007 rimane al medesimo livello di genericità contenutistica della Direttiva UE, di cui costituisce attuazione, e rinvia alla contrattazione collettiva la definizione di sedi, tempi e contenuti della informazione e delle consultazioni, sta di fatto che, in tema di rapporti con la contrattazione, il D.lgs. n. 25/2007 è particolarmente esplicito nel negare alla autonomia collettiva la facoltà di neutralizzare la portata dei due Decreti legislativi attuativi nel nostro Paese delle Direttive europee.

    V. A. Poso  Il punto centrale del decreto fiorentino ex art. 28, st. lav., per molti aspetti innovativo nella soluzione adottata, è che l’inadempimento degli obblighi di informazione e consultazione sindacale e i comportamenti tenuti dall’azienda nel corso dell’ultimo anno riverberano i loro effetti sull’avvio della procedura di licenziamento collettivo.

    Nella motivazione, alla quale dobbiamo necessariamente rinviare, sono descritte anche le false rappresentazioni della realtà produttiva fornite dall’azienda, che hanno avuto eco anche sulla stampa. Qui mi limito ad osservare che nell’accordo aziendale del 9 luglio 2020, pur risultando chiaramente la rappresentazione dello stato di crisi (aggravata, anche, dall’emergenza sanitaria) da parte dell’azienda, che tuttavia aveva escluso la misura di licenziamenti collettivi (in adesione alle richieste formulate dal sindacato), orientandosi per l’adozione di varie forme di ammortizzatori sociali; con lo specifico impegno di comunicare alle Rsu eventuali cambiamenti di prospettiva e strategia industriale. Emergeva, pertanto, da questo accordo (che ne richiamava uno precedente, quello del 14 febbraio 2020), la manifestazione della disponibilità dell’azienda a coltivare il dialogo con il sindacato. Ma così non è stato.

    Ciò detto, ritiene che, nel caso di specie, la rimozione degli effetti del comportamento antisindacale dichiarato possa essere disposta con la revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi? Oppure era necessario valutare soluzioni alternative, di tipo risarcitorio ad esempio, o di altro tipo?

    R. De Luca Tamajo  Quanto agli “effetti” della pronunzia di antisindacalità del Tribunale fiorentino a me sembra che le conseguenze ad ampio spettro previste dall’art. 28 Statuto lavoratori (“cessazione della condotta” e “rimozione degli effetti”) consentano non soltanto di imporre il corretto confronto con le OO.SS. ma anche la revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi (salva la facoltà di reiterazione da parte della azienda); e ciò tanto se disposta per violazione della procedura specifica in tema di licenziamento collettivo quanto se operata per inadempimento ai più generali  obblighi informativi. La inibitoria a proseguire la iniziata procedura di licenziamenti collettivi è senz’altro più efficace di sanzioni puramente invalidanti o risarcitorie.

    La atipicità e ampiezza dei provvedimenti condannatori concessi al Giudice dall’art. 28 legittima molteplici soluzioni sanzionatorie ferma la maggiore adesione della “condanna a revocare” alla logica e alla struttura dell’art. 28, che va oltre sanzioni puramente negoziali.

    V. A. Poso  Di diverso contenuto, però, è, su questo specifico punto, il pronunciamento del Tribunale di Monza, che, a definizione della fase sommaria e di opposizione, ha rigettato la domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità e l’annullamento della procedura di licenziamento collettivo già avviata.

    R. De Luca Tamajo  La sentenza n. 56/2022, in particolare, ha disatteso questa domanda «in quanto difetta, anche a livello descrittivo nell’esposizione dei fatti in ricorso, il nesso causale tra la violazione del suddetto obbligo informativo e l’attuazione del procedimento di licenziamento collettivo ovvero non è allegato e neppure provato che in caso di adempimento del suddetto obbligo informativo il procedimento di licenziamento collettivo non sarebbe stato avviato».

    Sembra di poter ritenere che ciò derivi da un difetto di allegazione e prova, nello specifico, non escludendo il Tribunale di Monza una diversa decisione nel caso di un diverso svolgimento del processo e di esito istruttorio.

    A definizione della fase di opposizione il Tribunale di Monza (confermati gli altri punti del decreto opposto) ha ritenuto che la società non abbia dimostrato di aver assolto all’obbligo informativo avente come contenuto le eventuali misure di contrasto previste al fine di evitare o attenuare le conseguenze dei rischi occupazionali e la tempestiva informazione della decisione di chiudere lo stabilimento di Ceriano Laghetto.

    Pertanto, pur avendo limitato solo a queste le violazioni rilevanti tra tutte quelle denunciate dai sindacati, in contrario avviso rispetto a quanto affermato dal Giudice della fase sommaria, il Tribunale ha ritenuto sussistente il carattere antisindacale della condotta datoriale, osservando che «anche se il comportamento datoriale è materialmente esaurito esso risulta persistente e idoneo a produrre effettui durevoli nel tempo sia per la portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, sicché va emessa una condanna in futuro volta a prevenire la reiterazione da parte della società di una condotta che può essere replicabile in relazione ad altro stabilimento».

    V.A. Poso  Anche il Tribunale di Ancona, nella vicenda Caterpillar, non ha revocato la procedura di avvio dei licenziamenti collettivi, in mancanza di una previsione espressa in tal senso nella contrattazione collettiva nazionale e aziendale, limitando la condanna dell’azienda al risarcimento dei danni in favore del sindacato.

    Qual è la Sua opinione in proposito?

    R. De Luca Tamajo  Mi sembra degna di nota la parte della motivazione in cui il decreto del Tribunale di Ancona esclude la sussistenza del «nesso causale tra l’apertura della procedura di licenziamento collettivo e la mancata consultazione sindacale, di tal che la prima possa considerarsi effetto della seconda, considerato che secondo i principi generali che presiedono alla valutazione della sussistenza di nesso causale in caso di comportamenti omissivi, alla stregua di un giudizio controfattuale fondato sulla regola del “più probabile che non” mutuata dal disposto dell’art. 41 c.p., non vi è modo di affermare la probabilità che il corretto svolgimento delle procedure di informazione avrebbe permesso di evitare l’avvio dei licenziamenti collettivi», tenuto conto, anche, delle sanzioni tipizzate nella l. n. 223/1991 e nel d.lgs. n. 23/2015.

    E tuttavia, anche alla luce decisione del Tribunale di Firenze, bisognerebbe valutare l’incidenza della violazione delle procedure sindacali preventive di informazione e consultazione sulla procedura di licenziamento collettivo, ove la stessa sia stata già avviata, nella prospettiva di rendere effettivo il confronto con il sindacato.

    V.A. Poso  La cessazione dell’attività produttiva rientra nella libera scelta dell’imprenditore, quale esplicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 41, oppure si può ritenere, in qualche modo condizionata dall’espletamento delle procedure per l’avvio dei licenziamenti collettivi previsti dalla legge? Non solo nei casi di specie esaminati e decisi dai Tribunali di Firenze e di Monza i sindacati e i lavoratori contestano la legittimità dei provvedimenti di chiusura degli stabilimenti, prima della conclusione della procedura di licenziamento collettivo pur se legittimamente avviata. Qual è la Sua opinione in proposito? 

    R. De Luca Tamajo  La cessazione dell’attività di impresa è frutto di decisione unilaterale e insindacabile dell’imprenditore; tuttavia, essa può ben essere condizionata da oneri procedurali di matrice legale e/o contrattuale e dall’obbligo di informative e confronti con la parte sindacale e/o con quella pubblica, il cui mancato rispetto può ritardare l’efficacia giuridica della cessazione dell’impresa.

    La eventuale chiusura dello Stabilimento prima che sia esaurita la procedura di licenziamento collettivo non produce effetti nei confronti di quest’ultima, nel senso che almeno sul piano giuridico – patrimoniale i rapporti di lavoro proseguiranno sino alla cessazione della procedura di licenziamento collettivo.

    V.A. Poso  Nella controversia relativa alla Caterpillar di Jesi, il Tribunale di Ancona afferma la necessaria osservanza degli obblighi di preventiva informazione e consultazione, anche se le decisioni determinanti le scelte aziendali sono adottate a livello di gruppo, utilizzando il canone ermeneutico dell’art. 4, c. 15 bis, l. n. 223/1991, ritenuto perfettamente applicabile alla materia in questione, con le necessarie ricadute sulle decisioni di chiusura dell’azienda adottate dal C.d.A., da rinviare per consentire il confronto con il sindacato.

    Qual è la Sua opinione in proposito?

    R. De Luca Tamajo  A me sembra che questa decisione sia condivisibile con riferimento ad entrambi  i profili evidenziati.

    V.A. Poso  Nelle consultazioni sindacali, confidando nella mediazione politica ed istituzionale spesso si fa affidamento a soluzioni alternative che scongiurino la chiusura delle attività produttive, come ad esempio la cessione dell’attività di impresa a soggetti terzi, ma soprattutto, quando la continuazione dell’attività produttiva non è possibile nemmeno a queste condizioni, gli ammortizzatori sociali e la cassa integrazione guadagni, con esiti non sempre scontati. Qual è la Sua opinione in proposito?

    R. De Luca Tamajo  Le politiche industriali, pubbliche e private, conoscono varie soluzioni alternative alla cessazione dell’attività produttiva. Tra esse in primis la cessione a terzi della impresa o di alcuni suoi rami, magari con l’intervento ausiliante della Cassa depositi e prestiti. Nella vicenda considerata dal Tribunale di Napoli (Whirpool) sembra che una simile ipotesi, pur praticabile, sia stata colpevolmente rifiutata dalle OO.SS.

    Meno praticabile, se non per pochi singoli lavoratori, è il trasferimento collettivo presso altra sede o Stabilimento della Società, sovente ubicati a grande distanza dalla sede di provenienza, per gli ovvi incomodi e difficoltà familiari dei lavoratori.

    Resta poi il ricorso alla Cassa integrazione, che rappresenta il più diffuso palliativo alla chiusura della azienda; “palliativo”, infatti, perché nella più parte dei casi, come è ben noto, si risolve non in un tentativo di recupero della efficienza aziendale, bensì in un improprio sussidio di disoccupazione in pendenza di rapporto, con nefaste  conseguenze di congelamento di realtà imprenditoriali non più recuperabili, di sostanziale disinnesco di potenziali politiche occupazionali attive e di mancato avvio di iniziative formative capaci di indirizzare i lavoratori verso reali possibilità di nuovi impieghi, alimentati da domande di lavoro insoddisfatte.

    V. A. Poso  Nel procedimento relativo alla Gianetti Fad Wheels S.r.L. il Tribunale di Monza ha ritenuto estranea al campo di indagine della antisindacalità la denunciata «violazione del decreto della Regione Lombardia che prevedeva a carico dell’odierna resistente l’obbligo di mantenere inalterati i livelli occupazionali per un quinquennio dalla conclusione di un progetto di ricerca e sviluppo finanziato dalla Regione medesima». Le chiedo se questa valutazione è corretta e, se lo è, chi può far valere la violazione di un obbligo di tal genere e in quale sede?

    R. De Luca Tamajo  Ritengo esatta la decisione del Tribunale di Monza di non ricondurre ad un’ipotesi di antisindacalità ex art. 28 Statuto lav. la violazione dell’impegno assunto dalla società datrice di lavoro nei confronti della Regione Lombardia (che aveva finanziato un progetto di ricerca e sviluppo), impegno a mantenere inalterati i livelli occupazionali per un certo tempo.

    È evidente che il soggetto creditore dell’obbligazione in quel caso non era il Sindacato bensì l’organo pubblico, solo legittimato ad attivare ogni forma di sanzione (dalla restituzione del finanziamento, al risarcimento del danno e al relativo blocco dei beni aziendali), mentre l’art. 28 è posto esclusivamente a tutela della organizzazione sindacale.

    Particolarmente interessante ed articolata è sul punto la motivazione della sentenza n. 56/2022 che ha definito la fase di opposizione.

    Peraltro, l’art. 28 non è destinato a garantire qualsivoglia interesse del Sindacato (nella specie: l’interesse al mantenimento dei livelli occupazionali), ma solo quelli oggetto di uno specifico riconoscimento normativo direttamente in capo al soggetto collettivo. Gli ulteriori interessi del sindacato, tra cui quelli a ridosso delle tematiche occupazionali, possono essere presidiati soltanto da azioni di pressione e/o conflittuali.

    V. A. Poso  Nel procedimento relativo alla Wirlpool Emea S.p.A. il Tribunale di Napoli ha ritenuto estranea al campo di indagine della antisindacalità la denunciata violazione di alcuni accordi aziendali che le organizzazioni avevano interpretato come «accordi gestionali». Condivide questa valutazione?  Se l’azienda non è incorsa in comportamento antisindacale, chi e in quale sede può far valere le eventuali violazioni degli obblighi previsti negli accordi aziendali non gestionali?

    R. De Luca Tamajo  Nel giudizio relativo alla vicenda Whirpool, il Tribunale di Napoli, con una decisione coraggiosa perché non influenzata dalla pressione mediatica e della piazza, ha escluso che siano stati violati specifici accordi sindacali, rilevando che il piano industriale, quand’anche oggetto di illustrazione alle OO.SS., non era stato oggetto di un accordo impegnativo per la parte datoriale e non era “fonte diretta di obblighi nei confronti delle parti sociali”, ma soltanto un documento unilaterale che illustrava le intenzioni del management relative alle strategie competitive della azienda.

    L’unico accordo cui riconoscere efficacia vincolante – secondo il Tribunale – è quello di non ricorrere a licenziamenti collettivi sino al 31 dicembre 2020, impegno puntualmente rispettato dalla azienda.

    L’assunto sotteso alla pronunzia in questione sembra collegato alla giusta convinzione che, in vicende così intrinsecamente complesse e dinamiche, non può aversi riguardo alla originaria prospettazione delle politiche aziendali e occupazionali, irrigidendo forzosamente le iniziali dichiarazioni, stante la natura inevitabilmente dinamica ed evolutiva di tali processi, esposti alle più diverse fluttuazioni della economia e dei contesti sociali e produttivi. Ciò che va, tuttavia, salvaguardato è: a) la correttezza e la linearità  del confronto con la parte sindacale che deve essere messa in grado sempre, anche in progress, di condizionare, sul piano della capacità di pressione, le politiche  e le decisioni aziendali, pur non potendo impedirle o paralizzarle (nel caso partenopeo il Giudice ha dato atto di un confronto continuo scandito da circa 27 incontri ad alto tasso dialettico); b) la possibilità per il soggetto pubblico di intervenire per impedire la fruizione opportunistica di benefici o incentivi pubblici da parte di aziende intenzionate a migrare verso mercati più redditivi.

    Di più non può farsi, pena una compressione eccessiva della libertà di iniziativa economica non soltanto preclusa dall’art. 41 Cost., ma anche idonea a disincentivare pesantemente gli investimenti produttivi specie, ma non solo, provenienti dall’estero.

    V.A. Poso  Il Governo, in sede di emendamento alla recente legge di bilancio, ha introdotto i commi 224-236 (Legge n. 234 del 30 dicembre 2021) che prevedono una procedura “aggravata” per l’azienda che abbia intenzione di cessare l’attività: ciò’ allo scopo di limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura.

    Qual è il suo giudizio sulla efficacia di questa proceduralizzazione rispetto agli obiettivi perseguiti? 

    R. De Luca Tamajo  La disciplina si muove su un crinale delicato poiché per un verso vuole impedire o ritardare operazioni che comportino un grave vulnus alla occupazione, specie ma non soltanto se finalizzate alla delocalizzazione verso territori caratterizzati da costi del lavoro più’ bassi, per altro verso deve evitare di porre vincoli e sanzioni così stringenti da disincentivare l’afflusso nel nostro Paese di nuove iniziative imprenditoriali.

    Il riconoscimento delle difficoltà in cui opera il legislatore non puoi far velo, però, al timore che, per come è formulata, la norma ha un ambito di applicazione piuttosto limitato.

    I requisiti in presenza dei quali la procedura diviene obbligatoria sono infatti numerosi e peraltro cumulativi: occorre che si tratti di un’impresa di grandi dimensioni (più di 250 dipendenti), che vi sia l’intenzione di chiudere una sede o uno stabilimento, con cessazione definitiva dell’attività e che da ciò derivino almeno 50 licenziamenti. Occorre, inoltre, che l’impresa che intende chiudere non si trovi in una situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza.

    Se si decide di perseguire l’obiettivo di garantire la salvaguardia del tessuto produttivo ed occupazionale, e se si vuole perseguirlo attraverso l’introduzione di limitazioni e “vincoli” alla libertà di impresa occorre approntare un sistema procedurale solido ed effettivo, pena altrimenti il moltiplicarsi di controversie relative ai confini dell’ambito di applicazione. Il rischio, altrimenti, è l’introduzione di elementi di rigidità del sistema che, lungi dal raggiungere il risultato sperato, determinano solo maggior confusione a livello applicativo.

    V. A. Poso  La soluzione adottata in sede governativa al problema delle chiusure e dell’impoverimento del tessuto produttivo è quello di imporre la predisposizione di un Piano di mitigazione della chiusura della durata di un anno, concertato con l’autorità pubblica e con il sindacato. Il Piano può prevedere diverse misure a seconda delle esigenze del tessuto produttivo (riconversione produttiva, trasferimento di azienda, etc.). La legge garantisce inoltre ai lavoratori interessati al Piano l’accesso al trattamento integrativo salariale e la partecipazione al programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), che, ricordiamolo, si inserisce nell’ambito della Missione 5, Componente 1, del PNRR, la sezione del Piano dedicata alle politiche del lavoro.

    Lei ritiene che queste “soluzioni” siano realmente effettive per il raggiungimento della finalità affermata in “apertura” del comma 224 «al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo»? Quali altre misure potrebbero essere proposte per il raggiungimento di un obiettivo così cruciale per la tenuta sociale ed industriale del nostro Paese? 

    R. De Luca Tamajo  Sicuramente la proceduralizzazione della chiusura che agevoli un percorso “conciliativo” (i.e. il raggiungimento di un accordo/piano) con il soggetto pubblico e con quello sindacale è la via più rispettosa della storica gestione triangolare e partecipata delle crisi aziendali e in generale delle scelte aziendali di cessazione dell’attività. Si tratta quindi dello strumento più opportuno, in termini di politica del diritto.

     Il problema essenziale però è che se si vogliono combattere queste battaglie non ci si può limitare solo ad interventi che si traducono in meri lacci e lacciuoli temporalmente limitati alla libertà di impresa, occorrendo una prospettiva dirigistica e sanzionatoria più adeguata né si può agire solo a livello locale, trattandosi di fenomeni sovente di portata transnazionale.

    V.A. Poso  Veniamo al profilo sanzionatorio. In caso di mancata presentazione del piano o in mancanza di approvazione dello stesso, è previsto solo il pagamento del contributo di cui all’art. 2, c. 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92 in misura incrementata del doppio. Del pari un incremento del contributo è dovuto anche nel caso in cui l’impresa non firmi alcun accordo sindacale o se l’impresa proceda ad avviare la procedura dei licenziamenti collettivi nonostante dal monitoraggio emerga il mancato rispetto degli impegni assunti nonché dei tempi e delle modalità di attuazione del piano.

    Lei ritiene che questa sanzione economica, teoricamente prevista per finalità dissuasive, sia adeguata e proporzionata?

    R. De Luca Tamajo  Non credo che una sanzione meramente economica possa ritenersi sufficiente. È vero che gli importi previsti nella legge, presi nel loro complesso, sono abbastanza importanti ma non credo che ciò si possa tradurre realmente in una spinta dell’impresa al rispetto della procedura. Non dimentichiamo, infatti, che la procedura prevista dalla legge è piuttosto gravosa e lenta e si traduce in un rallentamento importante delle strategie e del business aziendale. Occorre dunque una spinta maggiore rispetto al mero timore di un rischio economico per vincolare l’impresa ad una procedura di tal genere. La vera sanzione è ad esempio costituita dalla prevista illegittimità dei licenziamenti economici irrogati nonostante il mancato rispetto della procedura.

    V. A. Poso  Nella bozza di decreto-legge circolata questa estate si prevedeva, in caso di comportamenti inadempimenti dell’azienda, rispetto agli impegni presi nel Piano o comunque rispetto alla stessa formulazione del piano una sanzione consistente nella preclusione all’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche comunque denominate per un periodo di cinque anni dalla data di scadenza del termine per la presentazione del piano o dalla sua mancata approvazione. Questa misura sanzionatoria è scomparsa nel nuovo testo normativo a seguito di critiche sviluppate soprattutto da Confindustria.

    Lei ritiene che si trattasse realmente di una sanzione eccessiva o la stessa poteva ritenersi ragionevole?   

    R. De Luca Tamajo  Indubbiamente la preclusione all’accesso a contributi o sovvenzioni pubbliche è sanzione ben più efficace o dissuasiva per l’impresa. Si tratta poi di una sanzione indispensabile per impedire in generale comportamenti predatori da parte di aziende che, dopo aver fruito di benefici a carico della finanza pubblica, delocalizzano in direzione di aree con minor costo del lavoro. 

    V.A. Poso  Come saprà, questa estate, i dipendenti della Gkn Driveline Firenze S.p.A., con l’ausilio di alcuni giuslavoristi, avevano elaborato una proposta di legge portata all’attenzione del Parlamento in occasione della prima riunione in sede istituzionale tenuta dopo la revoca della lettera di avvio della procedura di mobilità.

    Per quello che qui interessa, la proposta di legge per assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali e dei siti produttivi nel sistema economico italiano, anche in presenza di procedure di licenziamento già attive, prevedeva per le imprese che impiegano oltre cento lavoratori (senza distinzione, anche in regime di somministrazione) l’intervento attivo dello Stato nella crisi aziendale, con la possibilità di inserire Cassa depositi e prestiti nella proprietà aziendale, come clausola di salvaguardia.

    Anche in questo caso era prevista la presentazione di un piano di strumenti alternativi alla chiusura e una fase interlocutoria, anche a livello istituzionale, di esame e incontri; risultando privilegiata la vendita dell’azienda a soggetti solidi in grado di fornire  garanzie sul mantenimento della produzione, del numero di dipendenti e dei livelli salariali (con una preferenza accordata alle cooperative dei lavoratori). Una soluzione di questo tipo è praticabile, eventualmente con quali correttivi? 

    R. De Luca Tamajo  La soluzione era interessante perché non si limitava ad una proceduralizzazione della decisione aziendale ma metteva in pista interventi attivi e promozionali. Anche questi, tuttavia, devono essere effettivi e limitati nella durata, evitando di approdare a semplici manovre dilatorie e alla solita perpetuazione di strumenti di integrazione salariale.

    Come dire: occorre mettere in opera tutti gli strumenti di politica attiva industriale ed occupazionale ma poi la libertà della iniziativa economica non può essere conculcata ulteriormente.

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