Diritti Umani
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La non punibilità delle vittime di tratta di esseri umani: la prima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla posizione giudiziaria della vittima ai sensi dell’art.4 CEDU

La non punibilità delle vittime di tratta di esseri umani: la prima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla posizione giudiziaria della vittima ai sensi dell’art.4 CEDU

di Marta Durante

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 16 febbraio 2021, si pronuncia per la prima volta sul rapporto tra gli obblighi positivi gravanti sugli Stati Parte in adempimento dei divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il principio di non punibilità delle vittime di tratta, in casi avvenuti nel 2009 in Regno Unito ove due minori, vittime di tratta di esseri umani, erano stati condannati per reati che erano stati costretti a commettere in forza della loro condizione di sfruttamento.

Inserendosi nel solco di quella giurisprudenza convenzionale sempre più attenta ad accordare massima tutela alle vittime di tratta, la sentenza costituisce uno storico passo avanti verso l’inquadramento della posizione, anche giudiziaria, della vittima.

Sommario: 1. I fatti del giudizio. 2. La sentenza della Corte EDU: a) il quadro normativo di riferimento. 2.1. (segue): l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae. 2.2 (segue): gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 CEDU. 3. Il cuore della decisione della Corte EDU. 4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione. 5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie. 6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità. 7. Conclusioni

1. I fatti del giudizio

Con la sentenza del 16 febbraio 2021 (ric. n. 77587/12 e n.74603/12), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in seguito Corte EDU), in accoglimento dei ricorsi depositati da due cittadini vietnamiti, V.C.L. e A.N. (rispettivamente il primo ed il secondo ricorrente), ha riconosciuto la violazione degli artt.4 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (da ora in poi anche la Convenzione o CEDU) da parte del Regno Unito per non avere adottato adeguate misure operative in favore dei due ricorrenti, ed in particolare, per averli sottoposti a processo penale e successivamente condannati, ancorché fossero stati riconosciuti dalle Autorità Competenti quali vittime di tratta.

Nella vicenda che ha originato la decisione, V.C.L. e A.N. erano giunti clandestinamente dal Vietnam al Regno Unito nel 2009, rispettivamente all’età di 15 e 17 anni. Lo stesso anno, venivano sottoposti entrambi a procedimento penale per il reato di produzione di droga in quanto, nel corso di due raid antidroga, la polizia britannica li aveva scoperti a lavorare come giardinieri presso piantagioni di cannabis. Una volta accertata la minore età dei ricorrenti, venivano instaurati i procedimenti penali e gli avvocati di V.C.L. e A.N. riferivano loro che sostenere lo stato di coercizione non sarebbe stata una linea difensiva proficua. Ciò in quanto gli uffici della Procura, nonostante l’accertamento della minore età e la revisione dei casi, non erano intenzionati a recedere dalla decisione di portare avanti i procedimenti.

Nelle more del procedimento di primo grado, l’Autorità Competente si pronunciava autonomamente sui fatti che avevano coinvolto V.C.L. identificandolo come vittima di tratta ai sensi dell’art.3 del Protocollo di Palermo e dell’art.4 della Convenzione di Varsavia. Tuttavia, questa conclusione non era stata condivisa né dalla Procura della Corona né dalla Corte inglese che avevano invece ritenuto prevalente l’interesse pubblico la prosecuzione del procedimento.

Sicché, dopo essersi dichiarati entrambi colpevoli dietro consiglio delle proprie difese, V.C.L. e A.N. venivano condannati in primo grado, rispettivamente, alla pena di 20 mesi e di 18 mesi di reclusione.

Solo dopo la condanna in primo grado, A.N. veniva identificato come vittima di tratta e ciò grazie all’intervento del nuovo avvocato che aveva riferito il caso all’Autorità Competente.

Conclusi i procedimenti di primo grado, i ricorrenti venivano ammessi ad impugnare le sentenze di condanna davanti la Corte d’Appello inglese, ancorché fossero già spirati i termini: si trattava infatti dei primi casi, dopo l’entrata in vigore della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, in cui venivano in rilievo azioni vertenti sulla tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento lavorativo. Tuttavia, la Corte d’Appello respingeva i motivi di impugnazione, che vertevano sull’applicabilità nei casi di specie del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Il giudice di secondo grado si limitava a richiamare le decisione assunte dalla Procura e negava ogni automatismo tra la qualifica di vittima di tratta di esseri umani e la non punibilità penale[1].

Si rilevavano parimenti infruttiferi i tentativi di adire la Corte Suprema, così come il secondo appello presentato da V.C.L., nel 2016.

Una volta esperite tutte le vie di ricorso interne V.C.L. e A.N. hanno adito la Corte EDU lamentando il mancato adempimento da parte del Regno Unito degli obblighi di protezione in favore delle vittime di tratta derivanti dall’art.4 della Convenzione e dai divieti ivi previsti[2]. In particolare, le autorità giudiziarie, alla luce delle circostanze fattuali in cui avevano avuto luogo gli arresti ed una volta accertata la minore età dei ricorrenti, avrebbero dovuto riconoscere loro la qualità di vittime di tratta ed applicare conseguentemente il principio di non punibilità delle vittime di tratta di cui all’art.26[3] della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani firmata a Varsavia nel 2005 (cd. Convenzione di Varsavia). Tali mancanze avevano impedito a V.C.L. e A.N. di accedere agli strumenti di recupero a cui le vittime di tratta hanno diritto in quanto scaturenti dai divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 CEDU e dagli obblighi di tutela e protezione sanciti dalle norme internazionali in materia di tratta. I ricorrenti, ritenevano infine che la mancata adozione di misure operative per garantire loro protezione avevano inficiato, ai sensi del’art.6, par. 1 della Convenzione, anche l’equità dei processi a cui gli stessi erano stati sottoposti.

2. La sentenza della Corte EDU: a) Il quadro normativo di riferimento

La Corte EDU, prima di passare all’esame dei motivi di inammissibilità dei ricorsi, ha dedicato una parte consistente della motivazione all’individuazione del quadro normativo di riferimento all’interno del quale sussumere i casi dei ricorrenti. Partendo dalla normativa interna, sono state richiamate quelle pronunce giurisprudenziali che avevano implementato la non-punishment provision, di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia, tramite tre strumenti: l’applicazione della causa di giustificazione dello stato di coercizione e di necessità (cd. duress circumstances); la predisposizione di reports[4] da parte delle forze dell’ordine e di guide interne al Crown Prosecution Service ove venivano individuate le circostanze in presenza delle quali l’imputazione penale di vittime di tratta – effettive o potenziali – poteva risultare inopportuna e non corrispondente all’interesse pubblico necessario per l’avvio dell’azione penale; ed infine, il potere del giudice penale di sospendere il processo, ove il pubblico ministero non avesse correttamente adempiuto ai propri doveri di valutazione (abuse of process) di cui alle guide interne sopra richiamate.

Inoltre, viene dato atto che l’ordinamento britannico, già dall’1 aprile 2009 aveva implementato un Meccanismo Nazionale di Referral[5] al fine di procedere, tramite le Autorità competenti all’uopo istituite, ad una pronta identificazione delle vittime di tratta e fornire loro adeguato supporto.

Passando all’esame delle fonti internazionali rilevanti, la Corte EDU ha ricordato l’art.3 del Protocollo di Palermo[6] - ratificato dal Regno Unito nel 2006 – che fornisce la definizione internazionalmente accettata di tratta individuandone, tre elementi costitutivi, ossia l’azione (reclutamento, trasporto, trasferimento, ospitare o accogliere persone), i mezzi (l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione ecc.) ed il fine (lo sfruttamento della vittima); salvo poi specificare, che ove un minore di diciotto anni sia fatto oggetto di sfruttamento, si configurerà in ogni caso il reato di tratta pur non sussistendo l’uso di mezzi di coercizione.

Vengono successivamente richiamate, la definizione di lavoro forzato fornita dall’art.2 della Convenzione dell’OIL sul lavoro forzato e obbligatorio, la non-punishment provision prevista dall’art.4 del Protocollo del 2014, gli indicatori di lavoro forzato[7] elaborati dall’Organizzazione medesima ed i programmes of actions, di cui all’art.6 della Convenzione del 1999 dell’OIL sulle forme peggiori di lavoro minorile.

La Corte EDU si è infine dedicata alla Convezione di Varsavia ed alla Direttiva 2011/36[8] dell’Unione Europea. Si tratta di fonti internazionali che hanno predisposto degli standard minimi di tutela di cui la vittima di tratta deve essere destinataria. Vengono richiamati, in particolare, gli artt.10 e 35 della Convenzione di Varsavia, nei quali si fa esplicito riferimento alla necessità che gli Stati si aprano a strumenti di effettiva cooperazione con le organizzazioni non governative ed adoperino personale qualificato che proceda, inter alia, ad una pronta identificazione della vittima di tratta. In tale quadro, vengono infine ricordati il già citato art.26 della Convenzione di Varsavia e l’art.8[9] della Direttiva 2011/36. Entrambe le norme da ultimo citate sollecitano gli Stati firmatari e gli Stati Membri ad accordare alle autorità giudiziarie la possibilità di non procedere penalmente nei confronti delle vittime di tratta per i reati che le stesse sono state costrette a commettere quale conseguenza diretta della situazione di sfruttamento in cui versano.

2.1. (Segue): b) l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae dei ricorsi

I ricorsi sottoposti al vaglio della Corte EDU hanno richiesto il preliminare accertamento della sussistenza delle condizioni di ammissibilità, ed in particolare la verifica della sussistenza dello status di “vittima” di cui all’art.34 della Convenzione[10] e della competenza ratione materiae.

Per quanto concerne il primo motivo di inammissibilità, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti la qualità di vittime di tratta, potenziali prima ed effettive poi, e quindi l’ammissibilità dei ricorsi ratione personae. La Corte EDU ha fatto leva, in primo luogo, sull’esistenza di reports interni[11] che avevano individuato la coltivazione di cannabis quale attività spesso svolta da minori di origine vietnamita vittime di tratta. In secondo luogo, ha messo in evidenza le conclusioni a cui erano giunte le Autorità Competenti, le quali - nonostante la fermezza delle decisioni della Procura, nel caso del primo ricorrente, e la condanna penale medio tempore intervenuta nel caso del secondo ricorrente - non avevano mai negato a V.C.L. e A.N. la qualifica di effettive vittime di tratta. 

Per quanto riguarda il secondo requisito di ammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha richiamato i propri precedenti giurisprudenziali[12] che avevano delineato i rapporti intercorrenti tra le fonti internazionali in materia di tratta di esseri umani e l’art.4 della Convenzione[13]. In proposito, la Corte EDU ha dato per assodato che l’art.4 della Convenzione - ancorché non ne faccia menzione - ricomprende il divieto di tratta di esseri umani e che possono pertanto sorgere violazioni dell’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, solo ove siano presenti tutti gli elementi costitutivi di tale fenomeno criminoso come individuati dal Protocollo di Palermo e dalla Convenzione di Varsavia[14]. Pertanto, l’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, non può essere interpretato isolatamente, con la conseguenza che la Corte EDU è competente a procedere ad una lettura sistematica del citato art. 4 in combinato disposto con le altre norme internazionali pertinenti, tra cui rientrano la Convenzione di Varsavia, gli obblighi di protezione della vittima ivi previsti e come interpretati dal GRETA, ossia  dall’organo istituito al fine di dare loro applicazione[15]

2.2.(Segue): c) Gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 della Convenzione EDU

Una volta liberato il campo di indagine dalle questioni di inammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha ribadito la sua dottrina sugli obblighi positivi, secondo cui non è sufficiente che gli Stati si astengano dal violare i diritti convenzionalmente garantiti, ma devono anche adottare misure positive a tale riguardo[16]. Vengono così individuati gli obblighi sostanziali e procedurali posti a carico degli Stati Parte della Convenzione, specificando che gli obblighi scaturenti dall’art.4 CEDU, fermo restando il limite della proporzionalità, devono seguire una triplice direzione: vietare e punire penalmente la tratta ed i suoi responsabili; adottare, in determinate circostanze, misure operative per proteggere le vittime, effettive o potenziali; ed infine indagare su fatti di potenziale tratta di persone. 

3. Il cuore della decisione della Corte EDU

Così inquadrato il campo di indagine, la Corte EDU ha iniziato la sua prima considerazione sul principio di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono state costrette a commettere inquadrandolo nell’ambito del secondo gruppo di obblighi che possono, in certe circostanze, scaturire dall’art.4 della Convenzione. Alla luce del tenore letterale delle disposizioni internazionali che la prevedono e delle circostanze che devono sussistere affinché sorga l’obbligo di attivare misure operative, la Corte EDU ha escluso che la non-punishment provision faccia sorgere un obbligo generale e assoluto di non perseguire le vittime di tratta.

Alla luce di ciò, la Corte EDU  ha ridimensionato le questioni che le erano state sottoposte, precisando che nel caso di specie non si trattava di valutare, sic et simpliciter, la mancata adozione da parte del Regno Unito di un sistema di non punibilità rivolto alle vittime di tratta ex art.26 della Convenzione di Varsavia, ma piuttosto di stabilire se le circostanze del caso avevano fatto sorgere doveri operativi di protezione in favore dei ricorrenti, e se quindi la loro mancata attivazione avesse dato luogo ad una violazione dell’art.4 CEDU.

La risposta positiva all’interrogativo offerta dalla Corte EDU si fonda, in primo luogo, sul test che la sua giurisprudenza ha formulato[17] per individuare il momento a partire dal quale sorge l’obbligo di adottare misure operative. A riguardo, deve farsi riferimento al momento in cui le autorità dello Stato avrebbero dovuto avere conoscenza di circostanze che fanno sorgere un sospetto credibile che la persona identificata è stata o potrebbe essere vittima del reato di tratta così come definito dall’art.3 del Protocollo di Palermo e dall’art.4 della Convenzione di Varsavia (par.152). La necessità di anticipare il sorgere del dovere di intervento in favore della vittima - effettiva o potenziale –si spiega, secondo la Corte EDU, in ragione delle esigenze di protezione e prevenzione che emergono a chiare lettere dalla Convenzione di Varsavia e dalla Direttiva 2011/36 e da cui deriva che gli Stati sono chiamati a proteggere le vittime di tale fenomeno criminoso da ulteriori danni, inserendola in un percorso di recupero sociale, fisico e psicologico.

Nell’applicare tali principi ai fatti che hanno visto coinvolti V.C.L. e A.N., la Corte EDU ha affermato che vi erano chiari indizi sulla qualità dei ricorrenti come vittime di tratta. Già all’epoca degli arresti, i reports interni avevano identificato i giovani vietnamiti come gruppo a rischio tratta, spesso impiegato nelle piantagioni di cannabis. Inoltre, dalla minore età dei ricorrenti doveva dedursi il loro status di vulnerabilità. Se quindi nel caso di V.C.L., le autorità avrebbero dovuto capire fin dall’inizio che si trattava di una vittima di tratta (par.118 e 163)[18]; nel caso di A.N., ancorché questi avesse dichiarato di essere nato nel 1972, tali sospetti dovevano sorgere al più tardi nel momento in cui (solo 9 giorni dopo il suo arresto) ne era stata accertata la minore età. Ancora, per la Corte EDU non sono passate inosservate le dichiarazioni di A.N. il quale aveva precisato che la piantagione era sorvegliata all’esterno, di non essere pagato per il lavoro che svolgeva e di avere ricevuto minacce di morte quando aveva manifestato l’intenzione di smettere di lavorare. Si trattava quindi di elementi a chiara dimostrazione dell’esistenza della sopraffazione e del controllo continuativo della persona esercitato uti dominus che caratterizza l’elemento oggettivo del reato di tratta.

Accertato che era sorto l’obbligo di adottare misure operative da parte del Regno Unito, la Corte EDU ha analizzato le circostanze in presenza delle quali potrebbe non prodursi una violazione delle libertà dell’art.4 CEDU. Viene in proposito chiarito che l’adempimento del dovere di intervento implica l’immediato deferimento della persona individuata alle autorità istituite nell'ambito del Meccanismo Nazionale di Referral, sì che il soggetto possa essere valutato da persone qualificate e formate a tal fine. Pertanto, qualsiasi decisione sull'opportunità o meno di avviare il procedimento penale a carico della vittima deve essere assunta solo dopo che tale valutazione viene completata. Inoltre, la Corte EDU ha chiarito che ove sia ritenuto prevalente l'interesse pubblico all'instaurazione dell'azione penale, una simile decisione deve fornire argomentazioni coerenti con le definizioni di tratta di cui al Protocollo di Palermo e alla Convenzione di Varsavia.  

Alla luce di ciò, la Corte EDU è stata molto critica nei confronti del Crown Prosecution Service per avere mancato di coordinarsi con le Autorità Competenti e con il Meccanismo Nazionale di Referral e per aver fornito giustificazioni periferiche che non andavano al cuore dell'assenza degli elementi costituenti la tratta. Una tale mancanza è apparsa ancor più ingiustificabile in considerazione dell’età dei ricorrenti da cui avrebbe dovuto conseguire l’applicazione della presunzione dell’esistenza dell’uso dei mezzi di coercizione e dello stato di vulnerabilità, secondo quanto previsto dalla normativa internazionale in materia. La Corte EDU infine non ha mancato di censurare aspramente l'operato delle Corti inglesi per non avere tenuto fede ai precedenti giurisprudenziali sull’applicazione dell’istituto dell’abuse of process alle vittime di tratta e per essersi, invece, limitate a fornire una motivazione ri-propositiva delle già insufficienti ragioni offerte dal Crown Prosecution Service.

In sintesi, la tardività dell’intervento identificativo delle Autorità Competenti imputabile alla Procura ed alle forze dell’ordine e l’assenza di un’esaustiva motivazione da parte delle autorità giudicanti hanno costituito una violazione dell’obbligo di proteggere le vittime di tratta che nel caso di specie ha inficiato l’instaurazione dei procedimenti penali e l’adozione delle sentenze di condanna a carico dei ricorrenti. In presenza di tali circostanze, è stato chiaro alla Corte EDU che la sottoposizione a processo di soggetti identificati come vittime di tratta, si pone in contrasto con l’obbligo di adottare misure operative per proteggere tali soggetti sì da garantire il raggiungimento di quell’obiettivo di recupero sociale, fisico e psicologico, che si pone alla base delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU.

Riconosciuta la violazione dell’art.4 della Convenzione, la Corte EDU è passata ad analizzare le denunciate violazioni dell’art.6 par.1 della Convenzione. Anche in questo caso, la Corte ha accolto le istanze dei ricorrenti, concludendo nel senso che l’equità dei procedimenti penali era stata pregiudicata dall’assenza di consapevolezza dei fatti sottostanti alle ammissioni di colpevolezza [19] e dalle carenti motivazioni fornite dalla Procura e dalle Corti per proseguire i procedimenti penali.

Conclusivamente, alla luce delle accertate violazioni della Convenzione, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti il diritto al risarcimento dei danni pari a 25.000 euro ciascuno.

4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione

La Corte EDU nel ricondurre il principio di non punibilità nel novero delle misure operative che gli Stati Parte, in determinate circostanze, sono chiamati ad adottare in adempimento degli obblighi scaturenti dall’art.4 della Convenzione, giunge ad una conclusione che si pone in linea di continuità con quel “cambio di passo[20] che, dagli inizi del secondo decennio del ventunesimo secolo, ha reso la giurisprudenza convenzionale in materia di tratta di persone una guida per gli Stati Parte verso un ampio inquadramento della tratta; un fenomeno criminale che viene delineato tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del caso, e che richiede l’intervento non solo delle norme penali, ma dell’intero ordinamento

Già a partire dallo storico caso Rantsev c. Russia e Cipro [21], la Corte EDU - dopo avere affermato che la tratta di persone quale forma moderna di schiavitù rientra indubbiamente nel campo di applicazione dei divieti dell'art. 4 della Convenzione– aveva sottolineato la necessità che gli Stati Parte adottassero, nell’ambito della misure operative di lotta alla tratta, un “comprehensive approach” funzionale a tutelare i diritti fondamentali delle vittime di tale fenomeno criminoso. Applicando la nota dottrina del vacuum (isolamento)[22], la Corte EDU richiamava il Protocollo di Palermo e la Convenzione di Varsavia quali fonti da cui trarre la definizione del reato di tratta[23] e da cui dedurre la necessità di un approccio non limitato all’adozione di misure di repressione penale, ma anche finalizzate a proteggere le vittime. Era chiaro pertanto, fin da allora, che l’obbligo di criminalizzare e perseguire la tratta fosse solo uno dei vari impegni assunti dagli Stati Parte nel contrasto a tale fenomeno criminoso e che la portata degli obblighi positivi derivanti dai divieti sanciti dall’art. 4 della Convenzione doveva essere considerata in tale più ampio contesto.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte EDU concludeva pertanto nel senso che lo stato russo e quello cipriota avevano violato l’at.4 della CEDU per non avere condotto indagini appropriate sulla morte di una ragazza russa, vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale ed e per non essersi muniti di sistemi idonei a punire tali reati e a proteggerne le vittime.

Successivamente a tale pronuncia, gli interventi della Corte EDU sul tema della tratta - sollecitati anche del disastroso espandersi del fenomeno[24] - sono andati sempre più spingendosi verso una interpretazione estensiva della definizione di tratta e, conseguentemente, degli standard di tutela spettanti alla vittima a garanzia delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In tale contesto, si inserisce il caso S.M. c. Croazia[25] ove la Grande Camera della Corte EDU, oltre ad ampliare ulteriormente l’ambito applicativo dell’art.4 CEDU includendovi il divieto di cd. tratta interna, delinea - sempre in un’ottica di favor victimae - il ruolo dell’abuso di vulnerabilità nell’ambito degli elementi costitutivi del reato di tratta. Nel caso di specie, la Corte EDU ha riscontrato la violazione dell’art.4 da parte della Croazia per non avere adottato misure operative a protezione della ricorrente la quale era stata sfruttata sessualmente da un ex poliziotto croato e aveva visto mandare assolto il suo sfruttatore in quanto le sue dichiarazioni erano state considerate inattendibili, pur non essendo state svolte ulteriori indagini a suffragio dei denunciati fatti di sfruttamento. Viene precisato che l’abuso dello stato di vulnerabilità della vittima costituisce un indizio - ancorché spesso poco tangibile - della presenza dell’elemento strumentale della tratta e dell’esecuzione di un’attività di lavoro forzato, e ciò anche quando la vittima si sia offerta volontariamente, quantomeno in un primo momento, per lo svolgimento del lavoro. Sicché la scarsa attendibilità delle dichiarazioni della vittima non potrà giustificare il mancato compimento di indagini approfondite su sospettabili fatti di tratta o la mancata adozione di misure protettive in favore della sua vittima.

Infine, anche nel recentissimo caso Affaire A.I. c. Italia[26] la Corte EDU è tornata ad affrontare il tema della vulnerabilità della vittima di tratta in una vicenda concernente la perdita della potestà genitoriale da parte della ricorrente. Nel caso di specie, la maggiore protezione che la vittima necessita in ragione dello stato di vulnerabilità in cui versa è un elemento che, agli occhi della Corte EDU, ha reso inaccettabile l’avere impedito alla ricorrente di intrattenere rapporti con i propri figli i quali erano stati nel frattempo dati in adozione.

Orbene, appare evidente che la prospettiva vittimologicamente orientata[27] che emerge dall’analisi della giurisprudenza in materia di tratta è la stessa che si pone alla base della decisione del 16 febbraio 2021. Coerentemente con un approccio integrato alla tratta, la non-punishmenti provision viene incorporata nell’art.4 CEDU quale ulteriore standard convenzionale di tutela dei diritti della vittima, il primo afferente la sua posizione giudiziaria. In un contesto in cui le cause di giustificazione - come le duress circumstances britanniche o lo stato di necessità dell’ordinamento italiano[28] - sono insufficienti per tutelare tempestivamente la vittima di sfruttamento ai fini di “criminalità forzata”[29], si avverte la necessità di rafforzare l’emersione internazionale del principio di non punibilità. Gli obiettivi di protezione verrebbero infatti frustrati dalla sottoposizione a processo della vittima a cui verrebbe inibito l’accesso agli strumenti di assistenza, favorendone anzi il (re)inserimento entro episodi di sfruttamento.

5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie

Quanto detto tuttavia non vuole dedurre dalle parole della Corte EDU affermazioni generalizzabili in merito all’applicabilità tout court del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Per quanto la non punishment provision sia entrata, come sopra esposto, nel novero delle misure operative da adottare a tutela della vittima di tratta, è altrettanto vero che tale incorporazione è tutto fuorché assoluta. Ciò è testimoniato non solo dalla formulazione letterale delle norme internazionali che ad essa fanno riferimento, ma anche dalla circostanza che la Corte EDU si è molto concentrata sulle “certain circumstances” in presenza delle quali la mancata applicazione del principio di non punibilità potrebbe non entrare in contrasto con libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In proposito, assumono rilievo da un lato l’identificazione[30] del soggetto indagato - da effettuarsi tramite le autorità all’uopo istituite e prima dell’adozione di decisioni giudiziarie in merito all’opportunità di sottoporre a processo penale vittime di tratta - e, dall’altro lato, il coordinamento effettivo ed efficace tra i vari attori impiegati nella lotta alla tratta (da compiersi tramite una tempestiva attivazione dei Meccanismi Nazionali di Referral e l’adozione di esaustive decisioni delle autorità giudiziarie che siano attinenti alla definizione di tratta e alle conclusioni a cui sono giunte le autorità competenti).

Si tratta di indicazioni di non poco rilievo e da cui emerge l’intento del giudice europeo di guidare le autorità nazionali verso una prospettiva di contrasto multilivello, che nella ricerca dell’equilibrio tra la tutela (penale) dell’ordine pubblico e la prevenzione di fenomeni di tratta tramite protezione delle sue vittime, mette in rilievo la dignità della persona, quale meta-valore ordinamentale[31]. In particolare, la pronta identificazione della vittima tramite personale qualificato e il repentino intervento dei Meccanismi di Referral sono elementi che richiamano l’attenzione sulle politiche dell’immigrazione concernenti l’identificazione[32] sollecitando un’analisi critica di quei sistemi giuridici che si mostrano meno inclini ad una visione preventivo-assistenziale e più orientati verso dinamiche di repressione penale e di puro contenimento dell’immigrazione[33].

Peraltro, a quest’ultima categoria sembra potersi in parte ricondurre il Regno Unito[34]. Infatti, sebbene la violazione della Convenzione accertata con la sentenza in commento non abbia inficiato l’intero sistema operativo messo in atto dall’ordinamento britannico a protezione delle vittime di tratta, le istanze di prevenzione manifestate dalla Corte EDU non sembrano trovare riscontro nella riforma anti-trafficking del 2015. Il Modern Slavery Act 2015, se per un verso ha introdotto un sistema di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono stati costretti a commettere[35], per altro verso si è focalizzato principalmente su un impianto di repressione penale, incentrato sulla definizione del reato di tratta, che continua a relegare l’intervento del Meccanismo Nazionale di Referral in una fase post factum.

Così, ad esempio, la riforma nulla ha previsto in merito al cd. Tied Visa System del 2012, ossia il sistema di concessione dei visti per i domestic workers che crea un legame quasi indissolubile (e da qui il nome) tra la legittimità dello status del ‘migrante lavoratore domestico’, giunto tramite richiesta di un cittadino britannico, e il datore di lavoro. Si tratta di un sistema che ha reso i lavoratori domestici sovente vittime di tratta e di ogni genere abuso (lavorativo, sessuale e criminale) da parte del datore di lavoro. A riguardo, la riforma del 2015 si è limitata solo a prevedere che ove il soggetto sia fatto oggetto di sfruttamento lavorativo, sessuale o criminale, potrà rivolgersi alle Autorità Competenti ed al Meccanismo Nazionale di Referral – sempre che ne conosca l’esistenza - per essere identificato come vittima di tratta ed ottenere la proroga del visto[36]. Viene così creato un sistema generatore di abusi e di sfruttamento che si autoalimenta, ove il Meccanismo Nazionale di Referral deve individuare quelle vittime che sono state create dallo stesso legislatore nazionale.

Orbene, ancorché sia evidente che continuano ad incontrare numerosi ostacoli quelle istanze di protezione e prevenzione provenienti da strumenti esterni alla Convenzione EDU, tra cui inter alia la Convenzione di Varsavia e la Direttiva n.2011/36, la Corte EDU con la sentenza in commento e tramite la delimitazione del ruolo svolto dai Meccanismi Nazionali di Referral si è resa cauta portavoce di tali esigenze, ora non più relegate entro i limiti di strumenti di “soft law” [37]. In particolare, la vincolatività di cui sono dotate le decisioni dei giudici europei dovrebbe sensibilizzare i legislatori nazionali verso una politica anti-tratta che si basi su un approccio human rights-based ed in cui l’applicazione del principio di non punibilità delle vittime di tratta dovrebbe costituire l’extrema ratio a fronte di un sistema che dovrebbe tutelare preventivamente le vittime di tali crudeltà. 

6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità delle vittime di tratta

La mancanza di assolutezza del principio di non punibilità delineato dalla Corte EDU nella sentenza in commento è inoltre testimoniata dall’assenza di precisazioni (e non potrebbe che essere così) circa le ulteriori sfide che il principio di non punibilità deve affrontare. Soggiace infatti a questo istituto una valutazione frutto di un bilanciamento non solo tra fatti penalmente rilevanti ma anche tra beni giuridici.

In particolare, i casi sottoposti al vaglio della Corte EDU vertevano sulla commissione di un reato, quale la produzione di stupefacenti, che rientra tra quei delitti che sovente sono connessi a vicende di tratta di esseri umani. È difficile pertanto ritenere che le indicazioni fornite dalla Corte EDU siano sufficienti per dare risposta (punibilità o non punibilità) a quelle ipotesi in cui la vittima di tratta venga costretta o persuasa a trasformarsi essa stessa in sfruttatore (fenomeno di cd. “cycle of abuse[38]), facendosi soggetto attivo di condotte lesive di quegli stessi diritti e libertà che l’art.4 CEDU intende tutelare. Ciò potrebbe verificarsi nei casi in cui venisse lesa l’integrità fisica della persona (gravi lesioni personali e omicidio). 

In tali ipotesi, soprattutto le più gravi, un diverso e più pregnante rilievo nell’opera di bilanciamento presupposta dal principio di non punibilità, dovrebbe essere accordato, in linea teorica, all’interesse all’avvio dell’azione penale, quantomeno ove già nella fase delle indagini e previo parere delle autorità competente, manchi quello stato di costrizione della vittima/carnefice su cui il principio di non punibilità si fonda. Diversamente argomentando, si correrebbe di svilire i nobili scopi della non-punishment provision rendendola un comodo escamotage elusivo della responsabilità penale.

7. Conclusioni

Il Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con questa innovativa decisione manifesta la presa di coscienza la una maggiore tutela delle vittime, anche sul piano giudiziale, è un passo necessario da compiere per adempiere alla missione di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e favorire l’emersione e la prevenzione dei fenomeni di tratta. Per quanto parte della dottrina[39] abbia criticato – in nome del principio della certezza del diritto – la forza espansiva di cui viene dotato l’art.4 CEDU, non può comunque negarsi che norme convenzionali aventi natura di jus cogens – in cui rientra a pieno titolo l’art.4 della Convenzione - richiedono che alle stesse sia accordata la capacità di adattarsi all’evoluzione della realtà fenomenica per fare fronte alle istanze di tutela della libertà e della dignità dell’essere umano a cui sono volte.

In chiave comparatistica, si può notare che l’attenzione riservata dalle Corte EDU all’istituto della non punibilità della vittima del reato di tratta per i reati che la stessa è stata costretta a commettere, non è la stessa che si riscontra nella normativa processuale italiana. Sul punto, l’Italia è stata già ripresa dal GRETA[40], senza che tuttavia il legislatore sia intervenuto sul punto.  Pertanto, per quanto ammirevoli siano gli sforzi finora compiuti dall’ordinamento italiano nella lotta alla tratta[41], alla luce dei passaggi argomentativi della sentenza in esame, deve scorgersi la necessità che il sistema italiano incrementi la tutela, anche giudiziaria, della vittima.

   

[1] Venivano in ogni caso rimodulate le pene originariamente afflitte ai due ricorrenti: Mr. V.C.L. veniva condannato alla pena di 14 mesi di reclusione, mentre a A.N. veniva ridotta la pena da 18 a 4 mesi di reclusione.

[2] Ai sensi dell’art.4 par. 1 e 2 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo: “Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù.  Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio.

[3] Ai sensi del citato art.26: “Ciascuna delle Parti stabilisce, in conformità con i principi fondamentali del proprio sistema giuridico nazionale, la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette”.

[4] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report”del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.

[5] Al fine di adempiere agli oneri di prevenzione e protezione scaturenti dalla Convenzione di Varsavia e dalla Dir.2011/36, la maggior parte dei paesi europei ha istituito i cd. Meccanismi Nazionali di Riferimento (Referral), ossia meccanismi di cooperazione che procedono all’identificazione dei soggetti vittime di tratta, basati su accordi di collaborazione con le organizzazioni della società civile attraverso i quali gli attori statali, adempiono ai loro obblighi di protezione e promozione dei diritti umani delle vittime. Per l’Italia cfr. le Linee Guida per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral elaborate dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e l’U.N.H.C.R.

[6] A norma dell’art.3 del Protocollo di Palermo: “«tratta di persone» indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi”.

[7] I sei indicatori sviluppati dall’OIL costituiscono il punto di riferimento nell’identificazione del lavoro forzato. Questi indicatori sono la minaccia di violenza o l’effettiva violenza fisica nei confronti della vittima, la restrizione della libertà di movimento dei lavoratori, la schiavitù per debiti, la trattenuta dei salari, la confisca di passaporti o documenti d’identità e la minaccia di denuncia alle autorità, nei casi in cui il lavoratore abbia lo status di migrante irregolare.

[8] La Direttiva 2011/36 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime è stata adottata in sostituzione della previgente Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI.

[9] Ai sensi dell’art.8: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai principi fondamentali dei loro ordinamenti giuridici, per conferire alle autorità nazionali competenti il potere di non perseguire né imporre sanzioni penali alle vittime della tratta di esseri umani coinvolte in attività criminali che sono state costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all’articolo 2”.

[10] L’art.34 CEDU recita quanto segue: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto

[11] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report” del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.

[12] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, ric. n. 25965/04 e Caso Chowdury e altri c. Grecia, 30 marzo 2017, ric. 21884/15.

[13] In particolare, il Regno Unito aveva sostenuto che la Corte EDU avrebbe esulato dai propri poteri giurisdizionali, ove avesse importato all’interno dell’ambito applicativo dell’art.4 CEDU norme quali la non-punishment provision di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia.

[14] Ai sensi dell’art.4, lett. a) della Convenzione di Varsavia: “L’espressione “tratta di esseri umani” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l’inganno, con l’abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l’espianto di organi”.

[15] Il Group of Experts on Trafficking in Human Being, cd. GRETA è un gruppo multidisciplinare di esperti istituito dall’art. 36 della Convenzione di Varsavia al fine vigilare sull’applicazione delle norme ivi previste e sull’efficacia delle azioni promosse dagli Stati firmatari. È composto da professionisti scelti tra personalità di elevata moralità, conosciute per la loro competenza nel campo dei diritti umani, dell’assistenza e della protezione delle vittime e della lotta contro la tratta di esseri umani o che possiedano una specifica esperienza professionale nel campo della tratta.

[16] Cfr. Positive Obligations under the European Convention on Human Rights, A guide to the implementation of the European Convention on Human Rights, Council of Europe: Human rights handbooks, N.7, 2007

[17] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. par.

[18] Infatti non era mai stata messa in dubbio la minore età di V.C.L., dovendosi solo chiarire in questo caso se l’indagato avesse 17 o 15 anni. 

[19] La Corte EDU pur prendendo atto che le carenti linee difensive seguite dai ricorrenti erano imputabili ai loro avvocati difensori, non ha ritenuto tali elementi sufficienti per mandare esente lo Stato dalle sue responsabilità.

[20] Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 59(4), 1763-1802.

[21] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. La vicenda riguardava una cittadina russa, la quale, una volta recatasi a Cipro con un visto artistico per lavorare in un locale notturno, era deceduta in circostanze misteriose. Il padre adiva la Corte EDU lamentando la violazione dell'art 4 da parte dello stato russo e di quello cipriota, in quanto non avevano rispettato l'obbligo positivo di proteggere i cittadini dal traffico di esseri umani e non erano stati in grado di svolgere indagini appropriate circa i fatti che hanno visto il coinvolgimento della figlia.

[22] Corte europea dei diritti dell’uomo [GC], Hassan v. the United Kingdom, 16 settembre 2014, ric. n. 29750/09, par. 77: “(…) the Convention cannot be interpreted in a vacuum and should so far as possible be interpreted in harmony with other rules of international law of which it forms part”.

[23] La Corte nel caso di specie non ha spiegato con precisione in che modo la tratta rientra nell’ambito di applicazione dell’art.4 e quale sia il nesso con le condotte di schiavitù, servitù e lavoro forzato ivi previste. Si è limitata ad evidenziare che la tratta è un crimine che lede la dignità e la libertà umana e in quanto tale deve considerarsi incompatibile con la Convenzione (Caso Rantsev, par. 282). Per una critica a riguardo cfr. inter allia Milano V., Un approccio integrale per combattere la tratta degli esseri umani? Il contributo della Corte Europea e Interamericana dei diritti umani, in DEP, n. 40/2019.

[24] Se nel 2010 gli Stati Membri dell’Unione Europea totalizzavano c.a. 9.500 vittime di tratta, nel biennio 2017-2018 sono state registrare 26.268 vittime di tratta. cfr. Eurostat, Trafficking in Human Beings, 2013 reperibile sul sito https://ec.europa.eu/eurostat/documents/3888793/5856833/KS-RA-13-005-EN.PDF.pdf/a6ba08bb-c80d-47d9-a043-ce538f71fa65?t=1414780383000 e il Data collection on trafficking in human beings in the EU, elaborato a settembre 2020 dalla Commissione Europea, reperibile sul sito https://ec.europa.eu/anti-trafficking/sites/default/files/study_on_data_collection_on_trafficking_in_human_beings_in_the_eu.pdf

[25] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (GC), Caso S.M. c. Croazia, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.

[26] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso A.I. c. Italia, 1 aprile 2021, ric.70896/17.

[27] Cfr. Vitarelli F., Vittime vulnerabili e art.4 CEDU – La Grande Camera estende l’ambito di operatività dell’art.4 CEDU: verso una sempre maggiore tutela delle vittime vulnerabili in contesti di sfruttamento, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, dicembre 2020, p.2116

[28] Cfr. GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy pubblicato il 25 gennaio 2019, par.234.

[29] Cfr. Seconda relazione della Commissione la Parlamento europeo e al Consiglio relazione sui progressi compiuti nella lotta alla tratta di esseri umani (2020) a norma dell'art.20 della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, Bruxelles, 20.10.2020.

[30] Anche in merito alla centralità accordata all’identificazione del soggetto sospettato di essere vittima di tratta, sembra che la Corte EDU abbia tratto ispirazione dal Caso Chowdury cit., par.88 ove si evidenzia che, ai sensi dell’art.4 della Convenzione, sorge in capo agli Stati l’obbligo di procedere ad una pronta identificazione delle vittime di tratta.

[31] Cfr. Militello V., La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2018, pag. 86.

[32] Appaiono emblematiche le parole del GRETA nel Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by the United Kingdom (2012): “Victims of trafficking must be identified and recognised as such in order to avoid police and public authorities treating them as “irregular migrants” or criminals. Victims should be granted physical and psychological assistance and support for their reintegration into society”.

[33] Cosi anche nello studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking pubblicato nel 2013 dall’Office of the Special Representative and Co-ordinator for Combating Trafficking in Human Beings dell’OSCE: “the application of the principle depends on the extent to which States prioritize the fight against trafficking in human beings over the punishment of victims. More broadly, the application of the principle clearly correlates to the extent to which States put the protection of the rights of trafficked persons at the centre of their anti-trafficking efforts”, par.68.

[34] Cfr. Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, cit.

[35] Con preciso riferimento ai minori di età, il Regno Unito ha accordato loro l’immunità penale per i reati dagli stessi commessi quando sono diretta conseguenza dello sfruttamento e cioè quando una persona ragionevole con le stesse caratteristiche del minore avrebbe fatto lo stesso. Simili disposizioni vengono altresì previste anche con riferimento a soggetti adulti, ancorché in tal caso si richiede che vi sia una precisa connessione tra la costrizione e la tratta.

[36] Cfr. Demetriou D., ‘Tied Visas’ and Inadequate Labour Protections: A formula for abuse and exploitation of migrant domestic workers in the United Kingdom’, in Anti-Trafficking Review, maggio 2015, p. 69–88, www.antitraffickingreview.org.

[37] Il GRETA, ancorché si impegni tramite i suoi reports triennali nel valutare le misure legislative e di altro tipo adottate o che devono essere implementate per dare effetto alle disposizioni della Convenzione di Varsavia, è privo di ogni potere vincolante in grado di incidere effettivamente sugli assetti ordinamentali interni.

[38] Cfr. Lo studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking, cit. par. 55.

[39] Cfr. V. Stoyanova, Dancing on the Borders of Article 4: Human Trafficking and the European Court of Human Right in the Rantsev case, in Netherlands Quarterly of Human Rights, 2012.

[40] GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy cit., par.234.

[41] La Convenzione di Varsavia è stata ratificata dallo Stato italiano con la L.108/2010. Inoltre, in attuazione della direttiva 2011/36, il 26 febbraio 2016 il Consiglio dei ministri ha adottato il Piano d’azione nazionale contro la tratta ed il grave sfruttamento di esseri umani 2016-2018 che stabilisce le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nell’ambito della tratta di esseri umani e disposizioni comuni per gli Stati membri della Ue, mirando a rafforzare, da un lato, la prevenzione e la repressione del reato, e dall’altro la protezione delle vittime.


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