Ergastolo ostativo e 41 bis ord.pen. L’interazione virtuosa tra giudici ordinari e Corte costituzionale
Intervista di R. Conti a Giovanni Fiandaca
Recenti interventi giurisprudenziali del giudice comune e di quello costituzionale sulla materia che ruota attorno al trattamento detentivo di condannati posti al regime del 41 bis l. ord.pen., in qualche modo collegati alla sentenza Viola c. Italia della Corte edu, impongono un approfondimento conoscitivo che Giustizia Insieme ha chiesto a Giovanni Fiandaca, uno dei più autorevoli studiosi viventi del diritto penale che, di recente, ha già offerto, anche da questa Rivista, il suo contributo di riflessione in materia.
Il punto di partenza è stato offerto da due fonti di innesco rappresentate, rispettivamente, dalla sentenza n.97/2020 della Corte costituzionale sul divieto assoluto di scambiare oggetti previsto dall’art. 41 bis ord.penit. per detenuti in regime differenziato appartenenti anche al medesimo gruppo di socialità- già commentata da Stefano Tocci su questa Rivista, Realtà storica e Costituzione: una problematica dualità?- e dall'ordinanza della prima sezione penale della Cassazione che ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis comma 1, 58-ter O.P. e 2 d.l. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
Pronunzie che Fiandaca mostra di condividere e di mettere in relazione alla precedente Corte cost.n.253/2019, intravedendo una commendevole alleanza fra il diritto vivente del giudice comune e le pronunzie del giudice costituzionale rivolte a garantire in modo sempre più effettivo la dignità della persona condannata anche se per delitti che destano fortissimo allarme sociale e cagionano danni irrisarcibili per le vittime. Un'alleanza che sembra ispirata da un sottostante principio di cooperazione fra le Corti, nazionali e sovranazionali, che non sembra avere ancora esaurito la sua capacità di modificare il sistema normativo interno ove questo si dimostri in concreto non coerente con i valori costituzionali.
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Professore Fiandaca, il passaggio di oggetti e di generi alimentari di prima necessità tra i detenuti al 41 bis ord.pen. facenti parte del medesimo gruppo di socialità e la sentenza n.97 del 2020. Puoi dirci in pillole qual era la questione rimessa al giudice costituzionale?
E la Corte costituzionale cosa ha fatto?
Il carattere inutilmente afflittivo di un divieto quando non corrisponde ad un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica ed il ruolo della Corte costituzionale(e del giudice comune).Che ne pensi?
La valutazione del giudice può impedire il passaggio di beni di prima necessità fra detenuti al regime dell’art.41 bis l.ord.giud. quando “esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini, e la motivata esigenza di prevenire – come recita l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a), ordin. penit. – «contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».” Dalla valutazione generale e astratta a quella giudiziale, ricamata sul fatto concreto. Probatio diabolica o personalizzazione della tutela attraverso un bilanciamento caso per caso?
È stato anche detto che Corte cost.n.97/2020 abbia inteso privilegiare una visione puramente tecnica e ideale delle norme sottoposte al vaglio del giudice costituzionale, svalutando la ratio storica e sociale delle stesse.
Ha secondo Te un particolare significato che a sollevare la questione di legittimità costituzionale poi accolta sia stata anche la Corte di Cassazione, che nell’ordinamento interno ha il compito di garantire la funzione nomofilattica?
Corte cost.n.97/2020 depotenzia, secondo Te, il contrasto dello Stato alla criminalità organizzata, come pure sostengono le opinioni critiche rispetto ad una linea interpretativa della Corte costituzionale considerata troppo indulgente e orientata alla protezione di situazioni giuridiche configurate come diritti(spesso fondamentali)?
Dove va il 41 bis ord.pen.? Dall’irrigidimento alla flessibilità, e poi?
È di pochi giorni fa la notizia che la Corte di Cassaizone -Cass. Penale, Sez. I, ud. 3 giugno 2020, Ord.18518,dep.18 giugno 2020, -Presidente Mazzei, Rel. Santalucia -ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata – con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost. – la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis comma 1, 58-ter O.P. e 2 d.l. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». Si tratta di un tema, quello dell’ergastolo ostativo, a Te assai caro, sul quale hai già espresso le tue opinioni anche sulla nostra Rivista. Qual è il tuo avviso su questa decisione?
G.Fiandaca
1. Premetto che le mie risposte si porranno, sotto diversi aspetti, in una linea di continuità ideale con la mia precedente intervista in tema di ergastolo ostativo pubblicata su Giustizia insieme il 19 ottobre 2019, cioè in un frangente temporale successivo alla sentenza Viola della Corte edu e di poco precedente rispetto alla pronuncia n. 253/2019 della Corte costituzionale.
Ciò premesso, cominciando dalla questione oggetto della sentenza costituzionale n. 97/2020, si trattava di verificare se fosse costituzionalmente legittimo, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., il divieto assoluto di scambiare oggetti previsto dall’art. 41 bis ord.penit. per detenuti in regime differenziato appartenenti anche al medesimo gruppo di socialità: la questione, eccepita dalla prima sezione della Corte di Cassazione, riguardava nel caso concreto lo scambio di generi alimentari provenienti dai consueti canali (cioè pacco-famiglia o acquisto in sopravitto effettuato attraverso il circuito interno all’istituto penitenziario).
2.Nel dichiarare l’incostituzionalità del suddetto divieto, la Corte ha sviluppato un iter argomentativo che si ricollega, in maniera coerente, a principi precedentemente affermati e ribaditi per rendere compatibile con la Costituzione il regime penitenziario speciale: principi che, com’è intuibile, pongono limiti invalicabili a tale regime, a garanzia di diritti, valori ed esigenze che vanno costituzionalmente bilanciati con la tutela della sicurezza collettiva e con gli obiettivi presi di mira con l’azione statale di contrasto alla criminalità organizzata. Il primo, collegato all’art. 3 Cost., si riferisce alla congruità o funzionalità della misura restrittiva in questione rispetto agli scopi del circuito detentivo differenziato; il secondo limite, connesso all’art. 27 Cost., deriva dall’esigenza di non vanificare completamente la finalità rieducativa della pena e di non violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.
Sottoposto a scrutinio sotto entrambi i punti di vista, il divieto di scambiare oggetti all’interno del medesimo gruppo di socialità è andato incontro a una netta bocciatura: esso è stato infatti considerato dai giudici costituzionali incongruo rispetto all’insieme delle finalità attribuibili al regime di cui al 41 bis, e irrispettoso dei vincoli costituzionali in funzione limitatrice cui l’esecuzione penale differenziata deve sottostare. Ne è, dunque, conseguita la dichiarazione di incostituzionalità del diviato di scambiare oggetti considerato nella sua astratta e rigida assolutezza normativa.
Ma, attenzione: secondo la Corte, questo giudizio di incostituzionalità non presuppone l’esistenza di un diritto fondamentale del detenuto a scambiare oggetti con i soggetti reclusi dello stesso gruppo di socialità. Piuttosto, lo scambio di oggetti viene qualificato – analogamente al “cuocere cibi” di cui alla precedente sentenza n. 186/2018 – come una facoltà spettante anche all’individuo in stato detentivo, quale espressione di una più generale facoltà di comunicazione e socializzazione fatta di “piccoli gesti di normalità quotidiana”. Ecco che questa facoltà, se non può essere inibita in linea generale e astratta per via legislativa, può però – secondo la Corte – essere fatta oggetto di operazioni di bilanciamento in concreto ed ex post, laddove eventualmente emergano contingenti e specifiche esigenze di sicurezza che consentano di giustificare, con esplicita motivazione, limitazioni allo scambio.
Da qui, allora, il riconoscimento del potere dell’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di realizzazione degli scambi di oggetti tra reclusi appartenenti allo stesso gruppo, nonché di prevedere eventuali esclusioni dallo scambio rispetto ad oggetti suscettibili di diventare strumenti di comunicazione ambigua con l’ambiente esterno.
3. Passando ad una valutazione di merito della pronuncia n. 97/2020 fin qui sintetizzata, manifesto una condivisione di principio, insieme – come dirò poi - a qualche ragione di perplessità.
Condivido senz’altro l’assunto – che è andato progressivamente facendosi strada nella giurisprudenza costituzionale sull’art. 41 bis – secondo cui un divieto diventa inutilmente afflittivo, e perciò privo di possibile legittimazione costituzionale, quando non risulti funzionale e proporzionato alla tutela della sicurezza pubblica. Si ratta di un orientamento decisorio che la Corte è andata prospettando e ribadendo nelle sentenze di accoglimento in materia, ad esempio, di restrizioni del numero dei colloqui con i difensori (sent. n. 143/2013) e del divieto di cucinare cibi (sent. n. 186/2018). Invero, ricorre lo stesso schema argomentativo: se una determinata misura risulta, in base a giudizi di normalità suffragati dall’esperienza, oggettivamente inidonea o poco funzionale al perseguimento dell’obiettivo di prevenire il rischio di collegamenti tra i detenuti al 41 bis e le associazioni di originaria appartenenza (o il rischio di comunicazioni tra detenuti al carcere duro rientranti in diversi gruppi di socialità), essa si rivela inutilmente vessatoria e, quindi, irragionevole e contraria al senso di umanità sotto il profilo costituzionale.
A ben vedere, si tratta di uno schema di ragionamento in larga misura somigliante a quello adottato dalla Corte di Strasburgo per vagliare, appunto, la compatibilità convenzionale dei regimi penitenziari speciali, in particolare con riferimento all’art. 3 Cedu. Anche i giudici strasburghesi, com’è noto, non hanno mai contestato in radice la legittimità di un circuito differenziato come quello italiano, ma ne hanno bocciato in quanto convenzionalmente incompatibili alcune forme di attuazione particolarmente umilianti o invasive (come nei casi di perquisizioni personali “integrali” quotidiane, della videosorveglianza costante in cella, ecc.): e hanno elaborato in proposito un criterio di bilanciamento tra sicurezza e diritti o beni confliggenti basato infatti, da un lato, sulla idoneità allo scopo di tutela perseguito e, dall’altro, sul carattere di stretta necessità della misura in questione. Che ci sia una notevole affinità con i criteri di bilanciamento adottati dalla nostra Corte costituzionale, mi sembra indubbio. Anche se non manca qualche differenza, messa in rilievo in particolare da Alessandro Tesauro (studioso appartenente alla cerchia dei miei allievi, per cui confido che mi si perdoni l’unica citazione), nel contesto di suoi recenti studi dedicati ad una analisi comparativa, effettuata anche in una prospettiva giusfilosofica e teorico-generale, dei rispettivi modelli decisori della Corte edu e della Corte costituzionale italiana.
Ciò detto, credo che valga la pena ripercorrere, più in dettaglio, come la Consulta ha argomentato nell’ escludere che lo scambio di oggetti contrasti con la finalità di prevenzione tipica ed essenziale del 41 bis, cioè quella di impedire le comunicazioni con l’esterno. Riproponendo un rilievo già formulato nella sent. n. 122/2017, essa ribadisce che qualsiasi oggetto può in linea astratta, per effetto di una valenza simbolica intrinseca o per circostanze estrinseche, assumere un significato comunicativo, o può fungere da sostituto anomalo dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi o, ancora, da contenitore per celarli al suo interno. Ciò ribadito, la Corte rileva che è vero che nel caso specifico dello scambio di oggetti quali i generi alimentari il significato simbolico o convenzionale insito nell’oggetto scambiato potrebbe anche tradursi, in ipotesi, “in una comunicazione da veicolare all’esterno, magari in occasione di un colloquio con familiari o (negli eccezionali casi in cui è consentito) terze persone”. Senonché, questa possibile prima giustificazione del divieto di scambio, ad un più attento esame, non risulta a suo avviso convincente proprio in termini di congruità rispetto all’obiettivo: contro la sua persuasività, infatti, depone la circostanza che i detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità hanno varie occasioni di poter comunicare reciprocamente messaggi in forma orale, senza essere ascoltati (fatte salve eventuali percezioni casuali da parte degli agenti penitenziari o eventuali intercettazioni ambientali). Se così è, alla compressione della forma minima di socialità derivante dal divieto di scambio non corrisponde in effetti alcun accrescimento della sicurezza, per cui vietare lo scambio si traduce in una misura inutilmente afflittiva.
Ma il divieto in parola - come continua a ben argomentare la Corte - non supera lo scrutinio di razionalità rispetto allo scopo neppure sotto l’aspetto della seconda sua possibile ratio giustificatrice, cioè quella di impedire che qualcuno dei reclusi possa strumentalizzare l’offerta di oggetti per acquisire una posizione di supremazia simbolicamente rilevante nell’ottica criminale, come tale da comunicare anche all’esterno. Infatti, come già sostenuto nella sent. n. 186/2018 relativa al divieto di cottura di cibi, viene (giustamente!) ribadito che la prevenzione di ruoli di potere deve essere perseguita “attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario”, come già del resto avviene grazie alla regola generale di cui all’art. 15, comma 2, del regolamento penitenziario, che permette soltanto la cessione o lo scambio di beni di modico valore.
4. Come ho anticipato, le ragioni addotte dalla Corte per escludere – se mi è consentito importare espressioni weberiane – sia la razionalità strumentale, sia la razionalità assiologica del divieto di scambio di oggetti mi sembrano abbastanza persuasive.
Alcune riserve le avanzerei, invece, rispetto a quella parte della sentenza n. 97/2020 in cui la facoltà di scambiare oggetti finisce con l’essere relativizzata sulla base di un bilanciamento in concreto con eventuali esigenze contingenti di sicurezza, la cui valutazione rimane pur sempre rimessa all’amministrazione penitenziaria. Innanzitutto, non mi riesce facile immaginare circostanze concrete nelle quali lo scambio possa risultare concretamente pericoloso, né tipi di oggetti passibili di apparire pericolosi in concreto: il dubbio che tali situazioni di contingente pericolo possano davvero verificarsi mi sembrerebbe avvalorato dal fatto che la Corte – forse non a caso! – si astiene dal fare qualsiasi esemplificazione in proposito. Sicché, azzarderei l’impressione che essa lasci la porta aperta a possibili bilanciamenti in concreto, più per stornare da sé il temuto rimprovero da parte di settori di un’antimafia radicale di procedere ad un progressivo svuotamento del 41 bis, che non per la realistica preoccupazione di prevenire effettive situazioni di rischio per la sicurezza collettiva.
In secondo luogo, avanzo riserve rispetto ad una delega del bilanciamento in concreto affidata ad un organo dell’applicazione quale in particolare l’amministrazione penitenziaria: la Corte, nello responsabilizzare quest’ultima (deresponsabilizzando al contempo se stessa!), a mio avviso trascura che si tratta di un comparto amministrativo che in realtà è parte in causa in quanto istituzionalmente e pregiudizialmente vocato alla tutela privilegiata del bene-sicurezza, per cui difficilmente esso può garantire un bilanciamento imparziale (e lo rilevo anche grazie alla mia attuale esperienza di garante regionale dei diritti dei detenuti). È vero che le decisioni degli organi penitenziari possono poi essere contestate in sede giurisdizionale, ma non è da escludere che un giudice possa essere a sua volta orientato in senso pregiudizialmente opposto rispetto a quello dell’amministrazione carceraria, cioè in linea di generale principio a favore della tutela delle libere facoltà dei soggetti reclusi. Per cui, alla fine, non è appunto detto che si pervenga a quel compromesso equilibrato tra esigenze in conflitto, che la Consulta preferisce delegare ad altri organi.
5. L’obiezione che una sentenza costituzionale come quella fin qui considerata svaluterebbe la ratio storica del 41 bis, privilegiando invece una visione prevalentemente tecnica o ideale delle disposizioni in questione, può provenire – come è anche avvenuto a proposito di precedenti prese di posizione della Corte – soprattutto da due fronti: da quello delle procure antimafia, che continuano per lo più a considerare interesse assolutamente prioritario (tendenzialmente non bilanciabile) l’efficacia preventivo-repressiva della normativa di contrasto alle mafie; e dai settori più radicali e oltranzisti dell’antimafia politico-sociale, che difendono il carcere duro come una sorta di istituzione sacralizzata attraverso il sacrificio della vita di Falcone e Borsellino e di tante altre vittime note e meno note del terrorismo mafioso, per cui il 41 bis andrebbe mantenuto integro in tutte le sue componenti rigoristiche anche per ragioni di ordine simbolico. Pur con tutto il rispetto delle motivazioni morali ed emotive sottese a questa visione simil-religiosa, come giurista di orientamento liberaldemocratico non posso non rivendicare una concezione laica del diritto, alla cui stregua la moralità giuridica vincolante è quella che costituisce il riflesso dell’affermazione dei principi costituzionali.
Quanto alla prevalente tendenza delle procure a privilegiare, più che il costituzionalismo penale, la dimensione pragmatica dell’efficacia preventivo-repressiva, ho più volte evidenziato un rischio: che all’interno dell’universo giudiziario, non ultimo per effetto del ruolo di accusatore o di giudice rivestito, si manifesti e consolidi una differenziazione radicale di vedute addirittura rispetto al modo di concepire e attuare i principi fondamentali dell’ordinamento penale. Una cosa è infatti il pluralismo moderato e ragionevole quale valore da preservare anche nell’ambito della magistratura, altra cosa è un pluralismo talmente accentuato da sfociare in contrapposizioni tra culture giudiziali così agli antipodi, da risultare inconciliabili.
6. Che a sollevare la questione di costituzionalità sia stata la Cassazione, peraltro non soltanto nel caso dello scambio di oggetti, mi sembra una scelta sintomatica di una linea di tendenza che auspicherei destinata a proseguire in futuro. Non solo per l’autorevolezza della Corte, e per il suo (almeno teorico) atteggiarsi ad organo di nomofilachia, ma per ragioni aggiuntive. Cioè la Cassazione può disporre delle risorse culturali e tecniche per interagire virtuosamente con la giurisprudenza di Strasburgo, in modo da superare anche sul terreno specifico dell’esecuzione penitenziaria posizioni di chiusura conservatrice: significativi riscontri di questo atteggiamento di apertura verso nuovi orizzonti possiamo, ad esempio, desumerli dalla eccezione di costituzionalità che la Corte (insieme col tribunale di Perugia) ha sollevato in tema di ergastolo ostativo e permessi-premio, accolta con la ormai nota sentenza costituzionale n. 253/2019, e dalla più recente eccezione sollevata sempre dalla prima sezione a proposito di ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
7. Anche sulla base dei rilievi precedentemente svolti, escluderei che una sentenza come la n. 97 del 2020 possa causare un effettivo indebolimento del contrasto statale alla criminalità organizzata. A meno che non si tema che un qualche depotenziamento della lotta alle mafie possa derivare anche dal solo venir meno della funzione ‘simbolica’ che si presume inerente a questo o quel divieto caducato. Ma, oltre a ritenere di più che dubbia fondatezza empirica una preoccupazione come questa, da giurista laico contesto fermamente la legittimità di una attribuzione di funzioni meramente simboliche agli strumenti della giustizia penale.
Vi è di più. Anche se un pur minimo indebolimento fosse da paventare, questo costituirebbe pur sempre un costo da tollerare a vantaggio di un’esecuzione penale costituzionalmente orientata. Il regime di cui al 41 bis è apparso sempre, sin dalla sua origine, assai problematico in termini di compatibilità costituzionale e convenzionale. Che il suo ambito di legittima operatività vada progressivamente riducendosi per effetto del riconoscimento, ad opera delle Corti, di diritti o facoltà incomprimibili in capo agli stessi autori di delitti di criminalità organizzata, non dovrebbe né sorprendere, né indignare. È anzi da auspicare che in un futuro non troppo lontano, anche grazie ai crescenti successi delle strategie di contrasto alle mafie, le differenze tra regime differenziato e circuito penitenziario ordinario siano destinate ad assottigliarsi.
8. Che una eccezione di costituzionalità avente ad oggetto la preclusione dell’accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo non collaborante con la giustizia sarebbe stata prima o poi sollevata, era abbastanza prevedibile: trattandosi di un seguito, pressoché a rime obbligate, di un percorso argomentativo in gran parte tracciato dalla sentenza Viola (e da precedenti sentenze) della Corte di Strasburgo e dalla successiva pronuncia n. 253/2019 della nostra Corte costituzionale.
In effetti, le cadenze fondamentali del ragionamento sviluppato ancora una volta dalla prima sezione della Corte di Cassazione per sollevare la suddetta questione di legittimità sono contenute nella sentenza n. 253: non sono il solo a ritenere che, se la Consulta avesse avuto il coraggio di portarne alle estreme conseguenze l’impianto motivazionale, trascendendo lo stretto riferimento all’istituto del permesso-premio oggetto della concreta vicenda sub iudice, essa avrebbe nel medesimo contesto decisionale già potuto dichiarare incostituzionale, per illegittimità conseguenziale, anche l’esclusione dell’accesso alla liberazione condizionale. Pur se l’atteggiamento di self restraint e di cautela della Corte può apparire comprensibile, specie considerando la natura persistentemente divisiva e polemogena dell’istituto dell’ergastolo ostativo (con divisioni interne, per di più, alla stessa Corte), c’è comunque una parte della pronuncia in parola – mi si consenta questa critica, peraltro non solo mia, a una sentenza in ogni caso molto importante – che non può non destare riserve. Mi riferisco, com’è intuibile, ai punti critici rilevabili riguardo al regime probatorio rafforzato che la Corte ha ‘creativamente’ additato, con aggiunta di sostanziale valenza ‘legislativa’, per accertare che il condannato (non collaborante) non sia più pericoloso: occorrerebbe cioè acquisire elementi per escludere non solo l’attualità dei collegamenti con le associazioni criminali di originaria appartenenza, ma altresì il pericolo di un loro ripristino. Orbene, come si fa a verificare sul serio l’assenza del pericolo di una futura ripresa di collegamenti? È un problema da approfondire, che riporta il discorso – tra l’altro – sugli strumenti conoscitivi di cui i magistrati di sorveglianza possono disporre, a cominciare dalle informative del Comitato dell’ordine pubblico e dalle comunicazioni delle Procure competenti, che, per come sono solitamente fatte, sono però ben lungi dal fornire piattaforme cognitive ampie e scrupolosamente aggiornate. Rimane poi sullo sfondo la grande e impegnativa questione non solo teorica, finora a mio avviso insufficientemente esplorata, cui ho accennato nella mia precedente intervista a questa rivista: che senso e contenuto devono assumere concetti come rieducazione, risocializzazione o ravvedimento quando sono riferiti ad autori di gravi delitti di criminalità mafiosa?
Tornando al merito della recentissima eccezione sollevata dalla Cassazione, con riferimento agli artt. 3, 27, comma terzo e 117 Cost., mi piace qui richiamare due punti della motivazione che reputo assai rilevanti. Il primo, rispecchiante una felice consonanza assiologica con la giurisprudenza sovranazionale, è quello in cui la Corte menziona esplicitamente (e suppongo per la prima vola!) il “diritto alla speranza”, così argomentando: “L’esistenza (…) di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la rieducazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. La motivazione dell’ordinanza di rimessione prosegue, non a caso, con la citazione di passi della sentenza Vinter c. Regno Unito del 2013, in cui la Corte edu ha affermato che la speranza inerisce strettamente alla persona umana e anche agi individui responsabili dei crimini più odiosi.
L’altro punto importantissimo dell’ordinanza è quello che sembra confermare la fondatezza di quanto rilevavo in precedenza, cioè che la sentenza costituzionale n. 253/2019 contiene in motivazione le premesse di prevedibili eccezioni di costituzionalità future: “Le premesse contenute in detta sentenza, benché essa abbia avuto ad oggetto soltanto – negli stretti limiti della devoluzione – il tema della concedibilità dei permessi premio e non di altro beneficio, costituiscono, unitamente alla sentenza Viola c. Italia della Corte Edu, un importante banco di prova su cui verificare se possa ancora dirsi valido il pregresso orientamento della corte di Cassazione (…) che ha ritenuto infondata la questione ora in rilievo”.
In conclusione, direi che è molto apprezzabile che la Cassazione mostri così di essere disposta a rivedere i propri orientamenti per impulso di un virtuoso combinato disposto della giurisprudenza europea e di quella costituzionale, sollecitando la Consulta a proseguire sulla strada di una progressiva delegittimazione dell’ergastolo ostativo.