La rivolta nelle carceri: la “miccia” dell’emergenza sanitaria accende il “fuoco” delle rivendicazioni dei detenuti.
Intervista di Michela Petrini a Riccardo Arena
Michela Petrini: all’emergenza del Covid 19 si aggiunge l’emergenza nelle carceri. Fin dall’inizio si è temuto che il contagio si espandesse anche oltre le mura degli istituti penitenziari e, per tale motivo, il Governo ha adottato le misure (divieto di colloqui, limitazioni nei permessi premio e del regime di semilibertà) considerate idonee a prevenire la diffusione del virus tra i detenuti. Ritiene che le predette misure siano state precedute da una corretta comunicazione relativa alle finalità sottese alle restrizioni imposte, oppure vi sia stato un difetto di informazione nei confronti dei detenuti e dei loro familiari che possa aver ingenerato il sospetto dell’adozione di provvedimenti con finalità repressiva o punitiva?
Riccardo Arena: la comunicazione, come spesso capita nelle carceri, è certamente mancata anche perché sono pochissime, nei penitenziari, le figure chiamate a svolgere questo ruolo. E così in tante carceri, i detenuti hanno saputo dell’interruzione dei colloqui senza essere rassicurati, né sulle vere ragioni che avevano giustificato la misura né sul momento in cui questa misura sarebbe cessata. Una situazione che ha chiaramente contribuito ad alimentare la già presente esasperazione, anche se francamente non credo che la sospensione dei colloqui da sola sia stata così determinante per causare un numero tanto elevato di rivolte.
Michela Petrini: le misure di prevenzione sopra indicate, unitamente all’adozione di protocolli (misurazione della temperatura e – solo ove ritenuto necessario - prelievo con tampone), volti al controllo delle condizioni di salute nei soggetti che, a vario titolo, fanno ingresso all’interno delle carceri, possono ritenersi presidi sufficienti a contenere il rischio di contagio, oppure si tratta di una sfida già persa anche alla luce delle notizie di stampa inerenti un possibile contagio di un detenuto ristretto nell’istituto di Modena?
Riccardo Arena: purtroppo il rischio di contagio nelle carceri è e resta elevatissimo e le misure adottate fino ad ora mi sembrano del tutto insufficienti rispetto alla reale gravità della situazione. Il punto è che esattamente come sta succedendo per noi cittadini liberi, anche nelle carceri l’emergenza per il coranovirus non è stata governata, non è stata affrontata in modo serio e soprattutto non sono state messe in campo misure capaci di prevenirne la diffusione. Infatti, i controlli su chi viene arrestato si limitano alla misurazione della febbre, mentre ancora oggi non sappiamo chi nelle carceri è positivo o chi è negativo e questo semplicemente perché né gli agenti penitenziari né i detenuti sono stati sottoposti ai tamponi. Insomma, quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi in Italia, occorreva subito concentrasi anche su luoghi chiusi come le carceri dove è più facile la diffusione del virus. Ma, tranne la sospensione dei colloqui con i familiari, poco o nulla è stato fatto. Un’omissione grave, visto che il sistema sanitario presente nelle carceri è pressocchè inesistente.
Michela Petrini: nella prospettiva di valorizzare qualsivoglia misura o provvedimento volto a prevenire il rischio di contagio o, quantomeno, a limitarne l’espansione, può ritenersi condivisibile la scelta di alcuni magistrati di applicare nella fase precautelare e cautelare la misura degli arresti domiciliari anche per reati molto gravi, oppure di stabilire modalità di esecuzione della pena (definitiva) diverse dalla detenzione in carcere?
Riccardo Arena: credo di sì, anche perchè a differenza dell’indulto, si tratterebbe di provvedimenti mirati, adottati caso per caso, che consentirebbero di selezionare chi merita di uscire e chi non lo merita. Infatti, sono tantissimi i detenuti che in base alla pena da scontare potrebbero già oggi essere sottoposti alla detenzione domiciliare, sempre che ovviamente abbiano un domicilio. Basti pensare che sono 8.682 le persone detenute che hanno un residuo di pena inferiore ad un anno, mentre sono 8.146 le persone detenute che devono scontare da uno a due anni. Insomma, un ampio numero di persone che pesano sul sistema carcerario e che comunque sarebbero destinate ad uscire presto. Ecco credo che su questi numeri ora, come in passato, si ponga la nuova sfida per la magistratura soprattutto di sorveglianza
Michela Petrini: i gravissimi e recenti episodi di protesta negli istituti penitenziari sono da ricollegare alle criticità della situazione contingente, oppure, come sostenuto da Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il virus ha scoperchiato una pentola che era già in ebollizione?”
Riccardo Arena: non credo che la causa delle rivolte sia nella mera sospensione dei colloqui con i familiari. Casomai questo provvedimento è stato utilizzato in modo strumentale per tentare di avanzare altre richieste che nulla centrano con il contagio; tuttavia, ha ragione il Cons. Bortolato, le carceri erano già una polveriera che, lasciata abbandonata a se stessa per l’ennesima volta, alla fine è esplosa.
Michela Petrini: quanto pesa la situazione di sovraffollamento e quanto l'assenza di opportuni provvedimenti da parte del Governo e del Ministro della Giustizia? Quali sono i numeri? Quali sono le rivendicazioni?
Riccardo Arena: la situazione del sovraffollamento è drammatica e ci riporta ai numeri che c’erano prima della sentenza Torreggiani. Oltre 61.200 persone detenute stipate in circa 47.000 posti effettivi e rinchiuse in carceri vecchie e che cadono a pezzi. Quindi, non solo si costringono le persone detenute a vivere in celle sovraffollate dove spesso mancano i famosi 3 mq a testa per potersi muovere, ma si tollera il sovraffollamento in luoghi inidonei alla detenzione. Un contesto che umilia le persone, che vanifica le finalità della pena e che mette a rischio la nostra tanto declamata sicurezza.
Michela Petrini: è accettabile che le proteste divampate nelle carceri per la vicenda Covid 19 si siano trasformate in richieste di provvedimenti clemenziali rivendicati con sommosse che hanno messo a rischio l'incolumità degli agenti penitenziari? Si ricordano sommosse analoghe e, se si, in quali occasioni?
Riccardo Arena: intanto la violenza va condannata sempre. Quanto alle richieste di provvedimenti clemenziali legati al diffondersi del virus, mi sembrano richieste del tutto irrazionali e non capisco il nesso che ci possa essere tra Coronavirus e sovraffollamento. Ora, è comprensibile la paura e l’esasperazione di chi sta in carcere in un momento tanto drammatico, tuttavia la richiesta di un indulto avanzata oggi da alcuni detenuti non mi convince e temo che possa essere meramente strumentale. Infatti, un conto è una protesta non violenta che chiede un indulto a causa del sovraffollamento in luoghi osceni, della mancanza di intravedere un futuro migliore, della negazione del diritto alla salute. Altra cosa è chiedere di uscire dal carcere perché c’è l’emergenza Coronavirus. Domando: facciamo uscire i detenuti in modo indistinto senza sapere chi è infetto e chi non lo è? Ed ancora. E se uno è positivo, lo lasciamo tornare a casa libero di contagiare gli altri? Francamente quella dell’indulto mi sembra una richiesta che oggi è priva di razionalità. Più serio sarebbe chiedere di fare i tamponi ai detenuti e agli agenti che vivono o che lavorano nelle carceri delle regioni a rischio e dopo, una volta che si hanno i dati oggettivi, studiare misure adeguate da adottare caso per caso.
Michela Petrini: quali saranno, secondo lei, gli effetti delle proteste in atto, sul piano individuale e in ordine alla situazione delle carceri in Italia?
Riccardo Arena: ma…in questo impazzimento generale, dove governa il comunicato e non il contenuto, tutto può succedere…