GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Per una più moderna cultura giuridica (3)

    Per una più moderna cultura giuridica (3)

    Per una più moderna cultura giuridica (3)

    Intervista di Angelo Costanzo a Margheria Benzi 

    1. Premesse

     

    Margheria Benzi insegna logica e teoria dell’argomentazione all’Università del Piemonte Orientale. Ha pubblicato Il Ragionamento Incerto: Probabilità e Logica in Intelligenza ArtificialeScoprire le Cause: Reti Causali, Contesti, Probabilità (Milano, 2004) e vari saggi su riviste tra cui Disputatio,, ErkenntnisHistoria MathematicaHistory and Philosophy of LogicInternational Statistic Review, Topoi, Sistemi Intelligenti.    

     

    Le domande rivoltegli sono analoghe a quelle recentemente poste al prof. Paolo Cherubini e poi al prof. Mario Alai ritenendo utile considerare la differente - ma anche le convergenze  – fra le risposte fornite da studiosi con formazione e approcci diversi alle questioni che pone il rapporto fra la cultura giuridica e quella logica e epistemologica.

    Emerge l’idea di uno sviluppo di una logica dei giuristi parallela, ma ricollegabile, a quella degli studiosi. Importante e analiticamente argomentate sono la critica del prof. Alai alla categoria della “manifesta illogicità”, che vizia la motivazione delle sentenze, e le sue puntualizzazioni sulla rilevanza logica della struttura di una argomentazione. Illuminante, circa il ricorso alle conoscenze scientifiche nella ricostruzione dei fatti nei processi, è la distinzione fra leggi scientifiche astratte e leggi fenomenologiche concrete.

      2. Le domande

    A. Come filosofa e docente che da decenni si occupa di logica e di filosofia della scienza e come cittadino attivo e attento ai fenomeni sociologici e politici, quali ritiene che siano le maggiori carenze che la formazione e la pratica dei giuristi italiani presentano riguardo alla metodologia logica e scientifica? Ha elementi per compararci con esperienze di altre Nazioni?

     Mi inserisco in un dibattito già avviato, e nel rispondere riprenderò, in parte, quanto è stato detto da Mario Alai e da Paolo Cherubini, che mi hanno preceduta. Condivido il giudizio, già espresso dai colleghi, che reputa ottima la formazione dei giuristi in Italia; sarei forse meno incline a condividere la preoccupazione che gli studenti facciano poca pratica, perché mi sembra che agli studenti siano offerte numerose occasioni di partecipare a moot courts e ad altre attività analoghe. Debbo dire però che su questo argomento le mie opinioni si basano sull’esperienza personale, peraltro limitata, e non ho mai condotto una ricognizione sistematica su quanto accade in Italia e in altre nazioni.

    Particolarmente interessante mi è parso uno dei “suggerimenti costruttivi” proposti da Paolo Cherubini, la proposta di una correzione alla possibilità di una formazione “esclusivamente umanistica” dei laureati in giurisprudenza. Cherubini propone di “inserire nei primi due anni dei corsi di studi quinquennali in giurisprudenza tre o quattro brevi – ma obbligatori – insegnamenti di area scientifica”. Vorrei precisare che i corsi di laurea in giurisprudenza prevedono già insegnamenti di materie scientifiche, quali matematica, statistica, informatica, antropologia, e altri ancora. Non intendo discutere qui il numero ottimale di questi insegnamenti, né se debbano avere un carattere di obbligatorietà, ma ritengo che siano comunque molto utili, e che il discorso andrebbe esteso a tutte le facoltà umanistiche: senza una ‘alfabetizzazione’ relativa al metodo ed alle pratiche scientifiche la sopravvivenza intellettuale e professionale è pressoché impossibile nel mondo contemporaneo. Credo anche che andrebbero inseriti e/o valorizzati insegnamenti umanistici nei corsi di laurea scientifici, ma qui si rischia di andare fuori tema.

    Mi sia però concesso di spezzare una lancia in favore di un più ampio spazio nei corsi di laurea in giurisprudenza per gli insegnamenti di logica e filosofia della scienza. Infatti l’insegnamento di singole materie scientifiche è, come dicevo, utilissimo per fornire una prima esposizione al metodo scientifico, ma non esimerà i giuristi dal rivolgersi a degli specialisti per la soluzione di complessi problemi alto contenuto scientifico e tecnologico (dal cybercrime, alle contraffazioni alimentari, a tutto quanto attiene le tematiche della salute e della cura…). Quello che si chiede al non specialista che si avvale del giudizio degli specialisti è la capacità generale di valutare gli specialisti, di prendere decisioni quando gli esperti sono in disaccordo tra loro, di giustificare le proprie decisioni quando entrano in gioco nozioni controverse come quelle di causalità e di probabilità. Materie come la filosofia della scienza, la logica e l’epistemologia possono essere di grande aiuto nella formazione di tale capacità.

    Pensiamo all’affascinante discussione sulla nozione di “ragionevole dubbio”, che continua a produrre interventi e contributi. Credo che dei buoni corsi di logica e di filosofia della scienza possano facilitare molto il dialogo dei laureati in giurisprudenza con gli esperti delle discipline scientifiche con i quali dovranno entrare in relazione. Per ‘buoni’ intendo fatti apposta per i giuristi, e rispettosi della prospettiva disciplinare giuridica, che va sempre tenuta presente, come raccomanda una delle maggiori epistemologhe contemporanee, Susan Haack, che ha dedicato un enorme numero di pagine all’argomento.

    E’ un compito delicato perché, come rileva Mario Alai, molte tematiche classiche della filosofia della scienza sono state sviluppate indipendentemente, e, talvolta, quasi parallelamente, in ambito giuridico, e la cosa ha dato avvio a peculiarità e differenze lessicali che possono creare fraintendimenti e confusione. Non bisogna mai dimenticare, inoltre, che la prospettiva disciplinare dalla quale si affronta un problema può essere composita. Ad esempio, nell’ambito della medicina legale sarà l’integrazione della prospettiva filosofica (volta a definire il tipo di causazione in gioco), con la prospettiva medica e con quella giuridica a determinare che cosa vale come ‘causa’ in un particolare contesto.

    Eventuali corsi di filosofia della scienze e di logica ‘dedicati’ non dovranno dunque sostituire l’elaborazione giuridica in questi settori, ma facilitare il dialogo con gli esperti di altre discipline. Un corso elementare di logica contemporanea, ad esempio, potrebbe essere d’aiuto nell’argomentazione e facilitare il dialogo con informatici, filosofi e matematici. Se fatto bene potrebbero anche aiutare a superare l’avversione che molti giuristi provano per calcoli e formalismi; così come un insegnamento base di filosofia della scienza, affiancato ad uno di statistica, potrebbe convincerli che, come afferma il matematico americano Glenn Shafer, “la probabilità non riguarda veramente i numeri; essa riguarda la struttura del ragionamento”.

     B. La “manifesta illogicità” della motivazione vizia la sentenza è conduce al suo annullamento (art. 606 lett. e, cod. proc. pen..). Tuttavia, il legislatore non ne definisce la nozione. Possiamo trarne una, che sia chiara e oggettiva, dalla scienza logica?

    Di fronte all’espressione “illogicità manifesta”, la prima reazione del logico è quella di chiedersi perché limitarsi ad annullare le sentenze le motivazioni delle quali sono manifestamente illogiche e non le sentenze con motivazioni illogiche tout-court. Come è stato rilevato, però, è estremamente difficile dimostrare la non validità (o, più in generale, la non correttezza) di una argomentazione: una argomentazione non corretta in un certo sistema di logica potrebbe risultare corretta in un diverso sistema. Inoltre l’aggettivo “manifesta” non appartiene alla logica, ma riguarda, per così dire, una condizione di colei che ragiona. Di conseguenza, mi sembra che non sia appropriato chiederne una definizione chiara e oggettiva alla logica.

    Non possiamo però rimproverare al legislatore di non avere dato una definizione puntuale di “illogicità manifesta”. Presumibilmente, una simile espressione fa riferimento a una nozione di senso comune. Ovviamente, la nozione di che cosa sia manifestamente illogico per un non meglio specificato “senso comune” non migliora la situazione. Potremmo però prendere come punto di riferimento, come già faceva Pierre Simone de Laplace nel 1814, un soggetto non dotato di capacità di ragionamento o di calcolo superumane, ma nemmeno in balia dei più comuni errori di ragionamento. Un (discreto) ragionatore di senso comune potrebbe dunque essere una persona che, pur non essendo un logico di professione o un supercalcolatore, è dotata di quell’addestramento minimo che consente di individuare ‘a colpo d’occhio’ i più frequenti e grossolani errori logici. Vorrei a questo punto ricordare che accanto alla logica, intesa, in senso lato, come teoria del ragionamento corretto, si è sviluppata, anche se con minore fortuna, non dico una teoria, ma almeno un inventario, di ragionamenti scorretti: la teoria delle fallacie. Tornata alla ribalta in epoca contemporanea, la troviamo spesso affiancata nei trattati di argomentazione e critical thinking agli errori sistematici di ragionamento che siamo inclini a commettere, e che dipendono da ben note distorsioni cognitive, i cosiddetti bias.

    Sebbene non tutte le fallacie siano di carattere logico, oggi questo repertorio, accanto a quello dei bias, definisce un insieme riconosciuto di strutture argomentative “devianti” e pertanto forse in grado di aspirare al titolo di “illogicità manifeste”: si potrebbe allora stipulare che una sentenza contiene illogicità manifeste se le sue motivazioni contengono argomenti evidentemente conformi a fallacie e/o bias noti e classificati come tali. Sono ben consapevole dei problemi legati ad una simile proposta. Il primo è che sembra una mossa infelice candidare le fallacie a coprire il ruolo di illogicità manifeste, quando una delle definizioni più popolari le caratterizza come “argomenti che sembrano corretti ma non lo sono”, dunque come illogicità occulte. Inoltre, come ha ricordato Alai, può essere difficile stabilire se una certa argomentazione corrisponda o meno all’esemplificazione di una certa fallacia. Infine – ed anche qui riassumo cose già dette – dato che spesso il fatto che una certa argomentazione sia fallace o meno dipende dal contesto, non sempre la questione può essere decisa consultando un prontuario.

    Nonostante queste difficoltà ritengo che la conoscenza diffusa dei più noti e meno controversi errori argomentativi possa costituire un punto di partenza per dare un significato concreto e condiviso all’espressione “illogicità manifesta”: anche se le fallace sono, per definizione, nascoste per il ragionatore naïf – o quello distratto – esse sono facilmente individuabili da chi ha fatto un corso di logica di base o dispone di un manuale di teoria dell’argomentazione; nei casi più controversi, nulla vieta il ricorso ad esperti. Quanto agli altri due problemi, quello legati alla classificazione ed al contesto, sono problemi che comunque pervadono il ragionamento giuridico in generale, e non soltanto le possibili fallacie.

     C. Si tende a collocare i vizi logici in alcune porzioni del ragionamento, quello che presenta specifiche fallacie. Invece, la composizione di una argomentazione è tradizionalmente demandata alla retorica. Tuttavia, esistono vizi logici di un ragionamento considerato nel suo quadro di assieme?

    Margheria Benzi:: Sì, se intendiamo ‘logico’ in una accezione sufficientemente ampia. Forse sarebbe più appropriato parlare di ragionamenti non pienamente soddisfacenti, che di vizi logici veri e propri. Prenderei a prestito una distinzione tratta dalla intelligenza artificiale classica. Nella progettazione dei sistemi esperti si distingue tra ‘rappresentazione della conoscenza’ e ‘ragionamento’.

    Per quanto riguarda il ragionamento, filosofia e intelligenza artificiale hanno messo in luce una pluralità di metodi di ragionamento un tempo inimmaginabile: possiamo/dobbiamo scegliere tra logiche a diversi valori di verità, logiche fuzzy, logiche non monotone ed altre ancora; dobbiamo perfino confrontarci con teorie della probabilità con sintassi diverse. La scelta di una tecnica inferenziale non adeguata al tipo di problema trattato potrebbe condurre a risultati sub-ottimali, o a conclusioni non pienamente giustificate. Queste tematiche sono ben note ai giuristi italiani, che hanno contribuito ad arricchirle con una letteratura vasta e di grande interesse anche per i filosofi e gli informatici: lungi dall’essere terrorizzati dalla ricchezza delle opzioni a disposizione, gli autori di tali contributi si distinguono per consapevolezza del carattere etico del buon ragionare.

    La rappresentazione della conoscenza, d’altro canto, riguarda la presentazione dell’informazione relativa al tipo di problemi sui quali dovrà “ragionare” il sistema; anche senza approfondire ulteriormente l’analogia con i sistemi esperti, è chiaro vedere come aspetti quali la completezza dell’informazione, il livello di dettaglio scelto, il modo di classificare gli eventi e di rappresentare le relazioni tra queste influiranno sulle inferenze successive. Non mi è del tutto chiaro se su questo aspetto vi sia stato un lavoro interdisciplinare altrettanto intenso quanto quello fatto sul ragionamento, ma azzardo la previsione che la direzione attuale dell’intelligenza artificiale, caratterizzata dai Big data, porterà ad una intensificazione della riflessione collettiva sulla qualità dell’informazione, la sua  completezza, e sui problemi della  classificazione.

     D. Il ricorso alle leggi scientifiche è ormai un dato quotidiano in molti settori della pratica giudiziaria. Quali insidie epistemologiche comporta il loro utilizzo per la ricostruzione di eventi singoli?

     Particolarmente insidioso mi sembra il terreno della determinazione di un nesso causale tra fatti particolari. Un importante epidemiologo, Sander Greenland, ha molto insistito sulle applicazioni erronee di leggi scientifiche nell’individuazione dell’effettivo ruolo causale svolto da fattori potenzialmente nocivi: in particolare, ha criticato l’identificazione acritica del rischio relativo con la probabilità di causazione. Dobbiamo inoltre considerare che in ambito giudiziario, così come avviene in quello della diagnosi clinica, non siamo interessati ad individuare la causa più probabile, bensì la causa effettiva, quella che ha di fatto prodotto l’effetto. Ciò richiede che le leggi scientifiche, e soprattutto quelle statistiche, vengano sì considerate, ma che rimangano, per così dire, sullo sfondo della ricostruzione di una storia individuale. Oggi distinguiamo tra cause generali (espresse da enunciati come “Fumare causa il cancro”) e cause effettive, o singolari (“La mia caduta in bicicletta ha causato questo livido”). Le cause generali sono descritte da leggi scientifiche, o almeno da regolarità (anche di tipo statistico). Per le cause singolari, come ha osservato lo stesso Greenland, manca una definizione univoca. Molti spunti provengono proprio dalla riflessione giuridica, in particolare la nozione della causa come condicio sine qua non e le elaborate considerazioni avanzate da Hart e Honoré nel citatissimo Causation in the Law. Tuttavia, la scoperta di controesempi e insufficienze delle prime definizioni ha condotto alla elaborazione, di una teoria dotata di un notevole apparato tecnico, quella in termini di modelli causali. La teoria è stata elaborata principalmente da due informaici, Joe Halpern e Judea Pearl, e l’alto grado di formalizzazione ne ostacola per il momento una vasta diffusione tra filosofi e giuristi.

    La teoria si presta però ad essere posta alla base di software non difficili da usare, ed è possibile che col tempo riceva un più ampio apprezzamento. Quello che però va sottolineato è che in questa, come i altre teorie formali, si parte da un evento individuale e se ne ricostruisce la storia, magari scegliendola a partire di un insieme di possibili storie alternative, ma sempre individuali.             Il ragionamento qui procede dall’effetto alle sue cause, immaginando le possibili storie che possono averlo prodotto, e scartandole via via fino a rimanere con quella vera: richiede pertanto un’inferenza abduttiva. Sia l’inferenza abduttiva, sia lo studio di casi individuali sono  stati considerati in passato come estranei alla pratica scientifica. Oggi però sono al centro di una notevole messe di studi che rispettano l’autonomia di queste forme argomentative e nel contempo cercano di ricondurle a metodi rigorosi.

    E’ auspicabile che questo porti al riconoscimento della scientificità del ragionamento sul caso singolo ed alla elaborazione di “strumenti intellettuali” che ci aiutino a formulare giudizi corretti anche in questo ambito.

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    CATEGORIA LE INTERVISTE DI GIUSTIZIA INSIEME

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