Diritti Umani
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Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story

Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story

di Rita Russo

Sommario: 1. Premessa - 2. La protezione umanitaria e i casi speciali - 3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare - 4. Considerazioni conclusive.  

1. Premessa  

Il 18 dicembre 2020 il Parlamento,  dopo un aspro dibattito, ha convertito in legge (n. 173)  con talune modifiche,  il decreto legge del 21 ottobre 2020 n. 130, in materia di immigrazione.

Non poche le novità introdotte con l’intento, non particolarmente celato, di rimediare ai vulnera arrecati al sistema costituzionale dal precedente decreto sicurezza (D.L. 4 ottobre 2018, convertito in legge 132/2018). Ad esempio, si è intervenuti sulla disciplina della iscrizione anagrafica dei  richiedenti asilo, riconducendola  nell’ambito dei principi generali  previgenti,   dopo che la Corte costituzionale con sentenza del 31 luglio 2020 n. 186 ha  dichiarato illegittima la disposizione dell’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2) del suddetto decreto legge,  nella parte in cui stabiliva che il permesso di soggiorno “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”.

La Corte, in questa occasione, ha ricordato al legislatore che non può̀ porre gli stranieri in una condizione di minorazione sociale senza idonea giustificazione, e ciò̀ per la decisiva ragione che lo status di straniero non può̀ essere di per sé considerato “come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”. Di conseguenza,  privare i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti incide irragionevolmente sulla “pari dignità̀ sociale, riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano”.  Sebbene limitata ad una disposizione molto specifica, già in parte disattesa dai Sindaci dei Comuni italiani e talora disapplicata dalla giurisprudenza di merito, la sentenza della Corte ha una sua valenza generale, in quanto rimarca i confini entro i quali deve muoversi la discrezionalità del legislatore nazionale   nel disciplinare la materia della immigrazione, ove peraltro  egli è anche  tenuto a rispettare la normativa eurounitaria.   

In questi ultimi  anni i paesi europei si sono trovati di fronte ad un fenomeno dirompente,  denominato mixed migration, o flussi migratori misti: ondate di persone  in fuga dalle persecuzioni individuali, da pratiche sociali opprimenti e lesive delle dignità personale, ma anche dalla guerra,  dalle calamità naturali, da  condizioni di povertà; ed ancora  familiari al seguito di chi, per una ragione o l’altra, decide di migrare.

Si tratta di un fenomeno di particolare complessità  che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte.  

Le linee guida sulle quali si muove l’Europa sono quelle del rafforzamento della politica comune dell’asilo, ma anche di affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e forzata direttamente nei paesi terzi al fine di contenere la migrazione economica[1].

Questi sono distinguo concettuali, la cui applicazione pratica non è però semplice: quando nel paese di origine vi sono condizioni di criticità  sociopolitica, che rifluiscono sull’individuo non solo comprimendone i diritti politici, ma anche ed in primo luogo provocando disagio economico,  le ragioni “miste” di migrazione si fondono in una unica vicenda individuale e  la spinta alla migrazione è forte,  anche se non determinata da una persecuzione rilavante ai fini della Convenzione di Ginevra, o da  condizioni  di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.

L’effetto  finale  che viene poi portato alla attenzione del giudice dell’asilo è quello del radicamento  sul territorio nazionale del migrante, talora con famiglia al seguito, o che ha formato famiglia in Italia, che non può allegare  ragioni di persecuzione individuale ma che spesso giunge sul territorio nazionale dopo un viaggio durante il quale ha subito detenzione, torture, stupri e il cui  rientro in patria potrebbe determinare comunque una lesione o esposizione a rischio dei diritti fondamentali.

Fenomeni complessi e di grande impatto sociale e politico:  si evidenza in essi quella “enorme virulenza dei fatti, che hanno la vigorìa di condizionare il diritto e di plasmarlo[2] e che  spiega in parte la ragione per la quale  le norme di chiusura del sistema ed in particolare quelle che riguardano il permesso di soggiorno per casi speciali e per motivi umanitari hanno tormentosamente impegnato il legislatore nazionale in questi  anni, producendo norme talora molto discusse, in una storia che sembra non avere mai fine.

L’intervento operato con il D.L. 130/2020, da ultimo, ha ulteriormente rimaneggiato la materia e posto alla attenzione dell’interprete alcuni  passaggi che  riscrivono i testi, dopo il discusso intervento normativo del D.L. 113/2018, e tra questi due novità che   meritano  particolare attenzione  sono le modifiche  agli artt. 5 e 19 del D.lgs. 286/1998 (in acronimo T.U.I, testo unico dell’immigrazione).  

2. La protezione umanitaria e i casi speciali

La prima novità saliente del decreto legge è il ripristino, nel testo dell’art. 5, comma 6, T.U.I., dell’inciso “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” ma non anche dell’inciso “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario” già previsto nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.L. 113/2018. 

Le ragioni di questo parziale ripristino  sono collegate alle osservazioni  rese dal Presidente della Repubblica   che, nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza del 2018, ha autorevolmente notato che il decreto non può far venire meno “gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”.    

Ma, solo per attenersi a queste qualificate indicazioni, l’inserimento normativo sarebbe in verità inutile, poiché  come ricorda il Presidente, gli obblighi costituzionali e quelli internazionali sussistono comunque, a prescindere dal richiamo nel testo legislativo.

La posta in gioco sembra quindi  essere un’altra, e riguardare la tassatività delle misure di protezione e l’applicazione diretta dell’art. 10 comma 3  della Costituzione.

La legislazione italiana in materia di asilo si è evoluta rapidamente nell’ultimo ventennio e  nel tempo si è affermata l’idea che il diritto di asilo  di cui all’art. 10 della nostra Costituzione non coincide con il riconoscimento dello status di rifugiato, introdotto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 722 del 1954   e dagli artt. 7, 8 del D.lgs. 251/2007,  e  rappresenta un ombrello protettivo più ampio anche rispetto alla misura della protezione sussidiaria disciplinata   dalle direttive qualifiche (2004/83/CE e 2011/95/UE)  e dall’art. 14 del D.lgs. 251/2007[3].

La norma costituzionale infatti estende il diritto di asilo ai richiedenti che provengono da paesi che negano le libertà fondamentali, e prescinde quindi dal requisito del pericolo di una persecuzione individuale, alla base del sistema della Convenzione di Ginevra[4], così come prescinde dal requisito della sussistenza di uno  stato di conflitto armato o del rischio di pena di morte e trattamenti inumani e degradanti.

La giurisprudenza italiana, prima che la legislazione nazionale si evolvesse sotto la spinta delle direttive europee, si era pronunciata per la immediata portata precettiva del diritto di asilo costituzionale, anche in mancanza di una legge che ne specificasse le condizioni di esercizio e le modalità di godimento[5]. Soltanto  dopo l’introduzione del comma 6 dell’art 5 del T.U.I. dei “seri motivi” di carattere umanitario la giurisprudenza  di legittimità  ha affermato che, data la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale, non trovava  più una autonoma diretta applicazione l’art. 10 Cost.[6]

É bene però chiarire che la protezione umanitaria  non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale  come una mera misura caritevole, rimessa alla discrezionalità dello Stato [7], ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale[8].   

Si è  quindi affermato che questa  misura è  (era) una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale[9], intesa come un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di  vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria[10].

La Corte di Cassazione, nell’esaminare il  caso forse più discusso, e cioè l'inserimento sociale  e lavorativo in Italia  e l’inevitabile regresso socioeconomico che comporterebbe il rimpatrio, ha fatto riferimento alla dignità,  quale parametro essenziale di valutazione; si è cosi affermato che  il giudice deve operare  una valutazione effettiva al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[11].

Da qui in poi il principio si è consolidato, pur con qualche difficoltà, fino alla affermazione definitiva della regola del giudizio comparativo, sempre su base individuale, enunciata dalle sezioni unite, secondo le quali “la orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione di integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza”[12].

Nonostante  questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.

Le sezioni unite, con la sentenza sopra citata, hanno precisato che la novella  del 2018 non ha portata retroattiva, affermando che le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 continuano ad essere scrutinate secondo la norma previgente al D.L. 113/2018, ma il permesso di soggiorno eventualmente rilasciato è  nominato “per casi speciali” e non più per motivi umanitari.    

Questo porta con sé  almeno due interrogativi: stat rosa pristina nomine? e ancora, quid iuris per le domande successive?

Parte della dottrina, in ciò confortata anche da un autorevole parere del Consiglio Superiore della Magistratura, ha ipotizzato che dopo il D.L. 113/2018 rientrasse in gioco la immediata applicazione dell’art. 10 Cost., evidenziando criticamente che la scelta di tipizzare le misure di protezione e configurare un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di  proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non sarebbe interamente attuativo dei principi costituzionali[13].

L’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., non ripristinando quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto”  sembra  confermare la scelta della tipizzazione[14], ma al tempo stesso  chiama l’interprete a verificare se si tratta di una tipizzazione  delimitata strettamente dalle ipotesi  legislative, ovvero  dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie  e dal paramento interposto CEDU.  

Gli obblighi costituzionali ed internazionali, infatti,  impongono in primo luogo il rispetto e la  tutela dei diritti fondamentali e pertanto è da  capire se  il legislatore ha inteso semplicemente  dare un chiarimento formale,  oppure riconoscere  che l’attuazione del diritto di asilo costituzionale non può essere affidato ai soli istituti dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e la necessità, dunque, che questi vengano integrati da altri istituti[15].

E, soprattutto, verificare se questi “istituti” possono essere solo i casi di permesso speciale elencati dalla legge,  e cioè  se è in potere del legislatore compilare un elenco tassativo e non meramente esemplificativo di casi cui  riconoscere protezione,  quando sono in gioco i diritti fondamentali.

Se si muove dall’idea che i diritti fondamentali ruotano introno al concetto di pari dignità  riconosciuta agli esseri umani in quanto tali, la risposta dovrebbe essere negativa.  

Il giudice dell’asilo dovrebbe avere la possibilità di stabilire, su base rigorosamente individuale, rifuggendo dal giudizio standardizzato, quando la negazione di un permesso di soggiorno comporta violazione degli   obblighi costituzionali e internazionali, cagionando una lesione della dignità umana e della libertà morale e materiale dell’individuo: ad esempio, quando il trattamento inumano o degradante cui resterebbe esposta la persona in caso di rimpatrio non è diretto (il che comporta l’attivazione del principio di non refoulement) ma conseguenza di una estrema deprivazione materiale[16].  Lo stesso dovrebbe dirsi per quelle accertate situazioni di grave vulnerabilità, anche se determinate dalle violenze subite nei paesi di transito, che rendono intollerabilmente traumatico il ritorno nel paese di origine [17].

La valutazione delle ragioni di protezione è infatti operata su base individuale e da ciò discende non soltanto che non possono predeterminarsi con rigore i casi  di protezione complementare, ma anche che non si può  essere certi che in un determinato paese il rischio è per definizione escluso; diversamente la CGUE non avrebbe affermato che pure nei paesi della UE possono aversi casi  di “gravi  carenze sistemiche” che espongono a rischio alcune  categorie di persone[18].   

3. Il non respingimento e la tutela della vita privata e familiare

Altra rilevante modifica è quella intervenuta sul non respingimento.

Nell’art. 19 T.U.I. tra le cause di non respingimento, allargate oggi anche ai casi di trattamenti inumani e degradanti,  sono state comprese anche   quelle determinate da motivi familiari o comunque legati al rispetto della vita privata e familiare.

La nuova norma così recita: “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.

Il comma 1.1. dell’art 19 oggi descrive quindi due diverse ipotesi di non respingimento, che presentano una sostanziale e differenza.

La regola di cui al primo inciso corrisponde al divieto di respingimento o non refoulement  enunciato  dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “Le espulsioni collettive sono vietate.  Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Questa  norma fonde ed armonizza i principi  enunciati dalla CEDU rispettivamente nell’art. 4 prot. 4 (divieto di espulsioni collettive) e negli artt. 2 e 3 (diritto alla vita; divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). La regola è quindi imperativa e non consente il bilanciamento con altre esigenze: può infatti venire in applicazione anche qualora sussistano cause di esclusione del riconoscimento della protezione internazionale, previste dagli artt. 10 e 16  del D.lgs. 251/2007 ed è applicabile non soltanto ai rifugiati o ai richiedenti asilo, ma anche a coloro che non hanno avuto ancora la possibilità di fare domanda per ottenere lo status, ovvero non hanno intenzione di presentarla[19].

Il divieto è rigoroso, e non va incontro ad eccezioni[20]; tuttavia non comporta l’obbligo per lo Stato di accogliere nel proprio territorio la persona, dal momento che  lo Stato interessato può optare per la soluzione dell’avvio verso un paese terzo sicuro, cioè un paese dove il soggetto  non corre il rischio di pena di morte, tortura o trattamenti degradanti o di un respingimento verso paesi ove è esposto a tale rischio. 

Di contro, il (nuovo) non respingimento per motivi di rispetto della vita privata e familiare prevede espressamente un bilanciamento  con le  “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”.  

Si tratta  di una norma ibrida, di difficile inquadramento; non ha riscontro nell’art. 19 della Carta di Nizza e nonostante l’uso dell’endiadi “vita privata e familiare” di cui all’art 8 CEDU, neppure la coincidenza con questa ultima  norma è perfetta. La norma CEDU, infatti, consente agli Stati di ingerirsi nella vita privata o familiare del cittadino o dello straniero sottoposto alla sua autorità in presenza di esigenze molto più ampie e composite[21]: l’ingerenza è  consentita, sotto riserva di legge,  nel rispetto del principio di proporzionalità quando “costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o  della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Di contro il divieto di cui l’art. 19 nel testo odierno consente il bilanciamento del diritto alla vita privata e familiare solo per “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. Il campo  di applicazione della norma è quindi piuttosto ampio e sembra comprendere tutti quei casi di radicamento sul suolo nazionale, quale che sia la ragione della migrazione,  in cui il rimpatrio può compromettere la vita privata e familiare.

Questo pone un problema di coordinamento con altre norme che tutelano, e in limiti più definiti,  il diritto al permesso di soggiorno  in deroga per motivi familiari (art. 31 T.U.I.), nonché con il testo dell’art 13 dello stesso T.U.I., laddove è previsto che  il Ministro dell’Interno (e per lui il Prefetto) nell'adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto,  debba “tenere conto” della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine.   Tenere conto dei legami familiari è qualcosa di meno di un divieto di respingimento, sia pure  bilanciabile, perché impone una verifica connotata da un margine di discrezionalità,  nel valutare la natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale,  l'esistenza dei legami con il Paese di origine [22]. Infine e  non ultimo,  si dovrà  definire esattamente il portato del diritto alla vita privata qui rilevante, poiché anche  il radicamento sul territorio italiano, il lavoro dignitoso, la socialità conseguita,   sono degli elementi indicatori di una “vita privata” che in ipotesi potrebbe essere lesa dal rimpatrio.      

4. Considerazioni conclusive

È una sfida complessa quella che attende l’interprete   sulle misure complementari della protezione internazionale.  E’ complessa per la necessità di individuare il regime normativo  applicabile alle domande che sono state proposte dopo il 5 ottobre 2018, parzialmente aiutato in questo dall’art. 15 del D.L. 130/2020 che prevede un regime transitorio, ed è complessa  perché la portata applicativa della riforma dell’art. 5 e dell’art. 19 del T.U.I. non è del tutto chiara.

Si potrebbe infatti pensare che il legislatore, pur non  esplicitamente  impegnandosi nel ripristino del “catalogo aperto”, abbia riaffermato la possibilità di un’applicazione diretta dell’art. 10, comma 3, Cost., per le ipotesi residuali, affidata all’opera giurisprudenziale e dottrinale; se così è potrebbero essere recuperati gli arresti giurisprudenziali sulla “vecchia” protezione umanitaria, riconoscendo un permesso di soggiorno per casi speciali in relazione agli  obblighi costituzionali e internazionali   in quelle stesse ipotesi in cui in precedenza si riconosceva il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Così impostata le lettura del quadro normativo, non vi sarebbe sostanziale differenza tra il trattamento dei migranti che hanno proposto domanda prima del 5 ottobre 2018 e coloro che l’hanno inoltrata in un momento successivo.

Potrebbe anche sostenersi che il richiamo agli obblighi costituzionali e internazionali sia una norma di principio, che ha il compito esclusivo di porre le premesse per l’allargamento dell’art. 19 T.U.I. In questo modo, pur non accogliendosi pienamente  la tesi della tassatività  stabilita per via legislativa, la conclusione sarebbe che il legislatore avrebbe posto una “tassatività relativa”,  poiché il nuovo comma 1.1. dell’art. 19 contiene un richiamo molto ampio al diritto al rispetto della vita privata e familiare, consentendo di “riempirlo” con ipotesi molto variegate[23].

Qui però, come si è detto, si tratta di definire bene non soltanto il  concetto di vita familiare, ma anche quello di vita privata.

Sul punto non può che ricordarsi come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia già offerto degli spunti in merito, perché nell’esplicitare, in tema di protezione umanitaria,  il principio della comparazione tra le condizioni di vita ottenute  in Italia e quelle cui il soggetto andrebbe come conseguenza di un rimpatrio nel paese di origine, ha fatto espresso riferimento all’art. 8 CEDU, inteso come diritto alla tutela della vita privata[24]. Seguendo questa linea interpretativa si potrebbe anche affermare che il comma 1.1. dell’art. 19 nella parte in cui introduce il permesso di soggiorno per divieto di respingimento ai sensi dell’art. 8 CEDU, altro non sarebbe che  una riedizione della previgente protezione umanitaria, sottoposta però ad una doppia verifica dei presupposti, in positivo e negativo: la sussistenza di una condizione di vulnerabilità individuale, intesa nei termini  già sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità,  e la  assenza di “ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica”. In altre parole, una rosa che pur privata del nome mantiene lo stesso profumo, ma che richiede procedure molto più scrupolose per assicurarne la fioritura.

E’  quindi una strada non priva di asperità quella si presenta all’interprete, perché è necessario comunque assicurare, pur nel rispetto della vicenda individuale, una certa omogeneità oggettiva di trattamento per casi simili, e svincolarsi definitivamente dall’idea che i permessi di soggiorno per casi speciali abbiano a che vedere con  motivi “caritatevoli” o con quella ricerca della felicità  che fa parte del sistema costituzionale nordamericano e che invece non è accolta né dalla Costituzione italiana, né  dalla comune cultura europea.

Al tempo stesso sarà necessario definire i confini tra la protezione complementare non nominata, derivante dagli obblighi costituzionali ed internazionali,  e il divieto di respingimento, e sempre che si accetti l’idea che le due fattispecie non sono coincidenti,  posto che anche  il divieto di respingimento ruota intorno al rispetto della dignità umana, al divieto di trattamenti inumani e degradanti e -da oggi- anche al rispetto della vita privata e familiare.     

   

[1] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni,  Agenda sulla migrazione,  13.5.2015, in  https://eur-lex.europa.eu

[2] P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, in Giustizia civile, 2014, 1

[3] si veda P. Bonetti, Il diritto d'asilo in Italia dopo l'attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Dir. immig. cittad., 2008, 99 ss. G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, Jovene, 2007, 174 ss.

[4]  R. Finocchi Ghersi,  Il diritto di asilo in Italia e in Europa  Riv. trim. dir. pubbl., fasc.4, 2011

[5] Cass.,sez.  un., n. 4674/1997

[6] Cass.n.10686/2012; Cass.n.16362/2016; Cass.n. 11110/2019

[7] La direttiva qualifiche 2011/95/UE  del 13 dicembre 2011 precisa, al  considerando 15, che essa non si applica ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel terri­torio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale.  La direttiva 115/2008/CE, all’art. 6, par. 4,  ha separatamente  previsto che gli Stati possano rilasciare il permesso di soggiorno “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura

[8] Cass., sez. un., n. 19393/2009

[9] Cass., sez. un. n. 19393/2009 cit. ; Cass. civ.  n.  4139/2011; Cass.n. 15466/2014; Cass.n. 15466/2014

[10] Cass., n. 23604/2017; Cass.n. 28990/2018; Cass.n. 13096/2019, Cass.n. 1104/2020

[11] Cass., n. 4455/2018 

[12] Cass., sez. un. n. 29459/2019. Per approfondimenti v. E. CASTRONUOVO, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455/2018, in Diritto, immigrazione e cittadinanza on line, 2018, n. 3; M. BENVENUTI, La forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, P. MOROZZO DELLA ROCCA, Protezione umanitaria una e trina, pubblicati in Questione giustizia, 2018, n. 2

[13] Si rinvia anche per i richiami di dottrina a R. Russo, I diritti fondamentali  sono diritti di tutti?, in questa Rivista 10.1.2020

[14] M.C. Contini Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, in Il Foro Italiano (foronews), 2.11.2020

[15] C. De Chiara, Il diritto di asilo e il d.l. 130/2020: progressi e occasioni mancate,  in Questione Giustizia, 9.12.2020

[16] CGUE,  sentt. del  19.3.2019, nelle cause  C-163/17 e  C-297/17 e altre

[17]  Cass.n. 1104/2020

[18] CGUE,  sentt. del  19.3.2019, cit.  

[19] Corte EDU, 21.10.2014, Sharifi and Others v. Italy and Greece.

[20] CGUE, Grande sezione,  cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, 14.5.2019.

[21]  M. C. Contini, Le novità del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130, cit.

[22] Cass., n.18608/2014

[23] Relazione del Massimario della Corte di Cassazione n. 94 del 20.11.2020

[24]  Cass. n. 4455/2018 cit. “il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Con riferimento al caso di specie, il parametro di riferimento non può che cogliersi, oltre che nell’art. 2 Cost., nel diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”

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