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Deontologia ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario​

Deontologia ermeneutica e cenni sullassociazionismo giudiziario

di Angelo Costanzo

Sommario: 1. Democrazia rappresentativa e ruolo della giurisdizione - 2. Principi e regole - 3. Formazione dei giuristi e ruolo dell'accademia - 4. Deontologia ermeneutica e art. 12 delle preleggi - 5. Dal 1965 a oggi. Microstoria dell'A.N.M. in poche righe.

1. Democrazia rappresentativa e ruolo della giurisdizione 

Un recente articolo di Massimo Donini (Crisi della Giustizia e ruolo politico della magistratura penale. Quando si cerca il potere perché non si vuole fare diritto, in: Questione Giustizia, marzo 2021) concorre a stimolare riflessioni sul rapporto fra le condizioni della politica e la cultura giuridica.  

La crisi della democrazia rappresentativa non ridimensiona soltanto il ruolo del potere legislativo ma influisce anche sulla legittimazione dei giudici a esercitare la loro funzione che nel nostro si fonda sull’essere interpreti della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà dei cittadini.

Non può non auspicarsi che in Italia e nell’Unione, si costruisca, con l’intermediazione di partiti politici organizzati «con metodo democratico» (art. 49 Cost.), una piena democrazia rappresentativa − in cui gli interessi si confrontino sanamente e apertamente trovando una efficace sintesi nella utilizzazione delle risorse pubbliche[1].

Tuttavia, nella Costituzione italiana il principio democratico, che si attua con le norme generali e astratte tratte dalla interpretazione delle disposizioni legislative, non ha una valenza assoluta perché sono previsti organi che agiscono in una posizione di imparzialità o, addirittura, di indipendenza, come nel caso della magistratura, e prendono decisioni che riguardano i casi singoli ma che dovrebbero avere come criteri di giudizio essenzialmente i principi normativi di origine legislativa.

Pare evidente che, se la legislazione non riesce a approntare quanto è necessario, per estensione e qualità, a regolare puntualmente i casi della vita sociale, allora si produce uno squilibrio che rende disarmonico il comporsi dei Poteri, sia che li si concepisca secondo la loro tripartizione tradizionale, sia che li si consideri adottando uno schema più articolato e realistico. Il problema si complica ulteriormente quando la legislazione è frutto di sortite volontaristiche non precedute da un maturo dibattito politico effettivamente rappresentativo delle posizioni esistenti nella società civile.

La crisi della norma generale e astratta – che deriva dalla complessità e dalla velocità dei fenomeni sociali – affievolisce la supremazia della legge e non tocca solo la giurisdizione ma tutte le categorie che hanno a che fare con l’interpretazione del diritto: la pubblica amministrazione, le varie professioni, lo stesso legislatore rispetto a fonti legislative superiori che lo vincolino (nei rapporti Parlamento-Governo, Ordinamento comunitario-Ordinamento nazionale, Ordinamento statale-leggi regionali).

In particolare, quando i contenuti della produzione legislativa derivano da mediazioni necessarie che combinano esigenze diverse e spesso confliggenti, l’autosufficienza logica della norme si riduce e si accresce il ruolo della giurisdizione[2].

Certamente esiste il rischio che la magistratura e anche la pubblica amministrazione − che pure dovrebbero contenersi in una posizione di non equipotenza rispetto alla legislazione − occasionalmente inseriscano nei loro procedimenti valori non veicolati da dati normativi o addirittura germinino centri di decisione ulteriori, di varia tipologia e non sempre manifesti e trasparenti nei loro meccanismi di funzionamento.

Questa situazione rende meno prevedibili le decisioni giudiziarie e richiede una formazione nuova per la magistratura (nonché per l’avvocatura) oberandola di ulteriori responsabilità e di un lavoro più complesso che consiste nel dare ordine ai dati legislativi affinando i loro significati mediante un confronto stretto con la realtà sociale[3].

Si tratta di un’attività importante. Allora è difficile capire perché alcuni (forse pochi, comunque troppi…) a volte preferiscano distrarsi dalla coltivazione del fertile latifondo del dovere per dedicarsi all’orticello, intercluso, di piccoli illusori poteri, abbandonandosi al soggettivismo nella attività giurisdizionale, all’oblio dell’ordinamento giudiziario in alcuni momenti di autogoverno (centrale e periferico) della magistratura e, all’esterno, a rappresentazioni personalistiche di sé indebitamente connesse al proprio ruolo istituzionale. 

2. Principi e regole 

2.1. Più che nel passato, oggi è evidente che non si può regolare tutto ex ante per la semplice ragione che non si può conoscere tutto ex ante: l’astrattezza delle norme non è sempre in grado di regolare appropriatamente ciò che accadrà e tanto meno di farlo tempestivamente. Pur nel rispetto della sovraordinazione della legge, l’interpretazione del diritto (e la preliminare ricostruzione storica degli eventi singoli ai quali applicarla) non costituiscono meri compiti da eseguire ma problemi (a volte semplici, altre volte complessi) da risolvere.

L’elasticità dei principi normativi (come anche delle clausole generali) può consentire una gamma di soluzioni diverse. Questa condizione comporta un lievitare del potere giurisdizionale rispetto a quello legislativo, che a volte reagisce producendo una normazione piuttosto dettagliata. Eppure, sappiamo (da alcuni secoli) che la moltiplicazione delle regole moltiplica soltanto le occasioni delle loro interpretazioni, sia per gli spazi che aprono a opzioni soggettivistiche sia perché oggettivamente le disposizioni troppo dettagliate possono finire per non attagliarsi a fattispecie diverse da quelle che il legislatore aveva previsto, per cui si generano lacune che impongono agli interpreti del diritto di ampliare i loro orizzonti ermeneutici.

La produzione legislativa è inevitabilmente incompleta sia estensivamente (perché il legislatore detta solo le disposizioni relative agli oggetti che ritiene rilevanti ai suoi fini nel momento storico in cui si esprime) sia intensivamente (perché non può esplicitare tutte le assunzioni di sfondo, tutti i presupposti e tantomeno tutte le implicazioni). 

Se il linguaggio del legislatore e quelli dei suoi interpreti coincidono, i significati dei dati normativi si trasferiscono in modo ottimale dalla legislazione ai destinatari delle norme. Se vi sono discrasie culturali trai i significati veicolati dalle disposizioni e i contenuti recepibili dagli interpreti sorgono problemi: ma questo può anche consentire al sistema dei segni normativi (disposizioni e norme, principi e regole) di realizzare una seconda funzione, non essenziale ma neanche secondaria, perché non funziona più come un semplice meccanismo per veicolare prescrizioni ma è pure una base per elaborare nuove prospettive[4].

La produzione di nuovi significati normativi (che non si identifica con la creazione di nuove norme) è una risorsa per l’affinamento e l’evoluzione del diritto.  L’idea di ordinamento come sistema richiama l’immagine di una rete le cui le maglie principali sono tessute dal legislatore fissando regole che veicolano principi. Evidentemente l’ordinamento non è una sistema chiuso e autosufficiente ma un discorso che non si riduce alle parole, alle frasi e ai testi isolati ma è costituito dall’intero contesto culturale nel quale si collocano i segni che lo compongono. Le sue componenti non hanno contenuti univoci e possono essere carenti di senso se considerate separatamente.

Nella aree di confine tra quel che è rilevante e quel che non è rilevante per il diritto si svolgono dinamiche che lo rinnovano: quanto più si sviluppa l'indagine critica tramite l’ars distinguendi tanto più possono emergere situazioni che producono eccezioni al quadro generale iniziale. In realtà, l'interpretazione accurata può aumentare l'incertezza del diritto perché solleva nuovi problemi rivelando complessità inattese [Quintiliano, Istituzione oratoria, II, XIII, 1]. L’interpretazione rigorosa dei fatti e delle norme può entrare in contrasto con l’aspirazione (psicologica e sociale) alla certezza del diritto.

Inoltre, le forme discorsive sono affidabili se riescono a rappresentare idoneamente ciò a cui si riferiscono, ma a volte, risultano fuorvianti rispetto all'oggetto delle loro intenzioni e chi ordinariamente lavora con le proposizioni rischia di scivolare inavvertitamente dal piano della realtà al piano delle mere formule linguistiche.

2.2. L’argomentazione giuridica ai livelli meno pedestri richiede un certo apporto delle capacità di immaginazione logica e di immaginazione etica. Tuttavia, anche in questa prospettiva, essa non deve oltrepassare il suo limite costitutivo: non deve produrre principi normativi diversi e nuovi rispetto a quelli offerti (esplicitamente o implicitamente) dalle fonti normative.

In altri termini, non deve porre obiettivi (principi, rationes) diversi da quelli mirati dal legislatore[5], non può svolgere una funzione diversa da quella che è la sua causa finale (dire e riprodurre ma non creare il diritto) scavalcando i suoi presupposti costitutivi e rendendosi una fonte (non un semplice fattore) del diritto, così divenendo altro da sé, almeno secondo il modo in cui è ancora intesa nella forma di cultura attuale[6].

Per ridurre il rischio che questo avvenga, è opportuno sviluppare tecniche legislative che indichino, in modi manifesti (così da chiarirli anche ai loro autori), i principi normativi (gli obiettivi, le rationes) che si vogliono implementare nel sistema delle norme per orientare l’interpretazione e l’applicazione delle leggi in un’ampia gamma di mutevoli situazioni. Questioni notevoli sorgono quando i principi fondamentali si presentano come fra loro incompatibili: in queste situazioni il loro bilanciamento non può compiersi in astratto ma calibrandolo in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto. 

3. Formazione dei giuristi forensi e ruolo dell’accademia 

In tutti i casi, non è ipotizzabile una giurisdizione con un generale ruolo di supplenza politica: il rapporto tra la legislazione e la giurisdizione non deve andare oltre la concretizzazione e di sviluppo degli obiettivi e dei contenuti che la seconda riceve dalla prima[7].

Forme di reclutamento elettivo dall’esterno o di selezione elettiva all’interno (secondo opzioni politiche o personalistiche) contrasterebbero con il principio per il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge e accrescerebbero la possibilità di linee di politica del diritto fra loro contrastanti (tali da impedire un controllo di legittimità), alimentando l’idea (errata, ma diffusa) che inscrive la magistratura tra le élite delle quali diffidare.

Anche per queste ragioni, la giurisdizione non può rinunciare alle elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica può fornirle, così sistemando e spersonalizzando (oggettivandole) le categorie adoperate nel decidere. Ma la dottrina può fornire l’apporto necessario solo se il sistema accademico riesce a trattenere nelle università un sufficiente numero di studiosi ben motivati e capaci di elaborazioni scientifiche idonee a orientare i pratici del diritto.

Invece, da qualche decennio la cultura della semplificazione è subentrata a quella tradizionale: nelle università si è affermata l’idea che l’essenziale sia l’apprendimento delle leggi così identificando il diritto con la legge.

Questa identificazione ha portato a ritenere che basti il fatto di essere investiti di una funzione attuativa qualificata (quella di magistrato) per giustificare i risultati della interpretazione della legge, legando l’autorità alla posizione e facendo della pratica giudiziaria la base per la formazione dei nuovi giuristi.

La stessa formazione universitaria si è orientata verso la legislazione di settore e la giurisprudenza, ha formato esperti di legislazione lasciando la ricerca di una formazione avanzata al post-laurea. Ma, in un tempo di trasformazioni continue, la formazione post-laurea può rivelarsi obsolescente e, se è mancata una formazione orientata a fornire abilità più che nozioni, persino evanescente. A un pensiero graduale nel maturare ma solido nei suoi fondamenti (utile per gli studiosi come per i pratici) si è contrapposta la ricerca della tempestività alla quale può essere di ostacolo la complessità dei ragionamenti: la tensione verso le conclusioni prevale sulle argomentazioni. Negli scritti giuridici la giurisprudenza viene citata più della dottrina e così i magistrati tendono a chiudersi in un orizzonte autoreferenziale (che in alcuni casi si riverbera anche negli atteggiamenti esteriori rispetto all’operato professionale).

Questi mutamenti sono il prodotto di un’epoca ma i corpi professionali interessati (l’accademia e la magistratura, come anche l’avvocatura) non sono ancora riusciti a sviluppare una capacità di elaborazione che consenta loro di comprendere e gestire in qualche modo il cambiamento e non soltanto di subirlo con l’illusione di esserne protagonisti[8].

4. Deontologia ermeneutica e art. 12 delle preleggi

4.1. Indipendenza e imparzialità sono due condizioni indispensabili affinché un soggetto possa essere giudice, perché attengono all’essenza della sua attività.

La prima richiede l’assenza di subordinazioni (le più pericolose sono quelle nascoste) e viene protetta dallo statuto della professione giudiziaria; ma si può essere indipendenti senza riuscire a essere imparziali

La seconda richiede l’assenza di ogni pregiudizio e finisce per risolversi in una virtù personale che consiste nel mantenersi aperti, all’inizio dei ragionamenti, a tutti i possibili punti di vista svincolandosi dai pregiudizi. Ovviamente non può trattarsi di una imparzialità assoluta perché le norme giuridiche muovono da dei presupposti e perseguono degli obiettivi, quindi nascono affette da parzialità perché mirano a costruire una particolare realtà: l’argomentazione giuridica non è libera ma condizionata dai contenuti normativi validamente posti dall’ordinamento giuridico (chi aspira a essere assolutamente imparziale deve dedicarsi alla filosofia o alle scienze non applicate, non al diritto). La radice della parzialità risiede proprio nel non (tendere a) valutare tutti gli aspetti, tutti i profili e tutte le circostanze: si accoglie un principio e se ne tralasciano mille altri. Per non restare ingabbiati nella parzialità delle posizioni serve sapere rovesciare le prospettive. Solo movendosi lungo i vari poli di interesse, seguendo le indicazioni che sorgono dalla specificità di ogni caso concreto si può concretizzare il giusto mezzo (nel senso di giusto strumento) della regolazione, che frequentemente coincide con la mediazione e la moderazione ma, ne resta intrinsecamente distinguibile, tanto che, in alcuni casi, può persino identificarsi con quella che, a prima vista, sembrerebbe una posizione estrema[9]. Al rischio del soggettivismo giudiziario si contrappongono: una adeguata formazione professionale e deontologica, la costante considerazione dei principi fondamentali dell’ordinamento (anzitutto di quelli costituzionali, che hanno contemporaneamente efficacia normativa e valenza ermeneutica), la consapevolezza che le decisioni devono inserirsi in un sistema che richiede orientamenti dotati di un certo grado di coerenza e stabilità, l’obbligo costituzionale di motivare i provvedimenti, la pluralità dei gradi di giudizio, la effettiva collegialità delle decisioni adottate nei gradi superiori, il rispetto degli apporti dell’avvocatura.

4.2. Avviene, però, che i criteri interpretativi adottati nelle motivazioni delle sentenze siano utilizzati senza gerarchie che diano loro un ordine: si va dal criterio letterale, a quello storico, dalle valutazioni di sistema a argomentazioni teleologiche ristrette alla singola norma, dall’interpretazione conforme (alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE) a opzioni di natura pragmatica. Sulla metodologia dei metodi prevale la metodologia del risultato[10].

Anche le difficoltà della Corte di cassazione a esprimere orientamenti uniformi e stabili non dipendono soltanto dall’eccessivo numero dei ricorsi e dai limiti della sua organizzazione interna ma dalle stesse ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito[11].

Sarebbe auspicabile che lo stesso legislatore definisse strumenti ermeneutici attenti alla dimensione dell’interpretazione sistematica non adeguatamente valorizzati nell’attuale articolo 12 delle preleggi al Codice civile. Da un punto di vista puramente logico, una riedizione dell’attuale articolo 12 delle preleggi dovrebbe stare nella Costituzione, o comunque in una fonte normativa rinforzata per fissare nuovi principi di generali di ermeneutica giudiziaria[12].

Inoltre, in particolare, rimane viva la questione del rapporto fra l’interpretazione letterale e l’interpretazione teleologica quale criterio di verifica della prima.

Certamente «When a law is clear and free from all ambiguity, the letter of it is not be disregarded, under the pretext of pursuing its spirit» (art. 13 Lousiana Civil Code, 1808). Ma, attualmente, le più complesse dimensioni della spesso ineludibile interpretazione sistematica hanno la necessità di appoggiarsi su qualche pietra angolare che non può essere costituita, se ci si vuole allontanare dalla sostanza degli intenti del legislatore, dallo scopo (ratio) delle norme.  Allora, pur con tutte le cautele esegetiche necessarie, in varie situazioni, l’interpretazione teleologica può rivelarsi uno strumento chiarificatore più forte dell’interpretazione letterale di una singola disposizione[13] e la tecnica legislativa può agevolare il ricorso al metodo teleologico, come nel caso degli atti comunitari, che presentano un “preambolo” composto dai “considerando” che spiegano e indicano le ragioni delle disposizioni normative che vengono introdotte[14].

L’auspicio è, forse, illuministico.

5. Dal 1965 a oggi. Microstoria dell’A.N.M. in poche righe

Lo è meno sperare che l’associazionismo giudiziario − deviando dalla sua parabola discendente e recuperando istanze vitali in anni meno infelici − si riconcentri sull’uso degli strumenti del mestiere (che sono comuni all’avvocatura).

Non è un auspicio sorretto da molti conforti se si considera che per decenni questo associazionismo (che ha natura privata ma in pratica è il volano delle espressioni della autonomia attribuita dalla Costituzione) si è dimenticato, sino a tempi recenti, dei problemi della magistratura onoraria (cioè di una porzione considerevole dell’apparato che si occupa della giustizia ordinaria) e ancora tituba a concentrarsi sulle questioni relative al tipo di formazione e di selezione degli aspiranti magistrati (il che è come occuparsi della propria salute trascurando l’alimentazione).

Vivi fermenti, al contrario, mossero la magistratura italiana al Congresso di Gardone Riviera del 1965, con la piena adesione dell’A.N.M. ai principi costituzionali (oggi è un dato scontato, allora non lo era) e l’emersione delle correnti interne. Nessuno di quelli che si accingono a andare in pensione adesso era ancora entrato in un aula giudiziaria all’epoca.

Solo alcuni dei meno giovani in servizio hanno partecipato alla Conferenza nazionale per la Giustizia svoltasi a Bologna nel 1986, quando i temi della organizzazione giudiziaria e della sua efficienza e efficacia cominciarono a svilupparsi e a concretizzarsi sino alle forme attuali (con molti risultati utili e con alcuni fittizi).

Adesso − dopo oltre un ulteriore trentennio – ci si può chiedere se la dimensione associativa della magistratura italiana sia complessivamente di un livello migliore rispetto a quella 1965 e, poi, a quella del 1986.

Tuttavia, non conviene rispondere subito: la risposta si profila molto articolata e potrà risultare più chiara solo fra qualche anno.

Quando la situazione sarà cambiata e l’A.N.M. − nella forma attuale o in altre ancora da configurarsi – avrà recuperato una piena capacità propositiva di contenuti concretamente utili per il miglioramento dell’attività giudiziaria[15].

  

[1]  La cultura, in generale, e l’educazione giuridica, in particolare, sono il fondamento dell’esercizio effettivo della cittadinanza. Soprattutto, una tensione collettiva verso la società della conoscenza serve a alimentare il potere − sotteso a tutti gli altri e strutturalmente in grado di accrescersi da sé − costituito dalla diffusione del sapere e degli strumenti critici necessari per farne usi utili. Fra i tanti: F. CONIGLIONE, «Quale conoscenza per la “Società della conoscenza”?», in Bollettino della Società Filosofica Italiana, 216, settembre-dicembre 2015, pp. 3-24.

[2] Ne derivano proposte di modificare lo statuto della magistratura per dotarla di una legittimazione che giustifichi l’inserimento della giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto con l’idea che, poiché l’interpretazione non è mai neutrale, sarebbe preferibile non occultare gli aspetti soggettivistici dietro lo schermo dell’argomentazione tecnico-giuridica. Sembra una razionalizzazione eccessiva perché nelle complesse società contemporanee non è realistico attendersi che ogni esercizio di potere si fondi su uno specifico mandato: quel che importa è che chi decide si attenga al modello assegnatogli dall’ordinamento e che vi siano strumenti atti a impedire gli abusi.

[3] Pare un errore prospettico mirare alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie in sé e aspirare alla certezza del diritto ex ante (rispetto alla decisone) mentre la certezza del buon diritto si raggiunge soltanto ex post, cioè a conclusione di una compiuta e corretta dialettica processuale. La prevedibilità è davvero un valore (economico) per le decisioni che hanno a che fare con rilevanti flussi economici e finanziari.

[4] Sull’argomento: J.M.Lotman, La semiosfera, L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia 1992, 5ss, 56ss, 85ss.

[5] Recentemente in questa Rivista (13/01/2021): Il giudice interprete o legislatore? Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli.

[6] A. Costanzo, Logica dei dati normativi, Milano, Giuffrè, 2005, 228-232

[7] Su questi tempi: L. FERRAJOLI, Principia jurisTeoria del diritto e della democrazia, parte 3°, Lo Stato diritto, cap.XII, 12.8. La giurisdizione. Quattro connotati strutturali pp. 879-884, Bari, Laterza, 2007

[8] Su questi temi, recentemente: A. Corbino, La democrazia divenuta problema, Roma, Eurylink University Press, 2020

[9] F. JULLIEN, Un sage est sans idée, Paris, Èditions du Seuil, 1998. Trad.it. M.Porro, Il saggio è senza idee, Torino, Einaudi, 2002

[10]  V.Speziale, Le regole interpretative nella giurisprudenza, in: Lavoro e diritto, 2014, 2-3, pp. 273 ss.; P.Chiassoni, L'interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del "metodo tradizionale"., in: Giornale di diritto del lavoro, 2008, 4, pp. 553.

[11] Le sentenze, (di qualsiasi livello) che si travestono forme dottrinarie o si ingolfano con excursus storici debordano dal ruolo e non assolvono la loro funzione. I dubbi e gli approfondimenti sono il sano alimento di ogni seria attività intellettuale. Ma devono rimanere sullo sfondo delle norme e delle loro concretizzazioni in sentenze e provvedimenti perché il diritto non è descrizione ma prescrizione e chi vede modificata autoritativamente la sua sfera giuridica mentre ha l’obbligo di adeguarsi a quanto gli si prescrive ha anche un ragionevole (giusto) interesse a ricevere un messaggio chiaro per capire le ragioni del suo trattamento.

[12] G.Gorla, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di dritto costituzionale?), in: Il Foro italiano, 1969, 5, pp.112-132; E.Spagnesi,  Reminiscenze storiche di una formula legislativa, in: Foro italiano, 1971, 9, pp.99-118; A.Ciervo, Soltanto alla legge? Il problema dell'ermeneutica giuridica dall' articolo 12 delle preleggi all'interpretazione adeguatrice, in: Rivista critica di diritto privato, 4, 2010, pp.631-664.

[13] G.Tarello, L'interpretazione della legge, Milano, Giuffrè 1980, p. 370 e ss.: « chi usa l'argomento teleologico ricostruisce i fini della legge... a partire dal testo della legge o da una classificazione dei fini o interessi che il diritto protegge». Per considerazioni sul versante penale: M.TRAPANI, Creazione giudiziale della norma penale e suo controllo politico.  Riflessioni su Cesare Beccaria e l’interpretazione della legge penale 250 anni dopo, in: Archivio penale, 2017, 1, on line.  Per considerazioni sul versante civilistico: G.Terranova, I principi e il diritto commerciale. (Relazione al Convegno "I principi nell'esperienza", Roma, 14-15 novembre 2014), in: Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2015, 2, pp. 355-398, 363ss

[14]  Sul tema: J.Joussen , L'interpretazione (teleologica) del diritto comunitario, in: Rivista critica di diritto privato, 2001, p. 491 e ss.;

[15] Analogamente, nell’ultima parte del suo intervento: N.Russo, “In nome del popolo mediatico” (se pure i magistrati smettono di affidarsi al processo), in: Questione Giustizia, 16,/04/2021.

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