GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    CEDU e cultura giuridica italiana  2) La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU

    CEDU e cultura giuridica italiana 2) La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU

    CEDU e cultura giuridica italiana 2) La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU

    Roberto Conti intervista David Cerri, Maria Giovanna Ruo e Paola Regina.

     Sommario. Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le conclusioni. 5. L’intervista in pdf.

     1)Quali sfide attendono gli avvocati civilisti sul versante della protezione dei diritti fondamentali in chiave convenzionale?

    2) Quale ruolo svolgono oggi i diritti fondamentali nelle aule giudiziarie all’interno del contenzioso civile?

    3) Qual è, a suo avviso, il grado di diffusione delle conoscenze della CEDU nella classe forense e nel sistema giudiziario italiano, di merito e di legittimità?

    La scelta del tema.  

    Roberto Conti

    In linea di continuità con la prima intervista dedicata al punto di vista degli avvocati penalisti sul ruolo della CEDU, Giustizia Insieme ha pensato di coinvolgere gli avvocati civilisti.

    Gli spunti di riflessione che si prospettano quando si discute di Convenzione europea e civilisti attengono al rilievo che questo strumento ha nei rapporti civilistici, alla conoscenza che ne hanno gli operatori ed alle prospettive che essa offre rispetto alla tutela dei diritti. 

     David Cerri, Maria Giovanna Ruo e Paola Regina, che svolgono la professione forense prevalentemente a Pisa, Roma e Milano, hanno accettato di riflettere con la Rivista su questi temi.

     Le risposte.

    1) Quali sfide attendono gli avvocati civilisti sul versante della protezione dei diritti fondamentali in chiave convenzionale?  

    David Cerri.

    Rispondere a questa domanda comporta inevitabilmente, a mio parere - vista la voluta proiezione nel futuro prossimo – una previsione sul contesto politico globale ed in particolare europeo. Quasi archiviate (nel profilo pubblico, ma non nella sostanza) le discussioni sulla globalizzazione economica in quanto tale, e di conseguenza quelle sui suoi riflessi nelle società, ed anche gli slogan che erano divenuti consueti (ed obsoleti) in quei dibattiti, sono diversi gli stimoli dei tempi più recenti che spingono ad ipotizzare la necessità di interventi “militanti”, se non spaventa il termine, dell’avvocatura.

    Mi riferisco evidentemente all’emergere di movimenti politici e d’opinione che hanno nuovamente reso “accettabile” proporre programmi, ideologie e linguaggi che credevamo confinati in un oscuro passato, in barba alle costituzioni nazionali ed alle carte sovranazionali, ed in aperto dileggio di quelle norme positive così come di quelle tradizioni culturali affermatesi proprio nel segno dei diritti fondamentali: conquiste che forse ingenuamente pensavamo consolidate.

    Se scatta spesso nell’opinione pubblica un automatico riferimento ai colleghi penalisti come ai difensori dei diritti fondamentali (e non c’è dubbio che ciò corrisponda  a verità: ma l’univocità del riferimento in tale meccanismo mediatico è dovuta solo ai casi di cronaca) la realtà ci indica che è nelle aule delle corti civili, e negli studi dei civilisti, che si appresta la tutela di quei diritti in tutte le occasioni nelle quali non scatti la sanzione penale, che spesso è una conseguenza di comportamenti che una corretta gestione in quelle sedi  avrebbe potuto evitare o mitigare: occasioni che sono la grande maggioranza, ovviamente e per fortuna. La vita quotidiana delle persone, in altre parole, è scandita da incontri, episodi, problemi e drammi per i quali è là che si cerca la soluzione, non sempre con successo.

    Basti pensare ad un solo ambito: quello della famiglia, sul quale certamente meglio di me si intratterrà la collega Ruo. Dalla discriminazione alla tutela dei minori, alla salute, ruotando semplicemente intorno ad un concetto di dignità della persona che stiamo scoprendo non essere affatto, purtroppo, così scontato. Lo stesso può dirsi per il diritto all’autodeterminazione, declinabile non solo nel campo della responsabilità sanitaria, in quell’ampio alveo che racchiude il consenso all’intervento terapeutico ed il fine vita. Ed il lavoro ? anche qui tra le altre torna la questione della discriminazione. E forse è ancora la discriminazione, sotto un diverso profilo, un altro dei grandi temi di intervento: intendo qui quello della discriminazione per l’orientamento sessuale, che incontra un difficile terreno di bilanciamento con altri diritti, e sul quale - legittimamente - diverse impostazioni culturali, religiose, politico-sociali ormai da diverso tempo stanno confrontandosi, non sempre in modo sereno.

    Proprio su questo ultimo terreno sembrerebbe affermarsi anche in Italia un diritto vivente che, affermando la priorità dell’interesse dei minori sovente coinvolti nelle scelte di genitori, naturali o meno, si è posto in apparente  conflitto con normative risalenti, ma che dovrebbero comunque interpretarsi alla luce della Costituzione e degli strumenti convenzionali internazionali; ed è proprio qui che, sulla spinta propulsiva delle argomentazioni poste dagli avvocati ai giudici, si viene gradualmente ad affermare un concetto di famiglia lontano da quello che non solo il legislatore codicista del ’42, ma anche – riconosciamolo – lo stesso comune sentire dell’epoca pareva sostenere. Molto resta da fare, per giudici ed avvocati, in questo ambito; se pietre miliari di diritto positivo interno, a partire dalla Costituzione fino alle diverse riforme di settore succedutisi nel tempo, hanno posto le premesse per una sua continua rivisitazione, una parola decisiva spetta alle carte sovranazionali come la CEDU e la Carta di Nizza, che giusto su questi temi sono state oggetto di numerosi richiami nelle diverse contese giudiziarie (dove assai spesso lo Stato ha assunto posizioni di conservazione dello status quo). E’ così che sono stati reinterpretati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, concetti chiave come quello di ordine pubblico costituzionale (o meglio, internazionale); manca ancora, però (e forse è illusorio attenderla…) una parola finale sulla soluzione di quei conflitti, e chi dovrà pronunciarla? Nel quadro normativo vigente, la Corte Costituzionale è già stata chiamata a risolvere alcune questioni rilevanti; in attesa di riforme legislative continua a gravare sui difensori dei diritti, vale a dire gli avvocati ed in particolare quelli civilisti, l’onere di far corretto uso degli strumenti che l’ordinamento ha loro consegnato; continuare, in altre parole, quell’opera di stimolo per l’innovazione e l’adeguamento del diritto alla realtà vissuta (per cui talvolta è sufficiente una mera interpretazione costituzionalmente orientata) che spetta poi al giudice tradurre in concreti e coercibili dicta. Eppure le riforme sarebbero auspicabili; ma nel clima politico attuale ci sarebbe da attendersene anche alcune tali da riportare indietro l’orologio: chi legge può senz’altro immaginare a quali recenti iniziative mi riferisco.

    Ma le possibilità d’intervento per i civilisti sono anche altre, destinate anzi prevedibilmente col tempo ad assumere sempre maggiore importanza: non è certo quella delle aule giudiziarie – ed anche qui aggiungo: per fortuna – l’unica sede dove quei diritti vengono discussi e tutelati, con gli ovvi limiti della loro disponibilità giuridica. Nuovi istituti di risoluzione delle controversie – ricordo la mediazione e la negoziazione assistita – da un lato consentono, e dall’altro esigono l’intervento attivo di un legale non solo preparato professionalmente, ma anche consapevole della responsabilità che il suo ruolo sociale gli addebita. Se, come tutto lascia indicare, anche tali metodi di composizione contribuiranno ad allargare gli spazi per l’autonomia privata (non solo in ambito contrattuale ma, e con decisione, anche dove fino a non molto tempo fa le lusinghe provenienti da altri ordinamenti erano respinte con malcelata irritazione) accresciuta risulterà la necessità di un rigoroso rispetto dei doveri deontologici fondamentali, frequentemente specchio od applicazione dei diritti con lo stesso attributo. Dal richiamo contenuto nell’art.1 del Codice deontologico forense ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea, con l’esplicito riferimento alla CEDU, a – per citarne solo alcuni altri - a quelli di competenza e di aggiornamento (artt.14 e 15, dei quali costituisce precisazione il 26), a quelli esattamente regolati dai c.4, 5 e 6 dell’art.23, e cioè i divieti di farsi complici di iniziative inutilmente gravose, di operazioni illecite e di comportamenti non solo e non tanto giuridicamente “nulli”, quanto “illeciti e fraudolenti”. Doveri deontologici che, coinvolgendo tra l’altro anche la sfera privata dell’avvocato (art.2 C.D.F.) si traducono oggi anche nell’acquisizione di nuove capacità come - per fare un esempio che ci consente un collegamento al profilo sopra già ricordato della discriminazione - quelle linguistiche, più che mai rilevanti per un corretto esercizio della professione, e per il mantenimento di un ruolo privato e pubblico “adeguato”: non farisaicamente politically correct, ma semplicemente aderente alla realtà che ci circonda, e soprattutto al rispetto di un diritto fondamentale quale quello dell’eguaglianza normato dall’art.14 CEDU e dall’art.21 della Carta di Nizza sub specie di divieto di ogni discriminazione. Aderente, infine – sia consentito dirlo ad un cultore di questi studi – anche alla lingua italiana!

     Paola Regina

    La principale sfida dell’avvocato risiede nel riuscire ad assolvere alla propria funzione sociale, con la consapevolezza della dignità della professione forense e con l’impegno di osservare, mediante lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini di giustizia e tutela dell’assistito, nelle forme e nei principi del nostro ordinamento. Il ruolo dell’avvocato, così ben delineato nel giuramento, risulta essere di enorme importanza ai fini della tutela dei diritti individuali e del mantenimento della giustizia sociale. Gli avvocati, infatti, hanno il dovere di portare all’attenzione dei giudici ogni violazione o semplice compressione dei diritti soggettivi, in particolare modo dei diritti fondamentali. L’avvocato deve, prima di tutto, tutelare e assicurare le libertà e i diritti fondamentali, sanciti dalla nostra Carta costituzionale, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, poste a presidio della nostra civiltà giuridica.  La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come enunciato all’art. 53, si occupa di garantire uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali che ben può essere superato da altre disposizioni normative, ma al di sotto del quale, gli Stati firmatari non possono scendere.

    Il Preambolo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo esorta “i governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di alcuni dei diritti enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. La sfida quotidiana di ogni avvocato consiste, dunque, nell’assicurare e garantire “la preminenza del diritto”, mediante la tutela dei diritti fondamentali. In particolare, la materia del diritto civile attraversa tutte le sfere di vita di ogni individuo: la famiglia, il lavoro, la salute, l’ambiente, la vita privata, il diritto ad un giusto processo, fino alla tutela del patrimonio, della proprietà e dei beni. In ciascuno di questi ambiti, l’avvocato ha il dovere di porre in evidenza, prioritariamente, la tutela dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

    Tale sfida quotidiana, negli ultimi anni, sta diventando sempre più necessaria, alla luce della normativa, avente rango di legge ordinaria, che appare a volte in contrasto sia con la Carta costituzionale e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

    Al fine di fornire un esempio di attualità, si ricorda l’articolo 13 del Decreto Legge del 4 ottobre 2018, convertito nella Legge 132 del primo dicembre 2018, che non consente l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo, sebbene in possesso di regolare permesso di soggiorno. Tale divieto d’iscrizione anagrafica comporta la compressione di alcuni diritti fondamentali, perché impedisce l’individuazione del medico di base, impedisce l’iscrizione ad asili nido ed a scuole materne per i bambini, impedisce l’iscrizione ai centri per l’impiego ed impedisce la possibilità di chiedere il patrocinio legale a spese dello Stato. Dunque, l’avvocato, dopo aver rilevato una possibile violazione degli articoli 32, 34 e 24 della Costituzione italiana, ha il dovere anche di segnalare una possibile violazione dell’articolo 8 della CEDU che prescrive il rispetto della vita privata e familiare dell’individuo, ivi compreso il rispetto della sfera professionale, proteggendo tale sfera soggettiva dalle possibili ingerenze illegittime degli Stati.

    Di conseguenza, il divieto d’iscrizione anagrafica, nel compromettere la possibilità per un bambino d’iscrizione ad un asilo nido o d’individuare un medico curante di base, può pregiudicare diritti fondamentali della persona, ingerendo illegittimamente in quella sfera di vita privata, protetta dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tale disposizione della CEDU si è rivelata di estrema importanza e viene in rilievo nell’ambito di numerosi procedimenti giudiziari (anche come conseguenza di altre violazioni dei diritti fondamentali).

     Maria Giovanna Ruo

    Ringrazio “Giustizia insieme” del cui invito sono onorata. Sono convinta che la giustizia sia l’architrave della società, che si poggia su due colonne: magistratura ed avvocatura. Se una di queste si squilibra, ne risente l’altra e tutto l’assetto della società civile. In particolare l’avvocatura è l’anello di congiunzione tra vita e diritto, e gli avvocati sono coloro che danno voce alla domanda di giustizia delle persone a volte ricercando risposte nelle pieghe del sistema multilivello delle fonti. Non solo nel singolo specifico caso in cui è loro attribuito il mandato, ma anche nella società civile esercitando la difesa e la promozione dei diritti soprattutto dei soggetti vulnerabili che altrimenti voce non hanno.

    Sono un operaio del diritto “con le mani sporche di malta”, lavoro “in cantiere”. Esercito da anni in via largamente prevalente nell’area persone, relazioni familiari e minorenni, in cui negli ultimi decenni i cambiamenti nella domanda di giustizia sono stati epocali e anche non coerenti -se non antinomici- con la filosofia e il piano valoriale giuridico e socio-antropologico che aveva ispirato  legislatore codicistico e successive riforme.

    Si è passati dalla concezione diffusa della legittimità di un unico modello familiare, destinato a durare per tutta la vita, alla legittimazione sociale di una pluralità di modelli che si succedono anche nell’arco dell’esistenza della persona, libera di scegliere come, con chi, per quanto tempo accompagnarsi costruendo una “famiglia” che non è più solo quella coniugale tra uomo e donna consacrata dall’art. 29 Cost.

    Il focus si è progressivamente spostato dai diritti patrimoniali a quelli personali ai quali pure, in coerenza con il principio di autodeterminazione, viene applicata una logica negoziale: il che ha comportato e sta comportando il proliferare di modelli relazionali e conseguente nuova domanda di giustizia che – in caso di successiva crisi- non trova sempre risposta in un ordinamento che fatica a “tenere il passo”.

    Da una parte, la forte sottolineatura del concetto di libertà personale e della dimensione negoziale -quasi contrattualistica- della scelta del modello familiare, in cui la volontà dei singoli è divenuta predominante; dall’altra, quasi in contrappunto, si è proporzionalmente accresciuta l’esigenza di tutela dei soggetti vulnerabili, i cui diritti fondamentali potrebbero risultare compressi e vanificati.

    Da qui per lo Stato obblighi negativi di non ingerirsi nella vita privata delle persone tutelando la loro libertà di scelta in modo non discriminatorio; obblighi positivi di intervenire a tutela delle persone fragili nelle relazioni sociali e familiari i cui diritti risulterebbero altrimenti compromessi.

    L’asse portante di un sistema nuovo -e ancora in fieri- si è quindi spostato all’interno delle relazioni familiari sui diritti fondamentali per spinta del diritto pattizio e, in modo strutturalmente fondante, in particolare della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nonché della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; per il settore minorile, della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (poi detta CRC), di cui quest’anno si celebrano i 30 anni e che fu ratificata nel nostro ordinamento dalla l. 176/1991.

    Il processo, ancora in divenire, ha fornito talvolta soluzioni alla nuova domanda di giustizia, ma non è lineare e si compie “a placche”: in qualche caso su spinta evidente di condanne all’Italia da parte della Corte di Strasburgo e successivo intervento legislativo; altre volte sulla base dei principi costituzionali e CEDU cui si ispirano i provvedimenti delle Corti superiori e, in alcuni casi, anche quelli di merito.

    Ciò comporta l’anomalia di un “sistema non più sistematico”, nel quale norme codicistiche e della legislazione speciale stentano a trovare una loro armonica collocazione nel sistema multilivello delle fonti; tale disarmonia è tema costante -insieme al mutamento sociologico della domanda di giustizia- per chi esercita in questo ramo del diritto.

    Esempi nel fenomeno migratorio: molti gli aspetti da considerare. Vi è talvolta anche antinomia di sistemi familiari e valoriali connessi da risolvere sul piano dei diritti fondamentali: ne è esempio -oltre alla poligamia- il tema della responsabilità genitoriale e delle connesse modalità di esercizio, certamente influenzate dalla cultura di origine. Vi sono pratiche inconciliabili con i diritti fondamentali (escissione, infibulazione, matrimoni precoci e combinati) ma vi sono anche modalità educative dalle quali lo sviluppo della pedagogia occidentale si è ormai allontanata, ma che costituiscono espressione di altre culture dove sono ritenute legittime e ampiamente praticate (mi riferisco ad es. a modeste punizioni fisiche). In questi ultimi casi la tutela dei figli minori dal pregiudizio deve tenere conto di due diversi aspetti: condotte educative incongrue in base alla nostra cultura versus necessità di conservare la relazione genitori-figli e l’identità culturale ed etnica di questi ultimi. Il criterio è sempre the best interest of the child che deve prevalere nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco e che consiste nella tutela delle migliori condizioni di sviluppo psico-fisico di ogni persona di età minore, nella sua concretezza. E quindi di volta in volta dovrà essere soppesato se, per quel minore, per la sua storia e sensibilità, debba prevalere una soluzione o l’altra.

    Per i Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) la l. 47/2017 ha individuato come strumento di tutela la nomina di tutori che se ne debbono prendere cura accompagnandoli nel processo di integrazione e crescita. La società civile ha risposto con entusiasmo alla sfida e il numero di persone che si sono rese disponibili e che sono state preparate per il compito è di tutto rispetto. Tuttavia queste persone si trovano poi ad operare con strumenti giuridici incoerenti e disarmonici: da una parte la normativa codicistica sui tutori, incentrata su tematiche patrimoniali, sideralmente distante dalla situazione esistenziale di MSNA totalmente privi di patrimonio; dall’altra la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo che, nello stabilire contenuto e perimetro della responsabilità genitoriale, ne prevede espressamente l’esercizio da parte dei tutori, figure vicarie dei genitori quando questi manchino o siano impediti. Nel concreto, accade che le norme codicistiche per lo più non siano applicabili; strumento di tutela sono quindi le indicazioni precettive della CRC, che però spesso non sono effettive. Per fare un esempio: cosa può voler dire guidare il minore nell’esercizio della sua libertà di opinione e nelle scelte religiose, se il tutore non ha reale conoscenza della cultura di provenienza e della storia della persona di età minore di cui deve prendersi cura -cui la nostra Carta Costituzionale assicura il libero godimento dei diritti fondamentali (art. 2 Cost. ) prevedendo che eventuali ostacoli debbano essere rimossi (art. 3) Cost.? Snodo diventa la figura del mediatore culturale, pure astrattamente previsto nella normativa, ma di fatto spesso non operativo nel caso concreto.

    Lo stesso si verifica per il diritto all’ascolto della persona di età minore nelle questioni che debbono essere decise nel suo interesse. Tale diritto ha la sua fonte nel diritto pattizio (art. 12 CRC e poi anche CDFUE, art. 24 e art. 6, Convenzione di Strasburgo per l’esercizio dei diritti dei minori del 25.01.1996, rat. con l. 77/2003). Definito dal Comitato ONU come assoluto, con efficacia erga omnes, tale diritto non è assicurato al minore per la sua vulnerabilità, ma piuttosto per la necessaria tutela del suo miglior sviluppo (così il Comitato ONU nel suo Commento n. 12) da inserirsi nel quadro degli artt. 2, 3, 30, 31 e 32 Cost. Costituisce anche presupposto per la circolazione dei provvedimenti che riguardano la persona d’età minore all’interno dell’Unione europea (cfr. art. 21 e 39 Reg. 2019/1111/UE).

    Tuttavia il diritto all’ascolto non viene effettivamente esercitato se non vi è adeguata preparazione in chi deve ascoltare (e poi decidere nell’interesse del minore). In questa posizione di inadeguatezza si trova spesso il tutore che ha tra i compiti quello di fare presente a chi deciderà l’opinione della persona di età minore straniera che giunge nel nostro territorio, spesso dopo mesi in cui ha subito trattamenti disumani e degradanti, provenendo da un Paese terzo del quale chi ascolta ignora lingua, storia, cultura, religione, costumi, visione della vita e quindi difetta di strumenti di effettiva decodifica di quanto “sente” dal minore stesso, ma che non è in grado di comprendere. Il diritto all’ascolto, connesso strettamente con il diritto delle persone di età minore di partecipare a ogni processo decisionale che le riguardi, rischia di divenire un diritto non effettivo, con la conseguenza di non assicurare la decisione in the best interest of the child e, quindi, di tradirne senso e funzione di assicurarne il miglior sviluppo psico-fisico. Il prezzo è non solo (e ciò sarebbe più che sufficiente) lo svuotamento del sistema di tutela dei diritti fondamentali di queste persone vulnerabili, ma anche altro nella prospettiva di “sicurezza dello Stato” perché da scelte educative e di accoglienza sbagliate deriva marginalizzazione dalla quale può discendere radicalizzazione ideologica.

    Né vi è effettivo strumento remediale: non vi è infatti possibilità concreta per una persona di età minore di accedere alla giustizia per la tutela dei propri diritti. La Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori e la normativa codicistica prevedono la nomina di un rappresentante al minorenne quando i suoi rappresentanti legali (genitore o tutore) si trovino in conflitto di interessi con lui: è previsto che l’incapace possa rivolgersi al Pubblico Ministero perché questi richieda al giudice  la nomina di un curatore speciale; oppure è il giudice dell’azione in corso, quando rilevi il conflitto di interessi, che nomina d’ufficio il curatore speciale (“se del caso, un avvocato”, come recita l’art. 5 lett. B della citata Convenzione di Strasburgo). Ma non sfugge che la possibilità di rivolgersi a un Pubblico Ministero per un minorenne (tanto più se migrante e non accompagnato; ma anche per tutti gli altri) è solo una previsione astratta. E così l’inesistenza di uno strumento effettivo di accesso alla giustizia per i minorenni (ma non dissimile è il tema per gli anziani e i disabili: insomma per categorie particolarmente vulnerabili) diventa giustizia negata.

    Il frazionamento di competenze tra giudici che si occupano di persona, relazioni familiari e minorenni (spartite in modo peraltro illogico e confuso tra giudice specializzato minorile e giudice ordinario, monocratico o collegiale) comporta accavallamento di procedimenti, irragionevole durata del processo, possibile contraddittorietà di provvedimenti. A questo si accompagna la polverizzazione dei riti -che in materia sono una miriade e le cui differenze rendono talvolta inammissibile la riunione di procedimenti, nonostante le domande possano essere sovrapponibili o cumulabili- e l’inesistenza di normativa in materia di esecuzione dei provvedimenti sulle relazioni.

    Eppure secondo la Corte EDU al rispetto dell’art. 8 della Convenzione è consustanziale quello dell’art. 6: il processo di famiglia must be fair.

    Il nostro Paese ha ricevuto più di una condanna per non avere un arsenale giuridico adeguato in materia, avendo affaticato le Parti in procedimenti tra un giudice e l’altro, durati anni, senza che la relazione figli-genitori fosse effettivamente garantita (Improta c. Italia, 4.5.2017; Endrizzi c. Italia, 23.3.2017; Ciancimino c. Italia, 28.04.2016; Strumia c. Italia, 23.06.2016; Bondavalli c. Italia, 17.11.2015; Nicolò Santilli c. Italia, 17.12.2013; Lombardo c. Italia, 29.01.2013; Piazzi c. Italia, 2.11.2010).

    La materia processuale diviene nodale per la tutela dei diritti fondamentali, perché la dispersione della tutela in procedimenti diversi dinnanzi a giudici appartenenti a diversi uffici giudiziari diversamente formati, si trasforma -per tempi, costi, possibile contraddizione tra provvedimenti- in giustizia negata in tema di diritti fondamentali per i soggetti vulnerabili.

     2) Quale ruolo svolgono oggi i diritti fondamentali nelle aule giudiziarie all’interno del contenzioso civile?

      David Cerri

    La prima osservazione che mi vien da fare è che CEDU (ed anche le altre principali Carte dei diritti, non solo europee) sono ben conosciute ai “piani alti” della giurisdizione, vale a dire di fronte alla Corte di legittimità ed a quella delle leggi, tanto nelle questioni civilistiche che in quelle penalistiche (sarei tentato di aggiungere: un po’ meno tra i giudici amministrativi, se non nelle materie dai risvolti economici più rilevanti; ma questa è davvero superficiale come valutazione - e per primo lo ammetto –  dovuta sicuramente alle mie ridotte frequentazioni di quei territori: talvolta, tuttavia, anche le impressioni contano…).

    Premesso che devono essere preliminarmente perdonate l’approssimazione e la generalizzazione inevitabili in un intervento come questo, che non ha certamente natura scientifica, quando si percorrono invece i corridoi di Corti d’appello, Tribunali e Giudici di pace ci si inoltra in diverse praterie dove l’applicazione (e quindi la conoscenza) di quelle Carte appare meno evidente: ed in senso decrescente man mano che si “scende” (sia detto senza alcuna connotazione negativa, ma solo descrittiva) nelle competenze attribuite ai giudici.

    Se infatti nelle Corti l’attenzione è maggiore ed i richiami applicativi più frequenti, già nei Tribunali si segnano talvolta a dito, nel Foro, i giudici fissati con questa o quella Convenzione. Uso un linguaggio franco anche se sgradevole, che, come credo evidente, finisce per attribuire proprio alla mia categoria professionale – quella degli avvocati – la principale responsabilità di un simile stato di cose. Invece di entusiasmarsi per la presenza di magistrati attenti ed aggiornati, spesso essi vengono colti come degli “originali” che si distaccano dalla figura del giudice-burocrate, che hai suoi difetti, sì, ma dal quale più o meno si sa cosa attendersi; e talvolta questa è l’opinione anche di alcuni loro colleghi, nelle realtà dove il quieto vivere (e lavorare) sembra imporre di volare basso.

    Non mi unisco certamente alla bassa letteratura sulla presunta “incompetenza genetica” dei giudici di pace – tutt’altro: sarà forse solo una mia fortuna quella di aver incontrato giudici onorari preparati e competenti ? non credo, anche se ovunque (anche in Cassazione…) non tutti hanno le stesse capacità - se poi aggiungo che in quelle aule di Convenzioni si sente parlare ancora meno.

    Indubbiamente contano molto le materie in discussione; solo per fare degli esempi in un settore che frequento (il diritto di famiglia) potrei ricordare le numerose decisioni degli ultimi anni su questioni che coinvolgono famiglie di fatto, coppie dello stesso sesso e figli delle stesse. Procedimenti la cui trattazione richiede un’accurata preparazione, in primis dei legali che le introducono, e poi dei giudici che le decidono. Se si guardasse solo a certi particolari ambiti (aggiungerei in particolare e sempre da civilista, il diritto commerciale e societario,  e quello del lavoro) il quadro sarebbe quindi confortante, ma una simile  riflessione sarebbe ancora superficiale. E perché ? perché a ben guardare la grande maggioranza dei procedimenti non ha ad oggetto questioni nuove e/o di difficile interpretazione, come spesso accade nei settori or ora ricordati. Intendo dire che un certo tipo di controversie pretende di esser trattato da avvocati e giudici “specializzati” (uso il termine in senso generico) così che il riferimento a normative sovranazionali, che spesso tengono conto anche della tutela dei diritti fondamentali, è semplicemente indispensabile.  Considerazione che ha il rischio di potersi tradurre però in una di segno opposto: che non sia necessaria una analoga preparazione per la vita quotidiana del giurista pratico; il che è invece un grave errore, che ha le sue radici tanto nelle tradizioni didattiche delle nostre Università (dico subito: ora non più, ma moltissimi avvocati e giudici si sono formati ben addietro nel tempo), quanto nel modesto spazio fino a poco tempo fa dedicato allo studio di quegli strumenti nei percorsi professionalizzanti post laurea.

    In altre parole, se strumenti come la CEDU non hanno ancora lo spazio applicativo che meriterebbero, il vero problema è nella formazione; ma tutto lascia pensare che l’impegno delle istituzioni e delle associazioni forensi, diretto a diffondere ed a rendere “praticabili” queste conoscenze, stia acquistando progressivamente una sempre maggiore spinta.

     Paola Regina

    I diritti fondamentali hanno sempre avuto uno ruolo di primo piano che attraversa, in modo trasversale, tutto il contenzioso civile.

    Nell’ambito del contenzioso civile italiano, una delle istanze maggiormente assunte dagli avvocati civilisti concerne il rispetto dei canoni del giusto processo, sanciti dall’art. 6 della CEDU.

    Com’è noto, il diritto ad un equo processo, garantito dall'articolo 6 § 1, deve essere interpretato alla luce del preambolo della Convenzione, che pone il concetto di “Stato di diritto” come base del patrimonio comune degli Stati contraenti (Brumărescu v. Romania, § 61, Nejdet Şahin e Perihan Şahin v. Turkey [GC], § 57). Di conseguenza, garantire la “certezza del diritto”, quale principio a fondamento dello Stato di diritto, risulta essere di primaria importanza per ogni cittadino (cfr. Beian v. Romania (n. 1), § 39, Parrocchia cattolico greca Lupeni e altri c. Romania [GC], § 116).

    In una società “democratica”, in conformità della Convenzione, il diritto alla corretta amministrazione della giustizia occupa un posto talmente importante che ogni interpretazione restrittiva delle garanzie dei cui all'articolo 6 § 1 tradirebbe le finalità dell’intera Convenzione (Ryakib Biryukov c. Russia, § 37, Zubac v. La Croazia [GC]).

    La Corte europea dei diritti dell’uomo non smette mai di ricordare che il diritto a un giusto processo "è uno dei principi a fondamento di ogni società democratica, in conformità della Convenzione” (Pretto e altri c. Italia, § 21).

    Ne consegue che, in ottica convenzionale, un'interpretazione restrittiva delle garanzie di cui all’articolo 6 § 1 non può essere mai giustificata (Moreira de Azevedo c. Portogallo, § 66).  Basti solo menzionare, in questa sede, l’importanza che riveste il diritto di accesso ad un Tribunale imparziale autonomo e indipendente (Golder c. Regno Unito §28-36) o il diritto all’audizione dei testi nel corso del processo civile (Dombo Beheer  B.V. c. Paesi Bassi § 31, Wierzbicki c. Polonia §45) o il diritto alla ragionevole durata di un procedimento giudiziario (Katte Klitsche de la Grange c. Italia § 61, Scordino c. Italia (GC) §224). E’ molto importante continuare a sottolineare che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non garantisce diritti teorici o illusori, ma diritti concreti ed effettivi (Airey c. Irlanda, § 24, Perez c. Francia, Zubac c. Croazia (GC) §76-79 ). Di conseguenza, la Corte europea dei diritti dell’uomo esorta sempre gli Stati a mettere in atto una sostanziale equità processuale, così da poter realizzare una tutela effettiva e concreta dei diritti. Appare evidente che i procedimenti giudiziari di durata eccessiva non potranno mai garantire una tutela effettiva dei diritti fondamentali. Dunque, ogni rinvio ingiustificato o interruzione del processo o inutile dilazione, così frequenti nell’ambito dei contenziosi civili italiani, devono essere dedotti come violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. All’esito dei procedimenti giudiziari italiani, occorre poi valutare, caso per caso, se le illegittime dilazioni processuali possano ricevere tutela dall’applicazione della legge n. 89/2001 (c.d. legge Pinto) o se sia necessaria una diversa e ulteriore tutela al fine di garantire quello standard minimo di tutela dei diritti fondamentali prescritto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

    Con riferimento all’esempio di attualità citato nella risposta precedente, relativo all’esame di conformità della normativa nazionale italiana con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è doveroso ricordare che l’articolo 8 CEDU viene in rilievo in moltissimi ambiti di vita di ogni singolo cittadino.

    Infatti, tutta la materia relativa alla protezione dei dati personali ed in particolare, dei dati sensibili, va letta in chiave convenzionale, nel rispetto dei canoni prescritti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Rotaru c. Romania (GC) §43-44).  La violazione dell’art. 8 CEDU viene in rilievo, altresì, nell’ambito della tutela dell’ambiente e della conseguente tutela della salute dell’individuo, di enorme importanza ed attualità, a fronte di migliaia di casi, discussi nelle aule giudiziarie italiane, aventi ad oggetto intossicazione e avvelenamento di singoli individui o interi agglomerati urbani (Cordella e altri c. Italia).

    La legislazione in materia di diritto del lavoro, deve essere letta in chiave convenzionale, nel rispetto dei diritti fondamentali ed in particolare, nel rispetto della vita privata e familiare dei lavoratori, alla luce del divieto di riduzione in schiavitù, sancito dall’art. 4 della CEDU (Zarb Adabi c. Malta §43, Steidel c. Germania).

    Anche una materia come quella tributaria, che può sembrare, prima facie, lontana dall’applicazione diretta della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiede una lettura in chiave convenzionale, nel rispetto del diritto alla tutela del patrimonio dell’individuo, sancito dall’art. 1 Protocollo 1, annesso alla CEDU (A. e B. c. Norvegia; J. e J. c. Islanda), nonché nel rispetto della sfera privata e familiare dell’individuo, come individuata dall’art. 8 CEDU. A tal riguardo, occorre ricordare che la tutela dei beni, prescritta dall’art. 1, Protocollo 1, annesso alla CEDU, assume rilievo anche nell’ambito della legislazione societaria, bancaria e finanziaria, che deve essere interpretata in conformità dei principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Olczak c. Polonia §60, Savtransavto Holding c. Ucraina §91; Shesti Mai Engineering OOD c. Bulgaria).

    Infine, è doveroso almeno menzionare l’enorme importanza che riveste, nelle aule giudiziarie italiane, la libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 della CEDU, da bilanciare nel corso del contenzioso, con altri diritti fondamentali, salvaguardando il ruolo di watch dog of democracy, svolto dal giornalismo e dalla società civile, nel momento in cui svela realtà scomode o idee in contrasto con quelle maggioritarie (Goodwin c. Regno Unito (CG)). Ogni materia, oggetto di un contenzioso, può essere letta ed applicata alla luce dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

    Ove si riscontri l’assenza di una disciplina specifica o di un rimedio specifico, idoneo a tutelare la violazione di un diritto fondamentale, è necessario che l’avvocato individui una via di ricorso effettivo, in grado di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo, in conformità dell’art. 13 CEDU (Cordella e altri c. Italia). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, al pari della Carta costituzionale, deve essere nutrita di linfa vitale ogni giorno nelle aule giudiziarie, in ogni stato e grado dei procedimenti. Riecheggia l’importanza del Discorso sulla Costituzione pronunciata dal grandissimo Maestro Piero Calamandrei nel 1955: “la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.

    Con altrettanta commozione, si ricorda il monito lanciato da un gigante come Altiero Spinelli, il quale, rivolgendosi ai colleghi del Parlamento europeo, disse: “avete letto tutti il romanzo di Hemingway in cui si parla di un vecchio pescatore che, dopo aver pescato il pesce più grosso della sua vita, tenta di portarlo a riva. Ma i pescecani a poco a poco lo divorano e quando egli arriva in porto gli rimane soltanto la lisca. Quando voterà fra qualche minuto, il Parlamento europeo avrà catturato il pesce più grosso della sua vita ma dovrà portarlo fino a riva. Facciamo quindi ben attenzione perché ci saranno sempre degli squali che cercheranno di divorarlo. Tentiamo di non rientrare in porto con soltanto una lisca”. Cresciuti sulle spalle di giganti, abbiamo il dovere di difendere quotidianamente i diritti e le libertà garantite dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, colonne portanti della nostra civiltà giuridica.    

    Maria Giovanna Ruo

    La famiglia come “comunità di affetti”, piuttosto che come luogo di consacrazione giuridica dei legami di sangue, ha ricevuto importante impulso dalla giurisprudenza della Corte EDU, sintonicamente al diffondersi di nuovi modelli familiari, con l’apertura a forme di genitorialità prima ignote nell’ambito giuridico o considerate estranee all’ordinamento e dallo stesso ostacolate o espunte. Mi riferisco alla modifica dello stesso concetto di ordine pubblico internazionale, operata dalla Cassazione nella sentenza 19599/2016 (che ha ritenuto trascrivibile l’atto di nascita legittimamente formato all’estero di un bambino nata dal progetto di cogenitorialità di due donne -di cui una gestante e l’altra donatrice di ovociti- essendo avvenuto il concepimento con PMA eterologa) e alle diverse pronunce prima di merito e poi di legittimità che hanno dato ingresso all’omogenitorialità nell’ordinamento con richiamo espresso alla giurisprudenza della Corte EDU.

    Talvolta la condanna della Corte di Strasburgo all’Italia è stata spinta essenziale per riforme che hanno costituito una svolta nel processo di ampliamento e legittimazione dei modelli familiari. La legge sulle unioni civili (cd. legge Cirinnà: n. 76/2016) ha avuto impulso significativo nella sentenza Oliari e altri c. Italia, 21.7.2015, dopo anni che si fronteggiavano in una “guerra di logoramento” su trincee contrapposte due scuole di pensiero apparentemente inconciliabili, e ha dato impulso alla soluzione legislativa nella prospettiva della tutela dei diritti fondamentali già indicata dalle nostre Corti superiori. Dalla condanna dell’Italia della Corte EDU ha origine la cd. Legge sulla continuità affettiva (l. 173/2015) di modifica della l. 184/1983: nella sentenza Moretti e Benedetti c. Italia, 27.4.2010, l’Italia fu condannata per non aver considerato la domanda di adozione da parte della famiglia che aveva accolto in affidamento una bambina poi dichiarata adottabile e adottata da diversi genitori adottivi. La legge ha quindi riconosciuto che la persona di età minore già collocata in affidamento, sia che torni in famiglia, sia che venga dichiarata adottabile, ha diritto a conservare la relazione nel suo interesse con gli ex affidatari mantenendo con loro un legame.

    Anche il passaggio nelle azioni sullo status personale dalla prevalenza del favor veritatis alla preminenza del favor minoris o filii è debitore della giurisprudenza della Corte EDU, che ha ampliato da una parte il concetto di famiglia ricomprendendovi legami affettivi. Esempio ne è la sentenza n. 272/2017 della Corte Costituzionale. Nell’azione di impugnazione per difetto di veridicità nella decisione deve prevalere l’interesse del figlio alla relazione -se positiva per lui- con il genitore anche se non biologico, fermo il disfavore dell’ordinamento per la pratica di maternità surrogata di cui si dirà infra.

    Precedentemente la Consulta, con sentenza 225/2016, aveva riconosciuto -sempre con riferimento alla giurisprudenza Corte EDU e al diritto pattizio- che nel nostro ordinamento già è presente negli artt. 330 e sgg. c.c. lo strumento di tutela contro i comportamenti del genitore biologico e giuridico che impedisce la relazione del minorenne con il genitore sociale. Purtroppo però si è verificato che un padre - biologico ma non ancora giuridico perché era in atto il procedimento di disconoscimento da parte di colui che era marito della madre al momento della nascita del minore- e certamente sociale per aver convissuto anni con la figlia prima della crisi di coppia con la di lei genitrice, si è visto rifiutare la tutela dal Pubblico Ministero cui aveva richiesto di ricorrere avverso il comportamento pregiudizievole della madre della minore che lo aveva escluso dalla vita della figlia. Il Pubblico Ministero ha ritenuto di archiviare immediatamente l’istanza, senza ricorrere al TM e senza alcuna istruttoria.

    È il diritto pattizio che ha dato nuova linfa a un istituto arcaico nell’impostazione anche lessicale, ma di rinnovato interesse giuridico e altissimo profilo sociale: l’art. 25 RD 1404/1934 che riguarda i minorenni “irregolari per condotta e carattere”, offrendo ai genitori una soluzione percorribile nei casi in cui i figli -per lo più adolescenti- si drogano, spesso sono autori di (piccoli e meno piccoli) furti di danaro nei confronti dei genitori per approvvigionarsi di sostanze stupefacenti, altre volte sono anche violenti nei loro confronti e si rendono autori di danneggiamenti vari a casa e fuori. Il ricorso a questo procedimento -con evidente natura e finalità rieducativa- non lacera le famiglie, non contrappone genitori denuncianti a figli denunciati sospingendo questi ulteriormente verso una devianza ancor più oppositiva, ma rende possibile un intervento coordinato tra giudice, genitori, servizi sociali nell’interesse del minore per recuperare le sue migliori condizioni di sviluppo psico-fisico. Certo è necessario che l’intervento sia celere e l’Italia è anche stata condannata (V.C. c. Italia,  sent. 1.2.2018) per non aver saputo mettere in campo con veloce efficacia i dovuti strumenti di tutela, abbandonando a se stessa un’adolescente priva dei necessari interventi di supporto che l’hanno lasciata scivolare in ambienti sempre più violenti e trasgressivi, fino a che è stata vittima di stupro di gruppo. Nella sentenza della Corte EDU si sottolinea ancora una volta nei confronti del nostro Paese come gli interventi a tutela dei minori debbano essere celeri e tempestivi, effettivi e non astratti.

    Rilevante nella dimensione di rinnovamento la lettura degli artt. 330 e sgg. c.c. inaugurata dal Tribunale di Reggio Calabria con riferimento ai minorenni di famiglie di “ndrangheta”, così strutturalmente condizionati dalla cultura familiare da non essere “liberi di scegliere” la loro strada al di fuori della devianza. Con coraggiosi provvedimenti (ad es. decr. 8.3.2016; decr. 11.9.2018) nell’interesse del minore e con riferimento espresso alla CRC, sono stati previsti percorsi di rieducazione e di riscatto che stanno liberando ragazzi dal condizionamento culturale di stampo mafioso e stanno erodendo l’omertà delle famiglie. Madri si recano ora spontaneamente al TM cercando sostegno per liberare i propri figli dal tunnel della devianza e dalle sue conseguenze, stanche della scia di sangue e carcere nelle loro famiglie, desiderose per i loro figli di un diverso progetto di vita e del riscatto sociale.

    Il tema dell’interesse del minore, che nell’equo contemperamento degli interessi in gioco deve prevalere, è centrale nel dibattito sulla maternità surrogata e comporta differenziazione nella tutela del minore -ritenuta necessaria nel suo interesse- e in quella dei genitori intenzionali, non dovuta. Così nelle sentenze Menesson c. Francia e Labassee c. Francia del 26 giugno 2014. La sentenza della Grande Camera Paradiso e Campanelli c. Italia in data 24.01.2017 (che ha riformato la prima di condanna del nostro Paese del 27.01.2015) ha ritenuto che nell’allontanamento definitivo del bambino dai genitori intenzionali non sia stato violato l’art. 8 della Convenzione EDU nei loro confronti ma non ha pronunciato nei confronti del minore. Indirizzo successivamente confermato dal primo parere della Grande Camera in data 9 aprile 2019, reso ai sensi del Protocollo n. 16, che trova corrispondenza nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12193 dell’8 maggio 2019: la relazione del bambino con i genitori intenzionali è meritevole di tutela nel suo interesse ai sensi dell’art. 8 CEDU e può essere attuata mediante l’istituto dell’adozione ma l’atto di nascita non può essere trascritto in Italia.

     3) Qual è, a suo avviso, il grado di diffusione delle conoscenze della CEDU nella classe forense e nel sistema giudiziario italiano, di merito e di legittimità?

    David Cerri

    Rispondere icasticamente: basso, potrebbe apparire un giudizio superficiale e ingeneroso. Quindi la risposta pessimistica che – lo confesso – mi verrebbe istintiva deve essere invece trattenuta, circoscritta e spiegata, anche perché rispondendo alla domanda precedente credo di aver già dato alcune indicazioni.

    Qualche anno fa mi capitava di scrivere - in uno dei più meritori siti dediti alla diffusione di queste conoscenze, www.europeanrights.eu – intorno ad un inaspettato arresto delle SS.UU. in tema di termini per la costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo; e non tanto sul merito della decisione  (e neppure sui vastissimi effetti pratici che il consolidarsi di quell’orientamento avrebbe comportato per gli operatori, ad ogni livello) quanto sulla reazione della giurisprudenza di merito che subito si era richiamata all’art.111 Cost. ed all’art.6 CEDU in numerose decisioni (questione poi risolta dal legislatore giusto sull’onda di quelle reazioni). Ne volevo allora trarre questo “avviso ai naviganti”: conoscere le Carte dei diritti fondamentali è sempre utile; e ciò per significare, appunto, che anche in casi eminentemente pratici e talvolta di ben poco spessore, è oggi irrinunciabile la conoscenza e l’applicazione delle norme sovranazionali, secondo i criteri interpretativi che Cassazione e soprattutto Corte Costituzionale stanno nel tempo affermando.

    La soluzione è allora, ancora, da ricercarsi in una adeguata formazione.

    Parlando solo degli avvocati, credo che oggi si possa essere più ottimisti, grazie intanto all’evoluzione dei programmi universitari dove i temi che ci interessano hanno acquisito sempre maggiori spazi, con attente riflessioni anche sulle ricadute operative; ma anche e forse soprattutto al percorso che la formazione forense ha saputo compiere. Dagli anni del primo Centro per la Formazione forense alla costituzione della Scuola Superiore dell’Avvocatura, fondazione del C.N.F., il sistema delle Scuole forensi sul territorio da quest’ultima coordinato ha saputo dare una decisa apertura agli studi sui diritti fondamentali, con numerosi incontri di “formazione per i formatori”, con la pubblicazione di materiale didattico (due tra i vari testi: il Codice dei diritti umani e fondamentali, del 2011, e Le Carte storiche dei diritti, del 2013) ed anche con iniziative “sul campo”. Chi ha partecipato ad operazioni come il Progetto Lampedusa (di assistenza in loco agli operatori umanitari ed alle forze armate e dell’ordine impegnate nell’accoglimento dei migranti) non solo ne ha tratto una importante esperienza di vita, ma riportandola nel proprio Foro ha certamente contribuito alla diffusione della conoscenza di queste tematiche e di questi strumenti. E’ pertanto con un certo compiacimento proprio di chi ha partecipato in prima persona a quella stagione che, dopo la riforma ordinamentale condotta dalla L.n.247 del 2012 – il cui art.1  afferma di disciplinare la professione “nel  rispetto  dei  principi  costituzionali, della normativa comunitaria e dei trattati internazionali”  - oggi si può leggere nel D.M. Giustizia del 9.2.2018 n.17 che tra i contenuti necessari dei corsi di formazione forense vi è il diritto dell’Unione Europea, che in quest’ottica può (ed anzi deve) essere la chiave per allargare lo sguardo; se a buon diritto CEDU e Carta di Nizza sono parte integrante di questi studi, esse servono anche da trampolino per un bel tuffo nelle normative degli altri trattati internazionali  citati dalla L. n.247, e non solo quelli, per così dire, di tradizione occidentale, ma anche provenienti da altre realtà con le quali oggi il dialogo – volenti o nolenti – è necessario (penso anche soltanto alle Carte africane dei diritti dell’uomo, e dei diritti del minore).

    Dimostrazione ne sia il lavoro svolto dalle Scuole forensi, dove assai spesso questi temi sono ampiamente trattati.

    Last but not least, la risorsa per la migliore diffusione della CEDU e degli altri strumenti internazionali sui diritti fondamentali non offerta ma direi quasi imposta agli avvocati italiani è costituita dalla indicazione di cui al c.2 dell’art.1 del Codice Deontologico, come già ricordato: “L'avvocato, nell'esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell'Ordinamento dell'Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e nell'interesse della parte assistita”.

     Paola Regina

    Il grado di diffusione delle conoscenze della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella classe forense e nel sistema giudiziario italiano è decisamente aumentato nel corso degli anni, ma non è ancora sufficiente a garantire quello standard minimo di tutela dei diritti fondamentali, indicato dalla stessa Convenzione.

    Il sistema convenzionale, mediante il principio di sussidiarietà, impone ai sistemi giudiziari nazionali di mettere in atto quella “primazia dei diritti umani”, in un’ottica di tutele effettive, concrete e sostanziali. La tutela dei diritti fondamentali, in ottica convenzionale, dovrebbe attraversare ogni provvedimento giudiziario, ogni udienza, ogni esame dei testi o istruzione probatoria. Dunque, prima di procedere all’esame di qualsivoglia questione giuridica di merito o processuale, è doveroso chiedersi: tale misura, tale provvedimento, tale rinvio, tale audizione di testi, tale applicazione della normativa italiana vigente avviene nel rispetto dei diritti fondamentali? o quantomeno di quello standard minimo di tutela garantito dalla Cedu?. A mio modestissimo avviso, ciò avviene molto di rado. Dunque, la strada da percorrere è molto lunga. L’avvocatura ha il dovere di sollevare l’eccezione relativa alla violazione di un diritto fondamentale, ogni qualvolta si verifichi. La mancata conoscenza ed applicazione della CEDU costituisce, oggi, senza dubbio la violazione di un dovere deontologico da parte dell’avvocato, che non assolve al suo dovere di tutela dell’assistito. Del resto, anche il Codice Deontologico degli Avvocati Europei, adottato nel 1988 dalla Sessione Plenaria del CCBE e successivamente modificato nel 2002, 2006 e nel 2007, statuisce che “gli avvocati devono mantenere e ampliare le loro conoscenze e competenze professionali, tenendo conto della dimensione europea della loro professione”.

    La Corte di Cassazione francese ha più volte ribadito l’estrema importanza di una conoscenza approfondita del diritto europeo da parte degli avvocati, in specie nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali. In una pronuncia del 15 maggio 2015, la stessa Corte di Cassazione francese, in relazione all’esame della disciplina e delle tutele applicabili a seguito della violazione del divieto di discriminazione sul luogo di lavoro, ribadisce la primazia del diritto dell’Unione Europea ed il relativo obbligo di conoscenza da parte degli avvocati del diritto e della giurisprudenza europea (CJCE, 22 novembre 2005, n° C-144/ 04, Mangold ; 16 ottobre 2007, n° C-411/ 05, Félix Palacios de la Villa ; CJUE, 12 gennaio 2010, n° C-341/ 08, Petersen ; 19 gennaio  2010, n° C-555/ 07, Kücükdeveci).

    Quindi, è doveroso il riferimento al Diritto dell’Unione Europea, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed alla relativa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

    Com’è noto, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in conformità dell’articolo 6 dello stesso Trattato, tale Carta dei diritti fondamentali ha assunto il valore giuridico di Trattato. Il sistema giudiziario italiano è tenuto all’applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che offre un ottimo standard di tutela per alcuni diritti fondamentali.

    Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali si legge: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si fonda sui valori indivisibili e uni­versali della dignità̀ umana, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà̀; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.”

    L’Unione Europea si fonda sui valori universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà, che ogni singolo Stato dell’Unione è obbligato a rispettare, ogni singolo giudice è tenuto ad applicare ed ogni avvocato è tenuto a richiedere l’applicazione diretta della Carta europea dei dritti fondamentali, anche qualora una normativa nazionale o un singolo provvedimento risulti configgente con tale normativa europea.

    Com’è noto, il sistema dell’Unione Europea fornisce uno strumento molto utile alla avvocatura ed alla magistratura dei singoli Stati, che consiste nel rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, qualora vi siano dubbi d’interpretazione circa l’applicazione del diritto comunitario e dunque, anche l’applicazione della Carta europea dei diritti dell’uomo. Nei casi in cui è possibile, tale strumento fornisce la possibilità di avere una rapida pronuncia della Corte di Giustizia, in via preliminare.

    Dunque, ove possibile, tale strumento giuridico, risulta estremante vantaggioso per le parti e per il sistema giudiziario, nel suo insieme. In materia di tutela dei diritti fondamentali, si riscontra, tuttavia, una maggiore facilità ad operare un rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale, rispetto ad operare il rinvio alla Corte di Giustizia prescritto dall’art. 267 TFUE. Negli ultimi anni, in materia elettorale, è stato posto all’attenzione delle Corti una questione relativa alla legittimità, alla variabilità, all’eterogeneità ed all’utilizzo facoltativo da parte degli Stati delle soglie nazionali nell’ambito delle elezioni del Parlamento europeo, poiché tali soglie elettorali potrebbero pregiudicare la rappresentanza elettorale, di chi ha legittimamente esercitato il diritto di voto. Le Corti nazionali italiane non hanno ritenuto opportuno operare il rinvio interpretativo pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

    In conclusione, rimanendo nell’ottica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ritengo sia doveroso, da parte dell’avvocatura e della magistratura italiana, utilizzare ogni strumento fornito dal sistema nazionale, europeo ed internazionale a protezione dei diritti fondamentali, al fine di rendere una tutela efficace, effettiva e concreta dei diritti umani. A tal fine, risulta essere di enorme importanza l’iniziativa della Rivista Giustizia insieme, volta a promuovere il dialogo tra giuristi, avvocati, magistrati e professori, che quotidianamente si sforzano realmente di garantire una effettiva ed efficace applicazione dei diritti fondamentali. Ringrazio, quindi, infinitamente la Rivista Giustizia Insieme per avermi concesso l’onore di prendere parte a questo importante confronto.

     

    Maria Giovanna Ruo

    È evidente, nel panorama che precede, la necessità di una significativa diffusione della conoscenza della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nel ceto forense e degli operatori dell’area persona, relazioni familiari, minorenni, che si caratterizza anche per l’apporto di saperi diversi. Difatti il criterio determinante del best interest che informa le decisioni che debbono essere assunte per la tutela dei soggetti vulnerabili nelle relazioni personali e sociali, si misura sui diritti fondamentali, sulla loro effettività, sulla efficacia del sistema di tutela sia sul piano interpretativo sia su quello dell’eventuale possibilità di colmare le lacune normative.

    La vasta giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sviluppatasi nell’ultimo decennio nell’area ha anticipato spesso la domanda di giustizia e, comunque, ha indicato ed indica possibili soluzioni interpretative là dove la normativa interna presenti lacune, contraddizioni, incongruenze, sia sul piano sostanziale sia sul piano processuale (aspetto che nel settore come si è visto assume una rilevanza sempre più centrale).

    Tale giurisprudenza non è però di semplice conoscibilità da parte dell’avvocatura e degli operatori del settore. Le sentenze di Strasburgo sono notoriamente lunghe, articolate, in lingua straniera (le traduzioni italiane di alcuni provvedimenti non sono sempre fedelissime). L’estrapolazione del principio, necessario per l’applicazione in via analogica a casi affini, non certo agevole.

    La Corte EDU infatti -come è noto- non elabora princìpi generali e astratti ma esamina dettagliatamente la fattispecie concreta; verifica se le decisioni assunte o i comportamenti degli organi statuali sono conformi al diritto interno e convenzionale, riconoscendo loro un margine di apprezzamento; considera se nei provvedimenti e nei comportamenti delle Autorità nazionali in quel caso sia stato assicurato l’equo bilanciamento degli interessi così come deve essere in ogni Stato democratico; verifica quindi se vi sia stata violazione dei principi posti dalla Convenzione di Roma, individuando nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco in ogni specifica fattispecie se vi sia stata violazione degli artt. 8, talvolta anche in combinato disposto con gli artt. 6 (diritto all’equo processo), 13 (diritto al ricorso effettivo) e 14 (divieto di discriminazione) CEDU.

    È conseguentemente l’interprete che deve, con una paziente indagine comparativa di più casi apparentemente uguali o simili, ricondurre a sistema le diverse pronunce. Sono anche presenti contraddizioni interne e, comunque, la stessa giurisprudenza della Corte EDU sta effettuando un percorso evolutivo nell’individuazione di nuovi equilibri tra interessi contrapposti che il rapido modificarsi delle relazioni personali e familiari della società contemporanea e delle frontiere della scienza pone con crescente problematicità (mi riferisco anche a inizio e fine vita).

    Il ceto forense è affaticato dal quotidiano: dai termini perentori, dalle imprevedibili urgenze di studio, dalle udienze, dalle lunghe ed estenuanti attese derivate dalla disorganizzazione giudiziaria, dall’insistenza degli assistiti, dalla loro soggettiva percezione dell’urgenza e richiesta di intervento, dalla frequente impossibilità di programmare il proprio tempo anche per indispensabili studio e approfondimento.

    Ne consegue che, dopo ben 12 anni dalle sentenze gemelle 348 e 349/2007 della Corte Costituzionale, che consacrarono la giurisprudenza della Corte EDU quale fonte interposta dell’ordinamento e parametro di costituzionalità, solo un ristretto gruppo di cultori appassionati sembra conoscerla e citarla. Purtroppo la specializzazione in ambito forense è ferma per le note vicende del Regolamento sulle specializzazioni forensi (che, annullato in alcune previsioni dal Consiglio di Stato, non è entrato in vigore ed è in corso di riformulazione). Tale specializzazione dovrebbe prevedere l’approfondimento anche della giurisprudenza della Corte Europea per fornire agli operatori del settore quegli strumenti indispensabili per il superamento di lacune, contraddizioni interne, vuoti di tutela.

    Non vi è piena diffusa consapevolezza del rilievo del diritto pattizio e della giurisprudenza della Corte EDU nella gerarchia delle fonti; nella pratica troppo spesso viene ancora considerato quasi come corpus staccato, cui non si fa ricorso per la ricerca di soluzioni nel caso concreto, soprattutto dinanzi alle Corti di merito. In questo senso un effettivo sostegno può essere offerto dalle associazioni specialistiche forensi che offrono approfondimenti a beneficio dei soci e della comunità di operatori del settore stimolando la formazione personale sul tema dei diritti fondamentali e il cui patrimonio di esperienza e informazioni può essere messo al servizio della comunità.

    Anche nei provvedimenti di merito i richiami alla giurisprudenza della Corte EDU e persino al diritto convenzionale non sono molto diffusi; nel settore d’altronde scarsi anche i richiami giurisprudenziali interni e, purtroppo, il corredo giuridico delle motivazioni nelle quali prevalgono in modo preponderante gli elementi in fatto, con mera citazione delle norme interne: l’inquadramento della fattispecie nel diritto convenzionale è rara avis. Tra l’altro ciò ha come conseguenza l’automarginalizzazione culturale del settore, spesso squalificato anche perché appare povero sul piano giuridico. E ciò nonostante l’indicazione costante delle Corti superiori che continuamente, invece, richiamano diritto pattizio, giurisprudenza della Corte EDU e la loro sovraordinazione alle fonti interne nel quadro costituzionale.

    Vi è comunque un manipolo di cultori coraggiosi che cerca di rompere le prassi pigre delle interpretazioni e motivazioni stereotipe, delle soluzioni scontate, sia sul piano sostanziale sia sul piano processuale. Se vi sono state interpretazioni adeguatrici di tante ricordate pronunce (e molte altre ce ne sono che non si è potuto richiamare) è perché qualche avvocato colto e sensibile ha intuito che poteva esserci un modo diverso e ulteriore di inquadrare la fattispecie e c’è stato un giudice colto e sensibile che ha raccolto la sfida dando risposta alla nuova domanda di giustizia nella ricca articolazione del sistema complesso multilivello delle fonti.

    Le conclusioni.

    Roberto Conti

    Uno sparuto manipolo di avvocati rivoluzionari e visionari che sopravvalutano il ruolo della CEDU facendosi paladini di diritti fumosi ed incerti, difficili da determinare in termini generali e lontani dalla realtà e quotidianità delle aule giudiziarie civili o tre professionisti che onorano gli obblighi deontologici professionali in maniera commendevole, mostrando con la loro esperienza il significato reale dell’essere oggi difensori dei diritti fondamentali delle persone?

    La risposta a questo quesito è più complessa di quanto possa sembrare se si alza lo sguardo ponendolo su una dimensione nazionale ed astraendolo dall’esperienza individuale rappresentata da  Davide  Cerri, Paola Regina e Maria Giovanna Ruo.

    Il comune sentire che traspare dai loro interventi potrebbe far pensare al lettore che la sintonia, parrebbe quasi completa, dei tre intervistati sulle domande loro poste celi una realtà molto più complessa e diversificata dell’Avvocatura e dei diritti “civili”, nella quale l’esercizio quotidiano della professione è spesso governato da altre priorità che solo marginalmente riescono ad essere contaminate dalla “visione alta” che  traspare dalle risposte rese.

    Di questo i tre interlocutori sono pienamente consapevoli e sono riusciti, tanto da essere riusciti a fotografare nitidamente e senza infingimenti la “situazione reale” nella quale parlare di CEDU nei tribunali civili e  nelle Corti è operazione complessa, tanto per gli avvocati che per i giudici, al punto che in certi passaggi delle risposte i nostri ospiti sembrano spostare il punto di riflessione dall’essere al dover essere, da quello che loro stessi sentono per vocazione a quello che non sempre trovando spazio nelle Corti, è necessario realizzare per invertire la rotta.

    Sono queste intrinseche contraddizioni che tutti gli operatori del diritto, giudici e avvocati, devono imparare a governare. Per far ciò gli spunti qui offerti  sono di straordinario rilievo, dando plasticamente il senso  della "complessità"  che oggi coinvolge il mondo della giustizia. Gli operatori di giustizia  sono continuamente tirati in ballo per dare risposte a domande d che vedono sempre più spesso in gioco i diritti fondamentali  protetti dalle Carte dei diritti e dalle Corti che fanno vivere nei “casi” quei principi. Domande che, apertis verbis, tendono a scardinare interpretazioni normative ritenute non adeguate ai tempi e ai "valori" della persona, ovvero a modificare l'assetto normativo in nome della Costituzione e delle Carte dei diritti fondamentali di matrice sovranazionale, sollecitando operazioni di "disobbidienza" per così dire "legale", come altra volta si è tentato di mettere in risalto -v.I Il giudice disobbediente nel terzo millennio, Intervista a Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello e Davide Galliani, su questa Rivista.

    La lettura delle risposte di Ruo, Cerri e Regina dimostra in modo pare inconfutabile che i diritti delle persone oggi sono in grandissima parte regolati in concreto grazie alle influenze prodotte dagli strumenti sovranazionali che hanno inciso e continuano ad incidere sul perimetro dei diritti stessi.

    Perché oggi stia accadendo questo è abbastanza semplice da spiegare se si guarda alla prorompente e inarrestabile idea che la persona e il nucleo dei diritti fondamentali che essa ha trovano immediata e concreta tutela nelle Carte dei diritti, oggi intese come strumenti sempre meno programmatici e sempre più  precettivi. Il punto è, però, che i principi che quelle Carte contengono  vivono nell’interpretazione che di essi danno i giudici che li applicano nel caso, essendo il caso a consentire il passaggio dalla indeterminatezza e potenzialità di senso del principio al contenuto preciso che il principio stesso assume nella vicenda regolata. Caso e giurisdizione sono, dunque, i  due "momenti" fondamentali che oggi caratterizzano ogni questione in cui entra in gioco un diritto fondamentale. E proprio rispetto ai casi molteplici ed infiniti che si verificano e danno luogo a dissidi, contrasti e liti prim’ancora dei giudici, l’anello di congiunzione tra vita e diritto è rappresentato dall’Avvocatura (Ruo), chiamata a dare voce alla domanda di giustizia delle persone “a volte ricercando  risposte nelle pieghe del sistema multilivello”.

    Lo spaccato delle relazioni familiari, del loro progressivo e crescente mutamento nelle loro conformazioni di base è stato descritto dai nostri intervistati in maniera mirabile e “vivente”, percependosi le trasformazioni profonde prodotte dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti e dalle Carte dei diritti fondamentali, ormai entrate prepotentemente nel sistema interno di protezione dei diritti, suscitando modifiche normative imponenti. Modifiche scolpite nelle risposte, alle quali sarebbe agevolmente possibile aggiungere le discipline in settori nevralgici come il fine vita, i regimi espropriativi, la conformazione del diritto di proprietà e delle relazioni personali lato sensu intese, i fenomeni migratori (ricordati da Ruo e Regina) unitamente alle materie che coinvolgono in genere la dignità della persone. È di pochi giorni fa la pronunzia della Grande Camera della Corte di giustizia con la quale si è ritenuto che il sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionaleregolato a livello UE, letto alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario,in modo da privare  il richiedente della della sua "dignità" e, dunque, della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari- Corte giust., 12 novembre 2019, Causa C‑233/18, Zubair Haqbin-.

    Il ricorso, all'interno delle legislazione (si pensi, da ultimo, alla l.n.n.219/2017), al canone della dignità continua ad essere sempre più frequente ed incisivo, ponendo gli operatori del diritto di fronte a quesiti e dubbi di non facile soluzione, ai quali si affianca la dimostrazione di quanto il diritto civile viva “insieme” ai diritti fondamentali. Una "fame di diritti fondamentali" che comincia a radicarsi stabilmente anche nel diritto civile, muovendo dal prorompente sviluppo del modello personalistico risultante dalla Costituzione.

     Un modello che, accostato alla carnalità e fattualità delle vicende umane che scorrono in vivo davanti agli avvocati prima e, poi, ai giudici (soprattutto di merito) testimonia quanto gravosa sia la responsabilità degli operatori del diritto rispetto al sistema di protezione multilivello dei diritti fondamentali voluto dalla stessa Costituzione. Responsabilità che viene esaltata ed aggravata proprio sul versante dell'interpretazione, nel quale emerge la centralità del "momento giurisprudenziale”, per dirla con Nicolò Lipari-Lipari,  Il diritto civile tra legge e giudizio, 2017,108-.

    Dunque le "sfide" (Regina) che attendono gli avvocati civilisti sono numerose e complesse e si scontrano, spesso, con risposte ritenute non appaganti da parte dei giudici, con decisioni poco inclini a “citare” la giurisprudenza della Corte edu e, dunque, a riconoscerne il rilievo nelle cause.

    Sembra che dal giudizio critico espresso in termini estremamente signorili  esca un tantino meglio la giurisdizione di ultima istanza, alla quale i tre intervistati riconoscono di avere introiettato meglio la funzione di garante dei diritti fondamentali, nel loro contenuto assiologico di metavalore - per usare le espressioni di Cass. S.U., n. 29 maggio 2008 n.14201-. Anche se tale ultima riflessione va probabilmente temperata se si considera che un accademico e avvocato civilista non aveva mancato di sottolineare, solo pochi anni or sono, che "la gran parte delle innovazioni dell’ordinamento [sia] dovuta a coraggiose interpretazioni dei giudici di merito, piuttosto che non alla paludata giurisprudenza della Corte di cassazione" tanto da giungere alla conclusione che se i giudici di merito "si fossero sempre adeguati ai modelli della Suprema Corte l’ordinamento sarebbe rimasto anchilosato e del tutto inadeguato alle necessità della vita dinamica, sociale ed economica"-G. Alpa, Il diritto giurisprudenziale e il diritto “vivente”. Convergenza o affinità dei sistemi giuridici, in A. Mariani Marini- D.Cerri (a cura di), Diritto vivente. Il ruolo innovativo della giurisprudenza, Pisa,  2007,25. Ora sembrano essere nel vero  i tre avvocati nel riconoscere che la sensibilità del giudice di legittimità sia cresciuta in modo significativo negli ultimi due lustri sulle tematiche di cui oggi si torna a discutere. Tale dato di fatto  però non allevia, ma anzi aggrava il pericolo che la scarsa attuazione dei diritti fondamentali nelle Corti di merito sia foriera di profonde ingiustizie e di tutele destinate a rimanere ineffettive o tardive.

    Sono però i nostri intervistati a tenere accesa la fiammella, dando  essi stessi testimonianza del fatto che  nelle Corti di merito vanno sempre più fiorendo magistrati a volte  con un pizzico di fastidio additati come “fissati”(Cerri), capaci di intercettare la dimensione  complessa del diritto  (e dei diritti) e di promuovere soluzioni che tengano in considerazioni il  e dinamico panorama normativo. Dunque, conclude Ruo, si va radicando quel manipolo di cultori del diritto coraggiosi che cerca di rompere le prassi pigre delle interpretazioni e motivazioni stereotipe, delle soluzioni scontate, sia sul piano sostanziale sia sul piano processuale. La conclusione della stessa Ruo sembra davvero da incorniciare e qui ci si permette qui di riportare: "Se vi sono state interpretazioni adeguatrici di tante ricordate pronunce (e molte altre ce ne sono che non si è potuto richiamare) è perché qualche avvocato colto e sensibile ha intuito che poteva esserci un modo diverso e ulteriore di inquadrare la fattispecie e c’è stato un giudice colto e sensibile che ha raccolto la sfida dando risposta alla nuova domanda di giustizia nella ricca articolazione del sistema complesso multilivello delle fonti.”

    Pensare che le prospettive appena tracciate siano l'anticamera dell'eclissi del diritto o dello snaturamento dei rapporti fra legislazione e giurisdizione, come pure si sostiene da una parte consistente degli operatori del diritto operanti nell'area civilistica vuol dire tradire il senso profondo del messaggio che sembra trarsi dalle riflessioni dei tre Avvocati, nel quale  risulta  ben chiara la dimensione generale-astratta del diritto, ma al contempo il ruolo ineludibile delle fonti sovranazionali scritte e "viventi".

    Parte dunque del mondo degli avvocati civilisti, in piena sinergia con quanto già emerso dalla prima intervista ai loro colleghi "penalisti",  un invito a camminare insieme rivolto alla giurisdizione anche sul piano della formazione, nella quale si è fatto sicuramente tanto, ma ancora molto deve essere fatto. Le commendevoli aperture al diritto dell’Unione europea nei programmi formativi dell’Avvocatura alla quale ha accennato Cerri non sembrano riscontrarsi  quanto  alla considerazione ed estensione, a livello ministeriale, della CEDU.

    Ed è il caso di chiedersi, per altro verso, quanta attenzione abbia dedicato il CSM al tema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’indicazione delle linee programmatiche rivolte alla Scuola della magistratura.  Pur non avendo alcuna notizia sul punto non resta che augurarsi che il sogno di una formazione condivisa con l'Avvocatura ed incentrata sui diritti fondamentali trovi anche nell’organo di autogoverno e nella Scuola una necessaria concretizzazione.

    Quale, dunque, il futuro prossimo venturo degli operatori del diritto che quotidianamente si sporcano le mani "da civilisti"? Un futuro in parte ancora da scrivere, nel quale, solo a titolo esemplificativo possono ricordarsi i temi della  rilevanza dei diritti fondamentali che la CEDU riconosce e garantisce anche all'interno dei rapporti interprivati, delle relazioni fra le Carte dei diritti, dell'efficacia delle sentenze della Corte edu nel sistema nazionale,  della risarcibilità diretta dei diritti di matrice convenzionale e della mancata esecuzione delle sentenze della Corte edu contrastanti con il giudicato interno o con  provvedimenti giurisdizionali nazionali  resi rebus sic stantibus. Temi che arriveranno sempre più spesso sui tavoli dei giudici, obbligandoli a risposte non burocratiche ma anzi complesse e, dunque, adeguate alla funzione loro affidata.

    I nostri tre ospiti ci ricordano da vicino le speranze di un  loro illustre predecessore, Piero Calamandrei, quando individuava nell'interpretazione evolutiva, nell'analogia e nei principi generali delle "finestre aperte sul mondo" dalle quali può entrare l'aria ossigenata della società che si rinnova.

    Il guanto di sfida è stato  lanciato proprio con l’obiettivo, dichiarato, di trasformare in "molti" i "pochi" appassionati alla materia dei diritti in chiave convenzionale, proprio per garantire quell'esigenza di eguaglianza e tendenziale certezza che quegli stessi diritti reclamano al di  fuori dei circoli e dalle élite culturali, in una dimensione di puro servizio alla persona. Starà a chi legge farsi parte attiva.

      

     

     
     

     

     

     

     

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