Ripensando allo Statuto, come modello di una Carta dei diritti che tuteli i nuovi lavori
intervista di Marcello Basilico a Vincenzo Di Cerbo
Il cinquantenario dello Statuto dei lavoratori è l’occasione per un bilancio non solo d’una stagione ormai superata, ma anche d’un modo di legiferare che oggi viene facile rimpiangere. In realtà nelle scelte di allora si annidano non solo luci, ma anche alcune ombre, che hanno inciso sul mondo del lavoro e delle relazioni industriali. D’altra parte del superamento di alcuni capisaldi dello Statuto, come quello dell’art. 18, non può darsi una lettura solo negativa, soprattutto se le nuove norme vengano calate opportunamente nel quadro costituzionale. Rimane un modello, quello d’una Carta dei diritti, di cui oggi si avverte una esigenza rinnovata, per assicurare le stesse garanzie di sicurezza e dignità ai lavoro svolti nel contesto tecnologico moderno.
Lo Statuto compie 50 anni. La prima domanda è scontata, ma inevitabile: ha ancora una sua attualità?
Si dice abitualmente che lo Statuto fu modellato a immagine del lavoratore della grande impresa. Non è un giudizio un po’ sbilanciato in un’ottica di centralità dell’art. 18, norma fondamentale, ma certamente inserita in un contesto assai più ampio?
La rigidità imputata allo Statuto è figlia anche del ricorso a norme imperative, vincolanti per la contrattazione individuale e collettiva. È tramontata l’epoca della norma imperativa a protezione della parte debole nel contratto di lavoro?
E. Di Cerbo: Preferisco rispondere unitariamente alle prime tre domande, in quanto presuppongono un ragionamento unitario.
Si tratta di domande sicuramente attualissime e la risposta ad esse impone al giurista del lavoro, oggi più che mai, a 50 anni dall’entrata in vigore dello Statuto, una riflessione ad ampio raggio che tenga conto, in particolare, della complessità e varietà dei principi affermati dallo Statuto e delle disposizioni normative dallo stesso previste. Se è vero, infatti, che i suddetti principi costituiscono generalmente irrinunciabili momenti di progresso nella civiltà giuridica del rapporto di lavoro, è anche vero che alcune disposizioni dello Statuto appaiono fortemente datate, e quindi oggi del tutto inadeguate, in quanto concepite in un particolare momento storico, caratterizzato da un assetto dell’apparato industriale, da modelli di organizzazione aziendale e da livelli tecnologici non più attuali.
È opinione comune, da me profondamente condivisa, che lo Statuto dei lavoratori abbia segnato una tappa fondamentale nella storia del diritto del lavoro italiano che, grazie ad esso, si è rinnovato profondamente ed è diventato più moderno e vicino ai modelli europei.
Tale importante risultato è stato raggiunto dal legislatore dello Statuto attraverso la promozione di un nuovo equilibrio tra le contrapposte posizioni delle parti del rapporto di lavoro, equilibrio, da un lato, basato sulla previsione di un articolato apparato normativo a tutela della “persona” del lavoratore, il che ha determinato, come conseguenza immediata, una apprezzabile limitazione dei tradizionali poteri autoritativi dell’imprenditore; dall’altro fondato sull’introduzione di norme finalizzate alla tutela e alla promozione dell’attività sindacale.
Mi pare utile sottolineare che l’evoluzione complessiva dell’equilibrio nel rapporto di lavoro introdotta dallo Statuto e la conseguente maggiore consapevolezza, da parte del prestatore di lavoro, dei suoi diritti e della sua dignità, ha riguardato tutto il mondo del lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia e dalle dimensioni del datore di lavoro; e ciò a dispetto del fatto che la finalità originaria del legislatore dello Statuto è stata dichiaratamente quella di riformare i rapporti di lavoro nella grande fabbrica. Finalità che si evince chiaramente dalla previsione di requisiti dimensionali (sussistenza di un numero minimo di dipendenti nell’ambito della stessa unità produttiva) quale presupposto per determinare l’ambito di applicazione della disciplina vincolistica in tema di licenziamento, come pure dell’azione sindacale organizzata all’interno dell’azienda.
All’interno dello Statuto coesistono due distinti plessi normativi: il primo è costituito da norme con finalità garantistica, destinate ad incidere sul rapporto individuale di lavoro; il secondo comprende norme di sostegno all’attività sindacale; plessi normativi che si pongono in funzione complementare l’uno con l’altro, essendo evidente che il rafforzamento del ruolo del sindacato all’interno dell'impresa contribuisce all’effettività dell’esercizio dei diritti individuali del prestatore di lavoro.
Ciò premesso, è possibile iniziare ad articolare una risposta alla domanda sulla attualità dello Statuto.
Con riferimento al rapporto individuale di lavoro, nell’ambito del quale la realizzazione del nuovo equilibrio fra i contrapposti interessi delle parti del rapporto, al quale ho in precedenza accennato, è stata ottenuta attraverso la previsione di norme vincolistiche ed inderogabili a favore del lavoratore subordinato, la mia risposta è sicuramente affermativa.
Considero cioè pienamente attuali quelle norme dello Statuto che assoggettano la libertà dell'iniziativa economica e le sue forme di esercizio al vincolo della compatibilità con i valori costituzionali della sicurezza, libertà e dignità umana.
Mi limiterò a citare le norme che mi sembrano più significative.
Penso in primo luogo all’art.1 che riconosce in favore dei lavoratori il diritto di manifestare liberamente, nei luoghi di lavoro, il proprio pensiero senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa. Penso all’art. 8, logicamente connesso all’art. 1, che prevede il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore, divieto che riguarda non solo le indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali, ma anche quelle su fatti non rilevanti al fine della valutazione della sua attitudine professionale. In sostanza con tale norma viene esplicitamente attribuito al prestatore di lavoro, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, il diritto alla riservatezza, qualificato come diritto fondamentale dalla Corte costituzionale con sentenza n. 38 dell’aprile 1973 e quindi pochissimi anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto.
Altra materia che è stata regolata in maniera fortemente innovativa dallo Statuto dei lavoratori e che mantiene intatta, a mio avviso, la sua attualità è quella dei controlli concernenti malattie e infortuni del prestatore di lavoro (art. 5). La norma infatti limita il potere di controllo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore assente per infermità o infortunio, controllo che in precedenza veniva effettuato dai medici di fabbrica, ed affida il relativo accertamento esclusivamente a soggetti pubblici a ciò specificamente deputati. Rimane infatti assolutamente valida ed attuale la ratio della norma, finalizzata a garantire l'imparzialità del controllo sullo stato di salute del prestatore di lavoro, attraverso l’affidamento dell’esclusiva di tale controllo a strutture del tutto autonome dal datore di lavoro, in posizione di terzietà rispetto ai contrapposti interessi delle parti del rapporto di lavoro e pertanto idonee a garantire correttezza ed imparzialità del loro operato. Soluzione questa che è stata oggetto di specifiche prescrizioni da parte dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e che è stata pienamente acquisita alla moderna cultura giuslavoristica.
Su un piano nettamente distinto ma parallelo va posto l’art. 9 che, per la finalità perseguita (tutela della salute e dell’integrità fisica del lavoratore in azienda), conserva in pieno la sua attualità. La norma, che affida al potere contrattuale delle parti collettive il grado di effettività della tutela, richiederebbe tuttavia di essere ulteriormente perfezionata e integrata, atteso che i risultati fin qui ottenuti in tema di sicurezza sul posto di lavoro non possono considerarsi soddisfacenti. Basta verificare in proposito i dati, del tutto insoddisfacenti e sicuramente molto preoccupanti, relativi all’evoluzione statistica degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
L’art. 4 dello Statuto, in tema di controlli audiovisivi, costituisce un tipico esempio di norma sicuramente attuale, quanto alle finalità perseguite, ma altrettanto sicuramente obsoleta ed inadeguata rispetto allo sviluppo tecnologico e all’evoluzione dei modelli organizzativi aziendali. Come è noto la norma è finalizzata a proteggere il lavoratore da controlli invasivi da parte del datore di lavoro senza essere tuttavia di ostacolo allo svolgimento dell'attività aziendale; è peraltro del tutto evidente la necessità di adattare la disciplina ivi prevista, concepita in un’epoca nella quale perfino le fotocopiatrici avevano scarsa diffusione, ad una organizzazione aziendale ormai governata prevalentemente da tecnologie informatiche che implicano la immediata disponibilità dei dati concernenti la quantità e spesso la qualità del lavoro svolto dal singolo prestatore. Dati che potrebbero essere utilizzati in modo invasivo nei confronti del singolo lavoratore. La norma è stata già sostanzialmente riformulata dall’art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015 n. 151, emesso sulla base della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 (sul c.d. jobs act) ma, a mio avviso, nonostante la nuova formulazione, rimane ancora sostanzialmente irrisolto il problema di coniugare, nell’attuale contesto dell’evoluzione tecnologica, le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore. Il tema dei controlli del lavoratore in azienda si pone, del resto, in termini analoghi a quello della tutela della privacy del singolo nella società informatizzata, che costituisce sicuramente uno dei più delicati problemi giuridici della nostra epoca.
Una norma dello Statuto fortemente innovativa e che, quanto meno nelle sue regole fondamentali, deve considerarsi pienamente attuale è quella dell’art. 7 che disciplina l’esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere disciplinare sottoponendolo al rispetto di passaggi procedurali finalizzati a garantire la posizione contrattuale del lavoratore.
A conclusioni diverse quanto all’attualità deve pervenirsi con riferimento alla disciplina delle mansioni (art. 13 che aveva introdotto una nuova formulazione dell’art. 2103 cod. civ.). Con tale norma il legislatore aveva posto limiti precisi all’esercizio dello ius variandi che, come è noto, costituisce uno dei poteri tipici del datore di lavoro. Lo ius variandi poteva essere esercitato solo nell’ambito delle mansioni professionalmente equivalenti, con diritto alla promozione definitiva in caso di assegnazione a mansioni superiori protrattasi oltre un determinato periodo e con previsione della nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni. Si trattava di norma caratterizzata da un notevole grado di rigidità, e che ha costretto la giurisprudenza a sforzi interpretativi certamente non facili per mitigare almeno in parte gli effetti di tale rigidità. Basti pensare a quella giurisprudenza di legittimità che, con riferimento alla disposizione che sancisce la nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni, ha stabilito che tale nullità non opera nelle ipotesi in cui il patto di demansionamento sia finalizzato a scongiurare un licenziamento, nel caso in cui il lavoratore, a causa di una sopravvenuta inabilità, non sia più abile a svolgere le mansioni in precedenza svolte. Nel corso degli anni sono progressivamente aumentate le difficoltà applicative della norma in relazione all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in azienda, difficoltà determinate, da un lato, dall’evoluzione tecnologica e, dall’altro, dall’esigenza di far fronte alle sempre più impegnative sfide della concorrenza imposte dalla globalizzazione. Nel 2015 la norma suddetta è stata (opportunamente) modificata in modo significativo (d.lgs. n. 81 del 2015) e resa così più coerente con i nuovi assetti organizzativi aziendali. In particolare, è stata resa più elastica la disciplina dello ius variandi consentendone l’esercizio non già nei ristretti limiti delle mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, bensì nell’ambito delle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Sono state inoltre previste ipotesi di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.
Anche le disposizioni poste a tutela della libertà sindacale mantengono la loro piena attualità atteso che il diritto di associazione e di attività sindacale e il divieto di atti discriminatori, appartengono alla tradizione consolidata del diritto del lavoro italiano ed europeo.
In particolare, l’art. 14, nel riconoscere, da un lato, il diritto dei lavoratori di costituire associazioni sindacali e di aderirvi e, dall’altro, quello di svolgere attività sindacale, ribadisce una garanzia di rango costituzionale (art. 39, primo comma, Cost.) fatta propria anche dall’art. 12 della Carta europea dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Costituiscono irrinunciabili applicazioni della norma suddetta gli artt. 15 e 16 che pongono il divieto di atti e trattamenti discriminatori. In particolare, l’art. 15, che costituisce la prima e più ampia affermazione del principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro, ha mostrato nel corso degli anni una forte capacità espansiva. Ed infatti nella sua originaria formulazione della norma il divieto di discriminazione era riferito ai motivi sindacali, ai quali erano assimilati i motivi religiosi e politici. Successivamente la norma si arricchita con l’aggiunta dei divieti di discriminazione per ragioni di sesso, razza e lingua (art. 13 legge n. 903 del 1977). Da ultimo l’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, ha ulteriormente aggiunto, sempre nel secondo comma della disposizione, le ipotesi di discriminazione per handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali.
Per quanto riguarda le altre disposizioni in materia sindacale e cioè quelle di cui al titolo III dello Statuto, finalizzate alla promozione dell'attività sindacale nell'impresa in modo da consentire una maggiore effettività dell’azione sindacale all’interno dell’organizzazione produttiva, vorrei focalizzare l’attenzione sull’evoluzione dell’art. 19 che prevede la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, individuate come i soggetti destinatari della disciplina incentivante. L’evoluzione della norma, con riferimento ai criteri di individuazione dei soggetti sindacali abilitati a fruire del trattamento privilegiato appare significativa di una sostanziale sopravvenuta inadeguatezza di tali criteri rispetto all’evolversi dei rapporti sindacali e della necessità dell’intervento del legislatore in questa delicatissima matetria.
Nella sua formulazione originaria la norma faceva riferimento alle associazioni sindacali dotate di un collegamento con sindacati esterni e, in particolare, con le “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”. In esito a referendum in data del 13 giugno 1995, scompare il sindacato maggiormente rappresentativo e la nuova formulazione dell’art. 19 attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale. La Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2013, modificando il proprio precedente orientamento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda. In sostanza, sul presupposto che il criterio della sottoscrizione del contratto collettivo, risultante dall’esito della consultazione referendaria, sia inidoneo rispetto alla sua primigenia funzione di selezionare i soggetti sindacali in ragione della loro rappresentatività, la pronuncia (additiva) della Corte ha introdotto il criterio della verifica della partecipazione del sindacato alle trattative.
Più in generale, per rispondere alla domanda sull’attualità dello Statuto con riferimento alle norme in tema di garanzia e sostegno dell’attività sindacale, osservo che, sotto un primo profilo, il principale merito di tali norme è stato quello di aver favorito in modo significativo la crescita della sindacalizzazione e delle rappresentanze sindacali specie nelle aziende medio-grandi, il riconoscimento del sindacato quale attore delle relazioni industriali, nonché lo sviluppo della contrattazione collettiva come strumento principale di governo di rapporti collettivi, tutti elementi appunto caratteristici degli ordinamenti sindacali dei paesi occidentali. In tale ottica ritengo che lo Statuto conservi intera la sua attualità a condizione che il sindacato sappia utilizzare al meglio, come ha fatto talvolta in passato, degli spazi di libertà e dei diritti riconosciuti all’attività sindacale.
Ritengo tuttavia doveroso rilevare che il legislatore dello Statuto ha evitato di prevedere ogni possibile forma di partecipazione del sindacato nell’impresa e questo ha condizionato e condiziona (negativamente, a mio avviso) l’assetto delle relazioni industriali nel nostro Paese, esasperandone, particolarmente in alcuni passaggi, la conflittualità. La mancata promozione della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla gestione dell'impresa costituisce, a mio avviso un difetto di fondo nell’impostazione complessiva dello Statuto. Ciò ha determinato che la contrattazione collettiva ha avuto carattere essenzialmente rivendicativo e non si è interessata, almeno tendenzialmente, a verificare le compatibilità aziendali ovvero l’esistenza di eventuali obiettivi comuni fra le parti, quali ad esempio il miglioramento delle performance qualitativo/quantitative della produzione. Un modello di rapporti, quello promosso dallo Statuto, che si rivela sempre più inadeguato rispetto alle trasformazioni in atto nel tessuto economico sociale e nella composizione socioculturale del lavoro dipendente come del resto emerge chiaramente dal confronto con i risultati ottenuti attraverso formule partecipative sperimentate con successo in alcuni Paesi europei (mi riferisco, in particolare all’esperienza della Mitbestimmung in Germania).
L’art. 18 dello Statuto è stato sostituito adeguatamente? In un quadro di politiche attive obiettivamente inadeguate è mancato forse il compimento d’un disegno legislativo coerente.
Di Cerbo: Storicamente la disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo prevista dall’art. 18 nella sua originaria formulazione è stata considerata la novità più rilevante e politicamente significativa dello Statuto dei lavoratori. Come è noto la norma ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la stabilità reale del rapporto stesso in luogo della stabilità c.d. obbligatoria prevista dalla l. n. 604 del 1966; e quindi una stabilità effettiva che sostituisce il precedente regime risarcitorio. Stabilità reale che di fatto risulta peraltro limitata dalla pacifica (secondo consolidata giurisprudenza) incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione.
La disciplina dell’art. 18 è stata completamente riformulata con la legge n. 92 del 2012 (c.d. legge Fornero) che ha fortemente limitato l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria. In sostanza con la nuova disciplina si è passati da un unico regime di tutela reintegratoria a quattro regimi di tutela differenziata, dei quali due prevedono la tutela reale e due la tutela indennitaria con la predeterminazione di limiti minimi e massimi per la determinazione dell’indennità.
Successivamente il quadro normativo è mutato ulteriormente ad opera del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 recante disposizioni in attuazione della legge di delega 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act), che ha modificato il regime di tutela dell’art. 18 pur senza intervenire direttamente e testualmente su tale disposizione. L’art. 1 d.lgs. n. 23 del 2015 riferisce la nuova disciplina del licenziamento illegittimo ai «lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (quindi si applica esclusivamente ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati dopo il 6 marzo 2015). In sostanza il d.lgs. n. 23 del 2015 conferma anche per i “nuovi” contratti (quelli a tutele crescenti), il reticolo delle tutele differenziate della l. n. 92 del 2012, ridisegnando i confini di applicazione delle tutele ivi previste in termini di maggiore flessibilità in uscita (e quindi di minor favore) per il lavoratore licenziato.
Deve sottolinearsi che, anche dopo le suddette riforme, è rimasto immutato il principio cardine della giustiziabilità delle ragioni del licenziamento essendo rimasta ferma la prescrizione secondo cui il licenziamento è possibile solo per giusta causa o per giustificato motivo; canone generalissimo che marginalizza la libera recedibilità a limitate ipotesi di natura eccezionale. Tale garanzia di carattere generale, che risale alla legge n. 604 del 1966 prima citata, è del resto coerente con l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, nel testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato con legge 2 agosto 2008 n. 130 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
Recentemente la Corte costituzionale (C. cost. n. 194 del 2018), con una decisione di notevole rilievo sistematico, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 prima citato, sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 87 del 2018 (c.d. decreto dignità, medio tempore intervenuto), convertito, con modificazioni, nella legge n. 96 del 2018, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, con ciò eliminando il meccanismo (previsto dalle due norme suddette) di determinazione automatica dell’indennità da licenziamento illegittimo sulla base di un unico criterio (quello dell’anzianità di servizio) e valorizzando uno spazio rilevante per il giudice nella determinazione dell’indennità sulla base di una gamma più articolata di elementi di valutazione. Inoltre con un comunicato stampa del 25 giugno 2020, la Corte Costituzionale ha preannunciato la pubblicazione di una sentenza con la quale dichiara incostituzionale l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 sulla indennità risarcitoria legata ai vizi di motivazione del licenziamento, ex art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966, o ai vizi della procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970, con riferimento all’inciso “di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio“.
Tutto ciò premesso, la mia valutazione sulla riforma dell’art. 18 nel senso di ridurre l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria è sostanzialmente positiva, fermo restando che occorre migliorare in modo sostanziale i meccanismi di tutela del lavoratore licenziato attraverso una più efficace politica di riqualificazione e di supporto al reperimento di un nuovo posto di lavoro. Ciò alla stregua di quanto avviene in altri Paesi europei dove la tutela del lavoratore più che essere affidata a meccanismi reintegratori, è garantita da un forte apparato pubblico di sostegno al lavoratore licenziato.
In particolare, a prescindere da ogni valutazione sulle ragioni di politica industriale e del lavoro poste alla base delle nuove discipline introdotte con le norme sopra citate, mi pare condivisibile l’esclusione, in esse prevista, della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento viziato da violazioni procedurali. In tali casi infatti accadeva, sotto il vigore della disciplina precedente, che il lavoratore dovesse essere reintegrato nello stesso posto di lavoro precedentemente occupato a prescindere dalla fondatezza o meno dell’addebito disciplinare che gli veniva contestato.
Quanto all’efficacia disincentivante dei meccanismi sanzionatori di tipo indennitario, mi pare che la sentenza della Corte costituzionale da ultimo citata consenta al giudice di calibrare in modo adeguato l’indennità.
Resta peraltro ferma la necessità di razionalizzare i diversi regimi sanzionatori di tipo indennitario; basti rilevare, ad esempio, che in determinate ipotesi l’indennità spettante ai sensi dell’art. 18 Stat. lav. come modificato dalla legge Fornero è inferiore a quella liquidabile, in ipotesi analoghe, al lavoratore licenziato al quale si applichi la disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015.
Dell’art. 28 dello Statuto si valorizzano soprattutto destrutturazione e celerità del procedimento. Non crede che la sua attualità stia soprattutto nella ricerca dell’effettività della tutela e della decisione, oggi connotato ancora fondamentale anche grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea?
E. Di Cerbo: La mia risposta è assolutamente positiva.
Con l’art. 28 dello Statuto il legislatore ha introdotto nel sistema delle relazioni industriali a livello di azienda uno strumento, dalle caratteristiche fortemente innovative, destinato a garantire l’effettività del principio della libertà sindacale e dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori. La norma, che ha mantenuto sostanzialmente invariata nel corso del tempo la sua originaria formulazione, ha svolto un ruolo fondamentale nella tutela dell’azione sindacale a garanzia, ad esempio, della salute e della sicurezza in fabbrica, attraverso la rimozione di eventuali ostacoli frapposti dal datore di lavoro ai controlli esercitati dai lavoratori sull’ambiente di lavoro, come pure a tutela del principio di non discriminazione.
L’esperienza applicativa ha dimostrato che la tecnica di individuazione della fattispecie protetta, tipizzata solo dal punto di vista dei beni da tutelare (libertà, attività antisindacale e sciopero) e non dei comportamenti ha consentito alla giurisprudenza di reprimere non solo comportamenti contrari agli interessi del sindacato, ma anche atti lesivi dei diritti di singoli individui connessi all'esercizio delle libertà sindacali (cosiddetta plurioffensività della condotta). Ciò grazie anche alle peculiarità del procedimento che si caratterizza non solo per la legittimazione ad agire, attribuita ad un soggetto collettivo portatore dell’interesse sovraindividuale protetto, ma anche per la natura sommaria ed urgente del procedimento e per la particolare efficacia attribuita al provvedimento col quale il giudice ordina la cessazione della condotta antisindacale e la rimozione dei suoi effetti
Lo Statuto fu concepito come una carta dei diritti del lavoratore. Non crede che ancora oggi – e forse oggi non meno di allora – una Carta che raccolga la disciplina fondamentale delle tutele del lavoratore in modo organico serva a fornire un quadro uniforme e completo dei diritti usciti dalla stagione della flexsecurity? Ma uno Statuto oggi avrebbe prospettive di durata in uno scenario in cui ogni nuovo Governo interviene per imporre la propria visione del mercato del lavoro?
E. Di Cerbo: Condivido pienamente l’affermazione secondo cui lo Statuto fu concepito e, aggiungerei, costituisce ancor oggi una carta dei diritti dei lavoratori.
La risposta alle domande suddette richiede peraltro alcune considerazioni preliminari e una brevissima disamina dell’evoluzione più recente del diritto del lavoro, quale emerge dagli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni. Tale disamina mostra chiaramente che il legislatore non si è limitato a incidere sulla disciplina degli istituti lavoristici tradizionali, ma ha reso necessaria ed indifferibile una profonda rimeditazione di concetti fondamentali del diritto del lavoro quali, in particolare, quelli della subordinazione e dell’autonomia nell’ambito del rapporto di lavoro.
Con la legislazione più recente la nozione di subordinazione sembra sfumare – ovvero, secondo alcuni, dilatarsi – in relazione all’emergere di una moltitudine di forme di collaborazione fra prestatori di lavoro e imprese che non appaiono facilmente inquadrabili nella suddetta nozione pur concretandosi, almeno tendenzialmente, in prestazioni di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale (e quindi nella definizione fornita dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.).
In particolare, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2015 (in tema di disciplina dei contratti di lavoro e di revisione della normativa concernente le mansioni) e della legge n. 81 del 2017, che ha introdotto misure in tema di lavoro autonomo non imprenditoriale e misure “volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, impongono, a mio avviso, un mutamento di prospettiva nel diritto del lavoro che non può essere più limitato alla valutazione dell’efficacia delle tutele e alla capacità di contemperamento, da parte del legislatore, degli opposti interessi ma che, in una situazione di cambiamento epocale dei sistemi economici e produttivi, deve estendere la propria riflessione a tutte le forme di prestazione aventi a oggetto un facere a favore di altri.
Occorre in altre parole ripensare alla sfera di applicazione delle tutele e trovare una diversa ed equilibrata modulazione delle stesse in relazione alle singole manifestazioni che le nuove modalità del lavoro esprimono.
Tutto ciò in un quadro economico-sociale reso ancor più complesso dal continuo evolversi dell’organizzazione aziendale, imposto, in particolare, dalla globalizzazione e dalla connessa esigenza di far fronte alla concorrenza internazionale, e reso possibile dall’evoluzione tecnologica e, in particolare, dal proliferare delle c.d. piattaforme informatiche; basti pensare ai casi dei riders di Foodora (3) o degli autisti di taxi di Uber, casi che rappresentano solo la prima emersione delle suddette problematiche.
In questo contesto emerge in modo sempre più evidente la necessità di porre nuove regole di garanzia, analoghe a quelle che nel 1970 hanno ispirato il legislatore dello Statuto dei lavoratori, a tutela dei prestatori di lavoro che operano nell’ambito dei nuovi lavori. In sostanza una nuova carta dei diritti, peraltro non più concepita sul modello del rapporto di lavoro subordinato, come è accaduto nel caso dello Statuto dei lavoratori, ma che individui una soglia di garanzie minime ed irrinunciabili da attribuire a tutti i lavoratori impegnati nella variegata costellazione di nuove tipologie di lavori, non sempre inquadrabili nell’ambito del rapporto subordinato, rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dai nuovi modelli organizzativi che il mondo della produzione e della distribuzione è riuscito o riuscirà in futuro a escogitare.
Si tratta di una sfida in primo luogo culturale, che richiede alla dottrina giuslavoristica un grande sforzo di elaborazione. In secondo luogo, occorre che il legislatore sappia operare una sintesi efficace ed innovativa, alla stregua di quanto riuscì a fare nel 1970.
La storia dei prossimi anni ci dirà se i suddetti auspici si avvereranno.