GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato e Carla Faralli)

    Il fine vita e il legislatore pensante

    3. Il punto di vista dei filosofi del diritto  

    Considerazioni di Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato e Carla Faralli

    Introduzione di Angelo Costanzo

    [v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci)]

    Introduzione

    Angelo Costanzo

    Le decisioni della Corte di cassazione della Corte costituzionale sulle questioni del fine-vita e l’esplicitazione del principio di libertà di autodeterminazione terapeutica (con il correlato strumento del consenso informato) nella legge n. 219/2017 non forniscono sufficienti principi normativi generali che regolino sia la posizione della persona interessata sia quella di coloro (sanitari, amministratori, familiari) che operano al suo intorno. Occorrono ulteriori leggi che definiscano la reale portata delle decisioni delle Corti e gli ambiti da queste non considerati. Resta, in ogni caso, il problema (in sé irresolubile) che sorge quando si tratta di sostituire una altrui volontà a quella di un soggetto che più non la possiede (o non può esprimerla), come se a quel soggetto in quel momento tale volontà effettivamente appartenesse. I pochi ordinamenti giuridici che disciplinano la materia possono suggerire modi per affrontare le questioni, ma, in assenza di nette scelte legislative, è possibile che per risolvere i casi concreti siano seguiti valori di fonte extralegislativa.  

    Con un taglio prevalentemente ma non esclusivamente filosofico, rispondono alle domande:

    - il prof. Lorenzo d’Avack, professore emerito di filosofia del diritto, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica;

    - il prof. Salvatore Amato, professore ordinario di Filosofia del Diritto dell’Università di Catania, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica;

    - la prof.ssa Carla Faralli, professore ordinario di Filosofia del Diritto, attualmente insegna Bioetica nell’Università Alma Mater di Bologna, è componente del Comitato Etico di area vasta Emilia Centro.

    D’Avack evidenzia l’eterogeneità dei disegni di legge presentati in parlamento e il loro discostarsi dai canoni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale. Ritiene ottima la legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) perché è riuscita a affermare l’autonomia di scelta del paziente rispetto ai trattamenti sanitari (anche a quelli ritenuti ‘salva vita’). Rileva che il diritto all’obiezione di coscienza non è espressamente previsto ma che se fossero imposti ai sanitari obblighi relativi all’aiuto al suicidio allora ne andrebbe tutelata l’autonomia professionale. Per altro verso, osserva che gli orientamenti della giurisprudenza in materia biogiuridica sono fra loro difformi e mostrano eccessi esegetici che non giovano alla certezza del diritto.  

    Amato osserva che in materia di fine-vita i giudici attingono a decisioni adottate in altri ordinamenti e così introducono principi normativi nuovi. Rimarca che l’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute è il fondamento ma anche il limite della bioetica perché non esistono un diritto a morire o un dovere di vivere assoluti e il diritto si rivela imperfetto quando regola situazioni in cui la vita perde la sua pienezza. Considera che sui giudici, in assenza di norme legislative adeguate, grava un sovraccarico morale che li porta a farsi legislatori, così avvicinandosi al cittadino ma allontanandosi dal quadro istituzionale. Ritiene che il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente rientri nel “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica non nell’obiezione di coscienza.

    Faralli descrive alcuni fra i casi più rilevanti affrontati dalla giurisprudenza nei diversi sistemi giuridici. Ripropone la questione se il diritto debba disciplinare le situazioni che interessano la bioetica, esprimendo, comunque, preferenza per le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico rispetto al modello della legislazione autoritaria. Ritiene che introdurre l’obiezione di coscienza nella legge n. 219/2017 sarebbe stato inappropriato ma che risulterebbe necessario se si allargasse l’applicazione della legge al caso del suicidio medicalmente assistito. Auspica una regolazione che consenta ai Comitati per l'etica nella clinica di essere consultati; in particolare quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appaia necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione su questioni etiche.

                                                                                                                                                                   

    1. l valore “normativo” della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore? 

    Prof. Lorenzo d’Avack

    Dovrebbe essere almeno un punto di partenza per il legislatore o almeno uno stimolo.

    La ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio evidenzia la preoccupazione del Giudice delle leggi di regolamentare legislativamente il più possibile l’ambito del proprio operato e di non lasciare un “vuoto normativo”. A tal fine nell’ordinanza si era data al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità per completare una ricostruzione dell’articolo 580 c.p. Dal momento, tuttavia, che nelle more di un anno la Corte ha dovuto prendere atto che nessuna normativa in materia era sopravvenuta, ha con sentenza pronunciato nel merito delle questioni in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale, già riscontrato con l’ordinanza e ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.

    Tuttavia, emergono aspetti problematici di questa decisione che inevitabilmente avranno una incidenza sull’auspicato e necessario intervento del legislatore perché provveda ad assicurare alla prestazione di aiuto medicalizzato ai pazienti all’interno della cornice regolatoria, tracciata dalla Corte, la chiarificazione dei contenuti e della procedura, così da evitare abusi, ma anche limiti che ne rendano difficile la realizzazione.

    Non possiamo ora immaginare quale sarà la strada che verrà percorsa da una eventuale futura legge, una strada di fatto già accidentata vista l’eterogeneità dei disegni di legge presenti oggi in parlamento e tendenzialmente portati a legittimare l’eutanasia, ma ben poco conformi alle regole e ai principi ricavabili dalla sentenza della Corte. Ciò preoccupa, dato che non è la prima volta che i parlamentari e i partiti politici non adempiono ai loro compiti. È frequente che il Parlamento ignori o lasci troppo a lungo senza risposta le indicazioni della Corte costituzionale che segnala la necessità di mettere la legislazione in linea con la Costituzione.

    L’ auspicio è allora che in questa vicenda di fine-vita il legislatore faccia un passo avanti, non lasciando che il ‘diritto a morire’ continui a restare nel vago di diverse letture giurisprudenziali.

    Prof. Salvatore Amato

    Un paio di premesse a questa e a tutte le altre domande. L’attivismo giudiziario è un fenomeno che riguarda tutti i paesi a democrazia avanzata, perché la tutela della salute, la qualità della vita, il rispetto dell’integrità personale coinvolgono radicalmente quei principi di libertà, uguaglianza e solidarietà che stanno alla base del tessuto costituzionale. Abbiamo una sorta di cosmopolitismo giudiziale con cui si tenta di dare voce alle tensioni morali che emergono da singole istanze individuali, per parlare alla coscienza della società oltre le norme, perché spesso manca un quadro legislativo definito, ma dentro le norme, perché il diritto è considerato uno strumento vivo. Significativamente la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la prima volta in cui nel 2015 è intervenuta sul suicidio medicalmente assistito nel caso Pretty, ha parlato del diritto come un living instrument. Del resto, la stessa CEDU si è autodefinita “the conscience of Europe” in un volume del 2010 con cui celebrava i cinquant’anni della propria attività.

    A questo fenomeno è legato un singolare sviluppo della tecnica argomentativa, la transnazionalizzazione dei flussi giuridici o judicial borrowing, vale a dire l’assunzione di concetti giuridici, assunti etici, espedienti tecnici, tratti dall’elaborazione giurisprudenziale di altri paesi. Il giudice non si sente più vincolato solo al diritto statale nella misura in cui trova, anche se in decisioni maturate in altri contesti, il segno di un cambiamento di fronte al quale non può restare indifferente. La sentenza della Corte di cassazione italiana sul caso Englaro è estremamente significativa in questo senso (se non ha addirittura introdotto questo modello nel nostro paese), perché fonda gran parte dei propri assunti su alcune decisioni della giurisprudenza americana (Quinlan, Cruzan, Glucksberg), dell’Alta Corte Inglese (Ms. B), del Bundesgrerichtshof, oltre che naturalmente della CEDU (Pretty).

    Senza questo espediente, che è tecnico e culturale nello stesso tempo, la Cassazione non avrebbe potuto giustificare il rilievo non meramente interpretativo, ma chiaramente normativo del punto più delicato della sua decisione: l’interruzione delle cure nei confronti di un soggetto di cui si ignora la volontà, perché è in stato vegetativo persistente da diversi anni. L’unico modo per trovare un fondamento a questa drammatica conclusione negli art. 13 e 32 II comma della Costituzione era ricorrere alla suggestione retorica di decidere “non per Eluana, ma con Eluana”. Questa aspirazione a stare “con” Eluana, a rispettare e realizzare le sue volontà, non sarebbe stata possibile se i giudici non avessero “importato” il modello del “consenso presunto” o “subsistuted judgement” dalla giurisprudenza americana. Modello desunto inoltre da altri due istituti, il living will e il power of attorney, estranei, anch’essi, al nostro orizzonte normativo.

    Dico “importato” perché nella sentenza della Cassazione c’è un inciso, un obiter dictum, che è diventato una norma, “e non abbia… specificamente indicato… attraverso dichiarazioni di volontà anticipate”. Come avrebbe potuto Eluana compilare delle Dat, se non esisteva nulla del genere nel nostro ordinamento giuridico? Con poche parole, ripeto meramente incidentali, è stato legittimato un nuovo istituto e poi, in forza di questa particolare creazione, si è ritenuto di poter dare voce a chi non poteva parlare, attribuendo al rappresentante legale il diritto a chiedere l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.

    È difficile non comprendere e non condividere la tensione etica che sta dietro questa decisione, ma è altrettanto difficile ricondurla entro i canoni dell’art. 12 delle preleggi. La cosa è ancora più singolare perché tanto negli Stati Uniti quanto in Italia nessuna legge attribuiva esplicitamente tale potere al rappresentante legale. Negli Stati Uniti le law of agency di vari Stati, sul modello di una legge della Virginia degli anni ‘50, avevano ampliato il potere del procuratore investendolo di compiti che andavano oltre la cura degli interessi patrimoniali, ma non contemplavano le questioni di fine-vita.  È stata la giurisprudenza ad allargare l’orizzonte, “benché la legge non autorizzi esplicitamente la concessione di un’autorizzazione permanente a prendere decisioni di carattere medico” (In Re Peter 529 A. 2d 419 N.J. 1987).

    In Italia è avvenuta la stessa cosa: la dizione dell’art. 357 del Codice civile, “il tutore ha la cura della persona”, si è dilatata finendo per assorbire ogni dimensione esistenziale. Non so se questo sia avvenuto solo per spirito emulativo della giurisprudenza degli altri paesi o per una strutturale forza espansiva dell’istituto. Fatto sta che, a partire dal caso Englaro e ben oltre il caso Englaro, l’amministratore di sostegno ha assunto definitivamente una “particolare” declinazione giudiziale, mentre le Dat sono entrate a far parte del nostro tessuto normativo.    

    Il caso Englaro punto di arrivo o punto di partenza?  Faccio rispondere a una nota decisione del Tribunale di Modena (Decreto 5.11. 2008) che fa rilevare “l’assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamentario biologico”, perché già esistevano gli strumenti normativi per esprimere le proprie volontà. Quindi molto più di un punto di arrivo: un vero e proprio vincolo giudiziale all’operato del legislatore, perché una volta riconosciuti determinati diritti non è facile rimetterli in discussione.

    Non posso dire lo stesso del caso Cappato. Qui, per me, la Corte ha aperto (penso senza rendersene conto) una voragine a cui può o, forse meglio, deve porre rimedio solo il legislatore. Ma vorrei chiarire questa mia convinzione, rispondendo a una delle domande successive. 

    Prof. Carla Faralli

    Nell’ambito della bioetica/biodiritto un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza sia nei sistemi di common law sia nei sistemi di civil law.

    Negli Stati Uniti sul tema del fine-vita i casi che per primi e in maniera particolarmente significativa hanno aperto il dibattito e influenzato l’orientamento delle corti sono i ben noti casi di Karen Ann Quinlan e di Nancy Cruzan.

    Nel 1976 il padre di Karen Ann Quinlan chiese l’autorizzazione alla Corte Suprema del New Jersey di staccare il respiratore che, unitamente a una sonda gastrica, teneva in vita la figlia. La Corte con sentenza del 31 marzo dello stesso anno, per la prima volta, riconobbe un «right to die» quale espressione di un più generale diritto alla privacy, argomentando che l’interesse della ragazza alla rimozione del respiratore artificiale era superiore all’interesse dello Stato alla conservazione della vita. La sentenza della Corte introdusse anche il principio del «giudizio sostitutivo» (substituted judgement) che estende il potere decisorio (surrogate decision making) a coloro che sono legati al paziente da un rapporto di particolare vicinanza – familiare, amico intimo, ecc – tale da permettere loro di affermare che l’avente diritto avrebbe consentito all’interruzione delle cure se avesse potuto manifestare la sua volontà e, quindi, di adottare, in sua vece, decisioni di ordine medico.

    Orientamento più restrittivo emerge dall’altro caso che ho sopra citato: il caso Cruzan. Nel 1990 i genitori di Nancy Cruzan, una ragazza in stato vegetativo persistente a causa di un incidente occorsole sette anni prima, chiesero che le fosse tolto il tubo attraverso il quale era alimentata artificialmente, ma la loro richiesta fu respinta dai medici. Seguirono due giudizi contrastanti (uno della Trial court che autorizzava e uno della Corte Suprema del Missouri che negava l’autorizzazione) e del caso, su iniziativa degli stessi genitori di Nancy Cruzan, fu investita la Corte Suprema. Questa accolse la decisione della Corte del Missouri, non essendovi la certezza che la volontà espressa in vita da Nancy fosse stata nel senso di non essere più alimentata in quelle condizioni.

    Tale sentenza ridimensiona quindi notevolmente la portata del diritto alla privacy e mette in primo piano il problema del consenso, affermando che, in mancanza di una volontà effettiva e cosciente del paziente, non è sostenibile il ricorso ad alcun giudizio sostitutivo quando non vi sia la prova, certa, chiara e convincente (clear and convincing evidence) della precedente volontà del paziente incosciente, tenuto conto anche dell’irreversibilità degli effetti di tale atto.

    In Italia un ruolo analogo è stato svolto dai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro.

    Alla fine del 2006 Piergiorgio Welby, come è noto, dopo una lunga battaglia civile, volta ad affermare il diritto a rifiutare le cure, e una sentenza del Tribunale di Roma , che aveva respinto la sua richiesta dichiarata inammissibile a causa del vuoto legislativo in materia (il diritto al rifiuto delle cure viene definito dai giudici un “diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento”), morì grazie all’intervento del medico anestesista Marco Riccio che procedette al distacco del respiratore e alla somministrazione di sedazione.

    Il medico, autodenunciatosi, fu prosciolto da ogni accusa, prima dall’Ordine dei medici, che riconobbe la piena legittimità del suo comportamento etico e professionale, poi dal Tribunale di Roma, che ordinò il non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato. Il giudice richiama l’art. 41 del Codice penale italiano che prevede la non punibilità per il medico che adempie al dovere di dare seguito alle richieste del malato, compreso il rifiuto delle cure sancito dall’art. 32 della Costituzione.

    Pochi anni dopo, nel 2009, arriva a conclusione anche il caso altrettanto noto di Eluana Englaro.

    A partire dal 1999 il padre e tutore di Eluana aveva iniziato una battaglia giudiziaria volta a chiedere la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie, battaglia giunta in Cassazione, che nell’ottobre 2007 aveva inviato il caso alla Corte d’appello di Milano, fissando due presupposti per l’autorizzazione all’interruzione dell’alimentazione artificiale e delle terapie:

    - che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”;

    - che “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce della paziente medesima, fatta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

    La Cassazione sottolinea che chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, quindi, consentendo all’incapace di esprimere il rifiuto di ogni tipo di cura per mezzo del rappresentante legale, si ristabilisce piena parità di trattamento tra i soggetti competenti e quelli che non sono in grado di esprimere le proprie determinazioni.

    La Cassazione, inoltre, non riconosce al legale rappresentante il diritto di decidere al posto dell’incapace o in nome dell’incapace, ma insieme all’incapace, condizione quest’ultima che si dà quando il legale rappresentante dà sostanza e coerenza all’identità complessiva della persona che rappresenta e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della vita.

    Ed è quanto ha fatto la I° sezione civile della Corte d’Appello di Milano, alla quale la causa è stata rinviata, nella pronuncia del 9 luglio 2008, dopo aver accertato entrambe le condizioni, autorizzando il padre/tutore non al posto di Eluana ma con Eluana ad interrompere l’alimentazione artificiale e la terapia.

    I due leading cases della bioetica di fine vita in Italia hanno aperto la strada, insieme ad altre sentenze sul consenso informato, alla legge 219 del 22 dicembre 2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

    All’art. 1 comma 5 la legge prevede: “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha inoltre il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento…. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici” e al comma 6 “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile e penale”.

    L’art. 1 della legge 219 nei due commi sopra citati riguarda casi analoghi a quello di Welby, cioè soggetti capaci; per quanto riguarda invece soggetti incapaci, come Eluana Englaro, la legge prevede le disposizioni anticipate di trattamento attraverso le quali (art. 4):” ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in presenza di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte può esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia … che ne faccia le veci o la rappresenti nella relazione con il medico e con le strutture sanitarie”.

    Nel caso di patologie croniche e invalidanti, caratterizzate da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, la legge 219 all’art. 5 prevede la pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico “alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.

    Il caso di aiuto al suicidio oggetto delle due pronunce della Corte costituzionale del 2018 e del 2019 sul caso del DJ Falbo esula dalle previsioni della legge 219, come affermato dalla stessa Corte costituzionale: la legislazione in vigore in Italia “non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte”.

    Alla luce di ciò nella prima pronuncia del settembre 2018 la Suprema Corte aveva ritenuto di rinviare al Parlamento “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale” “ogni opportuna riflessione e iniziativa e solo davanti all’inerzia del legislatore è intervenuta con la seconda pronuncia del settembre 2019 dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, ribadendo peraltro “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”.

    2. Alla ricerca di un bilanciamento fra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute. Potrà mai essere trovato “per legge” dopo gli interventi della Corte costituzionale?  La vulnerabilità e le scelte di fine vita.

    Prof. Lorenzo d’Avack 

    Ritengo che questo sia già avvenuto, anche se con grave ritardo senza la necessità di un intervento costituzionale. La legge n. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento è una ottima legge che è riuscita, con molte difficoltà, ad affermare l’autonomia e responsabilità del paziente nei confronti delle scelte in merito ai trattamenti sanitari, anche quelli ritenuti ‘salva vita’. Nel rispetto di principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dopo decenni di colpevole silenzio e di ondivaghi interventi giurisprudenziali (Welby, Riccio, Englaro, Testimoni di Geova, ecc.), finalmente troviamo stabilito per legge che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

    Come già avvenuto in altri Paesi (ad es. Francia, Germania, ecc.) il legislatore, pur conservando l’implicito divieto all’eutanasia, ha voluto rendere legittime all’interno dell’alleanza terapeutica e della relazione di cura le autonome decisioni del paziente sulla propria salute, richieste che ricadono nell’ambito di una più ampia tutela dei diritti della persona. 

    Prof. Salvatore Amato

    L’equilibrio tra dignità, diritto alla vita, autodeterminazione e tutela della salute costituisce il fondamento della bioetica, ma anche il suo limite, perché delinea una zona grigia sempre variabile in cui si scontrano e si incontrano sensibilità e modelli culturali diversi. Tutti sono d’accordo nel ritenere che dignità, vita, libertà, salute siano valori indiscutibili, ma ognuno li legge a suo modo. Nel caso Englaro la dignità è stata invocata tanto per giustificare l’interruzione dei trattamenti quanto per rivendicare il dovere di preservare la vita.

    La nostra Corte costituzionale nel caso Cappato (242/2019) muove dalla premessa che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”, salvo poi a relativizzare questa affermazione in nome del diritto all’autodeterminazione.

    Potremmo concludere che non esiste un diritto assoluto a morire e non esiste un dovere assoluto di vivere. L’esperienza morale e giuridica si muove a tentoni tra questi due estremi, senza riuscire a individuare un canone certo su cui fissare le prospettive normative. Forse è un bene che sia così, perché le questioni di fine vita sono talmente diverse, l’una dall’altra, da impedire qualsiasi facile generalizzazione. È in contrasto con la dignità della persona “condannarla” a restare attaccata a una macchina ed è in contrasto con la dignità della persona “abbondonarla” alla morte. Anche chi crede che la vita sia “sacra” non può non avere dubbi su quanto la tecnologia stia condizionando, se non falsando, il senso della fine della vita.

    Ce ne rendiamo conto proprio attraverso il concetto di vulnerabilità che, praticamente assente nel linguaggio giuridico fino alla fine del secolo scorso, è divenuto ormai una costante della lettura giurisprudenziale e legislativa delle esigenze umane, ponendo l’accento su un numero sempre più ampio di situazioni in cui si delineano, per i motivi più eterogenei, condizioni di emarginazione, sfruttamento e disagio, se non addirittura di oppressione sociale o esistenziale. Un “catalogo aperto”, per usare un’espressione della Cassazione (11110/2019) in tema di protezione umanitaria. Talmente aperto che, sempre nel caso Cappato, la Corte costituzionale ci pone di fronte a una  sorta di vulnerabilità della vulnerabilità, quando affida alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale il compito di verificare le modalità̀ di esecuzione del suicidio assistito, per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, e poi riserva ai Comitati etici il compito di “intervenire” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili” (per inciso saremmo l’unico paese al mondo che attribuisce ai Comitati etici questo compito). Quando si diventa “particolarmente” vulnerabili? Sempre? In alcuni casi? Mai? D. J. Fabo era “solo” vulnerabile o anche “particolarmente” vulnerabile? Forse dietro questo scivolamento linguistico, si fa strada la convinzione che la sofferenza dell’uno non sia mai la sofferenza dell’altro. Più il diritto tenta di scendere negli orizzonti insondabili in cui la vita perde la sua pienezza e più scopriamo quanto sia imperfetto ed approssimativo.  

    Prof. Carla Faralli

    Il rapporto tra diritto e morale è tema classico della filosofia del diritto. Negli ultimi decenni, caduta la rigida distinzione tra diritto e morale che aveva caratterizzato il positivismo giuridico fino ad Hart, si è aperta la via per una filosofia del diritto normativa, impegnata in questioni con una forte ricaduta politica e morale, comprese quindi le questioni bioetiche.

    Contro la tesi giuspositivistica della separazione tra diritto e morale (Trennungsthese, come la definisce Robert Alexy) si è sviluppata la tesi della connessione tra diritto e morale (Verbindungsthese, sempre seguendo Alexy). Tale ultima tesi assume connotazioni diverse, riconducibili però a due filoni principali, quelle delle concezioni perfezioniste e quello delle concezioni proceduraliste.

    Per le concezioni perfezioniste, nella forma forte, tutte le scelte sia pubbliche sia private devono perseguire un ideale di vita buona. Tipico rappresentante John Finnis il quale, come è noto, sostiene che occorre un’organizzazione della società che sia in grado giuridicamente e politicamente di garantire il perseguimento della piena fioritura umana (human floroushing) attraverso la valorizzazione dei sette beni fondamentali, indeducibili e indimostrabili, che presiedono ogni valutazione moralmente rilevante. Tali beni rimandano a norme morali inderogabili, gli “assoluti morali”, la cui validità non ammette eccezioni e che il diritto deve tutelare.

    L’eutanasia, ad esempio, è un caso paradigmatico di azione che è sempre sbagliata, perché è una scelta contro uno dei beni fondamentali, la vita, e nessun argomento può giustificare un atto contro la vita. La nozione di bene comune è per Finnis costitutiva del diritto, nel senso che rappresenta il criterio a partire dal quale è possibile legittimare il diritto positivo. Nel caso dell’eutanasia, Finnis sostiene che il diritto deve proibire gli atti che vanno contro il valore vita.

    C’è anche una versione meno assoluta e radicale di perfezionismo, quella, ad esempio, dei comunitarians, che sostengono che l’oggettività dei criteri morali deriva dalla storia di un determinato popolo, storia che determina una sorta di moralità diffusa.

    è la tesi espressa da Lord Devlin, nella polemica con Hart sul Wolfenden Report, riguardante, come è noto, la questione dell’opportunità della repressione penale della omosessualità e della prostituzione in Inghilterra. Contro Hart che, alla luce della tesi positivista della separazione tra diritto e morale, aveva sostenuto che il diritto non deve entrare in comportamenti non offensivi per il prossimo (le self regarding actions di J. Stuart Mill), Devlin sostenne che una morale condivisa –di cui, a suo parere, le regole che condannano l’omosessualità e la prostituzione devono essere considerate parte- è una componente irrinunciabile dell’organizzazione sociale, nel senso che rappresenta un aspetto essenziale della struttura di una società e ne determina l’identità, quindi la società, anche attraverso il ricorso alle norme coercitive del diritto, può e deve difendersi per evitare la propria distruzione.

    Al lato opposto delle concezioni perfezioniste, soprattutto nella loro forma più forte, le concezioni proceduraliste, in base alle quali si sostiene che i criteri delle scelte non devono riguardare le concezioni sostanziali del bene e che si possa giungere a scelte eque di giustizia a partire da procedure che abbiano determinate caratteristiche.

    Il merito di queste concezioni è quello di prendere sul serio “il fatto del pluralismo” – come l’ha definito Rawls -, vale a dire il fatto che esistono diverse concezioni sostanziali del bene e che primo dovere dell’uomo è rinunciare alla pretesa di fare delle proprie personali credenze il modello universale del conoscere e dell’agire, e proporre scelte ragionevoli che non rimandano cioè ad una presunta verità o falsità, giustizia o ingiustizia di una realtà precedente alla deliberazione stessa, ma che ricevono, in forza delle procedure di giustificazione seguite, un generale consenso, ovvero un “consenso per intersezione”, per dirla sempre con le parole di Rawls. Sulla stessa linea si muove Jurgen Habermas: anche il filosofo tedesco prende atto che non esiste un’unica concezione del bene e conseguentemente non sono possibili accordi sostanziali sui valori ma solo accordi procedurali.

    Queste concezioni proceduraliste sono alla base delle teorie neo- costituzionaliste di Dworkin e Alexy che, pur nelle loro diverse declinazioni, affermano la non riducibilità del diritto al mero diritto formalmente valido e l’inclusione in esso di contenuti morali espressi dai principi e dai diritti inviolabili degli individui racchiusi nelle Costituzioni. Dal che discende il vincolo del legislatore di fronte ai principi e ai diritti e il ruolo decisivo dei giudici per la loro attuazione attraverso lo sviluppo di nuove forme di decisione giudiziale, come, ad esempio, il bilanciamento.

    Su questo sfondo il filosofo del diritto si trova ad affrontare il problema se il diritto debba o meno disciplinare le questioni bioetiche e, in caso di risposta affermativa, come devono essere le norme giuridiche che le regolano. Semplificando e schematizzando si può dire che da una parte vi sono coloro che nutrono dubbi o addirittura rifiutano una regolazione giuridica in ambito bioetico; dall’altra quanti ritengono utile, se non necessario, che il diritto disciplini i diversi ambiti della bioetica attraverso il cosiddetto biodiritto.

    Se si cerca di esaminare più da vicino le due posizioni si scopre che al loro interno sono estremamente composite e diversificate. Tra gli avversari, per così dire, della regolazione giuridica della bioetica alcuni, innanzitutto, temono che il diritto possa creare ostacoli allo sviluppo scientifico; altri (soprattutto esponenti di orientamenti religiosi) pensano che disciplinare, anche severamente e restrittivamente, certe pratiche (ad es. procreazione medicalmente assistita o eutanasia) significhi pur sempre legittimarle; altri ancora ritengono che le autoregolamentazioni della comunità scientifica (ad es. i codici deontologici), i pareri dei comitati etici, le dichiarazioni di principio adottate dalla comunità internazionale dei medici e degli scienziati siano sufficienti a garantire la correttezza dell’operare; altri ancora che gli interventi giuridici nell’ambito della bioetica costituiscano un’intrusione inaccettabile della sfera pubblica nella sfera privata delle persone, imponendo quasi sempre modelli di comportamento conformi a una particolare concezione morale. Come si vede, si va da posizioni estreme di chi sostiene che il diritto non deve entrare in nessuna forma nelle questioni bioetiche, a posizioni più moderate di chi manifesta uno sfavore relativo, limitato cioè allo strumento legislativo, e ritiene che non occorrono strumenti normativi nuovi con cui disciplinare le questioni bioetiche in quanto ogni controversia può essere risolta ricorrendo al diritto che c’è già, applicato in via analogica, o con il riferimento ai principi sanciti a livello internazionale o a livello interno nelle Costituzioni.

    Passando quindi al partito dei fautori della regolazione giuridica in materia bioetica, anche in questo si trovano posizioni diverse che sono, tuttavia, riconducibili sostanzialmente a due. Da una parte c’è chi sostiene che le questioni bioetiche debbano essere disciplinate in maniera conforme a particolari valori morali; dall’altra chi ritiene che il diritto nell’ambito della bioetica dovrebbe garantire a ogni individuo la possibilità di perseguire i propri valori nelle azioni che non danneggiano gli altri, realizzando quindi un equilibrio tra interessi diversi, rinunciando a imporre una particolare concezione morale e salvaguardando l’autonomia delle persone.

    La prima posizione è riconducibile al perfezionismo di cui si è detto sopra: si presuppone cioè l’esistenza (e la conoscibilità) di valori e principi morali assolutamente giusti o, quanto meno, suscettibili di raccogliere generale consenso e si afferma che il diritto debba porre al servizio di questi il suo apparato coercitivo.

    Ne consegue la richiesta di una legislazione che fissi modelli rigidi, ponendo divieti e limiti rigorosi, una legislazione autoritaria che finirà per sancire la superiorità di una particolare concezione morale e non sarà in grado di comporre in maniera adeguata i conflitti tra diverse concezioni morali presenti nelle moderne società pluraliste.

    La seconda posizione ha sullo sfondo le teorie proceduraliste del liberalismo giuridico sopra ricordate: si riconosce la difficoltà di fare appello a criteri morali condivisi e si guarda al diritto non come ad un mezzo per imporre particolari concezioni morali  (come sosteneva Stuart Mill compito del diritto d’altra parte non è quello di obbligare i cittadini a essere virtuosi), ma come a un mezzo per permettere la convivenza sociale e il confronto tra posizioni diverse, riconoscendo che, con l’unico limite del danno agli altri, ogni individuo (adulto e consapevole) ha il diritto di vivere secondo le proprie convinzioni.

    Ne consegue la richiesta di una legislazione che può essere definita “mite” con Zagrebelski o “leggera” e “aperta” con Rodotà: “leggera”, perché richiede che le regole giuridiche siano poco numerose e il più possibile povere di contenuti morali rivolte cioè a regolamentare gli aspetti tecnici e procedurali; “aperta”, perché rende possibile realizzare diversi modelli di vita, diverse “morali”, non privilegiando un unico punto di vista.

    Personalmente ritengo questa seconda opzione preferibile alla prima, non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista pratico.

    Dal punto di vista teorico tale posizione è coerente con un’etica, che, semplificando tra le tante classificazioni proposte, possiamo definire della responsabilità, in contrapposizione all’etica dei principi. Quest’ultima poggia sull’idea che esistono dei principi universali, assoluti, oggettivi, validi per tutti e si coniuga con il cognitivismo etico, incorrendo nella fallacia naturalistica (denunciata da Hume) di far derivare l’ought dall’is, ossia il dover essere dall’essere. L’etica della responsabilità, invece, parte dalla premessa che i giudizi di valore non sono conoscitivi, ma costitutivi, ossia soggettivi e relativi, in quanto l’uomo è soggetto non oggetto della legge morale (senza che tale relativismo implichi lassismo morale) e si coniuga con il non cognitivismo etico, evitando così di violare la legge di Hume.

    Dal punto di vista pratico, poi, tale posizione meglio risponde a una società pluralistica e multietnica come  quella contemporanea.

    3. L’obiezione di coscienza del medico. Quale disciplina?

    Prof. Lorenzo d’Avack

    L’obiezione di coscienza appartiene al genus della resistenza al potere e come tale è per definizione contra legem. Quando l’ordinamento rimette all’individuo la scelta tra comportamenti alternativi è più corretto parlare di ‘opzione di coscienza’, alludendo così non più ad un gesto di resistenza, ma ad uno spazio di scelta individuale pienamente legittimato dall’ordinamento vigente. Di fatto si scrive abitualmente di ‘diritto all’obiezione di coscienza’.

    Si è molto discusso in dottrina sull’opportunità o meno di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza nel caso della L. 219/2017. Di fatto questo non è espressamente previsto, dato il presupposto che non si tratta di porre in essere un’attiva causazione della morte, bensì di restituire al paziente le condizioni per un processo naturale del morire maggiormente consono alla sua volontà. La sentenza della Corte costituzionale a sua volta non crea alcun obbligo di legge al medico per procedere all'aiuto al suicidio e quindi nell'ipotesi prevista dalla Corte non si menziona il diritto obiezione di coscienza. Se, tuttavia, il legislatore nell’ambito dell’aiuto al suicidio medicalizzato dovesse imporre l’obbligo per il medico, anche solo di preparare la cd ‘pozione fatale' e a più forte ragione di somministrarla, vi sarebbero motivi per riconoscere il diritto all’obiezione, considerato che vi sono profonde difformità in merito ai valori professionali del medico e del personale sanitario, coinvolti in una pratica che comporta un cambiamento di paradigma nell’ambito del rapporto medico/paziente.

    Emerge un problema di tutela dell'autonomia professionale sia dal punto di vista della libertà della comunità di professionisti di autoriflettere e determinare le finalità specifiche della professione esercitata, sia dal punto di vista della libertà del singolo professionista nei confronti di una eventuale eterodeterminazione legale riguardo alle finalità del proprio operare. In questo secondo caso il diritto all'obiezione di coscienza si presenta perciò come diritto della persona che uno Stato costituzionalizzato e sensibile alla libertà di coscienza non può non tutelare giuridicamente.

    Prof. Salvatore Amato

    Non vorrei entrare nel merito della questione, che divide da tempo la nostra dottrina, se sia possibile un’obiezione praeter legem o addirittura contra legem e se sia un atto individuale o se possa essere esercitato da un’istituzione nel suo complesso. Mi limito a riflettere sulla legge 219/2017 e sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato.

    Credo sia decisivo che la legge 219, nel rispetto delle richieste del paziente, lasci al medico uno spazio decisionale. Il n. 5 dell’art. 4 afferma che il medico può disattendere le DAT quando appaiano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Questa prescrizione va letta assieme all’ indicazione di carattere generale dell’art. 1 n. 6 secondo cui “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Non ci troviamo, quindi, di fronte all’imposizione astratta di un comportamento che si pone a priori e incondizionatamente in contrasto con un sistema di valori, come nel caso della soppressione del feto nell’aborto o dell’accettazione della guerra nel servizio militare.

    Non vi è una contrapposizione che impedisce l’alleanza terapeutica, ma l’assunzione di una responsabilità professionale che passa per un processo diagnostico all’interno del rapporto tra possibilità terapeutiche e aspettative del paziente. Non vi è l’obbligo di praticare l’eutanasia, ammesso che l’eventuale rifiuto delle cure possa essere considerato eutanasia, ma di dare ascolto alle ragioni del paziente in stretta correlazione con le sue effettive condizioni. Non ci troviamo di fronte a una scelta di campo, ma a una scelta terapeutica. Nulla esclude che un medico contrario all’eutanasia possa ritenere la richiesta del paziente, in quella specifica circostanza, assolutamente ragionevole e, viceversa, che uno strenuo sostenitore dell’eutanasia ritenga che le condizioni non siano tali da giustificare l’interruzione del trattamento.

    Mi pare sia corretto, quindi, lasciare il dissenso del medico rispetto alle richieste del paziente dentro il “diritto di astensione” previsto dall’art. 22 del Codice di deontologia medica. L’unico fondamento di una dichiarazione astratta di obiezione di coscienza alle DAT, in quanto tali, potrebbe essere l’insistenza terapeutica elevata a principio etico assolutamente vincolante. L’insistenza terapeutica è l’altra faccia dell’ostinazione irragionevole. Nell’una il medico si trova di fronte alla possibilità estrema di tentare un rimedio, nell’altra all’impossibilità di aiutare il malato. È innegabile che il medico abbia il dovere di prolungare le terapie tutte le volte in cui vi sia una speranza. Il problema è se questo dovere sussista indefinitamente e indipendentemente dalla volontà del paziente. Gli obblighi del medico non si definiscono in astratto sui manuali di medicina, ma all’interno di una situazione specifica e determinata che ha nella soggettività del paziente uno dei suoi elementi costitutivi. Se è illegittimo, eticamente prima che giuridicamente, intubare un soggetto contro la sua volontà, non vi è motivo per negare il diritto di esercitare analogo rifiuto attraverso una DAT.

    In termini di civiltà giuridica e di sensibilità etica le DAT sono il naturale prolungamento del diritto fondamentale di ciascun paziente di essere informato e di decidere sulle terapie che dovrà subire. Pretendere o minacciare un’obiezione di coscienza, astratta, generica e incondizionata non è solo in contrasto con quanto il codice di deontologia medica è andato indicando in questi anni, ma è privo di qualsiasi fondamento. Sarebbe un’obiezione all’alleanza terapeutica, all’ascolto del paziente, alla valutazione del singolo caso, se non alla stessa responsabilità della diagnosi. Il dovere del medico di decidere per il bene del paziente non è separabile dal dovere di ascoltarlo. L’insistenza terapeutica esiste per “qualcuno” e non per qualcosa. L’accanimento terapeutico si può manifestare anche nel rendere la vita un rigido rituale imposto da altri.

    Penso alle belle parole di Jonas: “…il medico dovrebbe essere disposto a onorare il significato fondamentale della morte per la vita terrena (contro la sua moderna valutazione a male che si deve rimuovere) e a non negare a un morente la sua prerogativa di entrare in rapporto con la fine che si avvicina, e di farla propria, a suo modo, rassegnandosi, rappacificandosi con lei o rifiutandola, in ogni caso comunque nella dignità del sapere".

    È diverso il caso del suicidio medicalmente assistito, perché presuppone un coinvolgimento del medico molto più intenso rispetto all’ipotesi precedente. Si è parlato trionfalmente (saremmo il primo paese al mondo) di una sentenza che avrebbe smantellato il modello ippocratico (Maurizio Mori). Mi sembra, quindi, un escamotage retorico l’affermazione della Corte secondo cui, esistendo un diritto del paziente a porre fine alle proprie sofferenze ma non un dovere del medico, sarebbe fuor di luogo prevedere la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se si può parlare di smantellamento del modello ippocratico, allora è l’impostazione complessiva dell’identità e del ruolo del medico ad essere messa in discussione. Sarebbe, quindi, grave non disciplinare le modalità di esercizio dell’obiezione di coscienza. E questo anche a tutela della dignità del paziente, perché sappia con chiarezza a chi rivolgersi, senza dover ricorrere, come nella triste vicenda Welby, a una “coscienza a nolo”, a un appello pubblico per essere aiutato a morire.

    Si poteva, con una sentenza, disciplinare un istituto così delicato? No, a mio avviso. E così torno alla prima domanda e mi avvicino alla prossima. La Corte costituzionale, in questo caso, sembra non voler guardare la crepa aperta nel nostro ordinamento. Crepa che avrebbe potuto colmare soltanto scendendo nei dettagli. I dettagli propri di quegli articolati provvedimenti normativi che spetta al legislatore elaborare.    

    Prof. Carla Faralli  

    La legge 219 non contiene alcuna previsione all’obiezione di coscienza, come alcuni avrebbero voluto, previsione che, a mio parere, sarebbe stata del tutto inappropriata, perché la legge non prevede alcuna pratica a danno del paziente e tantomeno consente l’eutanasia. D’altra parte “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali: a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali”, ma entro questi limiti “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo” e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6).

    Particolare attenzione merita il caso del paziente che intende rinunciare o rifiutare le cure, ma che si trova in uno stato tale da richiedere l’intervento del medico per attuare concretamente la sua scelta. Il tema è stato ampiamente dibattuto dal CNB (v. parere del 24 ottobre 2008) con posizioni molto differenti: alcuni hanno sostenuto che, soprattutto se si tratta di rinuncia/rifiuto di cure salvavita, l’intervento del medico presenta profili di attrito con il dovere di curare il paziente e tutelarne la vita; altri hanno sottolineato la priorità dell’autodeterminazione del paziente, anche al fine di evitare esiti discriminatori, in quanto si creerebbe una disparità tra i pazienti in grado di sottrarsi autonomamente alle cure e i pazienti non in grado di farlo, che perciò si vedrebbero negato in concreto l’esercizio di un diritto garantito ai primi.

    Solo qualora l’opzione indicata dalla Corte Costituzionale nel caso del DJ Fabo, di cui si dirà, di allargare l’ambito di applicazione della legge 219 ai casi di suicidio medicalmente assistito, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe, io credo, necessaria.

    4. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?

    Prof. Lorenzo d’Avack

    La L. 219/2017 è importante perché valida le ‘Disposizioni anticipate di trattamento’ (DAT). Le DAT non erano legittimate fino ad allora, sebbene alcuni Comuni le registrassero. Ma non avevano alcun valore giuridico e soprattutto non rappresentavano alcuna garanzia per il paziente e per il medico.

    Non riscontro alcuna necessità di modifiche, anche perché le DAT, diversamente dalla terminologia utilizzata (“disposizioni” anziché “dichiarazioni”), che fa presumere una vincolatività del documento, non sono tali in relazione alla reale situazione clinica del paziente in rapporto agli eventuali sviluppi della scienza medica.

    Per quanto concerne l’aiuto al suicidio medicalizzato, la sentenza della Corte costituzionale non le prevede, ritenendo che la volontà del paziente, oltre che libera ed informata, debba essere attuale

    Altre legislazioni eutanasiche muovono dalla possibilità per un paziente di avvalersi delle DAT. 

    Prof. Salvatore  Amato

    Non credo che le DAT abbiamo alterato il nostro impianto normativo, perché sono il naturale ed eticamente doveroso prolungamento del diritto all’autodeterminazione, consentendo al soggetto incapace di pretendere quelle stesse cose che avrebbe potuto esigere se fosse stato capace. Del resto, come mette in luce il decreto del Tribunale di Modena di cui ho parlato precedentemente, si sono inserite nel nostro contesto normativo ben prima della L. 219/2017. La legge ha naturalmente definito il quadro complessivo, ampliandolo ad esempio con la pianificazione condivisa delle cure, ma ha sostanzialmente un carattere riepilogativo di quanto, oltre ad essere asseverato in molte disposizioni giudiziali, era già presente nella pratica clinica e nelle regole deontologiche.

    Non è così per la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato. Come ho detto viene già letta come il definitivo ripudio della differenza tra far morire e lasciar morire con evidenti riflessi sul modello ippocratico delle tradizionali linee di lettura del nostro ordinamento giuridico. Non so se sia effettivamente così. Probabilmente non era questa l’intenzione di alcuni o della maggior parte dei giudici della Corte. Non lo sapremo mai, finché non introdurremo il principio della motivazione individuale delle sentenze, proprio della cultura anglosassone. Purtroppo, noi continuiamo a nasconderci dietro il modello del giudice “senza anima”, “bocca della legge” a cui forse non credeva veramente neppure Montesquieu, se guardiamo alla confusa costruzione della magistratura come un potere nullo che tuttavia avrebbe dovuto frenare gli altri poteri.

    Quali che fossero le intenzioni della Corte, questa sentenza ha creato dei vuoti dalle conseguenze imprevedibili. Sul piano generale è, a mio avviso, illusorio pretendere di normalizzare o, forse meglio, “normativizzare” l’eccezione: lasciare, cioè, invariato l’impianto del nostro Codice penale, restringendone l’efficacia quando ricorrono situazioni ben determinate e circoscritte.  Le maglie si sono subito allargate, come attesta la sentenza della Corte d’Assise di Massa 27.07.2020 nel caso Trentini che, con una singolare disinvoltura semantica, ha sostenuto che “per trattamento di sostegno vitale deve intendersi qualsiasi trattamento sospeso il quale si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida”. Anche un antibiotico, quindi.

    Ma mi vorrei soffermare, tra i tanti aspetti discutibili (ad esempio la confusione tra i Comitati etici “territoriali” previsti dalla legge 11 gennaio 2018 n. 3, ma non ancora istituiti, e i Comitati etici regolamentati dalle Regioni ai sensi del decreto 8 febbraio 2013, che sono gli unici attualmente esistenti; e ancora l’incomprensibile riferimento all’uso compassionevole dei farmaci), su un aspetto particolare.

    Con innegabile acribia, la Corte non teme di vestire i panni del legislatore, istituendo oltre al suicidio medicalmente assistito, un sistema di controlli per la sua attuazione. Per evitare abusi in danno di “persone vulnerabili”, garantire la dignità̀ del paziente ed evitare al medesimo ulteriori sofferenze attribuisce alle strutture pubbliche del servizio sanitario il compito di “verifica” delle modalità̀ di esecuzione. Aggiunge, poi, che i Comitati etici (come ho detto non è chiaro a quali Comitati si faccia effettivamente riferimento) “intervengono” a tutela dei soggetti “particolarmente vulnerabili”.

    A questo punto tutto diventa abbastanza contraddittorio e confuso.

    Il primo problema è cosa si intenda con “strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”?  Chi assume una decisione così delicata? Un dirigente amministrativo o un organismo appositamente istituito, come ha proposto ad esempio il Comitato etico della Toscana? L’ “intervento” del servizio sanitario è per verificare o per attuare? Si può attuare senza verificare? E verificare con quali poteri, con quali limiti, attraverso quali competenze? In assenza di un provvedimento normativo che fornisca chiare e omogenee direttive a livello nazionale, c’è il forte rischio di un’applicazione della sentenza affrettata ed eterogenea con intollerabili differenze territoriali nella tutela dei pazienti e nell’adeguatezza dei sistemi di assistenza. Proprio l’opposto di quello che auspica la Corte.

    Ancora più complesso è il problema dell’identità e del ruolo dei Comitati etici. Se le espressioni “intervento” e “verifica” sono estremamente vaghe, i loro rapporti sono ancora più equivoci. Il Comitato etico è l’unico organismo a dover “verificare” o si trova a realizzare “una verifica della verifica”? E quando opera questa verifica? Sempre? Solo nel caso di soggetti “particolarmente vulnerabili”? Che natura ha, poi, questa verifica? È meramente orientativa o è assolutamente vincolante?

    Ci troviamo innegabilmente di fronte a una sentenza piena di buone intenzioni, ma non bastano a definire un coerente quadro normativo. Abbiamo sicuramente tante nuove norme e tanti orpelli burocratici. Quella che manca è un’effettiva regolamentazione.

    Prof. Carla Faralli

    Come si è detto, la legge 219 non contiene alcuna previsione relativa al suicidio assistito, come ribadito nella pronuncia della Corte Costituzionale  sul caso del DJ Fabo, ma la Corte osserva che “una disciplina delle condizioni di attuazione delle decisioni di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda e continua e con relativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’articolo 580 del Codice Penale, inserendo la disciplina stessa nel contesto della Legge 219 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, opportunamente valorizzata dall’articolo 1 della legge medesima.” A parere della Corte “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”, “senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio di dignità umana oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.

    Certo, come si è detto, qualora l’opzione indicata dalla Corte di allargare l’ambito di applicazione della Legge 219 fosse seguita, la previsione dell’obiezione di coscienza si renderebbe necessaria.

    Personalmente auspico che si possa arrivare ad una legge ad hoc sulla fattispecie del suicidio assistito piuttosto che procedere ad un inserimento nella legge 219 che a tre anni dall’entrata in vigore manifesta alcune problematicità sul piano attuativo.

    Consenso informato, disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa delle cure stentano ad essere considerati l’esito finale di un processo comunicativo in grado di costruire un’alleanza fiduciaria tra due persone, medico e paziente, entrambe portatrici di proprie competenze e valori e rischiano di divenire l’ennesimo atto burocratico di firme su fogli prestampati. Ancora carente è inoltre la formazione dei medici e degli operatori sanitari, come la legge 219 prescrive (art. 1 comma 10) in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative in modo che essi non vivano, come spesso accade, l’impossibilità di intervenire su certe patologie, la rinuncia e il rifiuto delle cure da parte del paziente come una sconfitta della loro professione.

    Quanto alle disposizioni anticipate di trattamento, si riscontrano difficoltà soprattutto sul piano attuativo. Dopo l’entrata in vigore della legge 219, l’8 febbraio 2018 il Ministero dell’Interno, con propria circolare, ha chiarito che gli sportelli competenti a ricevere  le disposizioni anticipate di trattamento (consegnate personalmente da soggetti residenti nel comune) sono solo gli uffici demografici municipali; che la legge  non disciplina l’istituzione di un nuovo registro dello stato civile;  che gli uffici comunali devono limitarsi a registrare “un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate e ad assicurare la loro adeguata conservazione in conformità ai principi di riservatezza dei dati personali”; che gli uffici anagrafe devono  assicurare un raccordo organizzativo tra di loro per garantire “la corretta trattazione delle fattispecie riguardanti quei disponenti che, migrati da altri comuni, consegnino al nuovo comune di residenza nuove disposizioni anticipate di trattamento modificative di quelle precedenti o revoche delle stesse”.

    Il 31 luglio 2018 il Consiglio di Stato ha risposto ad alcuni quesiti formulati dal Ministero della Salute in ordine in particolare al registro nazionale previsto dalla Legge 219 (art. 4, comma 7), sottolineando che esso non dovrebbe limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT, ma dovrebbe anche raccoglierle, consentendo in tal modo di renderle conoscibili a livello nazionale, evitando che esse abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese, il che vanificherebbe la realizzazione concreta della normativa. Il Consiglio rileva che è opportuno che in esso siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al Servizio sanitario nazionale per garantire a tutti i medesimi diritti.

    Solo il 10 dicembre 2019, dopo il via libera del garante della privacy, è uscito il Regolamento concernente la banca dati nazionale delle DAT (originariamente previsto per il 30 giugno 2018) che è entrato in vigore il 1° febbraio 2020.  

    5. A quale domanda, diversa da quelle qui formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema?  

    Prof. Lorenzo d’Avack

    I giudici sono preparati in merito alle problematiche etiche che nelle sentenze debbono affrontare?

    Certamente No. Va ricordato che gli interventi dei giudici nei c.d. ‘casi difficili’ con sensibili ricadute etiche non sono riusciti a creare regole di diritto e orientamenti sufficientemente certi in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra i diritti della persona e il progresso della scienza, tra gli interessi individuali (tutela della persona) e gli interessi collettivi (salute pubblica).

    Questi settori sono stati caratterizzati da orientamenti giurisprudenziali difformi, incoerenti, dominati prevalentemente dalle ideologie proprie del giudice, dagli eccessi esegetici che sovente niente altro sono che dei paraventi, per altre finalità (politiche, sociali, personali), con ricadute negative sui principi cardine quali legalità e tassatività in altre parole: ‘certezza del diritto’. Non è certo possibile dire che siano stati forniti elementi sufficienti per guidare il processo di costruzione di nuovi assetti sociali e politici riguardanti la scienza e le nuove tecnologie in relazione con i principi etici propri dei diritti fondamentali. 

    Prof. Salvatore Amato.

    I giudici devono o vogliono divenire legislatori?

    Devono. Come ho cercato di mettere in luce nella lunga premessa alla prima domanda, potremmo dire che il giudice è quasi costretto a divenire l’interprete delle attese sociali, perché è su di lui che si scaricano le rivendicazioni dei diritti individuali. Tra il diritto alla salute e il diritto a interrompere le cure, tra il diritto a interrompere le cure e il diritto a morire vi sono tante tragedie individuali che non possono restare senza tutela. In assenza di un adeguato supporto normativo, il giudice si trova a sopportare da solo questo pesante sovraccarico morale.

    Vogliono. Mi sembra che ormai i giudici non avvertano più lo smarrimento e i rischi di questa solitudine che più li avvicina al cittadino e più li allontana dal rispetto del quadro istituzionale. È estremamente significativa dell’assuefazione a questo ruolo di supplenza una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di rifiuto dell’emotrasfusione da parte dei testimoni di Geova (4 – 23 dicembre 2020, n. 29469). Con apprezzabile garbo teorico buona parte della sentenza è dedicata a spiegare come, “in mancanza della disciplina per fattispecie legale”, sia possibile ricavare una norma dai principi costituzionali. Ecco i passaggi che ci vengono illustrati: ricostruzione del caso concreto, individuazione dei principi costituzionali rilevanti, ponderazione tra i vari principi in relazione alle loro prospettive attuative, e infine il giudizio, “il quale consta non della diretta applicazione del principio costituzionale, ma della regola di diritto formulata per il caso concreto sulla base della combinazione del detto principio, se del caso bilanciato con altro principio concorrente, con le circostanze del caso”. Voilà… il giudice si è fatto legislatore e coltiva con elegante disinvoltura il proprio spazio creativo.

    Prof. Carla Faralli

    Quale ruolo per i CE nei casi di aiuto al suicidio?

    Nella sentenza del 2019 sul caso del DJ Fabo la Corte Costituzionale ha fissato alcuni principi circa la legittimità dell’aiuto al suicidio che così possono essere riassunti:

    - La persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili

    - La persona è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli

    - La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve essere affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario e deve vedere l’intervento di un Comitato etico quale “organismo di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possono presentarsi nella pratica sanitaria”.

    In un parere del 31 marzo 2017 il CNB, richiamando pareri precedentemente espressi, rileva che la normativa vigente prevede, seppur in via residuale, che i Comitati etici per la sperimentazione possano svolgere anche altre funzioni (il Decreto 8 febbraio 2013 recita: “ove non già attribuita a specifici organismi,  i CE possono svolgere una funzione di consultazione in relazione a questioni etiche connesse con attività scientifiche assistenziali allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona; i CE inoltre possono proporre iniziative di formazione degli operatori sanitari relativamente a temi in materia bioetica”), ma constata che tali Comitati come attualmente composti e organizzati svolgono quasi esclusivamente valutazioni per la sperimentazione farmacologia. La pratica clinica pone agli operatori sanitari problemi sempre più complessi in conseguenza degli sviluppi tecnologici, che alimentano nuove speranze e aprono nuovi interrogativi, e dell’accresciuta consapevolezza da parte dei pazienti della propria autonomia di scelta, problemi che richiedono competenze diverse rispetto a quelle previste per i Comitati etici per la sperimentazione.

    Se le valutazioni sulle sperimentazioni farmacologiche – sottolinea il CNB – hanno carattere tendenzialmente impersonale e procedurale, l’etica clinica, invece, accentua le condizioni individuali ed esistenziali del rapporto con i pazienti, di qui l’esigenza dei Comitati per l’etica nella clinica che non devono sovrapporsi, sostituire o interferire nel rapporto tra medico, equipe medica e paziente, ma rafforzare tale rapporto quando, a parere del medico o su richiesta del paziente, appare necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione e allargare gli orizzonti del dialogo. In questi casi il Comitato per l’etica nella clinica può fornire un parere senza togliere al medico o all’operatore sanitario autonomia e responsabilità decisionali.

    Molti paesi si sono forniti di questi organismi: ad esempio in Spagna vi sono i Comités Asistencial de Etica, nel Regno Unito i Clinical Ethics Cmmittees, strutture analoghe negli Stati Uniti e in Francia. In Italia pionieristico è il caso della Regione Veneto che fin dal 2004 ha adottato linee guida per la costituzione e il funzionamento dei Comitati etici per la pratica clinica.

    Mi auguro che i Comitati per l’etica nella clinica trovino un’adeguata attenzione legislativa e amministrativa per evitare che gli operatori sanitari siano lasciati soli a prendere decisioni in situazioni particolarmente drammatiche, quali quelle relative al suicidio assistito, ma non solo, decisioni che non devono basarsi su criteri astratti ritenuti oggettivamente validi, ma contestualizzate e individualizzate nei casi concreti, al “letto del malato".

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