GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura

    I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura*

    di Giacomo d’Amico  

    Sommario: 1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi - 2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale - 3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale - 4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio - 5. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!  

    1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi    

    L’idea, inespressa ma implicita, che sta alla base di tutte le discussioni sul sistema elettorale del CSM è quella della sua capacità taumaturgica [1] rispetto ai guasti e alle degenerazioni di talune condotte di singoli magistrati e/o di gruppi di essi, come se la scelta dell’uno o dell’altro meccanismo potesse, tutto d’un colpo, risolvere o prevenire i guasti del consociativismo giudiziario.

    Questa idea deve ritenersi oggi del tutto superata per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché in generale, cioè per qualsiasi tipo di elezioni, «non esiste […] un sistema ottimale esente da inconvenienti» ([2]). L’esperienza dei sistemi elettorali per i due rami del Parlamento, che negli ultimi ventisette anni si sono succeduti tra interventi del legislatore e pronunzie della Corte costituzionale ([3]), ha dimostrato non solo che la degenerazione dei comportamenti degli attori politici non è direttamente imputabile al meccanismo con cui sono eletti, ma che, spesso, l’obiettivo perseguito con la scelta di talune regole elettorali rispetto ad altre risulta essere clamorosamente fallito. Occorre dunque prendere atto che, non di rado, si chiede ai sistemi elettorali ben più di quanto essi possano offrire ([4]).

    La seconda ragione per la quale non si può confidare nella capacità taumaturgica dei sistemi elettorali del CSM sta nel fatto che «[n]essun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore» ([5]) o, per dirla con parole diverse, «nessun sistema elettorale sino ad oggi sperimentato è riuscito a contenere il peso delle correnti» ([6]). Ciclicamente si verifica, quindi, un fenomeno singolare, per cui l’emersione di prassi degenerative fa riaprire, in dottrina e tra le forze politiche, il dibattito sulle regole elettorali del CSM per poi scoprire che la modifica di queste ultime non ha sortito alcun effetto utile ai fini della risoluzione dei problemi in relazione ai quali era stata promossa la riforma elettorale.

    In generale, la sostanziale inefficacia dei sistemi elettorali è anche il frutto di un (naturale) fenomeno di adattamento degli attori politici, i quali “variano” le loro scelte in merito alle modalità di aggregazione in base al sistema elettorale con il quale avrà luogo la competizione. Si rivela pertanto illusorio pretendere che gli stessi, in presenza di una variazione delle regole del gioco, continuino a comportarsi nello stesso modo in cui avevano agito sotto la vigenza di regole diverse. Come pure è illusorio ritenere che la loro azione non sia condizionata dalle condotte dei competitor. è dunque fondamentale prendere atto che i comportamenti degli attori politici (quali sono le correnti ([7]) nelle dinamiche elettorali del CSM) sono caratterizzati da una razionalità rispetto al fine da essi perseguito ([8]).

    Può essere utile, a tal proposito, la riflessione che la scienza della politica ha svolto sul ruolo dei c.d. veto player individuali e collettivi ([9), intendendosi, con questa formula, «gli attori individuali o collettivi il cui consenso è necessario per modificare lo status quo» ([10]). Da questo punto di vista, le elezioni dei membri togati del CSM, come pure l’assunzione, in seno a quest’ultimo, di talune decisioni (specialmente quelle concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi e i procedimenti disciplinari), costituiscono il contesto in cui l’azione delle correnti può ricondursi a quella di veri e propri veto player collettivi. è infatti in queste occasioni che maggiore rilevanza assumono il peso delle singole correnti e la loro capacità di puntare sulla soluzione in grado di ottenere il sostegno della maggioranza del plenum. Se è vero che questo ruolo può costituire il valore aggiunto dell’articolazione correntizia, agevolando l’individuazione della soluzione intorno alla quale “coagulare” la maggioranza necessaria ([11]), è altrettanto vero che la rilevanza delle correnti, se non “contenuta” entro gli argini del fisiologico sviluppo delle istanze pluralistiche, può tradursi in una mera pratica spartitoria.

    La scelta del sistema elettorale non è, dunque, risolutiva ai fini dell’eliminazione di tali aspetti patologici, il cui inquadramento, peraltro, dipende da opzioni di carattere culturale. Le correnti dei magistrati sono intese, infatti, da taluni, come naturali espressioni del pluralismo ideologico e, da altri, come vere e proprie consorterie o – riprendendo la definizione del Prof. Spangher – «correnti di persone», costruite intorno a centri di interesse e di potere piuttosto che a modelli culturali di riferimento.

    La presa d’atto dell’incapacità dei sistemi elettorali di correggere o di prevenire pratiche spartitorie o condotte ancor più discutibili non può, però, indurre a considerare del tutto indifferente la scelta delle regole elettorali. Queste, infatti, non sono caratterizzate da una sostanziale succedaneità, né lo è il metodo elettivo rispetto ad altri modi di selezione della componente togata del CSM.  

    2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale  

    Occorre, dunque, ritornare alla questione di partenza e interrogarsi preliminarmente su qual è e quale debba essere il ruolo del CSM. Solo sulla base delle risposte date a queste domande si potrà avere un quadro più nitido di ciò che ci si deve attendere dal sistema che regola la sua elezione.

    Nelle precedenti sessioni di questo convegno è stato spesso utilizzato il termine “rappresentanza”. Immaginare il rapporto tra il corpus dei magistrati e il CSM in termini di rappresentanza è, però, fuorviante, in quanto si rischia di assimilare la funzione del CSM a quella degli organi di rappresentanza politica. Da questo punto di vista, la dottrina costituzionalistica è concorde nel ritenere che il Consiglio superiore non è un organo rappresentativo in senso stretto della magistratura, lo è semmai della pluralità di posizioni e di idee. Al riguardo, è stato acutamente rilevato che il CSM ha «una policy, cioè un complesso di criteri orientativi, ma non [può] interferire con le politics, cioè con la politica partitica» ([12]). Analogamente può dirsi che il Consiglio superiore della magistratura non ha – né deve avere – un proprio indirizzo politico, ma è un organo dotato di «forza politica». Le incertezze sulla ricostruzione della funzione svolta dal CSM nell’ordinamento costituzionale ([13]) richiamano alla mente gli analoghi dubbi che la dottrina ha da sempre nutrito nei confronti dell’attività svolta dalla Corte costituzionale e, in misura minore, dal Presidente della Repubblica. Anche in questi casi, è risultato complicato “classificare” questi organi secondo gli schemi tradizionali; non a caso, sono state elaborate formule come quella della «forza politica» della Corte costituzionale ([14]) o dell’indirizzo politico generale o costituzionale del Capo dello Stato, nelle quali trovano un punto d’incontro le esigenze di dare atto dell’influenza politica di questi organi e della loro differenza rispetto a quelli di rappresentanza politica.

    Pur con le dovute differenze, sembra che ad analoghi risultati possa giungersi anche per il CSM, che, oltre a essere presieduto dal Presidente della Repubblica, presenta, quanto alla sua composizione, significative “assonanze” con la Corte costituzionale, almeno per quel che concerne il terzo dei componenti eletto dal Parlamento in seduta comune. Per queste ragioni, può risultare utile il ricorso, anche per il Consiglio superiore della magistratura, a formule come quella dell’indirizzo politico costituzionale ([15]), non a caso elaborata dal suo Autore per tutti gli organi costituzionali e non per il solo Capo dello Stato ([16]). Resta poi il nodo, tutt’ora irrisolto della natura del CSM, «cioè se esso debba considerarsi organo costituzionale, a rilevanza costituzionale o di “alta amministrazione”» ([17]).

    In definitiva, la varietà delle formule impiegate per definire il ruolo svolto dal CSM è sintomatica della sua incerta collocazione nell’ordinamento costituzionale. Da questo punto di vista, la perenne oscillazione delle ricostruzioni dottrinali rappresenta la logica conseguenza di questa incertezza. Tutto ciò non costituisce un limite dell’organo ma è, al contrario, il suo punto di forza, idoneo a porlo al confine tra la giurisdizione (soprattutto per quanto attiene alla competenza in materia di provvedimenti disciplinari) e la politica (da intendersi come politica della giurisdizione). Questa costante oscillazione è, dunque, nelle corde del CSM e deriva dalla sua natura, per molti versi, ibrida, voluta già dai Padri Costituenti.

    Sempre muovendo dalla prospettiva della individuazione delle basi da cui partire, non può essere tralasciato il fatto che si tratta di un organo che ha un numero di componenti esiguo e che quello dei membri eletti è assai ridotto in termini assoluti ma risulta cospicuo in termini relativi. A tal proposito, è significativo che il peso specifico di ciascun consigliere all’interno del plenum è pari a quello di ventitré deputati e di quasi dodici senatori ([18]). In altre parole, il peso specifico di ciascun consigliere del CSM corrisponde a poco più di quello di un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato.

    I riflessi di questa considerazione sul piano delle regole elettorali sono evidenti, soprattutto se si considera l’ipotesi – giustamente scartata dalla dottrina – di un sistema prevalentemente maggioritario ([19]). Gli effetti di quest’ultimo sarebbero, infatti, pericolosamente amplificati da quanto appena detto in merito alla consistenza numerica del Consiglio e al peso specifico di ciascun consigliere.

    L’esiguità in termini assoluti del numero dei componenti elettivi e la sua consistenza in termini relativi assumono una particolare rilevanza sul piano della rappresentanza delle c.d. minoranze; basti pensare che anche la previsione di un sistema proporzionale puro potrebbe non garantire la loro presenza in seno al Consiglio. Non può, infine, essere sottaciuto l’effetto selettivo svolto dalla previsione di collegi, effetto direttamente proporzionale al loro numero e inversamente proporzionale alle loro dimensioni.

    Se questo è il “contesto” nel quale trovano applicazione le regole del gioco elettorale, occorre anche avere chiari gli obiettivi da perseguire con la scelta di un sistema elettorale piuttosto che di un altro. Al riguardo, la Corte costituzionale, in una recente pronuncia relativa alla previsione di soglie di sbarramento nella legge che disciplina l’elezione dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo ([20]), ha affermato che il superamento «della mera “registrazione proporzionale della pluralità socio-politica”» ([21]) e quindi la scelta di un sistema proporzionale possono giustificarsi «per porre in essere meccanismi idonei ad assicurare efficacia ed efficienza del procedimento decisionale».

    In particolare, la Corte, riprendendo affermazioni contenute in pronunce precedenti ([22]), ha precisato che «l’esigenza di rappresentare l’“universalità” dei cittadini elettori» può essere sacrificata in nome dell’esigenza «di assicurare la governabilità e [di] quella di evitare la frammentazione politico-partitica che potrebbe rallentare o paralizzare i processi decisionali all’interno dell’assemblea parlamentare».

    Pare abbastanza evidente che né l’una né l’altra delle due esigenze sussistono nel caso dell’elezione della componente togata del CSM. Rispetto a questo organo non si pone infatti né un problema di governabilità né di eliminazione della frammentazione politico-partitica ([23]). In qualche fase storica si è posto il problema (richiamato dal Cons. Santalucia nella sua relazione) di non rappresentare le minoranze (prevedendo soglie di sbarramento particolarmente elevate), ma generalmente ci si è preoccupati della questione opposta, cioè di assicurare la presenza delle stesse.  

    3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale  

    Alla luce di queste premesse può essere esaminato il vigente sistema elettorale, introdotto dalla legge n. 44 del 2002 ([24]), il quale soffre di quel difetto di origine di cui sopra si è detto, cioè dell’errata convinzione che potesse escogitarsi un insieme di regole del gioco elettorale tale da eliminare le degenerazioni correntizie. Com’è noto, questo sistema prevede tre collegi unici nazionali, il voto non è più per liste ma è su singoli candidati e ogni elettore ha un voto per ciascuno dei tre collegi unici nazionali. Dunque, l’introduzione del collegio unico nazionale si affianca all’eliminazione delle liste e già questo è un elemento di incongruenza, poiché risulta impossibile «per i candidati […] fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale» ([25]).

    Non decisiva appare la questione “classificatoria”, cioè capire se si tratti di un sistema elettorale maggioritario ([26]) o proporzionale (come pure si è sostenuto nelle relazioni di accompagnamento di taluni disegni di legge ([27]) e durante i dibattiti parlamentari). Al riguardo, la previsione di tre collegi unici nazionali, pur in assenza di un sistema di liste, finisce con il rendere decisivo il peso delle correnti, con la conseguenza che sarà pressoché impossibile l’elezione di un candidato molto apprezzato nel contesto territoriale in cui opera ma poco conosciuto a livello nazionale o che è privo del supporto di una corrente di riferimento.

    Se così è e se si vuole ridurre il peso delle correnti nella elezione dei componenti togati del CSM (obiettivo, questo, unanimemente voluto dai più, almeno a parole), non resta che affidarsi a un sistema elettorale misto che abbia una componente proporzionale, al fine di assicurare il pluralismo di idee e di contributi, ma che dia qualche chance anche a candidati validi seppure privi del sostegno a livello nazionale derivante dalla loro fama o dal peso della corrente.

    Deve dunque escludersi sia l’ipotesi di un sistema maggioritario puro sia quella di un proporzionale puro con liste concorrenti, per la ragione che la prima soluzione esalterebbe i personalismi, la seconda il correntismo. Non resta che affidarsi a sistemi misti, in cui la combinazione tra proporzionale e maggioritario può realizzarsi in vari modi. Solitamente il mix consiste nell’assegnazione di una parte o percentuale dei seggi con l’un sistema e della restante con l’altro ([28]), oppure in un meccanismo di riparto proporzionale dei seggi sul quale si innesta un premio di maggioranza ([29]). Misto è anche quel sistema che prevede un riparto su base maggioritaria al primo turno e su base proporzionale al secondo; questo è il caso del meccanismo ideato dalla c.d. Commissione Scotti, secondo cui al primo turno i seggi sarebbero stati assegnati con criterio maggioritario su base territoriale, mentre al secondo con criterio proporzionale per liste concorrenti su base nazionale. A ben vedere questo sistema finirebbe paradossalmente con il riunire gli inconvenienti derivanti sia dall’uno che dall’altro sistema elettorale, finendo con il favorire sia i personalismi (al primo turno) sia i candidati di corrente (al secondo).

    Risulta evidente quindi che l’operazione cui sarebbe chiamato il legislatore che decidesse di modificare l’attuale sistema elettorale non è affatto di facile soluzione, non potendosi accogliere acriticamente qualsiasi combinazione dei criteri proporzionale e maggioritario, ma dovendosi piuttosto valutare gli specifici effetti discendenti dall’una scelta o dall’altra.

    Al netto delle valutazioni critiche sopra espresse, sembrano restare sul campo due ipotesi, così riassumibili: quella del voto singolo trasferibile e quella del sistema elettorale del Senato vigente prima del 1993.

    La prima ipotesi, formulata dalla c.d. Commissione Balboni ([30]) e poi ripresa da autorevole dottrina ([31]), prevede la possibilità per gli elettori di scegliere più candidati ma secondo un proprio ordine di preferenza, anche a prescindere, quindi, dall’appartenenza dei due o più candidati alla stessa lista. In questo modo sarebbe scardinato il meccanismo delle liste, in quanto l’elettore potrebbe dare un ordine alle sue preferenze. Al di là della sua complessità ([32]), questo sistema, nel tentativo di limitare il peso delle correnti, potrebbe però favorire cordate trasversali o quanto meno un sostanziale appiattimento ideologico e culturale dei candidati, che, pur di accaparrarsi il sostegno trasversale, potrebbero tendere a sfumare le differenze. Al contempo, sarebbe sicuramente esaltata la libertà degli elettori, il che si tradurrebbe nella massima rappresentatività degli eletti.

    La seconda ipotesi punta a recepire il sistema elettorale vigente per il Senato prima del referendum del 1993 ([33]). Questo sistema, che ha consentito di passare dal proporzionale al maggioritario a seguito della consultazione referendaria, si caratterizzava per una singolare combinazione che consentiva l’operatività solo eventuale delle regole maggioritarie. Esso prevedeva, infatti, che il territorio di ciascuna Regione fosse diviso in tanti collegi uninominali quanti erano i senatori da eleggere; inoltre, ciascun candidato nei collegi uninominali doveva “collegarsi” ad almeno due candidati in altrettanti collegi della stessa regione. All’interno dei collegi uninominali sarebbe stato eletto il candidato che avesse ottenuto il 65% dei voti; qualora questa soglia non fosse stata raggiunta, i voti di tutti i candidati sarebbero stati raggruppati in liste di partito a livello regionale, dove i seggi sarebbero stati allocati utilizzando il metodo D’Hondt delle maggiori medie statistiche e quindi, all’interno di ciascuna lista, sarebbero stati dichiarati eletti i candidati con le migliori percentuali di preferenza. Dunque, il riparto sarebbe avvenuto con il criterio proporzionale a livello nazionale, secondo il metodo D’Hondt che non dà resti.

    Nella prassi il numero dei candidati che hanno ottenuto almeno il 65% dei voti e quindi dei senatori eletti con il sistema maggioritario è sempre stato molto esiguo, sfiorando solo nelle elezioni del 1948 il 5%. Negli ultimi decenni di vigenza della legge (dal 1968 al 1992), poi, questo numero non ha superato le due unità. Quest’ultima considerazione potrebbe indurre il legislatore, che intendesse estendere all’elezione della componente togata del CSM questo meccanismo elettorale, a ridurre la percentuale necessaria per l’elezione all’interno del singolo collegio, portandola a una – anche sensibilmente – più bassa, ad esempio del 55%. In questo modo aumenterebbero le possibilità di elezione in seno ai collegi senza precludere del tutto il riparto su base proporzionale. Non mi parrebbe opportuno prevedere percentuali più basse del 55% perché altrimenti i seggi finirebbero con l’essere assegnati in gran parte con un sistema di tipo maggioritario, cioè all’interno dei collegi, e non con il riparto proporzionale su scala nazionale. In definitiva, applicando questo meccanismo elettorale al CSM, dovrebbero essere previsti tanti collegi uninominali quanti sono i seggi da assegnare, esclusi i due della Cassazione.

    A queste previsioni dovrebbe, inoltre, accompagnarsi l’obbligo di apparentamento con almeno altri due candidati, in modo da mantenere il legame derivante dalla consonanza ideologica e culturale. Anche in questo caso, la determinazione del numero degli altri candidati con cui apparentarsi sarebbe decisiva per la connotazione del sistema elettorale, dovendosi ritenere che l’aumento di questo numero possa produrre l’effetto di amplificare il legame correntizio.

    Al di là della combinazione di elementi propri del sistema proporzionale e di quello maggioritario, è evidente che il buon funzionamento di questo meccanismo dipende dal giusto “dosaggio” della percentuale necessaria per essere eletti nel collegio uninominale e del numero minimo di altri candidati con cui apparentarsi, non potendo, la prima, scendere oltre una certa soglia e il secondo superare un certo valore.

    Non bisogna poi tralasciare il fatto che – come evidenziato in apertura di questo scritto – le correnti adegueranno le loro condotte al mutato quadro elettorale, con la conseguenza che potrebbero essere necessari alcuni ulteriori aggiustamenti per conciliare le diverse esigenze sopra esaminate.  

    4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio  

    In alternativa al mutamento del sistema elettorale nei termini descritti, non è da scartare l’ipotesi di un rinnovo parziale del CSM; in particolare, è stato proposto di eleggere ogni due anni quattro laici e otto togati, sia per evitare «la dispersione integrale ed antifunzionale delle competenze acquisite dai consiglieri», sia per «aiutare a “scomporre” certe dinamiche e certi “blocchi” di potere» ([34]). Per assicurare il rinnovo parziale del CSM sembra, però, inevitabile il ricorso a una legge costituzionale; sebbene infatti possa discutersi sull’interpretazione da dare al penultimo comma dell’art. 104 Cost., secondo cui «[i] membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili», non pare realizzabile con legge ordinaria lo “sfasamento temporale” iniziale della durata di metà dei componenti ([35]). In altre parole, per la prima elezione sarà necessario modificare la durata in carica dei membri elettivi, prevedendo, ad es., che il mandato di coloro che hanno avuto i quozienti elettorali più alti duri quattro anni, mentre quello degli altri solo due. Questa deroga alla previsione dell’art. 104 Cost. dovrebbe quindi essere prevista da una legge costituzionale.

    La soluzione del rinnovo parziale non sembra risolvere, però, il problema del meccanismo di elezione, che resterebbe comunque immutato; anzi, l’elezione di un numero più ridotto di componenti potrebbe accentuare gli elementi maggioritari del meccanismo elettorale, personalizzando – anche eccessivamente – la contesa (si pensi, ad esempio, ai due magistrati con funzioni di legittimità, che sarebbero eletti uno per volta). Dunque, il rinnovo parziale potrebbe risultare una soluzione più complicata da realizzare e, al tempo stesso, non del tutto risolutiva; più complicata, perché occorrerebbe una legge costituzionale almeno per assicurare lo “sfasamento temporale” iniziale, non del tutto risolutiva, perché finirebbe con il perpetuare, se non peggiorare, i limiti della legge elettorale.

    Del tutto superata ([36]) – almeno nel momento in cui si scrive – sembra poi la proposta, sostenuta dall’attuale Ministro della Giustizia Bonafede, di introdurre un sorteggio preventivo dei candidabili ([37]); in particolare, il sistema elettorale sarebbe stato articolato in due fasi: in una prima, sarebbe stato sorteggiato il venti per cento degli eleggibili tra i magistrati in possesso dei requisiti di cui all’art. 24 della legge n. 195 del 1958, nella seconda, si sarebbe proceduto all’elezione tra i magistrati sorteggiati che avessero presentato la propria candidatura ([38]).

    Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso omnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte.

    V’è poi da aggiungere che forti sospetti di irragionevolezza si appuntano sulla percentuale, indicata nel disegno di legge, di eleggibili che dovrebbero essere sorteggiati; ritenere candidabili solo un quinto degli eleggibili (20%) produrrebbe una significativa compressione del diritto di elettorato passivo che tradisce la ratio della disposizione costituzionale di cui all’art. 104 Cost.

    Non trascurabile è poi il rischio che un magistrato sorteggiato nella prima fase possa sentirsi “costretto” a candidarsi per ragioni di appartenenza correntizia, in quanto unico “rappresentante” di quell’area. Si avrebbe, in questo modo, un’ulteriore compressione della libera scelta del soggetto titolare di elettorato passivo.

    Al contempo, non sembra che utili indicazioni a favore del metodo del sorteggio possano trarsi da due ipotesi in cui è previsto il ricorso a questo meccanismo decisionale; si allude a quanto affermato nella sentenza n. 35 del 2017, a proposito della scelta del collegio di elezione da parte del capolista eletto in più collegi ([39]), e al sistema di individuazione dei docenti universitari componenti delle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale (ASN) e  per le c.d. chiamate.

    Nell’un caso (scelta del collegio di elezione), la Corte costituzionale, a fronte di una normativa che consentiva un’«opzione arbitraria» del capolista, idonea a condizionare l’elezione degli altri candidati, ha precisato che quello del sorteggio costituisce (rectius, costituiva, trattandosi di un sistema elettorale poi superato dalla legge n. 165 del 2017) un «criterio residuale», previsto già dal legislatore, che – nel caso di specie – assicurava una normativa elettorale di risulta all’esito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957. Dunque, il ricorso al sorteggio (del collegio di elezione) si giustificava solo in quanto extrema ratio, desumibile dal contesto normativo, per evitare di rimettere alla scelta arbitraria del capolista la decisione sull’elezione di altri candidati.

    Non conferente risulta anche la comparazione con il sorteggio dei componenti delle commissioni dell’ASN e delle c.d. chiamate (a livello locale). In questo caso, infatti, non si tratta di dare voce al pluralismo presente nella comunità accademica, bensì di selezionare i docenti universitari ritenuti più idonei a valutare i candidati. Da questo punto di vista, appare condivisibile la scelta del legislatore di individuare, come unico criterio valido per la selezione dei commissari, la produttività scientifica degli stessi (valutata attraverso il sistema delle c.d. mediane), in coerenza peraltro con tutto il complesso normativo che mira a valorizzare i docenti scientificamente attivi (ad es. consentendo solo a questi di fare parte dei collegi di dottorato ecc.). In questo quadro si colloca il sorteggio dei commissari, limitato, come si è detto, a coloro che hanno raggiunto le c.d. mediane.

    Al riguardo, appare significativo che il meccanismo precedentemente previsto (per i concorsi locali, non essendovi all’epoca una procedura di comparazione su scala nazionale) e superato dal legislatore del 2010 era quello dell’elezione dei commissari (fatta eccezione per il c.d. membro interno designato dall’Università che aveva bandito il concorso). Il meccanismo dell’elezione aveva però dimostrato tutti i suoi limiti, non essendovi alcun nesso oggettivo tra l’elezione di uno specifico commissario e il compito a esso assegnato in relazione alla sede che aveva bandito; semmai, avrebbe avuto un senso un’elezione dei commissari su scala nazionale, volta a selezionare i docenti ritenuti più idonei a svolgere l’attività di componenti delle commissioni. Ciò ha provocato, in qualche raro caso, l’elezione del tutto casuale di un commissario piuttosto che di un altro e, nella gran parte dei casi, vere e proprie campagne elettorali al fine di eleggere commissari non invisi al membro interno e alla struttura universitaria che aveva bandito il concorso.

    Il fallimento di questo metodo di individuazione dei commissari nei concorsi universitari dimostra che l’elezione ha un senso solo se funzionale ad assicurare un rapporto di consonanza (non sempre di rappresentanza) tra l’elettore e l’eletto in relazione agli specifici compiti cui è chiamato quest’ultimo, altrimenti diventa un meccanismo per selezionare non i candidati ritenuti più idonei ma quelli considerati amici.

    Se così è, non appare indifferente l’individuazione di un magistrato piuttosto che di un altro come componente del CSM, né appare convincente l’elezione limitata ai magistrati sorteggiati, che potrebbe escludere dall’elettorato passivo proprio coloro che, per il loro bagaglio culturale e per la loro esperienza professionale, sono maggiormente in grado di svolgere i compiti cui è chiamato il CSM. Non del tutto persuasiva risulta pure la proposta di un «sorteggio dei migliori» ([40]), non essendo facilmente individuabile un criterio per selezionare questi ultimi. Da questo punto di vista, la «laboriosità» o l’«indice di decisioni confermate in appello» potrebbero non essere elementi sufficienti per selezionare i magistrati più adatti. Si tratta infatti di scegliere non i migliori per laboriosità, ma coloro che, senza demeriti, siano ritenuti più idonei a farsi portatori del pluralismo di idee e di culture presenti all’interno della magistratura.

    In definitiva, l’ipotesi del sorteggio integrale o parziale (nei termini di cui si è detto) appare non solo in contrasto con il dato dell’art. 104 Cost. ma anche intrinsecamente irragionevole ([41]).  

    6. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!  

    Alla luce delle considerazioni fin qui svolte non resta che confidare, per un verso, in una modifica delle regole elettorali che non faccia venir meno il carattere proporzionale del meccanismo di riparto dei seggi, per altro verso, in un significativo mutamento culturale che non rifiuti le correnti ([42]) ma che punti a riscoprire le ragioni di appartenenza ideologica e culturale, rifuggendo dalle famigerate «correnti di persone» ([43]) e dal «deleterio sistema dei “pacchetti” nelle nomine, specie dei titolari di uffici direttivi» ([44]).

    Estremamente attuale resta ancora oggi la lezione di Vittorio Denti che quasi quaranta anni fa scriveva: «[il giudice] deve uscire dalla logica del potere burocratico che la tradizione gli ha imposto e sentire la sua funzione come legal profession che si legittima in base a due aspetti essenziali: il compito di garantire la correttezza in tutte le manifestazioni della vita associata, e il possesso di una preparazione culturale adeguata a sostenere il continuo raffronto con le realtà nelle quali è chiamato ad operare» ([45]).

    Questo non è probabilmente un obiettivo facilmente raggiungibile; è però sicuramente l’orizzonte verso cui tendere, rispetto al quale l’autonomia della magistratura deve essere un presupposto fuori discussione e non un’arma da brandire sia pure per finalità dissuasive. Per questa ragione l’abuso dell’autonomia, che pure deve essere stigmatizzato e sanzionato là dove possibile, non deve mai indurre a metterla in discussione. In altre parole – riformulando il titolo di un recente scritto sul tema ([46]) – chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!

    * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 

                                                                                                      

    ([1]) In merito, F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM: contrastare la lottizzazione preservando il pluralismo, in Forum di Quad. cost., 16 luglio 2019, p. 1, scrive icasticamente: «L’idea del “potere salvifico” della legge elettorale non è certo nuova».

    ([2]) G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia, 4/2017, p. 27. Sul punto, la dottrina politologica si è sforzata di ricostruire il problema delle regole elettorali in chiave di «ingegneria costituzionale»: cfr., per tutti, G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 2013.

    ([3]) Il riferimento è, in particolare, alle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017, ma è anche a quelle decisioni che hanno dichiarato inammissibili taluni quesiti referendari che, se ammessi e approvati dal corpo elettorale, avrebbero potuto stravolgere le leggi elettorali di Camera e Senato (fra le più recenti, ordinanze n. 10 del 2020 e n. 13 del 2012).

    ([4]) Si tratta di un fenomeno che non deve sorprendere in quanto riconducibile alla generale tendenza della politica a rifugiarsi nelle valutazioni e nei dati tecnici per risolvere questioni che la stessa politica preferisce non affrontare, pur avendo gli strumenti per definirle.

    ([5]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 1.

    ([6]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quad. cost., 27 giugno 2019, p. 2.

    ([7]) Sulle origini e sull’evoluzione delle correnti della magistratura italiana si veda, da ultimo, G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in questionegiustizia.it, 10 gennaio 2020.

    ([8]) Sulle dinamiche legate alla competizione elettorale relativa ai membri togati del CSM si vedano le interessanti riflessioni svolte da D. Piana, A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 90 ss.

    ([9]) L’utilità dell’estensione di questo approccio alle dinamiche interne alla magistratura si coglie soprattutto in termini di comprensione di talune azioni collettive. Sul punto si rinvia a G. Tsebelis, Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche (2002), trad. di D. Giannetti, il Mulino, Bologna, 2004, spec. pp. 77 ss.

    ([10]) G. Tsebelis, op. cit., p. 51.

    ([11]) G. Tsebelis, op. cit., p. 109, rileva che «[v]eto player individuali decidono in base alla regola dell’unanimità (dato che il disaccordo di uno solo di essi può impedire una modifica dello status quo) mentre veto player collettivi per prendere decisioni ricorrono alla regola della maggioranza qualificata o della maggioranza semplice» (p. 109).

    ([12]) A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. I, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 116; F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 3.

    ([13]) Si pensi, ancora, al dibattito sull’utilizzo dell’espressione «organo di autogoverno», su cui criticamente, tra gli altri, S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Cedam, Padova, 1964, pp. 3 ss., e A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. cost., 1989, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. II, cit., pp. 1065 s.

    ([14]) T. Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Giuffrè, Milano, 1957, ora in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 206 ss.

    ([15]) In termini analoghi G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., pp. 22 ss., il quale precisa che «il Csm non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio dell’amministrazione della giustizia civile e penale […] lo stesso Consiglio può e deve invece esprimere un proprio indirizzo politico in materia giudiziaria – che vale a formare l’indirizzo politico costituzionale – nel rispetto, beninteso, delle riserve di legge contenute nella Costituzione e nell’ovvio riconoscimento della superiorità della fonte legislativa, sottoposta soltanto alle norme costituzionali» (p. 24).

    ([16]) Per P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, pp. 295 ss. spec. p. 308, tutti gli organi costituzionali sono compartecipi della funzione di indirizzo politico generale o costituzionale, mentre solo alcuni di essi sono contitolari di quella di indirizzo politico di maggioranza. La formula dell’«indirizzo politico generale o costituzionale» è stata elaborata da Barile per definire l’attuazione dei fini costituzionali permanenti e per distinguere quest’ultima dalla natura contingente dell’indirizzo politico di maggioranza. Questa formula, che apparentemente non ha avuto molto successo in dottrina, continua a essere ciclicamente ripresa per la sua capacità di cogliere talune sfumature che la rigida distinzione tra attività di indirizzo e attività di garanzia non riesce a giustificare. Tra coloro che hanno ripreso e sviluppato l’impostazione teorica di Barile si segnala E. Cheli, in Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 137 ss. e in Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 301 ss.

    ([17]) Così testualmente T. Martines, Diritto Costituzionale, XIV ed. interamente riveduta da G. Silvestri, Giuffrè, Milano, 2017, p. 445. Sul tema si veda, dello stesso Autore, Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, III, Mucchi, Modena, 1996, pp. 1035 ss. e ora in Id., Opere, I, cit., pp. 607 ss.

    ([18]) A questo risultato si giunge calcolando un ventisettesimo dei componenti della Camera e del Senato.

    ([19]) Si allude a un sistema c.d. misto con una forte componente maggioritaria.

    ([20]) Sentenza n. 239 del 2018, punto 6.2 cons. dir.

    ([21]) L’espressione riportata dalla Corte tra virgolette è tratta da D. Fisichella, Elezioni (sistemi elettorali), in Enc. dir., XIV, Giuffrè, Milano, 1965, p. 653.

    ([22]) Soprattutto nelle sentenze n. 193 del 2015 e n. 35 del 2017.

    ([23]) Cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, spec. pp. 179 s.

    ([24]) Per un quadro aggiornato dei precedenti sistemi elettorali e delle diverse proposte in campo si rinvia a C. Salazar, Questioni vecchie e nuove sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in giudicedonna.it, 2-3/2019, pp. 1 ss.

    ([25]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 2.

    ([26]) In tal senso, F. Dal Canto, op. et loc. ult. cit., e Id., Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta Online, 30 gennaio 2020, p. 10.

    ([27]) Cfr. Camera dei deputati, XVIII legislatura, proposta di legge n. 226, d’iniziativa dei deputati Ceccanti e M. Di Maio.

    ([28]) Al riguardo si pensi al c.d. Mattarellum, cioè al sistema elettorale vigente in Italia dal 1993 al 2005, introdotto a seguito del referendum abrogativo parziale sulla legge elettorale del Senato e poi delle due leggi del 1993 (n. 276 e n. 277) che, rispettivamente, apportarono qualche aggiustamento alla legge del Senato, oggetto del referendum, e modificarono il sistema elettorale della Camera per adeguarlo a quello dell’altro ramo del Parlamento.

    ([29]) Il riferimento è al c.d. Porcellum, introdotto con la legge n. 270 del 2005, con il quale si è votato dal 2006 al 2013.

    ([30]) Il cui testo è consultabile in E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), in Quad. cost., 3/1997, e ora in Forum di Quad. cost., 16 giugno 2019, pp. 1 ss. In particolare, sulla proposta di un sistema elettorale basato sul c.d. voto singolo trasferibile si veda p. 10 dello scritto citato.

    ([31]) N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ed. riv. e ampl., Zanichelli, Bologna, 2019, p. 40.

    ([32]) Riconosciuta dai suoi stessi sostenitori: N. Zanon, F. Biondi, op. et loc. ult. cit.

    ([33]) In questo senso G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, cit., p. 180; Id., Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., p. 28.

    ([34]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit., p. 3.

    ([35]) In questi termini la relazione della c.d. Commissione Balboni, per la quale si veda E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), cit., p. 9.

    ([36]) Sugli scenari che si aprono dopo l’abbandono dell’idea del sorteggio si veda V. Savio, Quale sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura?, in questionegiustizia.it, 25 febbraio 2020.

    ([37]) La proposta di introdurre un sorteggio per selezionare i componenti del CSM è stata avanzata per la prima volta nei primi anni ’70 dal Movimento sociale italiano, sia pure con modifica della Costituzione, e poi ripresa dal Ministro Alfano in un progetto del 2009. Sul punto si veda, di recente, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 27 s.

    ([38]) Su questa proposta si rinvia ai commenti, tra gli altri, di V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in questionegiustizia.it, 26 giugno 2019; N. Rossi, La riforma del Csm proposta dal Ministro Bonafede, in questionegiustizia.it, 12 luglio 2019.

    ([39]) Sentenza n. 35 del 2017, punto 12.2 del cons. dir.

    ([40]) In questo senso M. Ainis, Il sorteggio dei migliori, in la Repubblica, 8 giugno 2019, p. 33.

    ([41]) Su ulteriori profili di irragionevolezza legati alla peculiarità delle funzioni svolte dai consiglieri si sofferma F. Troncone, La nuova legge elettorale del CSM: una diversa soluzione è possibile, in www.unicost.eu, 26 luglio 2019.

    ([42]) è appena il caso di rilevare che l’associazionismo dei magistrati è espressamente tutelato dall’art. 25 della Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri su giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, consultabile in Giustizia Insieme, 1-2/2011, p. 207, secondo cui «[i] giudici devono essere liberi di formare ed aderire a organizzazioni professionali i cui obiettivi siano di garantire la loro indipendenza, tutelare i loro interessi e promuovere lo Stato di diritto». Sul punto, E. Bruti Liberati, CSM, l’esigenza di cambiare il sistema elettorale, in Corriere della sera, 25 giugno 2019, p. 26.

    ([43]) Secondo la definizione data da G. Spangher nella sua Relazione al presente Convegno.

    ([44]) G. Silvestri, Pizzorusso e l’ordinamento giudiziario, in A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, vol. I, cit., p. XIX. Negli stessi termini, M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 17.

    ([45]) V. Denti, La cultura del giudice, in Quad. cost., 1/1983, pp. 35 ss.

    ([46]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit.

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